SVILUPPO E CRISI DEL MATERIALISMO STORICO NEI GRUNDRISSE Nicrosini Claudio CAPITOLO III LE FORMEN. UN OGGETTIVO MOMENTO DI CRISI NELLA RIELABORAZIONE DIALETTICA DEL MATERIALISMO STORICO § 1. Le difficoltà specifiche della dialettica marxiana Michael Heinrich abbastanza di recente ha sottolineato come, nella costruzione dei Grundrisse, si intreccino il tentativo di sviluppare l’economia politica come scienza e una complessiva filosofia della storia, e come questi due piani, al contempo, si mantengano relativamente distinti[1]. Lo sviluppo dialettico del materialismo storico in effetti pone, come abbiamo visto, una distinzione fondamentale fra la dialettica storica complessiva e la dialettica del modo di produzione determinato. Ma quali connessioni, nelle intenzioni di Marx, dovevano allacciare queste due dialettiche? Con quali esiti nel manoscritto? § 1.1. Il concetto di crisi come mediazione fra dialettica attuale e dialettica storica Nella costruzione generale dei Grundrisse, innanzitutto, un anello di connessione fondamentale che doveva legare la dialettica attuale del capitale alla dialettica storica complessiva era il concetto di ‘crisi’. Nell’attualità della propria crisi il capitale si doveva allacciare alla parte ‘futura’ e fondamentale della dialettica storica, ossia al comunismo come termine ultimo di questa dialettica. Secondo la visione d’insieme sulla cui base Marx inizia a stendere i Grundrisse, la crisi del modo del modo di produzione capitalistico è, da una parte, una sua tendenza immanente; dall’altra, l’espressione conseguente della necessità storica complessiva dello sviluppo delle forze produttive (di cui il capitale fino ad un certo punto è vettore, e poi diventa ostacolo). La logica immanente al modo di produzione capitalistico è orientata inesorabilmente all’insorgenza di crisi economiche. Le crisi economiche apparentemente sono ingenerate da congiunture economiche che inceppano incidentalmente l’andamento normale degli scambi; apparentemente, le crisi sono solo crisi congiunturali. Invece, secondo Marx, se le crisi in effetti compaiono e devono sempre comparire in forma congiunturale (come crisi commerciali e monetarie), tale aspetto delle crisi rappresenta unicamente la loro parvenza esteriore. Nella casualità della circolazione delle merci, infatti, si ha solamente una delle condizioni di possibilità delle crisi (la condizione più astratta). Il fondamento più profondo delle crisi congiunturali, che ne è la condizione concreta, secondo Marx sono invece le crisi di sovrapproduzione, delle quali le prime sono semplicemente manifestazioni epidermiche. Le crisi di sovrapproduzione, a loro volta, sono il portato della tendenza fondamentale che contraddistingue il sistema economico borghese: la tendenza dell’accumulazione di valore di scambio a costituirsi come fine assoluto dei produttori ed a subordinare la loro relazione reciproca ed il valore d’uso del prodotto come momenti secondari[2]. I Grundrisse, nel loro svolgimento principale, si fermano a queste constatazioni[3]. Al contempo però alcuni importanti passi del manoscritto, ed in particolare le digressioni sulla concorrenza[4], alludono ad uno sviluppo ulteriore, che doveva completare il senso storico della critica economica della società borghese. Del tutto presumibilmente, già nel 1857-58, Marx è orientato a spiegare le crisi economiche come crisi cicliche, connesse nella loro ciclicità alla circolazione di lungo periodo del capitale – alla ristrutturazione ciclica del capitale fisso sociale (innovazioni tecnologiche). In relazione al progressivo accrescimento del capitale fisso ed alla caduta tendenziale del saggio del profitto come tendenze strutturali azionate e dalla concorrenza fra i singoli capitali, queste crisi cicliche devono determinarsi in una spirale, con una manifestazione sempre più acuta e disastrosa delle crisi di sovrapproduzione[5]. La totalità del capitale, dunque, secondo Marx è organica ma anche costitutivamente volta, nel suo stesso carattere organico, alla crisi ed alla malattia. La critica dell’economia politica deve evidenziarne gli elementi critici e seguirne lo sviluppo logico e reale. D’altro canto, le crisi di sovrapproduzione sono crisi di sottoconsumo. La spirale delle crisi, perciò, può risolversi solamente con la radicale ridefinizione della produzione sociale in funzione del consumo individuale, nella posizione del libero individuo sociale. Storicamente, questo superamento delle crisi di sovrapproduzione è, secondo Marx, necessario: 1) La logica immanente del valore di scambio e la tendenza specifica del capitale all’accumulazione di plusvalore rispondono ad una logica complessiva di carattere storico di accrescimento dei bisogni ed espansione della civiltà. È tale logica che spiega l’imposizione storica del capitale. 2) La concorrenza (la cui trattazione deve costituire la mediazione centrale delle categorie economiche del capitale[6]), è il motore del meccanismo specificamente capitalistico dell’accumulazione; essa rappresenta anche, però, il limite storico del capitale. L’estraneità dei singoli produttori, reciprocamente indifferenti, e la loro spietata concorrenza economica, è lo sprone reale dell’accumulazione capitalistica, ma ne è allo stesso tempo il limite storico fondamentale. Come causa reale degli squilibri economici, dello sfruttamento della forza-lavoro e delle crisi di sovrapproduzione, la concorrenza diventa progressivamente un impedimento allo sviluppo storico delle forze produttive e dei bisogni di cui l’accumulazione capitalistica è, inizialmente, espressione. Dunque, la tendenza generale alla crisi di sovrapproduzione non soltanto deve manifestarsi sotto forma di crisi economiche sempre più gravi, ma storicamente deve sfociare infine in una crisi generale del capitale ed in una rivoluzione comunistica della società. Questo aspetto del concetto di crisi – di carattere logico-storico –, pure se solamente abbozzato, attrae a sé, come indirizzo e fine perseguito dalla trattazione, la dialettica specifica del capitale. Nel piano di Marx, l’intero movimento dialettico del capitale parte dall’universale, dall’affermazione della legge del plusvalore e dell’accumulazione, prima che si specifichi la natura del capitale come pluralità, e senza che questa pluralità – singolo capitale fruttifero di interessi, concorrenza fra i singoli capitali – sia presupposta per spiegarne le leggi. Al contrario, la pluralità dei capitali è intesa come manifestazione, fenomeno, meccanismo necessario ma estrinseco delle leggi generali del capitale, la cui vera ragion d’essere e la cui più profonda spiegazione sono di carattere storico. Dunque, la legge del plusvalore precede il singolo capitale, e l’accumulazione precede la concorrenza; e, nello svolgimento dei Grundrisse, la legge del plusvalore e l’accumulazione sono presupposte al singolo capitale, e ne spiegano logicamente il sorgere ed il divenire. Ma allora, sotto questo riguardo, le leggi del movimento del capitale, e anche la logica organica della sua forma moderna, compiutamente presente, almeno in parte, prescindono dalla sua specifica natura interna; ne sono sì il risultato, ma, in qualche misura, anche il presupposto, in quanto il loro primo significato si colloca nella logica storica complessiva dello sviluppo delle forze produttive. La creazione di plusvalore e l’accumulazione rispondono rispettivamente alla funzione storica generale della creazione di pluslavoro ed alla moltiplicazione delle forze produttive in generale. Le leggi del capitale, in altri termini, se sono il fine immanente del modo di produzione, sono parimenti un prodotto storico, un prodotto generale dell’intero movimento storico, in una certa misura posto dal di fuori e che deve spingere al di fuori dello stesso modo di produzione. Il motivo finalistico teleologico della dialettica storica, in altre parole, si colloca in una posizione teoricamente dominante rispetto alla stessa analisi specifica del modo di produzione specifico. La logica attuale del capitale, come logica che ne dimostra la necessità della crisi generale finale, è determinata nell’origine e nel fine del proprio movimento dalla logica complessiva del divenire storico, della quale è un momento. La funzione concettuale, distinta ma egemone, che in Hegel la logica attuale dello Stato assume nei confronti della dialettica della storia universale dello spirito oggettivo, in modo analogo, anche se in senso opposto, nella teorizzazione marxiana viene rivestita dal comunismo, che come essenza finale della logica storica ingloba nella propria dialettica il capitale, animandone la stessa specifica logica attuale e volgendone la necessità immanente in necessità della crisi epocale del capitalismo. Come lo Stato in Hegel, nei Grundrisse il comunismo è il termine ultimo della storia, e chiude in sé tutti i livelli e tutti i momenti della dialettica marxiana. Tirando le somme, pertanto, nella tematizzazione della crisi i suoi due estremi dialettici (attuale e storico) avrebbero dovuto trovare il proprio punto di mediazione. In questa ‘mediazione’, d’altro canto, la logica teleologica della storia universale doveva assumere, attraverso il cuneo teorico del concetto di crisi, la propria posizione predominante rispetto alla logica del capitale come modo di produzione particolare, storicamente determinato. § 1.2. La ridefinizione della dialettica attuale sottesa alla tematizzazione del capitale in generale Nelle Grundlinien di Hegel la forza della dialettica come metodo capace di riassumere un vasto materiale empirico e storico nel sistema unitario della filosofia del diritto, si radica nella presupposta idealità del presente, ovvero nella concezione dello Stato come realtà attuale. È l’idea di attualità che conferisce realtà alla costruzione dialettica hegeliana. L’orientamento finalistico tanto della storia che delle moderne formazioni del diritto, in quanto attuale, è realmente presente ed identificabile nei suoi tratti fondamentali in una forma storica determinata (lo Stato prussiano moderno). È questa attualità, questa idealità reale, che rende la costruzione teleologica della dialettica hegeliana solida nella sua credibilità, e quindi potente ed efficace come metodo di organizzazione delle categorie. La dialettica hegeliana è sintesi della situazione presente ed allo stesso tempo sintesi storica; ma non si regge in piedi e perde in consistenza se la si priva della fondamentale componente dell’attualità compiuta come chiusura del sistema logico delle categorie. La costruzione teorica dei Grundrisse, ed il connesso recupero della dialettica hegeliana, si trovano quindi di fronte a una difficoltà fondamentale: il capitale, come realtà attuale non può essere considerato conclusivo; ma il comunismo, come sintesi conclusiva del processo storico complessivo, non è attuale, ovverosia, non è reale, ma solamente ideale. Mano a mano che le illusioni di Marx sull’imminenza della crisi generale del capitale e della rivoluzione comunistica vengono meno, questa difficoltà si ispessisce. Tale impasse non è apertamente affrontata né è risolta da Marx, ma determina nel procedere della stesura dei Grundrisse un graduale mutamento di accento rispetto alla strutturazione dialettica originaria sulla cui base doveva essere organizzato il manoscritto. Marx si prefiggeva di esaminare la totalità organica del capitale dapprima osservandola nella sua universalità astratta, per esaminarne solo poi la realtà compiuta ed individuarne progressivamente lo sbocco necessario nella crisi generale e nel superamento comunistico del capitale. Inizialmente, quindi, Marx dedica la propria attenzione al capitale in generale. A questo livello dell’indagine, però, le crisi appaiono solamente ‘al plurale’, sono le possibilità della crisi dell’organismo che incorrono nei passaggi del suo sviluppo, possibilità delle quali Marx spiega la ragione ultima nella tendenza generale dell’organismo ad incappare nella sovrapproduzione. Senonché quest’ottica generale, progettata come semplice esordio della definizione del concetto di captale, assume via via una propria pienezza e potenza teorica. Il manoscritto dei Grundrisse, a nostro avviso non casualmente, si interrompe proprio con la trattazione del capitale in generale e, della concettualizzazione del capitale, a parte le rapide ed incompiute digressioni sulla concorrenza, sviluppa unicamente la parte generale. Dal punto di vista storico, la logica del capitale è attuale perché è il processo dialettico di formazione del capitale come espressione ideale (idealmente compiuta nel presente) del movimento reale. Il capitale, cioè, riassume il movimento storico reale della formazione del capitale nelle sue caratteristiche generali, dialetticamente idealizzate: “[…] Siamo ancora al suo processo di formazione. Questo processo di formazione dialettico è soltanto l’espressione ideale del movimento reale attraverso cui il capitale si sviluppa. I rapporti successivi debbono essere considerati come sviluppo di questo germe. Ma è necessario fissare la forma determinata in cui esso è posto ad un certo punto. Altrimenti nasce confusione”[7]. Lo svolgimento storico, all’interno dell’economia politica, deve essere una rilettura ideale, svolta alla luce della forma attuale del capitale, dei fenomeni che si prestano ad essere considerati come i primi sintomi storici (germi) del suo sorgere. L’esame delle forme storiche del capitale deve essere svolto attraverso la distintiva compiutezza e distinzione che assumono nel mondo moderno. Questa struttura attuale del modo di produzione capitalistico, d’altro canto, deve essere esaminata, prima di tutto, nel suo concetto puramente universale, come capitale in generale: “Valore, denaro, circolazione ecc., prezzi, ecc., sono presupposti, e così anche il lavoro ecc. Ma noi non abbiamo a che fare ancora né con una forma particolare del capitale, né con il singolo capitale distinto da altri singoli capitali ecc.”[8]. Il capitale, quindi, viene inteso: 1) nelle sue caratteristiche generali che lo distinguono da tutti gli altri modi di produzione 2) nella sua forma classica, fissando, cioè, la forma compiuta cui storicamente è giunto il capitale come la forma principale, e ordinando le altre sue forme determinate in relazione a questa (come se fossero inanellate a questo punto fisso) 3) come capitale complessivo, astraendo inizialmente da tutte le differenze interne e venendo specificandole solo in un secondo tempo, e cioè delineando le sue leggi fondamentali 4) come unico modo di produzione, astraendo inizialmente da tutte le circostanze esterne o accidentali rispetto al capitale stesso, e venendole a specificare in seguito Il concetto di capitale in generale, perciò, vuole essere lo svolgimento logico del capitale complessivo della società moderna, attraverso l’analisi della specificità del capitale che lo distingue da ogni altro modo di produzione, e che distingue quindi il processo delle sue forme come suo processo specifico. Gli altri modi di produzione vanno invece visti come elementi esterni da considerare solo nella misura in cui sono funzionali all’esposizione di questo processo. Per quanto riguarda il capitale in generale, pertanto, lo sviluppo storico esterno al modo di produzione determinato, può essere solo preliminarmente constatato nella delineazione delle caratteristiche del capitale in genere rispetto agli altri modi di produzione; oppure essere indicato, allusivamente, dall’evidenziazione degli elementi immanenti e contraddittori, che portano alla crisi del capitale. Ma rimane esterno all’economia politica. Secondo Marx, a questo suo primo stadio, lo studio dell’economia politica deve quindi limitarsi a constatare le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, a metterle in evidenza nel loro carattere determinato. “In che modo poi nella produzione capitalistica esse [le contraddizioni] vengano continuamente superate ma anche continuamente riprodotte – e superate soltanto violentemente (quantunque questo superamento si presenti fino ad un certo punto semplicemente come una pacifica conciliazione) – questo è un altro problema. L’importante è anzitutto constatare l’esistenza di queste contraddizioni”[9]. Pertanto, Marx mantiene valida l’idea di uno sviluppo storico complessivo, dove lo sviluppo quantitativo delle forze produttive fino ad un certo punto di concilia pacificamente con i rapporti di produzione capitalistici, ma poi esplode in una rottura violenta, in un salto qualitativo (al comunismo). Tuttavia, ora, il problema è semplicemente quello di constatare le contraddizioni invece che stabilirne la risoluzione storica. Volendo limitarsi alla trattazione del capitale in generale, Marx afferma perciò che è necessario attenersi unicamente alla possibilità delle crisi. Nei Grundrisse, Marx si dimostra certamente convinto che i livelli seguenti dell’indagine debbano dimostrare la crisi necessaria del capitale. Ma, nell’analisi del capitale in generale, secondo Marx è sufficiente rilevarne i meccanismi che rendono la crisi possibile: “A questo livello dell’analisi, in cui il capitale viene considerato soltanto in generale, le difficoltà effettive di questo terzo processo [scambio M*-D* (realizzazione del valore, denaro come capitale realizzato)] esistono soltanto come possibilità, e perciò vengono superate altresì come possibilità. Il prodotto dunque è posto ora come prodotto riconvertito in denaro”[10]. Precisamente in questo suo aspetto di dialettica del possibile, la dialettica del capitale in generale tende a svincolarsi dalla strutturazione dialettica complessiva, ed a fissarsi in un forma autonoma. La dialettica della possibilità delle crisi – che individua la possibilità delle crisi come componente essenziale (tendenza immanente del capitale alle crisi di sovrapproduzione) del capitale in generale – doveva essere contenuta come momento della possibilità in una più ampia dialettica della necessità della crisi. Ma, nel corso della trattazione, questa dialettica sembra assumere una forma teorica sempre più autonoma e diversa da quella hegeliana, e di straordinario spessore teorico, configurando una vera e propria ridefinizione del concetto di dialettica. L’attualità, come attualità della crisi, non è la chiusura ed il compimento della contraddizione (nella rivoluzione e nel comunismo), ma la sua massima acutizzazione, la sua estremizzazione, la caratterizzazione delle sue diverse determinazioni possibili in una scala crescente che dimostra la necessaria caducità, mortalità dell’organismo attuale (il capitale). La forza della dialettica hegeliana, abbiamo detto, è nella sua attualità. Marx, nei Grundrisse, tende però progressivamente a definire nella criticità del presente il momento attuale della propria dialettica. La crisi è attuale, è realmente presente non come crisi generale, né tanto meno come superamento del capitale: è il carattere critico del processo sociale presente, la sua possibilità strutturale di incappare nelle crisi, ed al più la sua tendenza profonda a generarle e rigenerarle in forma sempre più acuta. L’attualità del capitale, perciò, è intesa e ridefinita nella sua apertura verso diverse possibilità (possibili determinazioni della crisi) che sono riassunte dialetticamente come i nodi problematici, instabili, critici del sistema organico, via via approfonditi nella loro radicale incisività, nella loro pericolosità reale e potenzialità mortale per l’organismo del capitale. La dialettica attuale si ristruttura quindi come dialettica non sintetica (Stato hegeliano), ma invece come dialettica della crisi (sviluppata nella sua necessità immanente all’organismo) e del possibile, che nulla dice sul futuro se non della temporalità e transitorietà del sistema economico attuale. Il carattere storicamente determinato del capitale sembra, con ciò, ridursi solo questo: che la totalità organica del capitale, in quanto organica, è anche ‘mortale’. La dialettica marxiana la esamina da questo preciso punto di vista. Perciò, anche se nei Grundrisse rimane forte la presunzione dell’imminenza di una crisi generale, il concetto di capitale in generale tende a svincolarsi progressivamente – sotto l’influenza dello sviluppo della crisi del 1857-58 – da questa supposizione iniziale[11]. I lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, pertanto, nonostante l’ampia influenza della filosofia della storia al loro interno e la sua predominanza fondamentale nel piano generale dell’opera, rimangono in gran parte indipendenti da essa, almeno per quanto concerne la trattazione del capitale in generale considerata per se stessa (e anche, quindi, per quanto concerne la teoria del plusvalore, che trova nei Grundrisse la sua prima formulazione). § 1.3. La crisi oggettiva della dialettica storica complessiva Nei Grundrisse, dunque, la connessione fra dialettica attuale e dialettica storica, come connessione fra dialettica del capitale e comunismo (termine ultimo della dialettica storica) non riesce a darsi una determinazione ‘forte’. Marx, di contro, sembra delineare i primi elementi teorici di una nuova dialettica, nettamente diversa da quella hegeliana, di tipo ‘critico’ anziché ‘sintetico’, di tipo ‘aperto’ anziché ‘chiuso’: elementi che caratterizzano l’analisi del capitale come capitale in generale. A questo tipo di dialettica, nello svolgimento del manoscritto, viene di fatto a limitarsi la concettualizzazione del capitale, che non riesce ad allacciarsi, come tale, al comunismo. Ma, nei Grundrisse, la connessione fra la logica attuale del capitale e la logica storica complessiva non riesce a darsi una determinazione netta neanche nella sua parte ‘ex ante’, come connessione fra le forme sociali precapitalistiche ed il capitale. Nei Grundrisse, ed in special modo nella digressione, compresa fra la fine del IV quaderno e la metà del V, conosciuta sotto il titolo di Forme che precedono la produzione capitalistica (Sul processo che precede la formazione del rapporto capitalistico o l’accumulazione originaria)[12]– d’ora innanzi semplicemente Formen –, sembrano anzi esservi i primi sintomi di una crisi oggettiva della dialettica storica complessiva, e quindi dell’impianto filosofico dominante nel manoscritto. Lo sforzo teorico marxiano di contenere la dialettica ‘critica’ del capitale in generale in una più ampia dialettica storica, e dunque lo sforzo di edificare dialetticamente il materialismo storico nel suo insieme, sembra subire una battuta d’arresto. La dialettica dei nessi materiali fra i modi di produzione storicamente determinati sembra ‘collassare’ proprio nel momento in cui Marx è indotto dallo svolgimento della trattazione a specificarla, e ad affrontare almeno in parte lo studio storico delle formazioni economico-sociali che precedono il capitalismo. Da una parte, nell’analisi del capitale in generale, possiamo rintracciare una dialettica strutturale del modo di produzione capitalistico di tipo critico, che sembra potersi mantenere relativamente indipendente dalla concezione storica complessiva. Il capitale e le corrispondenti categorie economiche sono riassunti in un sistema astratto, entro il quale si allacciano in un insieme via via più concreto (meno astratto), e parimenti si sviluppano in contraddizioni sempre più incisive ed insolubili entro la logica del sistema stesso. In questo consiste la ‘critica dell’economia politica’: nell’evidenziare la necessità dell’autocontradditorietà del modo di produzione presente, gli elementi reali della sua crisi ed i loro possibili sviluppi (le determinazioni possibili della crisi). D’altra parte, abbiamo invece una dialettica dei nessi storici che tenta di allacciare uno con l’altro i diversi modi di produzione, facendone gli elementi di un processo complessivo di sviluppo delle forze produttive. Ma questa seconda dialettica, che si distingue abbastanza nettamente dalla prima nella sua struttura logica, non sembra reggere la prova dell’indagine storico-sociale concreta, già nel momento in cui, negli stessi Grundrisse, viene affiancata da un confronto più dettagliato fra diversi modi di produzione, intersecandosi con la ricerca storica vera e propria. Nella connessione fra il capitale ed i modi di produzione che lo precedono lungo la direttrice fondamentale dello sviluppo storico complessivo, infatti, sembra profilarsi una crisi oggettiva della logica dialettica della storia tout court, e quindi della rielaborazione dialettica del materialismo storico nel suo insieme. In tal senso, si può ritenere che le Formen assumano un’importanza chiave ai fini di un’esatta valutazione dell’evoluzione del pensiero di Marx, sia nel procedere dei Grundrisse che, soprattutto, in considerazione dei successivi sviluppi teorici. § 2. La prima parte delle Formen: il problema delle forme sociali precapitalistiche e della loro dissoluzione storica. Esposizione generale Il testo delle Formen, a grandi linee, può essere diviso in due tronconi; la prima parte della trattazione, fondamentalmente, ha per tema le forme sociali precapitalistiche[13]; la seconda, invece, ruota intorno al problema dell’accumulazione originaria, ovvero della fondazione del capitale come modo di produzione[14]. Per Marx il capitale, secondo lo svolgimento logico del suo concetto, implica il plusvalore e, storicamente, compare in modo strettamente connesso con il lavoro salariato e con lo sfruttamento del lavoro altrui – merce viva, merce acquisibile con lo scambio e collocabile organicamente entro un processo di valorizzazione. La trattazione delle Formen prende le mosse proprio dal lavoro salariato, e precisamente dalla questione di quali siano i presupposti storici del lavoro salariato. I presupposti del lavoro salariato sono, secondo Marx, due. Da un lato, corrispondentemente al sistema logico merce – denaro – capitale entro il quale si inseriscono la definizione ed il significato stessi di ‘lavoro salariato’, vi è il presupposto del capitale come denaro finalizzato a riprodursi ed accrescersi, con il quale il lavoro libero deve scambiarsi per essere effettivamente lavoro salariato. Dall’altro lato però, scrive Marx, vi è un altro “presupposto”: “la separazione del lavoro libero dalle condizioni oggettive della sua realizzazione”[15]. Perché sia scambiata la forza-lavoro in quanto tale, perché essa sia estorta al lavoratore in forma tendenzialmente pura, il lavoratore non deve essere in alcun rapporto di proprietà con le condizioni oggettive del lavoro. All’esame di questo secondo aspetto del problema, ovvero dei presupposti storici della non-proprietà del lavoratore, viene destinata tutta la prima parte delle Formen, con la sua relativa analisi delle forme di proprietà precapitalistiche e della loro dissoluzione. § 2.1. L’individuazione morfologica della direttrice fondamentale dello sviluppo storico precapitalistico Il modo di produzione capitalistico, nella sua specificità storica, si afferma solo attraverso il lavoro salariato; ma l’effettiva esistenza del lavoro salariato, a sua volta, storicamente presuppone che siano stati rotti tutti i rapporti nei quali il produttore figura ancora come proprietario delle condizioni oggettive del proprio lavoro. Prima di tutto, questo deve significare, secondo Marx, il distacco del lavoratore dalla proprietà della terra. Che la proprietà della terra sia collettiva oppure personale, che essa sia un’emanazione diretta della comunità, o che sia invece un prodotto delle singole famiglie che costituiscono la stessa comunità, in ambedue i casi deve essere spazzata via nella sua forma tradizionale, nella misura in cui all’interno di essa l’individuo ancora “si riferisce a se stesso come proprietario, come padrone delle condizioni della sua esistenza effettiva”[16]. Infatti, in queste forme precapitalistiche di proprietà della terra, che affondano le loro radici storiche negli stadi più remoti della società umana, la proprietà individuale delle condizioni della produzione è in qualche modo sempre riconosciuta a livello comunitario, nella misura in cui lo scopo del lavoro della società è ancora fondamentalmente la semplice riproduzione della comunità, e quindi la riproduzione dell’individuo in quanto suo membro. “In entrambe queste forme”, scrive Marx riferendosi alla proprietà della terra immediatamente collettiva da un lato, e alla proprietà del singolo capofamiglia dall’altro, “gli individui non sono in un rapporto di lavoratori[17], bensì di proprietari – e membri di una comunità i quali al tempo stesso lavorano. Lo scopo di questo lavoro non è la creazione di un valore – quantunque essi possano fare un pluslavoro per scambiarsi prodotti altrui, ovverosia plusprodotti – il suo scopo è invece il mantenimento del singolo proprietario e della sua famiglia non meno che di tutta la comunità”[18]. Nelle economie agricole tradizionali, in tal senso, ogni produttore compare al contempo come proprietario, perché è direttamente o indirettamente tale in quanto membro della comunità. Il produttore, infatti, è sempre direttamente comproprietario o almeno è partecipe della proprietà delle condizioni della produzione, nella misura in cui, come membro della comunità, a priori (prima di entrare nel processo di produzione) può o deve partecipare all’appropriazione effettiva, e gli spetta una porzione dei suoi frutti. Il lavoro salariato pertanto, alla luce di queste considerazioni, deve avere come punto di partenza storico l’avvenuta “dissoluzione tanto della piccola proprietà fondiaria libera, quanto della proprietà fondiaria collettiva basata sulla comunità orientale”[19]. Partendo da questo assunto preciso Marx ridiscende, dalle forme più recenti di proprietà della terra a quelle più antiche, originarie. Le forme originarie di proprietà della terra vengono suddivise da Marx, a grandi linee, in tre macrogruppi, che sono altrettante forme di comunità tribale, delle quali vengono messi a fuoco alcuni precisi tratti sociali di carattere strutturale. La “prima forma”[20] è caratterizzata dal ruolo della comunità come presupposto immediato del possesso e dell’appropriazione individuale della terra. Nel nomadismo primitivo e nell’economia agricola del villaggio asiatico (forma orientale), la comunità si dà un’esistenza materiale ancora come comunità naturale, pressoché priva di storia, e la proprietà della terra rimane direttamente collettiva, immediatamente comunitaria. Nella “seconda forma”[21], invece, la comunità compare come presupposto della proprietà e dell’appropriazione della terra, ma in un modo che già non è più naturale. La comunità assume una più complessa configurazione nella città-Stato, risultato di una trasformazione storica profonda della tribù primitiva. Secondo Marx, presso gli Ebrei, i Greci ed i Romani, fin dalla loro prima determinatezza storica di popoli, la proprietà del singolo agricoltore non è più, immediatamente, proprietà della comunità. In questa forma, che Marx definisce come la forma antica classica, compare la proprietà privata della terra, che si distingue nettamente dalla proprietà pubblica (ager publicus romano). La comunità rimane il presupposto fondamentale della proprietà del singolo; ma, al contempo, quest’ultima figura anche come proprietà privata che media, a sua volta, la partecipazione del singolo alla comunità (Stato), come suo membro (cittadino). Infine, Marx, chiama in causa “una [altra] forma”[22] di proprietà della terra, in cui l’autonomia del singolo produttore agricolo rispetto alla comunità è ancora più spiccata. Nella forma germanica, secondo Marx, non si ha né il possesso privato come forma di partecipazione ad una proprietà effettivamente collettiva, tipico della forma asiatica, né la proprietà pubblica affiancata dalla proprietà privata dei cittadini tipica della forma antica classica. La comunità figura invece come semplice riunione dei singoli capifamiglia, come assemblea il cui presupposto sono le singole famiglie come nuclei economici indipendenti, che mettono a frutto appezzamenti di terra che non confinano fra loro, separati uno dall’altro da vaste distanze. La comunità rimane un presupposto rispetto alla singola proprietà, solo in quanto presupposto storico, nella lingua, nelle tradizioni, nella religione comuni alle singole famiglie. Tutte e tre queste forme originarie di proprietà della terra e di comunità, comunque, sono orientate ad un medesimo scopo: “la riproduzione dell’individuo nei rapporti determinati con la sua comunità, nei quali esso rappresenta la base”[23]. Con questa affermazione, Marx ribadisce un punto indispensabile della sua ricostruzione storica: anche quando, come nel caso della forma germanica di proprietà della terra, la comunità continua ad esistere solo nelle tradizioni e nella religione comuni e si atomizza in singole famiglie che vivono a grande distanza l’una dall’altra – anche in questo caso, la comunità originariamente è sempre, come tale, il fine del lavoro individuale, inserito in un meccanismo economico di produzione di valori d’uso e di riproduzione sociale, ovvero di riproduzione dell’individuo in quanto membro che occupa una posizione determinata in tale comunità. Per questo, l’individuo produttore risulta esso stesso uno scopo del lavoro sociale e si trova a priori, in quanto membro della comunità, in un rapporto di proprietà con le condizioni oggettive della produzione. Il nesso inscindibile individuo-comunità, dunque, è il carattere costante condiviso dalle tre forme originarie di comunità prese in considerazione da Marx. Secondo Marx, di conseguenza, l’individuo che è membro della comunità originaria è sempre lavoratore-proprietario (o comproprietario) dei mezzi del lavoro sociale (della terra). Quindi, perché si imponga il lavoro salariato, devono essere dissolte dal corso storico tutte e tre queste forme originarie di proprietà della terra e di comunità. Proprio sulla base di questa constatazione, Marx tenta di ricostruire la cornice storica generale entro la quale si colloca questo processo di dissoluzione, in primo luogo individuandone per sommi capi i fondamenti strutturali originari. Marx, dapprima, non si occupa né di spiegare né di seguire geneticamente questa dissoluzione delle forme di proprietà della terra e delle corrispondenti comunità, ma indaga invece, attraverso l’esame delle forme originarie della comunità e della proprietà della terra, le basi strutturali del crescente indebolimento della loro compattezza comunitaria, e quindi i primi presupposti sociali del processo storico di dissoluzione della comunità che conduce al lavoro salariato. Marx, dopo aver esaminato la forma germanica, abbozza i contorni di una serie di forme di proprietà della terra: “Nella forma asiatica, almeno in quella prevalente, non esiste la proprietà, ma solo il possesso del singolo. La comunità è il vero e proprio proprietario effettivo […]. Presso gli antichi (i Romani ne sono l’esempio più classico, il fenomeno compare nella forma più pura e più marcata) esiste una forma antitetica di proprietà fondiaria pubblica e proprietà fondiaria privata […]”. Nella forma germanica, infine: “La comunità esiste solo nella relazione reciproca tra questi proprietari fondiari individuali in quanto tali. La proprietà comunitaria in quanto tale si presenta solo come un elemento accessorio collettivo rispetto alle residenze individuali”[24]. Dalla forma meno favorevole a quella più favorevole, asiatico – antico – germanico sono ordinati in relazione al potenziale emergere della proprietà privata del singolo. La forma di proprietà germanica (del singolo capofamiglia) sembra rappresentare un primo elemento di debolezza della struttura comunitaria della società ed un primo remotissimo presupposto della società moderna e dell’isolamento estremo del singolo. Quanto più marcato è lo sviluppo della proprietà privata, tanto più è possibile, in prospettiva, che si generi una spiccata indipendenza del singolo nei confronti della comunità, e che venga spezzato il vincolo comunitario che lega il singolo individuo alle condizioni oggettive della produzione, in modo tale che si diano, in potenza, il lavoro salariato ed il capitale. Le forme sociali precapitalistiche, pertanto, possono essere ordinate morfologicamente fin nella loro forma originaria, sulla base di questo principio metodologico. Fin dall’inizio delle Formen, dunque, ci troviamo di fronte ad un metodo di ricostruzione storica che si può definire teleologico. Marx, in effetti, si prefigge di rintracciare storicamente le origini del lavoro salariato; quindi, egli presuppone metodologicamente il lavoro salariato, e con esso la definizione di una forma determinata di rapporto sociale, e la sua realtà attuale – il capitale –, per poi investigarne i presupposti storici reali, cominciando addirittura dall’esaminare, in tal senso in modo teleologico, strutturalmente, le forme sociali originarie. In queste forme sociali originarie, nella loro morfologia, Marx cerca esplicitamente le caratteristiche che potenzialmente favoriscono lo sviluppo storico del lavoro salariato, e prima ancora i sintomi della proprietà privata quale presupposto più remoto, in quanto dissoluzione essenziale della proprietà comunitaria, del lavoro salariato. Questa teleologia storica[25], d’altro canto, solo apparentemente è puramente morfologica, metodica. In essa, invece, riecheggia ancora una volta l’insegnamento hegeliano delle Grundlinien e delle Vorlesungen. Delle prime, nella definizione dell’isolamento sociale dell’individuo, si avverte la profonda eco della caratterizzazione della moderna società civile in rapporto al ruolo che in essa assume l’opinione soggettiva e l’arbitrio individuale. Nelle Grundlinien, la classe cosiddetta sostanziale, legata alla terra, produce e riproduce se stessa in armonia con la natura ed i suoi ritmi: “Di fronte al fatto che il lavoro e l’acquisto sono legati a singole epoche naturali fisse, e di fronte alla dipendenza del reddito dalla mutabile qualità del processo naturale, il fine del bisogno si costituisce a previdenza per il futuro, ma conserva, per mezzo delle sue condizioni, il modo di una sussistenza meno mediata dalla riflessione e dalla volontà particolare”[26]. E la corrispondente Zusatz spiega: “L’uomo accoglie, con sentimento immediato, il dato e il ricevuto […]. Ciò che acquista gli basta: egli lo consuma perché gli ritorna”[27]. Secondo Hegel, invece, l’industria moderna è connessa al nuovo senso di libertà della singola persona, che rappresenta il carattere storico peculiare della società civile. Mentre nell’individuo appartenente alla classe sostanziale rimane sempre ben radicato un pesante senso di dipendenza sia dalla natura che dagli uomini, al contrario: “L’individuo nella classe dell’industria è assegnato a se stesso, e questo sentimento di sé si connette strettamente con l’esigenza di una situazione giuridica”[28]. La società civile, secondo Hegel, si divide in classi secondo il suo concetto; ma l’assegnazione dell’individuo alla classe, invece, avviene secondo il temperamento, la nascita, le circostanze, l’opinione soggettiva e l’arbitrio particolare. Nella società moderna, pertanto, la necessità logica della classe si sposa con l’arbitrio e con la coscienza soggettiva[29]; precisamente in questo aspetto Hegel crede di individuare “la distinzione in vita politica orientale e occidentale, e del mondo antico e moderno”: “non accolta nell’organizzazione della totalità e non conciliata in essa, la particolarità soggettiva si mostra, pel fatto che si presenta parimenti in quanto momento essenziale, come un ché di ostile, come corruzione dell’ordinamento sociale […], o in quanto sovvertitrice, come negli Stati greci e nella Repubblica romana […]. Ma, conservata dall’ordinamento oggettivo in modo adeguato ad esso, e , nello stesso tempo, nel suo diritto, la particolarità soggettiva diviene principio di ogni ravvivamento della società civile, dello sviluppo dell’attività pensante, del merito e della dignità. Il riconoscimento e il diritto, che ciò che è necessario, mediante la ragione, nella società civile e nello Stato, venga, in pari tempo, mediato dall’arbitrio, è la determinazione prossima di ciò che, particolarmente nella concezione generale, si chiama libertà”[30]. Dalle Vorlesungen, Marx fondamentalmente riprende la successione storica fondamentale asiatico – antico (in Hegel suddiviso in greco e romano) – germanico, come movimento storico che conduce alla modernità[31]. Le differenze che allontanano la ricostruzione delle Formen rispetto alla concezione hegeliana della storia e del mondo moderno, evidentemente, sono notevoli. Il mondo germanico non rappresenta più, come in Hegel, il momento dell’individualità compiuta che segue all’universalità immediata del mondo orientale ed alla particolarità astratta del mondo antico (spinta fino all’atomismo sociale nel mondo romano). Anzi, secondo Marx, proprio il mondo germanico prelude strutturalmente alla società moderna come momento dell’atomismo sociale e della scissione. La società civile moderna non è più, come in Hegel, il momento subordinato della particolarità astratta e dell’interesse privato, che si chiude nell’individualità superiore dello Stato: la modernità, al contrario è vista come il vertice del processo storico di scissione e di atomizzazione della società. Tuttavia Marx riprende, sebbene trasformandoli radicalmente, alcuni fondamentali assunti fissati da Hegel. In primo luogo, nelle Formen come nel resto dei Grundrisse, il riferimento corre allo schema interpretativo hegeliano del processo storico nella sua totalità: unione immediata – scissione (che in Hegel culmina nel mondo romano, ed in Marx nel capitalismo moderno) – unione di scissione e unione (che in Hegel si realizza nello Stato, ed in Marx deve realizzarsi nel libero individuo sociale del comunismo). In secondo luogo anche nelle Formen, dietro l’applicazione dello schema hegeliano, si cela la più profonda, sostanziale condivisione dei fondamenti multilineari-unidirezionali della concezione della storia. Le strutture sociali individuate sono ‘originarie’ e rimangono distinte storicamente e geograficamente nella loro specificità e nelle loro leggi. Esse convivono una affianco all’altra anche fino alla modernità – come è evidente nel caso del modo di produzione asiatico. La serie storica asiatico – antico – germanico che le forme originarie possono comporre e compongono, conducendo al capitalismo, si rivela però a posteriori la direttrice fondamentale dell’intero sviluppo storico, in quanto linea storica che conduce nel modo più diretto ad un punto di convergenza forzato del processo storico. Essa si interseca e rimane affiancata da altre linee storiche relativamente indipendenti, che convivono fino alla fine una affianco all’altra e una opposta all’altra, ma che in ultima istanza devono arrendersi allo sviluppo capitalistico – o perire. Pertanto: 1) Ogni singolo modo di produzione è esaminato da Marx in quanto formazione economico-sociale – in quanto tutto complesso – e quindi, hegelianamente, come un’unità organica a sé stante[32]. Tale concetto di ‘struttura sociale’ come tutto unitario sembra uno strumento euristico centrale nell’elaborazione delle Formen, sia in relazione all’individuazione delle forme specificamente diverse ed originarie delle comunità primitive, sia in relazione alla definizione dell’ordine composto dalle forme sociali (che in prima istanza viene definito non secondo i nessi genetici reciproci, ma come serie morfologica capace di descrivere il grado progressivo di rarefazione e debolezza di comunità e forme sociali specificamente distinte), sia, infine e soprattutto, in relazione alla constatazione della radicale rottura dei rapporti comunitari rappresentata dal modo di produzione capitalistico, rottura che come tale orienta teleologicamente la stessa ricostruzione dello sviluppo delle forme precapitalistiche, senza che questa ricostruzione ‘strutturale’ ambisca in prima istanza a rappresentare la logica immanente di ogni formazione economico-sociale precapitalistica. 2) D’altro canto, nel capitalismo – forma sociale che sorge e diventa egemone nel contesto locale e storico determinato dell’Europa occidentale moderna –, la teleologia marxiana individua il momento di convergenza oggettiva dello sviluppo storico universale, la strozzatura ad imbuto dello sviluppo storico, che a questa forma sociale deve necessariamente sottomettersi (per prepararsi infine al comunismo). La serie asiatico – antico – germanico pertanto, come successione che prepara strutturalmente il capitalismo si costituisce parimenti a direttrice reale e fondamentale dello sviluppo storico precapitalistico. Essa rappresenta l’essenza dello sviluppo storico precapitalistico e la linea teleologica oggettiva ed essenziale che, come primo segmento, prepara l’isolamento sociale dell’individuo prima (capitalismo) e la libera individualità sociale (comunismo) poi[33]. § 2.2. Il problema della spiegazione materialistica del processo di dissoluzione della comunità originaria Marx, una volta fissato un risultato di carattere generale nell’individuazione della progressività della serie asiatico – antico – germanico (in relazione al sorgere del capitale), non si ferma al livello puramente morfologico o ‘strutturale’ di tale constatazione, ma si sforza di rintracciare le connessioni reali fra gli stadi che scandiscono tale linea essenziale del processo storico. Come materialista che vuole studiare la storia in termini materialistici[34], si interroga sulla dissoluzione reale della comunità, sulle cause materiali della rottura dell’unità fra il produttore e le condizioni oggettive della produzione. La separazione del produttore dalle condizioni della produzione “si attua pienamente solo nel rapporto tra lavoro salariato e capitale”; ma ora si tratta di spiegarne materialisticamente, a partire dalle primissime origini storiche, il meccanismo: “Non è l’unità degli uomini viventi ed attivi”, scrive Marx, “con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio materiale con la natura, e per conseguenza la loro appropriazione della natura, che ha bisogno di spiegazione o che è il risultato di un processo storico, ma la separazione di queste condizioni inorganiche dell’esistenza umana da questa esistenza attiva […]”[35]. La comunità originaria, secondo Marx, assume forme specifiche e si riproduce secondo logiche specifiche, a seconda del carattere naturale della tribù e delle condizioni economiche ed ambientali in cui essa si trova ad operare. La determinatezza della comunità è fondamentalmente fissata dall’ambiente in cui si colloca. Eppure Marx stabilisce alcuni principi cardine dello sviluppo storico, che ambiscono ad essere validi per tutte le forme primitive di comunità: “Affinché la comunità continui ad esistere nella vecchia maniera, come tale, è necessaria, la riproduzione dei suoi membri nelle condizioni oggettive date in precedenza. La stessa produzione, l’incremento della popolazione (anche questo rientra nella produzione) sopprimono necessariamente a poco a poco queste condizioni; le distruggono invece di riprodurle, ecc., e così la comunità tramonta insieme ai rapporti di proprietà sui quali essa era fondata”[36]. In modo del tutto chiaro, qui Marx tenta di applicare alle forme originarie di comunità il modello interpretativo generale stabilito nell’Ideologia tedesca, secondo il quale lo sviluppo delle forze produttive mette necessariamente in crisi i rapporti di produzione, e ne determina la trasformazione. Lo sviluppo delle forze produttive e la conseguente trasformazione dei rapporti di produzione spiegano, secondo Marx, l’abbrivio del movimento storico della società e, quindi, sono il meccanismo originario dello sviluppo storico successivo, ovvero del processo storico in generale. Il modello interpretativo dell’Ideologia tedesca, che esprime nello sviluppo progressivo delle forze produttive la regola sostanziale del divenire storico di ogni società specifica e di ogni epoca storica determinata, è esplicitamente richiamato da Marx nelle Formen, trasformato ed inserito in una dialettica che pretende di includere la storia nella sua interezza, la storia passata, presente e futura. In generale nell’antichità (intesa in senso ampio) domina il valore d’uso, e la produzione è fondamentalmente finalizzata alla riproduzione ed al consumo individuale socialmente determinato, e quindi vincolata alla soggettività limitata e particolare incarnata in quest’ultimo. Questo primo stadio storico[37], pur non omogeneo nella sua strutturazione iniziale e pur evolvendosi in modo differenziato, segue una logica economica generale ma precisa e definita nei suoi contorni; essa assume forme specifiche a seconda della struttura determinata delle comunità, e quindi dell’ambiente in cui si colloca, ma rimane sempre imperniata sul valore d’uso. Lo sviluppo delle forze produttive è quindi ab origine differenziato, e si dirama in linee relativamente indipendenti. Quando tale sviluppo raggiunge un grado superiore, però, la ricchezza viene ad assumere, nel valore di scambio, una forma oggettiva universale (diventando in quanto tale il fine di ogni soggettività isolata). Con lo sviluppo ulteriore delle forze produttive, infine, la stessa forma sociale moderna tende a mutarsi in una scorza storica, esteriore rispetto alla nuova sostanza della produzione: “Ma in fact, una volta cancellata la limitata forma borghese, che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, ecc. degli individui, creata nello scambio universale? Che cos’è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura sia su quelle della propria natura? Che cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la sua totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire?”[38]. Lo sviluppo della ricchezza in una forma oggettiva universale trapassa necessariamente, nella visione di Marx, nella formazione di una soggettività universale. La società borghese, entro questo processo, deve necessariamente cedere il passo al comunismo, perché non è in grado di esprimere in quanto tale la nuova potenzialità soggettiva connessa all’impetuoso sviluppo delle forze produttive, e quindi non è più in grado di rappresentare e contenere lo stesso sviluppo delle forze produttive. Entro questa prospettiva storica di carattere estremamente generale – nel contesto di questa vasta panoramica storica – agisce palesemente una teleologia di marca hegeliana: il movimento storico complessivo dettato sembra scandirsi, nella sua direttrice essenziale, su tre fondamentali stadi dialettici: unità immediata (delle comunità originarie) – scissione (che si realizza compiutamente nell’attualità capitalistica) – unità di unione e scissione (nel libero individuo sociale del comunismo). Attraverso questa teleologia, sostanzialmente, Marx cerca di ridefinire in termini multilineari-unidirezionali lo sviluppo delle forze produttive. Esse procedono in modo differenziato a seconda delle specifiche strutture sociali nelle quali si incarnano e dalle quali prendono le mosse. Tuttavia, nel loro progresso, alla lunga devono convergere nella forma capitalistica (scissione astratta di individuo e società che da un lato pone la particolarità astratta dell’individuo isolato, e dall’altro l’universalità astratta del sistema economico), che produce un nuovo formidabile incremento delle forze produttive e a sua volta prepara l’avvento del comunismo. Conseguentemente, la direttrice fondamentale e oggettiva del disegno storico, che linearmente muove dall’antichità, attraverso la società borghese, al comunismo (fine reale punto di fuga ideale del quadro teorico), deve essere essenzialmente spiegata nella sua forma teleologica sulla base del modello materialistico dello sviluppo delle forze produttive. Nelle Formen, precisamente, Marx svolge le sue riflessioni storiche sul primo segmento di questa direttrice, per tentare di spiegare la separazione del produttore dalle condizioni della produzione sulla base di questo preciso modello filosofico. Nelle Formen, il tentativo di spiegazione del processo storico come sviluppo delle forze produttive, si specifica come tentativo di identificare il contenuto progressivo reale della direttrice storica precapitalistica asiatico – antico – germanico, nonché di trovare il senso progressivo della dissoluzione graduale dell’unità del produttore con le condizioni della produzione che culmina con l’avvento della moderna società borghese. Questa direttrice storica non è per se stessa universale – è affiancata da altre linee evolutive –, ed essa stessa non è né uniformemente graduale né rettilinea – si interseca e sovrappone con altre linee; tuttavia rappresenta la linea storica essenziale, che conduce nel modo più diretto al capitale moderno. È possibile al suo interno individuare un fondamentale sviluppo delle forze produttive? È possibile spiegarla sulla base di questo meccanismo fondamentale? A che condizioni? Esattamente, come riesce o tenta di mediare, Marx, la spiegazione della storia nei termini di forze produttive e rapporti di produzione – contenuto generale del processo storico –, con la ricostruzione strutturale dell’indebolimento della struttura comunitaria della società e con l’individuazione della direttrice fondamentale dello sviluppo precapitalistico nella serie asiatico – antico – germanico? § 2.3. Il tentativo di ridefinizione del concetto di ‘forze produttive’ Non a caso, ci sembra, l’attenzione di Marx viene ad incentrarsi in modo particolare sulla storia di Roma: da un lato, la forma sociale antica classica può essere e viene interpretata come sviluppo storico della forma asiatica; dall’altro, sulla disgregazione sociale del mondo romano, si innesta la forma sociale germanica. Si può ragionevolmente ipotizzare che lo sforzo di Marx sia orienti a saldare la ricostruzione storica strutturale iniziale con il contenuto materialistico dello sviluppo delle forze produttive, analizzando il ‘termine medio’ del ‘sillogismo storico’ asiatico – antico – germanico. Un ruolo chiave, nel processo storico che prepara la dissoluzione della comunità primitiva in genere è rivestito, a parere di Marx, dalla guerra. La guerra, fin dai primordi tribali, rappresenta una necessità della comunità, che la spinge in qualche modo ad andare oltre se stessa. Scrive Marx: “L’unico ostacolo che la comunità può trovare nel suo rapporto con le proprie condizioni naturali della produzione – con la terra – […], è un’altra comunità, che già accampa diritti su di essa come suo corpo inorganico. La guerra è pertanto uno dei lavori più antichi di ciascuna di queste comunità naturali, sia per la difesa della proprietà, sia per la sua acquisizione”[39]. A sua volta, la guerra pone storicamente, come sue conseguenze necessarie, la schiavitù e la servitù: “Se insieme con la terra viene conquistato anche l’uomo come suo accessorio inorganico, esso lo è come una delle condizioni inorganiche della produzione, e così nasce la schiavitù e la servitù della gleba”. Queste nuove forme di rapporti sociali, rendendo l’uomo stesso condizione oggettiva della produzione, “presto falsificano e modificano le forme originarie di tutte le comunità e ne divengono persino la base”[40]. Infatti l’individuo, attraverso la proprietà della terra garantitagli dal suo essere membro della comunità, è in un rapporto con le condizioni della produzione tale, che queste figurano come prolungamenti del proprio corpo, appendici che ne sono parte integrante e parimenti potenziamento esterno. L’individuo, secondo Marx, ha originariamente una duplice esistenza, nella comunità e nella terra. Pertanto, con la schiavitù, non soltanto la semplicità originaria di questo rapporto unitario si complica notevolmente, ma esso viene addirittura intaccato nella sua radice sostanziale: “La condizione fondamentale della proprietà che si basa sull’organizzazione tribale (alla quale originariamente la comunità si riduce) – essere cioè membro della tribù – rende senza proprietà la tribù straniera assoggettata e conquistata dalla tribù, e la riduce al rango delle condizioni inorganiche della riproduzione della tribù conquistatrice […]”[41]. Un’intera tribù, e quindi un’intera comunità, può perdere la proprietà della terra: con ciò, l’individuo membro di questa comunità perde, almeno nella sua forma naturale, diretta, la sua duplice esistenza, nella terra e nella comunità. Lo schema storico di sviluppo delle società primitive dunque, in prima istanza, sembra nei suoi tratti generali il seguente: comunità – guerra – schiavitù o servitù – crisi della comunità. Sulla base di questo schema, Marx riformula da capo la propria teoria dello sviluppo storico della comunità (precedentemente accennata nei termini di riproduzione della comunità – crescita della popolazione – crisi della comunità) portandola alle sue ultime conseguenze, con l’obiettivo di includere nella sua concezione del progresso come sviluppo delle forze produttive, guerra e schiavitù, e di spiegare entro la logica del materialismo storico la crisi delle comunità antiche, ed in particolare la crisi di Roma come momento cruciale della storia europea. Prima di tutto però, in relazione alle forme precapitalistiche, Marx sembra ribadire i presupposti del proprio materialismo storico. Marx annota: “Persino dove non rimane altro da fare che trovare e scoprire, ciò [che] richiede già uno sforzo, un lavoro – come nella caccia, nella pesca, nella pastorizia – e la produzione, lo sviluppo di certe capacità da parte del soggetto”[42]. La concentrazione teorica, anche nello studio delle società più antiche, sulla produzione anziché sul consumo, secondo Marx, si giustifica proprio col fatto che solo attraverso l’analisi della produzione si tiene fede al tratto peculiare del lavoro come trasformazione dell’ambiente e parimenti sviluppo del soggetto che lavora. Quindi, solo attraverso l’analisi della produzione è possibile spiegare la trasformazione storica della società ed il progresso storico. La “proprietà”, secondo Marx, è originariamente “un rapporto cosciente” dell’individuo con le condizioni oggettive della produzione: un rapporto “posto dalla comunità” ma che, come rapporto cosciente, “si realizza solo attraverso la produzione stessa”. Alla proprietà pertanto fa sempre seguito, come suo reale inverarsi, darsi esistenza, l’“appropriazione” effettiva, il rapporto reale, attivo, dell’uomo con le “condizioni della produzione”: “L’appropriazione effettiva avviene non nel rapporto ideale, ma solo nel rapporto attivo, reale con queste condizioni – ove queste condizioni sono poste effettivamente come condizioni della sua attività soggettiva”. E subito dopo, Marx prosegue: “Con ciò però è al tempo stesso chiaro che queste condizioni si modificano”[43]. Il ragionamento di Marx, sembra quindi voler procedere su un preciso binario teorico materialistico. La modificazione delle condizioni della produzione, nella misura in cui su di esse agisce il lavoro umano, significa anche che si rende progressivamente necessario un diverso tipo di rapporto cosciente con esse. Poiché questo nuovo rapporto attivo, questo nuovo modo di lavoro, è sempre posto dalla comunità, il cambiamento delle condizioni della produzione significa parimenti la trasformazione della forma originaria della comunità, che in tal senso deve venire ad esprimere un nuovo, superiore, stadio di sviluppo delle forze produttive. Riferendosi alla comunità primitiva, ed all’azione della modificazione del modo di produzione sulla forma sociale, Marx scrive: “Lo scopo di tutte queste comunità è la conservazione; ossia la riproduzione degli individui che le compongono, come proprietari, cioè in quello stesso modo di esistenza oggettivo che costituisce al tempo stesso il rapporto reciproco fra i membri e quindi la comunità stessa. Questa riproduzione è però al tempo stesso necessariamente nuova produzione e distruzione della vecchia forma”[44]. A questo punto, Marx affronta il tema della specificità dello sviluppo forze produttive nelle società precapitalistiche, e quindi il tema del ruolo storico di guerra e schiavitù. Se la storia è da considerarsi fondamentalmente riconducibile al processo di trasformazione del modo di produzione, allo sviluppo delle forze produttive, allora le forme sociali precapitalistiche pongono dei problemi interpretativi notevoli. Infatti, nelle tribù primitive, ed in seguito fondamentalmente anche nelle società precapitalistiche in genere, lo sviluppo delle forze produttive sociali, secondo quanto traspare dall’esposizione di Marx, sembra consistere principalmente nell’estensione dei rapporti economici esistenti su una più ampia scala. Lo sviluppo delle forze produttive sembra svolgersi, cioè, principalmente su un piano estensivo invece che sul piano dell’incremento della produttività. Il riassunto che ne dà Marx, è tanto lapidario quanto incisivo; riferendosi esplicitamente alla società antica classica ed al caso tipo di Roma, Marx ne delinea la parabola storica: “Ad esempio, dove ciascuno degli individui deve possedere un certo numero di acri di terreno, già lo sviluppo della popolazione rappresenta un ostacolo. Per aggirare questo ostacolo, è necessaria la colonizzazione, e questa rende necessaria la guerra di conquista. Di qui gli schiavi, ecc., l’ingrandimento dell’ager publicus, ad esempio, e quindi i patrizi, che rappresentano la comunità, ecc. Così la conservazione della vecchia comunità implica la distruzione delle condizioni sulle quali essa poggia, e si rovescia nel suo contrario”[45]. La riproduzione significa anche produzione e quindi, inizialmente, estensione della produzione. Le colonie e la guerra per l’acquisizione di nuovi territori e per soddisfare la crescita demografica portano alla comparsa della schiavitù e della servitù della gleba, ed in definitiva alla distruzione delle vecchie condizioni su cui si reggeva la comunità. Lo sviluppo delle forze produttive, quindi, originariamente si traduce fondamentalmente nella guerra e, tramite la schiavitù, nella crisi delle forme comunitarie tradizionali. Marx afferma esplicitamente che, a fianco dello sviluppo meramente estensivo delle forze produttive che si risolve nella guerra, nella schiavitù e nella crisi, è già presente, fin dalle origini, uno sviluppo intensivo, qualitativo delle stesse. Le forze produttive, fin dall’inizio, si accrescono anche con le innovazioni produttive, che danno luogo a nuove condizioni economiche, ed a modifiche sostanziali della comunità. Il disboscamento, le tecniche di bonifica, il passaggio dal villaggio asiatico alla città antica (seppure esso stesso mediato dal ruolo della guerra) – e le relative trasformazioni sociali –, sono anche espressione di questo tipo ‘intensivo’ di sviluppo delle forze produttive, che avviene attraverso l’introduzione di nuovi metodi di lavoro[46]. Ma, secondo Marx, quanto più l’agricoltura si mantiene tradizionale, ovvero quanto più ancora rimane lontana dall’integrazione con il commercio e con l’industria, e finalizzata principalmente all’autoconsumo ed al valore d’uso, tanto più essa non genera al suo interno significativi sviluppi della produttività. Quindi, la dimensione prevalente dello sviluppo delle forze produttive, per le comunità originarie e per le forme sociali precapitalistiche in genere, rimane sempre quella dell’estensione quantitativa e non, invece, quella del progresso innovativo, intensivo, qualitativo: “tanto più tradizionale è il modo di produzione stesso […], cioè quanto più l’effettivo processo di appropriazione rimane eguale a se stesso, tanto più costanti sono le vecchie forme di proprietà, e quindi la comunità in generale”[47]. Marx, pertanto, constata questa specificità storica delle forme precapitalistiche, e si trova di fronte al problema di definire in relazione ad essa le caratteristiche del progresso storico delle forze produttive. Si può ancora parlare, per le società precapitalistiche – visto il carattere estensivo dello sviluppo delle forze produttive e visto, attraverso la schiavitù e la servitù della gleba, il suo concludersi con la crisi della comunità originaria –, del progresso delle forze produttive materiali come motore della storia? Questo problema oggettivo sembra esprimersi con particolare chiarezza nella questione cardine dello svolgimento conclusivo di questa prima parte delle Formen: la questione dello sviluppo della società antica classica. Lo sviluppo delle forze produttive è inizialmente puramente estensivo, passa attraverso il momento centrale della guerra e, raggiunti i suoi massimi risultati storici, come dimostra l’esempio cruciale di Roma, si risolve, necessariamente, nella crisi della comunità originaria, nel suo dissolvimento. In evidente relazione con la storia dell’Europa occidentale, sembra che Marx si cimenti precisamente nel difficile tentativo di spiegare attraverso i concetti di forze produttive e di rapporti di produzione la crisi del mondo romano, il suo tracollo e l’avvento del medioevo (periodo germanico), tentando di ricondurre la serie storica asiatico – antico – germanico, nella sua interezza, all’idea del progresso necessario delle forze produttive. Alla luce della stessa analisi marxiana, il problema si presenta estremamente ostico: 1) Tutte le società precapitalistiche, in quanto legate più o meno strettamente ad una forma tradizionale di agricoltura, sembrano anche prive di un decisivo sviluppo delle forze produttive, tale da rivoluzionare, attraverso l’incremento della produttività, i rapporti sociali esistenti, e da questo preciso punto di vista sembrano collocarsi tutte sul medesimo piano di arretratezza rispetto al capitale 2) Ove lo sviluppo estensivo delle forze produttive, come espansione territoriale attuata mediante la colonizzazione e la guerra, assume storicamente una dimensione veramente notevole (e precisamente nella società antica classica ed in particolare nello sviluppo di Roma), apparentemente si traduce e risolve necessariamente, in particolare attraverso la schiavitù, soltanto nella crisi e nel tracollo della forma determinata di comunità, e non invece nel superamento dei rapporti sociali esistenti, nel progresso sociale. Lo sviluppo delle forze produttive sembra in altre parole concludersi in maniera prevalentemente negativa, con la distruzione della forze produttive stesse, e della comunità come loro base reale Ci sembra che, precisamente in relazione a questa questione storica concreta, nel terminare la parte delle Formen dedicata alle forme precapitalistiche, Marx proceda ad un’implicita ma radicale ridefinizione teorica generale del concetto di ‘forze produttive’. In primo luogo, riferendosi specificamente ai fattori che a suo parere segnano oggettivamente la superiorità della forma sociale antica rispetto a quella asiatica, per individuare ciò che marca fondamentalmente il primo stadio storico del progresso sociale, Marx tralascia il passaggio dal villaggio asiatico alla città antica, che aveva precedentemente ricordato, e invece fa nuovamente appello ad elementi strutturali, che sembrano a prima vista estranei al modello esplicativo forze produttive – rapporti di produzione: la società antica rappresenta un progresso rispetto a quella asiatica perché l’individuo è maggiormente svincolato dalla comunità, e agisce più liberamente nell’ambito di rapporti sociali più fluidi, che prevedono già, nella separazione fra l’individuo come cittadino e l’individuo come proprietario, la possibilità di più forti divisioni sociali, che danno un maggiore spazio all’energia del singolo[48]. In secondo luogo, Marx sottolinea come questi elementi strutturali, che germogliando segnano la superiorità della società antica su quella asiatica, siano anche gli elementi che fioriscono nella sua crisi, col passaggio dalla forma antica alla forma sociale germanica. Nella società antica il lavoro manifatturiero appare già maggiormente svincolato dall’agricoltura che non nella forma asiatica; ma esso è fondamentalmente connesso con la schiavitù, e si inserisce organicamente nel processo di dissoluzione della comunità originaria: “Presso gli antichi la manifattura figura già come corruzione (occupazione di liberti, clienti stranieri) ecc. Questo sviluppo del lavoro produttivo (svincolato dalla subordinazione pura all’agricoltura […], che necessariamente si compie grazie ai rapporti con gli stranieri, grazie agli schiavi, grazie al desiderio di scambiare il prodotto eccedente ecc., dissolve il modo di produzione su cui si basa la comunità e quindi il singolo individuo nella sua oggettività, cioè il singolo individuo determinato in quanto romano, greco, ecc. Analogo effetto ha lo scambio, l’indebitamento, ecc.”[49]. L’accento peculiare della trattazione marxiana, dunque, cade sulla constatazione che la crisi del mondo romano, e quindi, a monte, la guerra e la schiavitù, pongono i presupposti per lo sviluppo di nuove forze produttive, creano nuove ed inedite potenzialità umane basate sulla nuova posizione ‘extra-comunitaria’ che il singolo può rivestire. In tal senso, evidentemente, anche il particolarismo estremo del medioevo (periodo germanico) può trapassare nel suo contrario, e rappresentare il primo presupposto per un universalismo più spiccato ed una nuova autonomia, al suo interno, del singolo individuo. Queste fondamentali osservazioni non si svolgono su un piano puramente strutturale – non sono annotazioni relative a presupposti storici estrinseci del lavoro salariato, e quindi del capitalismo come formazione economico-sociale determinata. Né Marx si limita a constatare attraverso di esse il carattere teleologicamente indirizzato alla posizione della proprietà privata e all’isolamento dell’individuo proprio della direttrice fondamentale dello sviluppo storico precapitalistico. Marx, invece, tenta di spiegare direttamente questa teleologia storica oggettiva come sviluppo delle ‘forze produttive’. Subito dopo il passo citato, significativamente, se ne colloca infatti un altro estremamente importante, nel quale Marx ridefinisce lo sviluppo delle ‘forze produttive’, dilatandone il significato, come sviluppo storico delle potenzialità soggettive del produttore. Esprimendo in altri termini un concetto già precedentemente evidenziato, Marx afferma: “L’unità originaria tra la particolare forma di comunità (organizzazione tribale) e la connessa forma di proprietà della natura, o rapporto con le condizioni oggettive della produzione in quanto esistenza naturale, in quanto esistenza oggettiva del singolo mediata dalla comunità – quest’unità, che da un lato si presenta come la particolare forma di proprietà, ha la sua realtà vivente in un determinato modo di produzione […]”. Fin qui, nulla di nuovo: l’unità rappresentata dalla proprietà, che sintetizza forma della comunità e rapporto specifico del membro della comunità con le condizioni oggettive del lavoro (con la terra), un’unità puramente astratta, ha la sua realtà vivente nell’appropriazione reale, nel modo di produzione concreto. Ma, sottolinea Marx proseguendo il passo citato, la duplice natura della società e dell’individuo (rapporto comunità – individuo, e rapporto individuo – terra) che si unifica astrattamente nella forma di proprietà, fondendosi nel modo di produzione concreto, si conserva come sua distinzione organica interna. Questa unità concreta comunità – individuo – terra, “[…] ha la sua realtà vivente in un determinato modo di produzione stesso, un modo che”, scrive Marx completando il senso della propria affermazione, “si manifesta tanto come rapporto degli individui tra loro, quanto come loro determinato rapporto attivo con la natura inorganica, come determinato modo d lavoro (che è sempre lavoro familiare, spesso lavoro della comunità)” [50]. Il modo di produzione, quindi, non è soltanto modo di lavoro, ma costituzionalmente è modo di lavoro sociale (della famiglia o addirittura della comunità), che avviene in un contesto sociale preciso e da esso è reso possibile. Il modo di produzione, dunque, è l’unità organica del modo materiale di lavoro e dei rapporti sociali; gli stessi rapporti sociali, allora, possono e devono essere annoverati fra le forze produttive: “La comunità”, conclude Marx, “si presenta come la prima grande forza produttiva; per particolari tipi di condizioni di produzione (per esempio l’allevamento del bestiame, l’agricoltura), si sviluppano particolari modi di produzione e particolari forze produttive, sia soggettive, presentandosi cioè come qualità degli individui, che oggettive”[51]. Le ‘forze produttive’, dunque, sono anche di carattere soggettivo; sono anche le qualità degli individui. Motore dello sviluppo storico, sembra concludere Marx, è anche lo sviluppo delle qualità degli individui. La disgregazione della comunità originaria, può essere ed è parimenti sviluppo delle ‘forze produttive’, nella misura in cui, soggettivamente, consiste nello sviluppo di nuove e superiori qualità individuali. Proprio sulla base di questa ridefinizione del concetto di ‘forze produttive’ – sulla base cioè dell’accento ora radicalmente dominante sul fatto che fra le forze produttive rientrano, attraverso la mediazione della struttura sociale, la soggettività dell’individuo, le sue capacità e le sue qualità soggettive –, Marx tenta di spiegare le precedenti constatazioni morfologiche relative alla serie asiatico – antico – germanico (feudale) ed al progresso dell’isolamento dell’individuo e della disgregazione della comunità. Lo sviluppo delle capacità individuali deve raggiungere la sua completezza nel comunismo. La serie storica che precede come direttrice essenziale dello sviluppo storico il modo di produzione capitalistico, in tal senso, si integra e completa nella successione che riassume il processo storico complessivo (che, cioè, rappresenta l’essenza dello sviluppo storico universale – passato, presente e futuro): primitivo (nomade) – asiatico – antico – germanico (feudale) – moderno (borghese) – comunistico. È questa serie storica complessiva che fornisce, in definitiva, la vera giustificazione della successione storica essenziale delle forme precapitalistiche. Le forme sociali precapitalistiche, infatti, soccombono una dopo l’altra, perché al loro interno fondamentalmente non vi è posto per “uno sviluppo libero e completo né dell’individuo, né della società, giacché un tale sviluppo è in contraddizione con il rapporto originario”[52]. Il progresso della loro successione consiste, quindi, in una serie di tappe che, attraverso la lenta dissoluzione del gregarismo comunitario originario e l’inesorabile isolamento sociale dell’uomo, creano nuove capacità umane, e pongono così i presupposti tanto per il capitalismo che per una nuova esistenza universale dell’individuo, in modo tale che “nel momento stesso in cui egli in quanto individuo isolato si riferisce ormai solamente a se stesso, i mezzi per porsi come individuo isolato sono diventati il suo processo di trasformazione in senso universale e comunitario”[53]. A questo punto, tuttavia, la serie teleologica asiatico – antico – germanico, che doveva essere spiegata dallo sviluppo delle forze produttive, sembra invece diventarne la spiegazione. Il concetto di forze produttive, infatti, slitta esso stesso sul piano della teleologia storica di unione – scissione – unione di scissione ed unione, nella misura in cui le forze produttive sono essenzialmente definite, come forze produttive umano-soggettive, sulla base di questa medesima dialettica. Si avvede Marx di questo circolo vizioso? Il prosieguo delle Formen risolve o almeno argina questa contraddizione? Prima di provare a rispondere a queste domande, è necessario chiarirne ulteriormente il senso, anche facendo riferimento all’interpretazione delle Formen più diffusa in ambito marxista (e provando a metterne in luce l’insufficienza). § 3. La prima parte delle Formen: il problema delle forme sociali precapitalistiche e della loro dissoluzione storica. Critica § 3.1. L’interpretazione delle Formen di Hobsbawm. L’ipotesi di un metodo ‘empirico-teleologico’ come matrice dell’indagine marxiana Un ruolo particolarmente importante, anche in relazione allo sforzo di rettificare gli aspetti dogmatici della concezione della storia marxista fatto proprio da diversi studiosi della seconda metà del ‘900, è stato rivestito dall’interpretazione delle Formen proposta da Eric Hobsbawm. L’introduzione di Hobsbawm all’edizione inglese delle Formen del 1964[54], che si può considerare frutto dell’ampio dibattito sulle forme di produzione precapitalistiche che trovò spazio sulle pagine della rivista Marxism today fra il luglio del 1961 e il settembre del 1962, costituisce in tal senso un vero e proprio ‘classico’. Hobsbawm, nella sua Introduzione, prende esplicitamente le mosse dalla formulazione marxiana del problema delle forme precapitalistiche e dello sviluppo storico complessivo presente nella Vorrede a Zur Kritik der politischen Ökonomie (1859). La successione dei modi di produzione, in un celebre passo di questo scritto marxiano che l’autore anglosassone non manca di citare, è sinteticamente riassunta nei seguenti termini: “[…] A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società”[55]. Nella sua Introduzione, Hobsbawm si arrovella intorno al modo ed al senso in cui, nelle Formen, Marx ‘distilla’ questa successione di modi di produzione, e più in generale l’idea di progresso che ad essa, palesemente, è legata. Secondo le conclusioni cui sembra giungere Hobsbawm, nelle Formen, il processo storico complessivo viene individuato, nella sua linea direttrice, attraverso la precisa successione dei modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese, solo nella misura in cui Marx si avvale coscientemente di una prospettiva di carattere estremamente generale ed astratto. 1) A parere di Hobsbawm, infatti, nelle Formen l’intero processo storico astrattamente è considerato come una successione di modi di produzione, ma questa successione non segue un ordine cronologico preciso. Scrive Hobsbawm: “Sebbene particolari formazioni economico-sociali, le quali rispecchiano particolari fasi di questa evoluzione, siano molto importanti, è piuttosto l’intero processo, lungo l’arco dei secoli e nelle dimensioni continentali, che Marx pensa. Pertanto lo schema dell’opera è cronologico solo nel senso più generale, e i problemi, per esempio, della transizione da una fase all’altra non interessano particolarmente Marx, tranne nella misura in cui servono a chiarire le trasformazioni di lunga portata”[56]. E, alcune pagine dopo, lo studioso anglosassone ribadisce: “Dobbiamo quindi intendere che Marx non abbia voluto riferirsi a una successione cronologica, o anche all’evoluzione di un sistema da quello che lo ha preceduto […], ma all’evoluzione nel senso più generale”[57]. 2) Nel quadro della trattazione delle Formen, secondo Hobsbawm, il livello storico raggiunto da una formazione economio-sociale data, e quindi la sua posizione all’interno della successione fondamentale dei sistemi asiatico, antico, feudale e borghese, semplicemente, risultano essere determinati dalla distanza dalla stato primitivo. Secondo Hobsbawm, infatti, con questa successione: “[Marx] Si limita a constatare che ognuno di questi sistemi è, nei suoi aspetti fondamentali, sempre più distante dallo stato primitivo dell’uomo”[58]. 3) Il concetto di ‘distanza dallo stato primitivo’ inteso come livello di sviluppo delle forze produttive e di progresso raggiunto dalla forma sociale determinata, è precisato da Hobsbawm attraverso la definizione della specifica predisposizione, propria dei singoli modi di produzione, al progresso delle forze produttive ed al mutamento storico-sociale. Questa predisposizione, ovverosia la capacità di implementare le forze produttive – la sua assenza o il diverso grado della sua presenza –, determinano, secondo Hobsbawm, non solo il carattere più o meno progressivo della formazione sociale determinata, ma anche la sua natura più o meno progredita, la sua distanza dallo stato primitivo: “Una distinzione importante tra tali forme [asiatica, antica, feudale, borghese] è quella storicamente fondamentale tra sistemi che resistono e sistemi che favoriscono l’evoluzione storica”[59]. 4) Approfondendo ulteriormente questa sua interpretazione, Hobsbawm infine sembra mettere in evidenza la presenza, nelle Formen, di un preciso procedimento di ricerca telologico-ricostruttivo (sebbene l’autore anglosassone, forse anche per non offrire il fianco ad accuse di ‘revisionismo’ non usi mai, in nessun modo, il temine ‘teleologia’). Marx, a parere di Hobsbawm, segue un metodo di ricerca e di sintesi storica orientato fin dall’inizio pressoché unicamente, alla spiegazione del capitalismo. La ricostruzione della successione fondamentale dei modi di produzione storicamente determinati, cioè, costituisce una serie in cui il capitalismo, in quanto ultimo estremo storicamente dato, ed in quanto, al tempo stesso, formazione economico-sociale la quale storicamente esprime indubbiamente il massimo livello ed impulso progressivo delle forze produttive, viene assunto come presupposto. Il capitalismo, quindi, è volutamente fissato da Marx come punto cardinale d’orientamento della ricerca storica, attraverso il quale ricostruire e ridiscendere la serie dei modi di produzione determinati che lo hanno preceduto, senza con ciò essere pensato come il fine reale ed immanente dello sviluppo storico dell’umanità nel suo complesso, e senza che le tappe della successione asiatico, antico, feudale e moderno vengano quindi concepite come gradini precostituiti di una scala che ogni sviluppo storico determinato deve ascendere. “La teoria generale del materialismo storico”, scrive Hobsbawm, “è fondata soltanto sull’esistenza di una successione di modi di produzione, ma non necessariamente di particolari modi, e forse nemmeno di un ordine particolare predeterminato. Osservando il quadro storico effettivo, Marx pensò di poter individuare un certo numero di formazioni economico-sociali e un determinato ordine di successione. […] È generalmente riconosciuto che le osservazioni di Marx ed Engels sulle epoche pre-capitalistiche sono basate su uno studio molto meno approfondito di quanto non siano fondati lo studio e l’analisi marxiana del capitalismo. Marx concentrò tutte le sue energie sullo studio del capitalismo, e si occupò delle altre epoche storiche in varia misura, ma essenzialmente nella misura in cui avevano un rapporto con le origini e con lo sviluppo del capitalismo”[60]. Nelle Formen, in tal senso, la distanza crescente dallo stato primitivo viene a coincidere, nel marcare il progresso della società, con la crescente vicinanza alla forma sociale borghese. Infatti Marx “non si propone di tracciare una ‘storia economica’” delle forme precapitalistiche: “egli non si interessa della dinamica interna dei singoli sistemi precapitalistici, tranne nella misura in cui essa spiega i presupposti del capitalismo”[61]. Traendo da questa sua lettura delle Formen importanti conclusioni in relazione alla questione del senso e della validità della teoria marxista, e parimenti alla questione del carattere complessivo dello sviluppo storico, Hobsbawm, in merito al concetto e alla necessità del ‘progresso’, scrive: “L’affermazione che le formazioni asiatica, antica, feudale, e borghese sono ‘progressive’ non implica quindi una concezione semplicemente unilineare della storia, né la concezione semplicistica che tutta la storia sia progresso”[62]. Sulla base delle Formen, pertanto, l’autore anglosassone crede di poter rintracciare i più saldi e profondi presupposti della concezione marxiana della storia, e di poter respingere, qualificandole come sue distorsioni ideologiche, le teorizzazioni piattamente ‘unilineari’ proprie del marxismo dottrinario, il quale all’opposto, secondo Hobsbawm, “riduce le principali formazioni economico-sociali ad un’unica scala che tutte le società umane ascendono gradino a gradino, ma con diversa velocità, così come tutte alla fine giungono al vertice”[63]. La lettura ‘debole’ delle Formen tentata da Hobsbawm, dunque, sembra voler indicare nel testo marxiano un modello di ricerca e di sintesi storica, individuandovi un metodo di ricostruzione storica che si potrebbe definire, considerando i due aspetti fondamentali che l’autore anglosassone pone in risalto, ‘empirico-teleologico’. Secondo Hobsbawm, il processo storico complessivo – con le sue regressioni apparenti e reali, con le sue variazioni casuali, con gli scontri violenti fra le diverse formazioni sociali o al loro interno, con le negazioni e i rovesciamenti dei rapporti sociali, ecc. – viene studiato da Marx sulla base del riscontro empirico del livello di sviluppo delle forze produttive. Gli stadi che così possono essere individuati, non corrispondono ai gradini di un’unica successione progressiva, non si inseriscono in un’unica linea evolutiva e quindi, a livello temporale, non si succedono in senso stretto; ma rappresentano comunque, nella misura in cui esprimono il grado oggettivo della capacità sociale di modificare la natura ai fini del soddisfacimento dei bisogni umani, l’aspetto centrale e la linea storica essenziale entro lo sviluppo complesso e variegato rappresentato dalla storia della società nel suo insieme. Nelle Formen, secondo Hobsbawm, solo la constatazione empirica del progresso delle forze produttive permette di identificare la serie storica asiatico – antico – germanico (feudale). Ma il livello delle forze produttive, e il grado di sviluppo rappresentato dalla loro conformazione, possono essere constatati empiricamente soltanto nella misura in cui sono messi in relazione ad un punto di riferimento determinato. Questo punto di riferimento, secondo quanto, a parere di Hobsbawm, risulta dalle Formen, è quello espresso dalla realtà attuale del capitale. Il capitale, infatti, da un lato è la formazione economico-sociale che in modo (empiricamente) evidente è veicolo di un incremento delle forze produttive che supera in termini quantitativi e qualitativi quello rappresentato da tutti gli altri modi di produzione; dall’altro, storicamente, sopprime di fatto, materialmente, tutti gli altri modi di produzione. Perciò, secondo Hobsbawm, la ricostruzione degli stadi storici che marcano il progresso delle forze produttive non avviene sulla base di un esame storico dettagliato dei loro meccanismi interni di trasformazione, ma viene coscientemente svolta da Marx solo a posteriori, solo tramite l’esame della conformazione sociale capitalistica della produzione e della società, conformazione che viene posta nella sua attualità come termine fisso di confronto, unità di misura, e parimenti culmine del processo storico, ‘come se’ fosse il fine del processo storico. Questo metodo ‘empirico’ e parimenti ‘teleologico’ – secondo l’ossimoro attraverso il quale abbiamo condensato l’interpretazione datane da Hobsbawm –, secondo l’autore anglosassone costituisce il perno non soltanto dell’indagine delle forme sociali precapitalistiche svolta nelle Formen ma anche, più in generale, dell’idea marxiana di progresso e della ‘vera’ concezione della storia di Marx[64]. D’altro canto Hobsbawm, fin dall’inizio del suo saggio, si interroga su quale contenuto corrisponda a questo metodo marxiano di ricostruzione storica. Su quale meccanismo di sviluppo sociale viene a basarsi, nella visione marxiana, il processo storico reale che genera e include come sue parti le diverse epoche storiche? Rispondendo a questa domanda, e focalizzando la propria attenzione abbastanza chiaramente, anche se indirettamente, su uno dei principali problemi teorici entro i quali si dibattono le Formen, Hobsbawm scrive: “Marx, come nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica, si pone qui [nelle Formen] il problema di individuare il meccanismo di ogni mutamento sociale: la formazione di rapporti sociali e di produzione che corrispondano ad una determinata fase di sviluppo delle forze produttive materiali”[65]. Secondo Hobsbawm quindi, anche nelle Formen Marx si interroga su quale sia il comune denominatore di ogni situazione ed epoca storico-sociale, e, quindi, su quale sia il meccanismo vivo operante in ogni linea ed in ogni stadio storico. In altre parole: quale nesso accomuna, e lega concretamente una all’altra, le diverse forme sociali? Quali sono il senso e la direzione dell’intero processo storico? Quale logica soggiace al movimento storico complessivo? In generale nei Grundrisse, come abbiamo già messo ripetutamente in evidenza, Marx conserva, pur trasformandone l’idea in senso multilineare-unidirezionale, il principio per cui il meccanismo fondamentale dell’evoluzione storica consiste nello sviluppo delle forze produttive. Condensato da Marx, subito dopo la stesura dei Grundrisse, nella celebre Prefazione a Per la critica dell’economia politica, questo principio viene riassunto e dichiarato in una forma assolutamente inequivocabile: “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura”[66]. Dal canto suo, Hobsbawm non fa altro che ammettere che il medesimo principio generale delineato nell’Ideologia tedesca ed il medesimo concetto di forze produttive e rapporti di produzione sintetizzato nel famoso passo della Vorrede del ’59 – cui lo stesso studioso anglosassone si richiama –, vengano assunti come contenuto proprio di ogni epoca sociale, e come presupposto fondamentale dell’indagine storica, anche nelle Formen[67]. La peculiarità delle Formen sarebbe invece dovuta, secondo Hobsbawm, alla prospettiva molto astratta attraverso la quale, in questo testo, vengono sviluppate le riflessioni storiche marxiane. In definitiva, le Formen mostrerebbero come, pur nella multiformità e multilinearità del corso storico, sia a grandi linee rintracciabile la lunga mano del progresso delle forze produttive, senza però che la trattazione si addentri nel modo specifico in cui, questa logica o contenuto generale, si esprimono nei singoli modi di produzione. La peculiarità delle Formen, quindi, consisterebbe in uno sviluppo della concezione marxiana della storia da un punto di vista estremamente generale, con una preoccupazione prevalentemente rivolta dell’aspetto ‘complessivo’ del progresso delle forze produttive ed una ridiscesa solo molto sommaria alle forme sociali determinate che lo rappresentano storicamente. In questo senso Marx tralascerebbe il meccanismo immanente che porta alla transizione da un singolo sistema sociale all’altro, e adotterebbe un campo lungo, prediligendo una vasta panoramica della storia, e prescindendo invece dalla dinamica delle singole formazioni economico sociali. Il contenuto fondamentale del processo storico, quindi, rimarrebbe come un’ipotesi di fondo, e fungerebbe da puro presupposto per una ricerca storica fondamentalmente di tipo ricostruttivo e strutturale. Questo tipo di lettura delle Formen e del rapporto fra teleologia (metodo ricostruttivo) e sviluppo sociale reale (contenuto presupposto del progresso necessario delle forze produttive), sotto molti aspetti diventata ‘classica’ in ambito marxista (e riproposta sotto diretta o indiretta influenza di Hobsbawm anche in alcuni fra gli studi più attuali)[68], però, sembra eludere alcune questioni fondamentali. § 3.2. Il problema dei passaggi epocali fra le forme precapitalistiche fondamentali: quale ‘meccanismo’ del divenire storico? I limiti che l’analisi delle Formen proposta da Hobsbawm sconta, ci sembra, sono in buona parte riconducibili all’inclinazione a leggere le Formen (ed i Grundrisse nel loro insieme) come un saggio dalla forma involuta ma fondamentalmente coerente, sia in sé stesso, sia in relazione alla teoria della storia di Marx considerata nel suo complesso[69]. Nell’Introduzione infatti, Hobsbawm, tende principalmente a considerare i tratti di continuità nel processo di definizione, da parte di Marx, della propria interpretazione materialistica dello sviluppo storico: la teoria della storia di Marx, come minimo dall’Ideologia tedesca in poi[70], risulterebbe in tal senso costituire un sistema di pensiero coeso. Proprio questa impostazione di fondo sembra impedire ad Hobsbawm di sviluppare alcune sue incisive osservazioni che, traendone invece fino in fondo le conseguenze, parrebbero al contrario poter dimostrare, non soltanto che, attraverso il testo delle Formen, come annota perspicacemente Hobsbawm, “il lettore può seguire Marx mentre sta pensando”[71]; ma anche che questo pensiero, nella forma fluida assunta nelle Formen, pone in divenire in sé stesso un dramma teorico che si sviluppa in una vera e propria crisi della rielaborazione dialettica del materialismo storico. L’interpretazione delle Formen come processo teorico di distillazione di un metodo ‘empirico-teleologico’, considerando la successione asiatico – antico – germanico solamente come una serie di presupposti individuati ed ordinati ‘metodologicamente’ a partire dalla logica attuale del modo di produzione presente, misconosce lo sforzo marxiano di indagare questa serie nel suo reale dispiegamento storico – in particolare attraverso lo studio di Roma antica. La successione individuata, infatti, assume un senso oggettivamente centrale nello sviluppo storico reale. Almeno fino all’avvento del capitale, le linee storiche sono molteplici e lo sviluppo delle forze produttive procede in modo differenziato. La successione asiatico – antico – germanico, così come concretamente si delinea in Europa, è solamente una di queste linee, cui si può risalire in base ai suoi ultimi risultati; ma, al contempo, è la direttrice fondamentale del processo storico precapitalistico. Infatti, conducendo (come graduale isolamento dell’individuo che prepara l’avvento dell’epoca moderna) al capitale – che secondo Marx è oggettivamente una tappa essenziale del processo storico complessivo –, è essa stessa un segmento essenziale di questo processo storico universale. Dunque, occorre soffermarsi con grande attenzione sul problema dei passaggi storici che scandiscono questa successione – perché questo problema anima dall’interno le Formen. Quale logica stringe i nessi che intercorrono fra le formazioni economico-sociali precapitalistiche nella cui serie Marx individua il progresso storico che precede l’avvento del capitale? 1) Il sistema sociale asiatico rimane invariato fino all’epoca contemporanea[72]. Nelle Formen, diversi passi alludono esplicitamente a questa durevolezza della società orientale. In relazione all’evoluzione economica del modo di produzione asiatico, in primo luogo, solo in situazioni localmente e storicamente determinate esso è indotto a trasformarsi, ed il villaggio asiatico diviene città antica (la terra difficilmente sfruttabile, le migrazioni, il contatto e lo scontro con altre popolazioni, sono le circostanze che, a parere di Marx, consentono tale metamorfosi sociale); in secondo luogo e conseguentemente, questa evoluzione economica non è il prodotto puro del sistema orientale come tale; ovverosia non è frutto, semplicemente, della sua logica immanente ed universale, ma dell’azione e dell’influenza su di essa di determinati fattori estrinseci, coercitivi, che la costringono a modificarsi in modo sostanziale (difficoltà nel valorizzare la terra, emigrazione, guerre) e che, per così dire, spezzano il carattere puramente naturale della tribù[73]. In relazione alla disgregazione della comunità in generale, inoltre, fra tutte le formazioni economico-sociali precapitalistiche la più inattaccabile è proprio la società orientale: “La più tenace e duratura è necessariamente la forma asiatica. Ciò è implicito nella sua premessa; ossia nel fatto che il singolo non diviene autonomo nei confronti della comunità, che la sfera della produzione è self-sustaining, che l’agricoltura è unita nella manifattura, ecc.”[74]. Il modo di produzione asiatico è caratterizzato dall’unità compatta di manifattura e agricoltura all’interno dell’economia di villaggio; questa struttura rende pressoché impossibile il divenire storico come prodotto della trasformazione sociale interna, ed in particolare rende impossibile la perdita della proprietà da parte del singolo: “Nella forma orientale questa perdita è quasi impossibile tranne che per influssi completamente esterni, in quanto il singolo membro della comunità non entra mai con essa in un rapporto libero, in virtù del quale egli possa perdere il suo legame (oggettivo, economico con essa). Egli ha salde radici. Ciò è dovuto anche all’unificazione di manifattura e agricoltura, di città (villaggio) e campagna”[75]. Del resto, non soltanto la dinamica interna del sistema asiatico, in sé, non crea i presupposti della disgregazione della comunità; ma neanche questa dinamica, per se stessa, viene a produrre un movimento verso l’esterno tale da indurre una modifica radicale della base e economica della società, e da ingenerarne la dissoluzione. Guerra e schiavitù, infatti, mentre rappresentano sotto forma di movimento verso l’esterno la logica immanente della società antica classica che crea progressivamente i presupposti della sua dissoluzione, non esprimono il carattere sostanziale del modo di produzione asiatico: “È nella forma asiatica che questo può avvenire di meno. Nell’unità autosufficiente di manifattura e agricoltura su cui poggia questa forma, la conquista non è una condizione necessaria come là dove domina esclusivamente la proprietà fondiaria, l’agricoltura. D’altra parte, poiché il singolo non diviene mai, in questa forma proprietario, ma solo possessore, egli stesso è au fond la proprietà, lo schiavo di colui [nel] quale esiste l’unità della comunità, e la schiavitù in questo caso non elimina le condizioni del lavoro, né modifica il rapporto sostanziale”[76]. Se si considera la sua struttura della forma sociale asiatica, quindi, né la trasformazione in forma antica, né la disgregazione come tale, sono in assoluto necessarie[77]. 2) La forma sociale antica classica, così come è delineata nelle Formen, non conduce in modo necessario, al feudalesimo. Nel testo marxiano vengono sottolineati principalmente i fattori della disgregazione della forma di comunità rappresentata dalla società antica classica[78]; ma, in definitiva, il passaggio dalla forma antica classica a quella feudale (germanica), non appare come una necessità storica universale[79]. Questa impostazione di fondo del rapporto fra antico e feudale trova il riscontro più evidente nella sottolineatura da parte di Marx del carattere originario della forma germanica[80], e nella definizione del Medioevo come periodo germanico della storia europea[81]. In tal senso, nelle Formen, viene marcato l’accento proprio sul carattere non intrinsecamente necessario alla forma antica, del suo trapasso in forma germanica. Dunque, il carattere dei singoli passaggi che compongono la successione asiatico – antico – moderno, appare in relazione alla dinamica sociale interna dei rispettivi sistemi tutt’altro che necessario. Ora, alla luce di questo carattere non-necessario dei passaggi epocali fra le formazioni economico-sociali che costituiscono la direttrice essenziale dello sviluppo storico precapitalistico, si impone un quesito ineludibile: fino a che punto l’adozione del modello hegeliano della dialettica storica di unione immediata o dominio dell’universale sul singolare (comunismo primitivo e forma sociale asiatica) – scissione della particolarità e posizione della singolarità e universalità astratte (antico-germanico-moderno) – nuova unione (comunismo moderno come posizione della libera individualità sociale) riesce a mantenere come proprio contenuto e fondamento generale della storia lo sviluppo delle forze produttive materiali? § 3.3. Il limite estremo della rielaborazione dialettica (multilineare-unidirezionale) del materialismo storico Come conseguenza della complessità e della specificità che nelle Formen assumono le singole formazioni sociali che compongono la direttrice fondamentale dello sviluppo storico precapitalistico, la ricomposizione fra il contenuto materialistico presupposto (progresso necessario delle forze produttive materiali come motore della trasformazione storica della società) ed il contenuto specifico di queste formazioni economico-sociali (forze produttive sociali storicamente determinate, logica specifica del modo di produzione specifico), inanellate nello schema logico hegeliano di universale (comunità primitiva) – particolare (graduale scissione fino al mondo moderno) individuale (comunismo), incontra serissimi ostacoli, che pregiudicano in definitiva la stessa relazione fra il presupposto materialistico e la sua compiuta rielaborazione dialettica. Ne deriva un’ambiguità ed una sensibile divaricazione teorica entro il concetto di ‘forze produttive’. Due possibili significati di questo concetto, nel testo marxiano, sembrano sovrapporsi nell’uso, e contemporaneamente separarsi irrimediabilmente nel significato. 1) Un significato possibile – e ben preciso – di ‘forze produttive’, è quello originariamente fissato nell’Ideologia tedesca, che ne riferisce il progresso all’incremento materiale della capacità socialmente determinata di trasformazione utile della natura. Forze produttive sono allora la produttività naturale della terra, le capacità tecniche, la popolazione, ecc., così come si strutturano in un contesto ambientale e sociale determinato (naturalmente e storicamente determinato). Parafrasando il modo canonico si esprimersi, ad un determinato grado del loro sviluppo queste forze produttive entrano in contraddizione con le forme di proprietà ed i rapporti di produzione che ne sono stati vettore, e li rivoluzionano, generando una nuova formazione economico-sociale. Tuttavia, non in tutte le formazioni sociali che compongono la direttrice fondamentale dello sviluppo precapitalistico sembra riscontrabile un progresso delle forze produttive storicamente rilevante, ossia capace di trasformare qualitativamente la stessa formazione sociale. Né, per queste formazioni sociali, si può parlare di un progresso delle forze produttive strutturalmente necessario, risultando esso di sovente legato ad una molteplicità di fattori locali o casuali, di origine naturale o di carattere storico (concernenti il rapporto fra diverse comunità), che ne determinano aleatoriamente la possibilità. Non in tutte queste formazioni sociali, infine e conseguentemente, lo sviluppo delle forze produttive ha risultati necessariamente progressivi; al contrario esso dà luogo, in molti casi storici, ad esiti regressivi o autodistruttivi. Ad una lettura attenta delle Formen le difficoltà in cui si incespica, seguendo rigorosamente il criterio materialistico dello sviluppo delle forze produttive socialmente determinate sono del tutto evidenti e, se si prendono in considerazione i passaggi fra le formazioni storico-sociali fondamentali – così come direttamente vi accenna Marx o così come sono ricostruibili comparando fra loro i modelli di queste formazioni –, appaiono assolutamente insolubili. 2) D’altro canto, appoggiandosi al fatto che la strutturazione dei rapporti sociali stessa può e deve essere vista come una forza produttiva, Marx prospetta una diversa definizione delle ‘forze produttive’, che ne determina una estensione concettuale rilevante, e capace, almeno provvisoriamente, di risolvere il problema della spiegazione, sulla base di un progresso necessario delle forze produttive, della successione fondamentale delle epoche sociali precapitalistiche. Quando, verso la fine della prima parte delle Formen, Marx si richiama al progresso delle forze produttive, significativamente, lo fa nei seguenti termini: “Tutte le forme (più o meno naturali, ma tutte al tempo stesso anche risultati di un processo storico) […] corrispondono necessariamente solo ad uno sviluppo limitato, e limitato in linea di principio, delle forze produttive. Lo sviluppo delle forze produttive le dissolve e la loro dissoluzione si risolve in uno sviluppo delle forze produttive umane. Si lavora dapprima su una certa base – soltanto naturale – poi su un presupposto storico. Poi però questa base o presupposto viene esso stesso soppresso, o si pone come un presupposto che tende a scomparire, che è divenuto angusto per la massa umana che progredisce”[82]. Ora, Marx usa i termini ‘forze produttive umane’ e ‘massa umana che progredisce’. La strutturazione della società, nel momento in cui sviluppa nuove potenzialità di espansione delle forze produttive materiali, nuove capacità umane anche solo in potenza, rappresenta già in questa visione un progresso delle forze produttive umane, benché questo progresso non sia marcato da un immediato progresso delle forze produttive materiali che corrispondono alla formazione sociale determinata. Lo sviluppo delle forze produttive quindi non è il motore interno del progresso storico ma, in termini più astratti, la sua logica universale, che viene a compendiarsi non tanto o non soltanto nei fattori obiettivi ed empiricamente constatabili della divisione oggettiva del lavoro e dell’aumento reale della capacità produttiva, ma invece nella tendenza generale all’isolamento dell’individuo e nella dissoluzione della comunità come elementi che pongono la possibilità e la potenzialità dell’incremento qualitativo delle capacità produttive materiali e del dispiegamento tendenzialmente universale delle forze produttive materiali (che si attuano solo con la modernità). Ma questa dilatazione estrema del concetto di forze produttive sembra ora, anziché spiegare l’isolamento graduale dell’individuo, dipenderne nella stessa definizione e determinazione, venendo ad assumere una posizione subordinata rispetto allo schema di matrice hegeliana di universale – particolare – individuale. Riassumendo, l’incremento delle forze produttive come motore dello sviluppo storico-sociale, principio fissato nell’Ideologia tedesca, rimane il presupposto fondamentale dei Grundrisse, che tentano di svilupparne il concetto in senso multilineare e unidirezionale, avvalendosi ampiamente della dialettica hegeliana. Le forze produttive si conglomerano in formazioni economico-sociali specificamente distinte, e procedono lungo linee separate, relativamente o del tutto autonome; essenzialmente, però, è possibile individuarne delle grandi fasi di sviluppo in relazione al rapporto fra l’individuo e la società (universale – particolare – individuale). Ma se questo è vero, parimenti è possibile un incanalamento essenziale delle forze produttive verso una meta finale (il comunismo), attraverso una strettoia preliminare (il capitalismo). Conseguentemente è anche possibile individuare una direttrice fondamentale dello sviluppo storico, che include la successione di stadi sociali che in Europa occidentale prepara la moderna società capitalistica. Questa rielaborazione dialettica del materialismo storico, nella prima parte delle Formen, giunge però al suo estremo teorico. Identificata la serie asiatico – antico – germanico come la direttrice fondamentale dello sviluppo sociale precapitalistico, bisognerebbe ammettere, secondo il presupposto materialistico iniziale, che essa sia scandita nelle sue tappe da un progresso delle forze produttive. Ma, se si considerano le forze produttive materiali, i nessi fra le formazioni economico-sociali determinate che compongono la direttrice precapitalistica non sembrano riconducibili al loro sviluppo[83]. Se invece si vogliono considerare le forze produttive nell’ambigua sembianza di ‘forze produttive umane’ e fra di esse viene fatto rientrare il graduale isolamento sociale dell’individuo nel suo primordiale porsi storico, allora sfuma la definizione stessa delle forze produttive, e con esse del materialismo storico. Il loro progresso viene infatti a coincidere nella sua stessa ragion d’essere e definizione con un segmento (scissione e porsi della singolarità astratta) della dialettica hegeliana di universale – particolare – individuale (la quale invece, negli intenti iniziali, doveva servire come tale solamente per descriverne e sintetizzarne gli stadi generali di sviluppo), senza che materialisticamente il progresso stesso delle forze produttive possa spiegare i nessi fra le varie formazioni economico-sociali così inanellate. Pertanto, la rielaborazione dialettica del materialismo storico sembra ingenerarvi un circolo vizioso – una contraddizione teorica –, e causare una potenziale fuoriuscita dalla sua struttura filosofica. Il presupposto fondamentale del materialismo storico, fissato nell’Ideologia tedesca, che la società umana debba essere studiata nel suo “processo di sviluppo reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate”[84], non sembra infatti più poter essere applicato alla direttrice fondamentale del processo storico dialetticamente definito. Il senso della storia, pertanto, sembra cadere al di fuori dell’orizzonte teorico materialistico iniziale. Spinta la concettualizzazione dialettica del materialismo storico fino a questi estremi, esso raggiunge in questa prima parte delle Formen il suo ‘punto critico’. La teleologia hegeliana penetrando a fondo nel concetto stesso di ‘forze produttive’, ne determina infatti una flessione idealistica non trascurabile. Lo scacco teorico sotto il quale viene a trovarsi il materialismo storico come tale, d’altro canto, è intuito dallo stesso Marx, ed ha delle conseguenze estremamente rilevanti nella seconda parte delle Formen. § 4. La seconda parte delle Formen: il problema dell’accumulazione originaria. Esposizione sistematica e critica La seconda parte delle Formen, non soltanto si distingue dalla prima per il proprio contenuto particolare (essa è prevalentemente dedicata all’investigazione dell’accumulazione originaria del capitale – ovvero al problema della formazione originaria del modo di produzione capitalistico –, ed al ruolo che in essa riveste il patrimonio monetario), ma per molti aspetti anche per i propri presupposti generali, ossia in relazione alla concezione della storia. Prende corpo, in primo luogo, una drastica correzione dei risultati estremi cui conduceva la prima parte delle Formen, ed un tentativo di ridefinizione dell’analisi del processo storico precapitalistico in relazione allo sviluppo delle forze produttive materiali. D’altro canto, nello svolgimento conseguente ed ulteriore di questa rettifica si profilano anche gli elementi di una crisi dell’intera concettualizzazione dialettica del materialismo storico; elementi che si possono cogliere seguendo con pazienza l’andamento del testo marxiano. I problemi inerenti la concezione dello sviluppo storico complessivo, nella seconda parte delle Formen, vengono per così dire a condensarsi e manifestarsi in e attraverso la questione specifica della genesi storica del capitale. Nella prima parte delle Formen, i presupposti logici attuali del capitale – la non-proprietà dei mezzi di produzione da parte del lavoratore e l’isolamento sociale dell’individuo –, benché non siano affatto coincidenti con il fine ultimo della storia, non soltanto vengono oggettivamente ad esserne considerati un risultato necessario, ma nel loro stesso porsi storico si costituiscono anche come progresso delle forze produttive umane e quindi fine immanente allo sviluppo precapitalistico. Nella questione della formazione storica originaria del capitale come modo di produzione specificamente distinto dai precedenti, pertanto, vengono a catalizzarsi le contraddizioni dell’intera concezione marxiana della storia. Nella seconda parte delle Formen, proprio la preoccupazione da cui avevano preso le mosse la Einleitung ed i Grundrisse – di non fare della logica specifica del modo di produzione capitalistico la logica del processo storico complessivo –, con prepotenza si riafferma come motivo dominante e fulcro del ragionamento marxiano.. Però invece che portare alla dialettizzazione del materialismo storico, questa esigenza conduce ora ad esiti teorici opposti. Lo sviluppo delle forze produttive materiali – nella più stretta connessione della sua tematizzazione con lo sforzo teorico di marcare la specificità storica del capitale come modo di produzione rispetto alle epoche passate – sembra ridefinirsi in una forma tale da fuoriuscire dal quadro teorico precedente, e segnare la crisi della rielaborazione dialettica del materialismo storico tentata nei Grundrisse nel loro insieme. § 4.1. Il grado di sviluppo delle forze produttive materiali e la genesi del capitale La prima parte delle Formen è interrotta da Marx con un taglio netto. In definitiva, conclude Marx, il rapporto fra lavoro e capitale presuppone “un processo storico che dissolve le diverse forme in cui il lavoratore è proprietario o il proprietario lavora”[85]. Questo, per Marx, essenzialmente significa[86]: 1) dissoluzione del rapporto del produttore con la terra, e quindi dissoluzione della comunità tribale che funge da suo presupposto originario, e delle forme precapitalistiche di proprietà della terra che ne sono derivate 2) dissoluzione dei rapporti sociali corporativi in cui il produttore figura come proprietario dello strumento, e quindi dissoluzione dei rapporti sociali in cui il lavoro artigianale consiste in un’abilità particolare, in una tecnica e un’organizzazione di lavoro ereditate insieme allo strumento e dalle quali lo strumento per se stesso non è separabile[87] 3) dissoluzione dei rapporti in cui il produttore figura come proprietario del fondo di consumo, e quindi dissoluzione sia delle forme comunitarie che di quelle corporative 4) dissoluzione dei rapporti in cui il lavoratore figura come parte delle condizioni oggettive della produzione, e quindi dissoluzione dei rapporti di schiavitù e di servitù Con questo secco riassunto dei presupposti della forza-lavoro e del capitale, Marx interrompe l’analisi storica delle forme sociali precapitalistiche e del loro processo storico[88], tornando semplicemente a ripetere l’assunto iniziale dal quale tale analisi era partita: il rapporto di non-proprietà con i mezzi di produzione da parte del produttore è una condizione (logica e storica) sine qua non del capitale. I presupposti della non-proprietà, però, sono solo i presupposti negativi del capitale. A queste condizioni negative di esistenza, evidentemente, devono sposarsi delle condizioni ‘positive’ (storicamente basilari) del sorgere del capitale. Ora Marx, contro gli esiti idealistici della precedente analisi storica delle forme precapitalistiche, e per definire il carattere storicamente determinato del capitale e della sua logica specifica, esplicitamente torna ad appellarsi alle forze produttive materiali come motore dello sviluppo storico. Proprio il grado sufficientemente elevato dello sviluppo delle forze produttive materiali, infatti, viene indicato come la più essenziale fra le condizioni storiche ‘positive’ del sorgere del capitale. Le condizioni di esistenza della forza-lavoro, in definitiva, consistono nella non-proprietà da parte del produttore. Rimarcata questa constatazione, si conclude la prima parte delle Formen. “D’altro canto”, scrive Marx, “sorge il quesito: quali condizioni sono necessarie perché il lavoratore trovi di fronte a sé il capitale?”[89]. Con questa domanda, che affronta il secondo polo del problema del rapporto forza-lavoro – capitale, problema dal quale aveva preso le mosse la trattazione, inizia la seconda parte delle Formen. Subito dopo aver formulato così chiaramente questo quesito, in maniera solo apparentemente paradossale, Marx riesamina proprio il concetto di non-proprietà (elencando nuovamente i tipi di proprietà dei mezzi di produzione che devono essere ‘spezzati’ perché sia posto il capitale). Ora, però, tenta di svolgere questo tema intrecciandovi e sottendendovi un secondo ordine del discorso, relativo allo sviluppo del modo materiale di produzione, che diventa gradualmente il filo principale della trattazione. Marx infatti identifica, in relazione alle forme principali di proprietà, alcune situazioni storiche essenziali, che scandiscono sostanzialmente il progresso del modo materiale di produzione. La “proprietà della terra”, come proprietà della materia prima, dello strumento e dei mezzi di sussistenza, costituisce la “situazione storica n. I”[90]. La “proprietà del solo strumento” (e dei mezzi di sussistenza indispensabili per sopravvivere durante il compimento del processo si produzione[91]), secondo Marx, caratterizza la “condizione storica n. II”[92]. In questa seconda situazione storica, afferma Marx, “è già presupposto un secondo stadio storico accanto e al di fuori del primo, che deve presentarsi esso stesso già considerevolmente modificato, in virtù dell’autonomizzazione di questo secondo tipo di proprietà o di proprietario lavoratore. Poiché lo strumento stesso è già un prodotto del lavoro, sicché l’elemento che costituisce la proprietà si presenta già posto dal lavoro, la comunità non può più presentarsi nella sua forma naturale, come nel primo caso – la comunità su cui si basa questo tipo di proprietà –, ma come comunità già essa stessa prodotta, sorta, secondaria, già prodotta dal lavoratore”[93]. Dunque, nello “sviluppo urbano e artigiano del lavoro”[94], rettificando parzialmente la direzione che aveva assunto precedentemente la trattazione, Marx individua un progresso oggettivo del modo di produzione materiale, e sembra quasi volerlo fissare e ristabilire come saldo presupposto dello sviluppo storico che prepara l’avvento del capitale. Il grado, lo ‘stadio’ di sviluppo storico, ora, non è più demarcato attraverso l’ambigua definizione di un progresso delle forze produttive umane, ma invece attraverso la constatazione del progresso delle forze produttive materiali (ed in particolare del modo di lavoro artigiano); è questo progresso materiale che spiega e cui deve essere ricondotta la trasformazione della comunità ed in genere della forma di rapporti sociali[95]. Marx, in modo energico, ristabilisce questo solido presupposto di taglio materialistico. Ed i problemi relativi al processo di disgregazione della comunità? In proposito, Marx descrive una “terza forma possibile”[96], che affianca le situazioni storiche n. I e n. II: quella in cui il produttore è in rapporto di proprietà unicamente con i mezzi di sussistenza; questa “è au fond la formula della schiavitù e della servitù della gleba”[97]. Anche questo tipo di ‘proprietà’, come visto, deve essere dissolto perché il capitale possa affermarsi come modo di produzione; Marx si concentra tuttavia sul rapporto di questa terza forma ‘possibile’ con i due stadi storici attraverso i quali ha compendiato lo sviluppo precapitalistico del modo di produzione materiale. Questa terza forma, a differenza dalle prime due, sembra non caratterizzarsi come stadio positivo dello sviluppo delle forze produttive materiali, bensì come forma negativa di dissoluzione che contribuisce alla disgregazione delle forme sociali che veicolano e sono legate al primo stadio storico. In merito alle forme primitive di proprietà, Marx scrive: “Queste forme sono sostanzialmente modificate quando il lavoro stesso viene posto fra le forme oggettive della produzione (servitù della gleba e schiavitù), per cui il carattere semplicemente affermativo di tutte le forme di proprietà raggruppabili sotto la numero I, va perduto e viene modificato. Esse contengono in sé stesse la schiavitù come possibilità e di conseguenza come loro negazione”[98]. I rapporti di signoria e servitù, ribadisce poche righe di seguito Marx, “[…] costituiscono il necessario fermento dello sviluppo e della decadenza di tutti i rapporti originari di proprietà e di produzione, nel momento stesso in cui ne esprimono la limitatezza”[99]. Quale relazione esiste, tuttavia, fra lo sviluppo delle forze produttive materiali attraverso i due stadi storici dell’appropriazione comunitaria della terra e del lavoro artigianale cittadino da una parte, e l’azione negativa, disgregante, cancerosa dell’appropriazione del produttore stesso come di una condizione della produzione? Come questo aspetto di fermentazione sociale si inserisce e collabora al processo di sviluppo delle forze produttive materiali? Forse avendo in mente tale problema, Marx riporta in sequenza tre passi, relativi allo sviluppo ed alla decadenza del mondo romano, tratti dalla Storia romana di Niebuhr, i quali illustrano altrettante connessioni dinamiche fra economia monetaria da una parte e schiavitù dall’altra, e delineano, quindi, i fondamenti della relazione fra questi due fenomeni storico-sociali. Gli estratti, per l’esattezza, si riferiscono ai seguenti aspetti: 1) Nell’antichità, lo sviluppo dei rapporti monetari – a Roma come al nord, in Grecia come in Asia – comporta direttamente lo sviluppo della schiavitù. La facoltà del debitore di vendere sé stesso al creditore, infatti, nell’antichità è universalmente riconosciuta; 2) Lo sviluppo dei rapporti monetari, d’altro canto, nella Roma di epoca augustea, comporta anche la riduzione progressiva del significato dell’appartenenza familiare, tribale e cittadina, la riduzione del significato del titolo di nobiltà, e quindi, affianco alla diffusione della schiavitù, la trasformazione tendenziale dei rapporti sociali in rapporti monetari, la divisione della società in ricchi e poveri, ed il venir meno di un significato univoco per la parola ‘liberto’ o per quella ‘schiavo’ (alcuni liberti o schiavi imperiali possono essere ricchissimi, e molto potenti); 3) I liberti, ed in generale coloro che godono di diritti di cittadinanza limitati, vengono a costituire – a Roma in special modo – dei ceti sociali estranei all’appropriazione diretta della terra, e dediti alle attività commerciali ed artigianali cittadine; gli apolidi, in un certo senso, appaiono il prodotto della fermentazione sociale dovuta al denaro ed alla schiavitù, e la base sociale per lo sviluppo di un nuovo modo di produzione, di tipo artigianale[100]. Nell’antichità, ed in particolare a Roma, la diffusione della schiavitù, la disgregazione della comunità ed il connesso diffondersi dei rapporti monetari, nascondono alle proprie spalle lo sviluppo progressivo del modo di lavoro artigianale. Ancora una volta, quindi, dietro le apparenze della storia sociale, si cela lo sviluppo delle forze produttive materiali e la trasformazione del modo di produzione materiale, che si costituisce a determinazione essenziale del progresso storico. L’intento di Marx sembra evidente: ristabilire i presupposti del materialismo storico. La disgregazione delle comunità deve essere spiegata come momento necessario entro il processo di sviluppo delle forze produttive materiali della società; in quest’ultimo aspetto si deve cercare, secondo Marx, la chiave dello sviluppo storico delle forme precapitalistiche. Marx, dunque, si richiama ai capisaldi del materialismo storico per esplicare la disgregazione della comunità originaria. Però, tanto il senso profondo ed il fine, che le conseguenze di quest’operazione, ora si rivelano esclusivamente nella definizione marxiana del rapporto fra le forme precapitalistiche ed il capitale. Marx, infatti, non soltanto ribadisce i principi storici e filosofici originari del materialismo storico stabiliti nell’Ideologia tedesca ma, soprattutto, pretende di riuscire a dimostrare, attraverso di essi, che il capitale non è sempre esistito, e che la sua logica specifica non è la logica recondita e lo scopo immanente delle forme sociali precapitalistiche. Il capitale, invece, presuppone storicamente che sia già stato conseguito un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali (lavoro artigianale), prima e indipendentemente dalla sua esistenza. La direttrice fondamentale dello sviluppo storico precapitalistico deve essere spiegata in relazione all’essenziale sviluppo materiale del modo di produzione, ed il capitale deve essere svelato come una forma sociale prodotta dal progresso materiale delle forze produttive generato dalle precedenti forme sociali. Immediatamente dopo i passi dedicati allo sviluppo del lavoro artigianale sopra ricordati, pertanto, Marx rivolge nuovamente la propria attenzione alla relazione capitale – forza-lavoro, ed al suo porsi storico, reale. La schiavitù e la servitù della gleba, come forme negative del processo storico, come stadi di fermentazione della proprietà della terra e di dissoluzione delle comunità originaria, rientrano nei processi storici che preparano e pongono le condizioni del lavoro libero. Di questi processi storici nel loro insieme, Marx ribadisce la relazione che li lega a loro volta ai processi di sviluppo del valore di scambio e del patrimonio monetario. Riferendosi ai poli dello scambio forza-lavoro – capitale, Marx ammette allora che si tratti di due facce della stessa medaglia, non soltanto in relazione al modo di produzione storicamente determinato, alla formazione economico-sociale capitalistica, ma anche, in certa maniera, in relazione al processo storico che prepara e pone questo modo di produzione: “Da una parte, si presuppongono processi storici che hanno posto una massa di individui di una nazione, ecc., nella condizione se non inizialmente di lavoratori effettivamente liberi, tuttavia di lavoratori che lo sono dunamei, la cui unica proprietà è la loro capacità lavorativa e la possibilità di scambiarla con valori esistenti; individui ai quali tutte le condizioni oggettive della produzione stanno di fronte come proprietà altrui, come loro non-proprietà, ma al tempo stesso” – e qui interviene la considerazione del secondo aspetto del medesimo processo – “scambiabili come valori, e pertanto appropriabili, fino a un certo grado, mediante lavoro vivo”[101]. La dissoluzione di tutte le forme di proprietà da parte del lavoratore è parimenti, in tal senso, “dissoluzione dei rapporti di produzione in cui predomina il valore d’uso”[102]. Il processo di dissoluzione della comunità primitiva e di rottura della proprietà delle condizioni oggettive del lavoro da parte del produttore, per definizione, è parimenti trasformazione di delle condizioni oggettive del lavoro in ‘fondo libero’, svincolato dal valore d’uso, in patrimonio monetario: “il processo che ha separato una massa di individui dai loro tradizionali rapporti in un modo o nell’altro positivi con le condizioni oggettive del lavoro, che ha negato questi rapporti e così ha trasformato questi individui in lavoratori liberi, è lo stesso processo che ha liberato dunamei queste condizioni oggettive del lavoro […]. Lo stesso processo che ha contrapposto alle condizioni oggettive del lavoro la massa sotto forma di lavoratori liberi, ha anche contrapposto ai lavoratori liberi queste condizioni sotto forma di capitale”[103]. Lo sviluppo storico della forma valore, quindi, coinciderebbe con il porsi storico, reale, della relazione fra forza-lavoro e capitale? Il senso dell’intero corso storico che precede il capitale sarebbe compendiabile nella descrizione di un processo di separazione avente come propria componente essenziale lo sviluppo del valore di scambio, e nel quale quindi agirebbe già la stessa logica intrinseca del capitale? Marx tenta di scardinare questa ipotesi avvalendosi del materialismo storico e, anche se da principio non appare evidente, modificandolo radicalmente, per adattarlo a questo scopo. Come è possibile notare ad una lettura attenta dei passi ora citati, Marx sottolinea ripetutamente, riferendosi ai processi storici che pongono forza-lavoro e capitale come ad un unico processo di sviluppo logico e storico del valore di scambio, che forza-lavoro e capitale vengono da esso posti solo potenzialmente, “dunamei”; questa particolare espressione e la connessa impostazione teorica è ribadita quando Marx conclude la disquisizione sul carattere unitario di questo processo, e mette però anche in evidenza, marcandone l’importanza, il carattere solo negativo della relazione che se ne genera: “Il processo storico è consistito nella separazione di elementi tradizionalmente uniti – il suo risultato non è pertanto la scomparsa di uno degli elementi, ma la comparsa di ciascuno di questi in una relazione negativa con l’altro – il lavoratore libero (potenzialmente) da una parte, il capitale (potenzialmente) dall’altra. La separazione delle condizioni oggettive al polo delle classi che sono state trasformate in lavoratori liberi deve presentarsi altresì come una autonomizzazione di queste condizioni al polo opposto”[104]. Come sembra ora ben chiaro, questa autonomizzazione dei due elementi (condizioni oggettive della produzione da una parte e produttore dall’altra) non coincide affatto con il loro porsi reale nell’unità organica del modo di produzione capitalistico, con la loro esistenza effettiva, realmente in atto nel processo di produzione reale, di ‘forza-lavoro’ e di ‘capitale’. Qual è il senso di questa distinzione? Quale fattore, secondo Marx, interviene fra l’esistenza in potenza e l’esistenza in atto del rapporto organico forza-lavoro – capitale e, quindi, del modo di produzione capitalistico? Già nel momento in cui mette in evidenza la tendenziale coincidenza fra il processo di dissoluzione delle forme di proprietà delle condizioni di produzione con il processo di dissoluzione del valore d’uso, Marx annota in modo estremamente incisivo questa avvertenza: “Ma tutto questo, soltanto secondariamente. A considerare più attentamente le cose si vedrà anche che tutti i rapporti dissolti erano possibili solo ad un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali (e quindi anche spirituali)”[105]. Marx si riferisce esplicitamente alle forze produttive materiali, come alla base sulla quale si sviluppano le forze produttive spirituali, ma anche e soprattutto come alla variabile fondamentale, il cui grado solamente consente che forza-lavoro e capitale ottengano un’esistenza effettiva, e consente quindi il porsi reale del processo di produzione capitalistico, la formazione originaria del capitale come modo di produzione. Solo lo stadio raggiunto dalle forze produttive materiali, quindi, è il fattore che determina nella sua realtà la trasformazione storica. Questa impostazione viene a costituirsi, nelle pagine che seguono, come il cardine teorico del ragionamento marxiano. Da questo preciso punto di vista, infatti, viene riesaminata la questione della formazione originaria del capitale, ovverosia dell’accumulazione originaria. Secondo Marx, se si considera la genesi storica del capitale, perché possa avvenire lo scambio capitale – forza-lavoro deve essere presupposta un’accumulazione, al polo del capitale, di materie prime, strumenti e mezzi di sussistenza, tale da consentire lo svolgersi del processo lavorativo: “[…] deve esserci stata da parte del capitalista un’accumulazione – un’accumulazione precedente al lavoro e non scaturita da esso – che lo mette in condizione di far lavorare l’operaio, di mantenerlo efficiente, di mantenerlo come forza-lavoro viva”[106]. In che modo, concretamente, avviene questa accumulazione di mezzi di produzione e, quindi, la genesi storica del capitale? Cosa presuppone questo processo? 1) La genesi storica del capitale presuppone l’accumulazione di ingenti patrimoni monetari. L’esistenza del patrimonio monetario, quindi, è un presupposto. I profitti commerciali e l’usura (in primo luogo nei confronti della proprietà terriera), secondo Marx, ne sono le fonti principali. Infatti, il capitale come modo di produzione a suo parere presuppone storicamente, oltre che logicamente, il denaro; il denaro, però, nelle epoche che precedono l’avvento del capitale, riveste un ruolo ancora eminentemente legato alla circolazione, e non, invece, alla produzione. La stessa accumulazione del denaro, la sua concentrazione nelle mani di pochi individui nella forma di patrimonio monetario, quindi, non scaturisce direttamente dalle attività produttive fondamentali dell’agricoltura e dell’artigianato, e dalle loro concrezioni sociali nella proprietà fondiaria e nella corporazione cittadina, ma, invece, dal commercio e dall’usura che su di esse, per così dire dall’esterno, si appoggiano[107]. 2) Un altro presupposto, evidentemente, è la privazione del lavoratore della proprietà mezzi di produzione. In fondo, come Marx ha già dimostrato, l’accumulazione del patrimonio monetario ad un polo non è altro che, all’altro polo, la privazione del lavoratore delle condizioni di produzione. Da una parte quindi, tanto il primo che il secondo presupposto (l’esistenza del patrimonio monetario e di lavoratori potenzialmente liberi) dell’accumulazione del capitale, dello scambio capitale – forza-lavoro, possono essere ricondotti allo sviluppo del valore di scambio ed alla dissoluzione delle forme comunitarie come ad un unico processo storico di separazione fra proprietà e produttore – che in qualche misura nella sua logica coincide con la logica del valore di scambio e del capitale. D’altra parte, sottolinea però Marx, se questo processo pone due presupposti indispensabili, due condizioni necessarie dell’accumulazione del capitale, e del processo di scambio capitale – forza-lavoro, esso pone comunque solamente i due estremi della relazione, ma non la relazione stessa, che come tale rimane solamente possibile. In altre parole, l’autonomizzazione dei due poli della produzione, come massa dei produttori e patrimonio monetario, pone solamente una relazione negativa fra i due estremi, e la possibilità dello scambio che costituisce il modo di produzione capitalistico. In che senso Marx parla di ‘possibilità’ e di relazione puramente ‘negativa’ fra i due poli del patrimonio monetario e della massa dei produttori liberi? La creazione del patrimonio monetario sembra procedere di pari passo alla creazione di lavoratori liberi. Ma, come sembra trasparire dall’esposizione marxiana dell’argomento, finché il patrimonio monetario non è messo in grado di investire la produzione al punto da diventarne l’essenza, da diventarne quindi il fine ultimo che ne guida il processo fissandone lo scopo nella valorizzazione, nella creazione di valore di scambio supplementare, esso rimane legato alla transitorietà tipica della circolazione e, quasi in un processo di cattiva infinità, nel momento in cui si rovescia nella produzione sparisce in quanto patrimonio monetario. Unione e separazione del lavoratore dalle condizioni della produzione, lavoro produttivo e patrimonio, diventano i momenti dell’oscillazione, di un progresso all’infinito che ripete i suoi estremi negandoli reciprocamente, senza costituirsi in un processo unitario. 3) Storicamente quindi – perché il modo di produzione capitalistico sorga realmente – deve essere presente un altro fattore, che costituisce il presupposto fondamentale e la condizione positiva dello scambio forza-lavoro – capitale: un livello sufficientemente elevato nello sviluppo delle forze produttive materiali. Solo un adeguato sviluppo delle forze produttive materiali, infatti, può rendere reale questo scambio, e costituisce il capitale come processo di produzione in atto: “Ciò che rende capace il patrimonio monetario di diventare capitale è il fatto che esso trova da una parte i lavoratori liberi; in secondo luogo trova altrettanto liberi e vendibili i mezzi di sussistenza e i materiali, ecc. che una volta d’une manière ou d’une autre erano proprietà delle masse ormai private delle condizioni oggettive. L’altra condizione del lavoro, però, una certa abilità di mestiere, lo strumento come mezzo di lavoro, ecc. – in questo periodo iniziale o primo periodo del capitale, esso lo trova già esistente, come risultato in parte delle corporazioni cittadine, in parte dell’industria domestica o dell’industria connessa, come accessorio, all’agricoltura”[108]. Il patrimonio monetario, per accumulare come capitale i mezzi di produzione, deve presupporre un determinato grado di abilità di mestiere, un determinato sviluppo dello strumento di lavoro, che esso trova come prodotti delle corporazioni cittadine (lavoro artigianale) e della proprietà fondiaria (industria domestica o comunque direttamente connessa all’attività agricola). Solo quando le forze produttive materiali hanno raggiunto un livello adeguato, quindi, possono subentrare alla proprietà fondiaria e alle corporazioni cittadine nuovi rapporti di produzione, ed il capitale può realmente imporsi come nuovo modo di produzione. Abbiamo dunque tre fattori storici: massa di lavoratori liberi (forza-lavoro in potenza); patrimonio monetario (capitale in potenza); mezzi di produzione. Solo quando le forze produttive materiali hanno raggiunto uno stadio sufficientemente elevato, in particolare attraverso il modo di lavoro artigianale sviluppato nei centri urbani, il capitalista può fare la sua comparsa ed interporsi fra questi tre fattori come attore del processo sociale di produzione. Solo quando tutti e tre questi fattori esistono su vasta scala – e, per quanto riguarda i mezzi di produzione in generale, e lo strumento di lavoro in particolare, questo presuppone che sia già stato raggiunti un livello sufficientemente elevato nello sviluppo delle forze produttive – il capitale si impone come modo di produzione dominante: “Il processo storico non è il risultato, ma un presupposto del capitale. Attraverso questo processo anche il capitale poi si pone come interposta persona (storicamente) tra la proprietà fondiaria ovvero tra la proprietà in generale e il lavoro”[109]. La manifattura, solo ad un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali, preparato principalmente dai precedenti stadi del lavoro artigianale, può divenire la forma generale della produzione e, come forma fondamentale del processo di produzione, condizionare e trasformare sostanzialmente i rapporti sociali, fare epoca. Solo allora, benché sia esistita in diverse situazioni sociali, la manifattura può essere il vettore fondamentale del modo di produzione capitalistico, segnando l’inizio reale dell’epoca borghese, e dello scambio effettivo (seppure al suo stato ancora embrionale, che giungerà a compimento solo con l’industria di fabbrica) capitale – forza-lavoro: “Sporadicamente la manifattura si può sviluppare localmente in una cornice che appartiene ancora ad un periodo del tutto diverso, come ad esempio nelle città italiane ed accanto alle corporazioni. Ma come forma generalmente predominante di un’epoca, le condizioni del capitale devono essere sviluppate non solo localmente, ma su larga scala”[110]. L’epoca della dissoluzione dei precedenti modi di produzione è anche l’epoca dello sviluppo del patrimonio monetario. Ma l’esistenza del patrimonio monetario, di per sé, non è affatto sufficiente a determinare una trasformazione radicale della società. Il patrimonio monetario ed i rapporti monetari in genere, chiarisce Marx, sono solo condizioni necessarie ma non sufficienti del capitale: “Altrimenti l’antica Roma, Bisanzio, ecc. avrebbero terminato la loro storia con il lavoro libero e il capitale, o piuttosto avrebbero dato inizio ad una nuova storia. Anche lì la dissoluzione dei vecchi rapporti di proprietà era legata allo sviluppo del patrimonio monetario e del commercio, ecc. Ma questa dissoluzione, invece di portare all’industria, portò in fact alla preminenza della campagna sulla città”[111]. La prima accumulazione dei mezzi di produzione da parte del capitalista, dunque, presuppone fondamentalmente un determinato stadio di sviluppo delle forze produttive materiali. Essa non è semplicemente il prodotto dello sviluppo del patrimonio monetario. Essa è il frutto dello sviluppo delle forze produttive materiali, che costituisce il sale del processo storico che genera il capitale. È quindi solamente sulla base dei progressi produttivi propri del lavoro artigiano, conseguiti a partire dallo sviluppo delle corporazioni medievali, che si sviluppano i nuovi rapporti borghesi. Da questo punto di vista, quindi, Marx corregge sostanzialmente la sua interpretazione dello sviluppo storico complessivo, così come sembrava emergere nella prima parte delle Formen, e si sforza di ancorarsi ad uno dei capisaldi del materialismo: il progresso della società è sostanzialmente riconducibile allo sviluppo delle forze produttive materiali. Il processo di separazione del lavoratore dalle condizioni di produzione, l’isolamento dell’individuo, lo sviluppo di nuove capacità dell’individuo e delle ‘forze produttive umane’, l’avvento del capitale, ecc., sono tutti fenomeni che, in definitiva, vanno ricondotti allo sviluppo delle forze produttive materiali e quindi, sostanzialmente, al modo di lavoro (organizzazione del lavoro e strumento) ed alla produttività. Il potente ritorno del concetto per cui lo sviluppo delle forze produttive materiali è la base fondamentale della spiegazione del processo storico, così come lo troviamo in questa seconda parte delle Formen, però, si lega indissolubilmente ad un altro asserto fondamentale: il capitale, non solo non è sempre esistito, ma neanche può vantare una storia di lunga data, perché esso non coincide affatto con il patrimonio monetario, né il patrimonio monetario, di per sé stesso deve sboccare nel capitale. Questo asserto, nell’argomentazione figura come conseguenza logica, ma nella sua elaborazione, in fondo, è il risultato presupposto, lo scopo conseguito che la guida ed ‘attrae’. Questa fondamentale accentuazione della specificità del capitale come modo di produzione distinto dai precedenti, d’altro canto contiene logicamente e genera esplicitamente nuovi problemi. Infatti, proprio in relazione alla diversa esigenza di fissare il carattere specifico del capitale e delle sue leggi nel contesto della multilinearità dello sviluppo storico complessivo – esigenza potente che anima i Grundrisse nel loro insieme –, la riproposizione pura e semplice dei principi stabiliti nell’Ideologia tedesca, nella loro forma originale, non sembra più possibile. La riaffermazione energica della concezione materialistica, quindi, nel prosieguo della seconda parte delle Formen porta con sé nuovi sviluppi teorici. § 4.2. Dal patrimonio monetario al capitale: forma ‘preistorica’ e genesi ‘aleatoria’ del capitale Il tentativo di soluzione del problema del rapporto forme precapitalistiche fondamentali – capitale, che distingue in modo sostanziale questa parte delle Formen dalla precedente, si fonda solo apparentemente sul recupero puro e semplice del materialismo storico, e della linearità della ricostruzione storica propria dell’Ideologia tedesca. Nella seconda parte delle Formen, certo, l’intento di Marx di ristabilire alcuni presupposti del materialismo in relazione alla direttrice fondamentale dello sviluppo storico precapitalistico sembra evidente. Marx però, nello sviluppo ulteriore di questa seconda parte, deve porsi un nuovo problema. Il lavoro artigianale non si sviluppa di pari passo con i traffici e gli scambi, nei centri urbani ad essi più dediti? Lo sviluppo del modo materiale di produzione non coincide, di fatto, con lo sviluppo del commercio e dei rapporti monetari? L’antico ascendente smithiano si presenta ora come antagonista: lo sviluppo delle forze produttive materiali, in fondo, non coincide in se stesso con lo sviluppo dello scambio, del commercio, del patrimonio monetario e, in definitiva, del capitale? Il capitale non è quindi esso stesso il fine immanente delle forme di produzione precapitalistiche, di cui spiega il progresso sociale e produttivo? Le leggi economiche attuali della società fondata sul valore di scambio non sono perciò espressione di leggi di natura? Le pagine che seguono si intessono sulla trama di queste domande, fra le quali viaggia incessante la spola analitica marxiana. In queste pagine, Marx approfondisce e ridefinisce integralmente i problemi inerenti la genesi storica del capitale, ed il concetto di accumulazione originaria, rimarcando ulteriormente lo stacco storico fra patrimonio monetario – preistoria del capitale – da un lato, e capitale – modo di produzione capitalistico – dall’altro, ed approdando a nuovi risultati teorici. “La formazione originaria del capitale”, scrive Marx, “non avviene nel senso che il capitale accumuli, come si pensa mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro e materie prime, in breve le condizioni oggettive di lavoro svincolate dalla terra e già amalgamate con il lavoro umano. Non avviene nel senso che il capitale crea le condizioni oggettive del lavoro […]”[112]; è solo il processo di dissoluzione della comunità e più in generale di separazione di questi fattori già esistenti tra di loro e dal lavoratore, che mette in condizione il patrimonio monetario di diventare intermediario, ed il capitale di sorgere. Marx ora rivolge la sua attenzione a questo processo di separazione in modo diverso che in precedenza. Innanzitutto, correggendo parzialmente la precedente argomentazione, Marx afferma che, se il denaro ed il patrimonio monetario giocano un ruolo importante nel processo di separazione, comunque essi non coincidono con questo processo: “Il denaro stesso, nella misura in cui collabora a questa vicenda, lo fa solo in quanto esso stesso interviene in questo processo come mezzo di separazione estremamente energico, e in quanto collabora alla creazione di lavoratori liberi, privi delle condizioni oggettive, spoliati; certamente, però, non perché esso crea per loro le condizioni oggettive di esistenza, ma in quanto esso contribuisce ad accelerare la loro separazione”[113]. Il denaro ed il patrimonio monetario sono mezzi di separazione estremamente energici, collaborano al processo di separazione accelerandolo; ma non ne sono affatto gli unici fattori. Da un lato, Marx probabilmente allude di nuovo ai processi storici di fermentazione e disgregazione della comunità primitiva che preparano il processo vero e proprio di separazione; dall’altro, si riferisce, per esemplificare il modo in cui si compie il processo reale di separazione, all’azione violenta dei proprietari fondiari e dei governi inglesi. Qui si incastra nell’argomentazione marxiana una più concreta analisi storica: solamente quando i proprietari fondiari inglesi licenziano i loro retainers; solamente quando i fittavoli cacciano i piccoli contadini pigionali, si getta sul mercato “una massa di forze lavoro vive, una massa che era libera in un duplice senso, libera dagli antichi rapporti di clientela o di servitù e di prestazione, e in secondo luogo libera da ogni avere e da ogni forma di esistenza oggettiva, libera da ogni proprietà; ridotta a trovare l’unica fonte di guadagno nella vendita della sua forza-lavoro […]”[114]. Marx, con ciò, mette in evidenza la separazione del lavoratore dalle condizioni oggettive della produzione, che sono condizioni già esistenti, e non create dal capitale. Ma viene anche sottolineato il carattere violento di questa separazione, attraverso l’uso di termini come ‘licenziare’, ‘cacciare’, ‘gettare’ che, da questo punto in poi, si ripetono più volte. Il lavoratore viene espulso violentemente dalla sua terra, viene sbattuto letteralmente in mezzo alla strada. È in questo modo che si realizza la separazione che il patrimonio monetario prepara. Il passo di Marx, significativamente, si conclude ponendo in luce il bivio di fronte al quale si trova il produttore. Al lavoratore deprivato della proprietà delle condizioni oggettive della produzione, si presentano solo due possibilità: vendere la propria forza-lavoro; oppure, mendicare. La massa dei produttori è “[…] ridotta a trovare l’unica fonte di guadagno nella vendita della sua forza-lavoro, oppure nella mendicità, nel vagabondaggio, nella rapina. È constatato storicamente che essi hanno tentato in un primo momento quest’ultima via e che da questa sono stati però spinti, mediante la forca, la berlina, la frusta, sulla stretta via che conduce al mercato del lavoro – e qui i governi, per es. Enrico VII, VIII, ecc., figurano come condizioni del processo storico di dissoluzione e come creatori delle condizioni di esistenza del capitale”[115]. Risulta palese il ruolo che qui vengono a rivestire l’azione violenta di governo e di classe, la frusta e la forca. Quest’azione violenta ed il suo esito favorevole costituiscono un altro fattore indispensabile alla realizzazione del processo di separazione e quindi, secondo quanto afferma a chiare lettere lo stesso Marx, un’altra delle condizioni storiche di esistenza del capitale. Del resto, tanto il patrimonio monetario che l’azione violenta di espropriazione dei produttori-proprietari, affinché sorga il capitale, devono incontrare un'altra condizione storica: un determinato grado di sviluppo (sufficientemente elevato) delle forze produttive materiali. In primo luogo, mezzi di sussistenza (e le materie prime[116]) non sono creati dal patrimonio monetario; essi semplicemente cambiano la loro destinazione. Riferendosi al passaggio dalle forme precapitalistiche al capitale, Marx scrive: “Ciò che era mutato non era altro che il fatto che ora questi mezzi di sussistenza erano gettati sul mercato di scambio, in modo da cadere sotto il dominio e l’egemonia del patrimonio monetario”[117]. In secondo luogo, e ancora più significativamente, Marx sottolinea come il patrimonio monetario neanche contribuisca a creare lo strumento di lavoro: “Altrettanto [dei mezzi di sussistenza] si può dire degli strumenti di lavoro. Il patrimonio monetario non ha inventato né fabbricato il filatoio e il telaio. Ma, strappati dalla loro terra, filatori e tessitori, con i loro filatoi e telai, caddero sotto il potere del patrimonio monetario, ecc.”[118]. Su questa base, Marx giunge a ridefinire il concetto di formazione originaria, e a dare un significato più preciso al termine ‘accumulazione originaria’: “Il capitale, di suo, non fa altro che unificare le masse di braccianti e di strumenti che esso trova già. Esso le agglomera sotto il suo potere. Questa è la sua effettiva accumulazione; l’accumulazione di operai in alcuni punti, assieme ai loro strumenti”[119]. In quest’accumulazione, operata dal patrimonio monetario al momento del suo passaggio al capitale, consiste evidentemente l’accumulazione originaria, l’atto storicamente costitutivo del capitale. Da questo punto preciso in avanti, e non prima, dalla preistoria del capitale (sua presenza embrionale) si passa alla sua esistenza effettiva, e alla sua storia sviluppata (sua presenza formata). Nel ragionamento, abbastanza palesemente, è subentrata una nuova impostazione. Marx ha già rilevato che il modo di produzione capitalistico non è sempre esistito, ma che invece è il risultato sociale raggiunto ad un determinato grado di sviluppo delle forze produttive. Nel corso della sua trattazione successiva, poi, ha sempre più marcatamente posto in evidenza il carattere specifico, storicamente determinato, del modo di produzione capitalistico. Ora, nell’impeto della sua polemica contro i luoghi comuni dell’economia politica, viene messo in risalto che il patrimonio monetario (la forma preistorica del capitale) non crea nulla; che non soltanto, quindi, costituitivamente il processo sociale capitalistico è sfruttamento del lavoratore, ma che il capitale stesso nasce solo dopo che il patrimonio monetario è riuscito ad espropriare con la violenza il produttore e si è impossessato dei suoi mezzi di produzione (già sufficientemente sviluppati per poter iniziare ad essere concentrati sotto un unico controllo). Evidentemente, il significato concettuale della specificità storica del modo di produzione capitalistico, si spinge ben oltre che non in precedenza. L’accento sulla specificità del capitale, infatti, non investe più solamente la sua relazione con i modi di produzione precapitalistici, ma la sua stessa relazione con il progresso delle forze produttive materiali. Il capitale non è connesso organicamente né alle forme sociali precedenti né allo sviluppo delle forze produttive materiali: non è il frutto maturo di un processo unitario e progressivo di incremento delle forze produttive. Il capitale è invece raffigurato da Marx come un rapporto sociale che al suo stadio preistorico esiste al di fuori della produzione nel patrimonio monetario, e che si impossessa, quasi intervenendo dall’esterno, degli strumenti e degli altri elementi della produzione già esistenti – elementi separati definitivamente fra loro attraverso un violento processo di espropriazione, ed inseriti con la violenza e la costrizione nel circuito del valore di scambio. Il patrimonio monetario, e concretamente i suoi portatori e agenti, si inseriscono fra questi elementi, inizialmente, come semplici intermediari. Dunque, non è lo sviluppo del modo di lavoro, del modo di produzione, che in sé stesso come unicum continuum genera il capitale. Questo sviluppo, secondo una prospettiva molto più complessa elaborata in precedenza, pone le condizioni materiali perché intervengano e si impongano, per così dire dall’esterno, nuovi rapporti di produzione. L’argomentazione marxiana – volta a sottolineare il carattere determinato del modo di produzione capitalistico – a questo punto deve procedere e procede ad un confronto esplicito e serrato con le tesi sostenute da Adam Smith in merito all’influenza del patrimonio monetario sulla trasformazione dei rapporti di produzione agricoli, e sulla creazione di forza-lavoro ‘libera’. Marx si richiama al libro III (“Del diverso progresso naturale della prosperità nelle diverse nazioni”) della Ricchezza delle nazioni. Più precisamente, il riferimento critico corre al terzo capitolo, recante il titolo: “Come il commercio delle città contribuì al progresso della campagna”[120]. La ricchezza accumulata nelle città artigianali e manifatturiere, secondo Smith, contribuisce al progresso dell’agricoltura e della campagna; le città, scrive, in primo luogo offrono “[…] un grande e pronto mercato al prodotto grezzo della campagna, ne incoraggiano la messa a coltura e l’ulteriore progresso”[121]; in secondo luogo, la ricchezza acquisita nelle città, e la mentalità dei commercianti che a questa ricchezza è legata, tendono a distribuirsi nelle campagne e ad essere investite nell’agricoltura[122]; in terzo luogo, e questo per Smith è l’aspetto principale, la “silenziosa e impercettibile opera del commercio estero e delle manifatture”[123] riesce in quello in cui la legge feudale aveva fallito, ed introduce nella campagna l’ordine ed il buon governo, mitigando ed eliminando gradualmente lo stato permanente di guerra, di servitù e di violenza che la travagliava[124]. In che cosa consiste, secondo Smith, quest’opera benefica, silenziosa e impercettibile del commercio e della manifattura, che è la più fondamentale nel determinarne il progresso storico? Come agiscono esattamente queste attività commerciali sulla campagna? Come riescono a spingerla nella direzione della civiltà e del buon governo? Smith mette in risalto, nel rispondere a queste domande, l’influenza che il commercio e la manifattura hanno sul comportamento dei proprietari terrieri, e conseguentemente sulla struttura della proprietà fondiaria. Il commercio e la manifattura inducono i proprietari fondiari a spendere le loro rendite per acquistare merci, invece che per mantenere servi e clienti. Scrive Smith: “Tutto per noi e niente per gli altri, sembra essere stata in ogni età del mondo la massima di tutti i padroni del genere umano. Perciò non appena poterono trovare un modo per consumare loro stessi l’intero valore delle loro rendite non furono più disposti a dividerlo con nessun’altra persona”[125]. Il proprietario terriero, ora, invece di mantenere servi e clienti mantiene commercianti ed imprenditori. Ma il singolo proprietario fondiario come tale contribuisce solo in minima parte al mantenimento di queste figure, che pertanto risultano da lui indipendenti. Smith indica con estrema chiarezza le conseguenze sociali che, in seguito a questa trasformazione comportamentale, investono la campagna: “Aumentando gradualmente in tal modo la spesa personale dei grandi proprietari, era impossibile che il numero dei loro assoldati non diminuisse gradualmente, sinché alla fine essi non furono tutti licenziati. La stessa cosa condusse gradualmente i proprietari a licenziare anche la parte superflua dei loro conduttori”[126]. D’altro canto, scrive Smith, questa trasformazione si risolve in un progresso della produzione agricola (ovverosia in un incremento della produttività di questa branca economica: “Eliminando le bocche inutili ed esigendo dall’agricoltura l’intero valore della fattoria, il proprietario ottenne un sovrappiù maggiore, o, che è lo stesso, il prezzo di un maggiore sovrappiù, e i mercanti e i manifatturieri gli offrono presto la possibilità di spenderlo per la sua persona nello stesso modo in cui aveva speso il resto. Continuando tale causa ad agire, egli desiderò elevare le sue rendite al di là di quanto potevano dare le sue terre nel loro effettivo stato di miglioramento. I suoi conduttori potevano acconsentire solo a patto di essere garantiti nel possesso della terra per un periodo di anni che potesse dare loro il tempo di recuperare con profitto tutto ciò che investivano in ulteriori miglioramenti. La costosa vanità del proprietario terriero lo rese disposto ad accettare questa condizione, e da qui trassero origine i lunghi affitti”[127]. Quello che risulta evidente nell’esposizione smithiana della rivoluzione agricola è in primo luogo che essa è legata all’espulsione dei contadini dalle terre, e quindi alla creazione di lavoratori liberi; in secondo luogo, però, che tutto il processo è originato dal commercio estero e dalla manifattura ad esso connessa e in sostanza quindi, per usare la terminologia marxiana, dal patrimonio monetario. Marx si richiama direttamente proprio a queste conclusioni smithiane, che rielabora ed inserisce nella sua definizione del concetto di valore di scambio e di capitale, e del loro processo logico e storico. “Il patrimonio monetario – come patrimonio monetario –”, scrive Marx, “aveva in verità accelerato ed aiutato la dissoluzione dei vecchi rapporti di produzione ed aveva reso possibile ad esempio al proprietario fondiario, come ha già ben mostrato Smith, di scambiare i suoi cereali, il suo bestiame, ecc., con i valori d’uso portati dall’esterno, invece di dilapidare con i suoi retainers quelli da lui stesso prodotti, e trovare la sua ricchezza in gran parte nella massa dei suoi retainers, che con lui concorrono al consumo. Ciò ai suoi occhi aveva conferito al valore di scambio del suo reddito una maggiore importanza. Altrettanto avveniva per i suoi fittavoli, che erano già semicapitalisti, pur se ancora molto mascherati”[128]. Come si può notare, queste righe dell’esposizione marxiana compongono un vero e proprio riassunto di quella smithiana – ma il processo descritto (formazione della forza-lavoro libera) non si riduce più allo sviluppo puro e semplice del commercio, bensì allo sviluppo di quello che Marx definisce ‘valore di scambio’: “Lo sviluppo del valore di scambio – favorito anche dal denaro esistente nella forma del ceto mercantile – dissolve la produzione indirizzata più verso il valore d’uso immediato e le forme di proprietà ad essa corrispondenti – rapporti di lavoro con le sue condizioni oggettive – e spinge così alla creazione del mercato del lavoro […]”[129]. A differenza che in Smith, lo sviluppo del commercio e la diffusione del denaro non sono più indicati da Marx come il fattore principe della trasformazione storica della campagna e della creazione del mercato del lavoro. Il patrimonio monetario certamente accelera, favorisce, aiuta il processo di trasformazione sociale: “Pur tuttavia anche questo effetto del denaro”, precisa Marx, “è possibile solo sotto il presupposto dell’attività artigianale urbana che non si basa su capitale e lavoro salariato, ma sull’organizzazione del lavoro in corporazioni, ecc. Lo stesso lavoro nelle città aveva creato i mezzi di produzione per i quali le corporazioni divennero altrettanto scomode quanto i vecchi rapporti di proprietà fondiaria per un’agricoltura più sviluppata, che a sua volta, era, in parte, la conseguenza dell’aumentato smercio di prodotti agricoli alle città, ecc.”[130]. Ancora una volta, quindi, Marx si sforza in qualche modo di evidenziare il ruolo centrale dello sviluppo delle forze produttive materiali, rispetto a tutti gli altri fattori, rispetto a tutte le “altre circostanze” (aumento della massa di merci circolanti e di denaro, creazione di nuovi bisogni, ecc.)[131] che pure intervengono e rendono possibile questo processo storico; ma soprattutto, nella descrizione di Marx, il rapporto fra patrimonio monetario e lavoro artigianale comincia a prospettarsi come un ‘incontro’ fra elementi storicamente distinti – invece che come relazione organica e processo unitario. La formazione del patrimonio monetario, afferma Marx, “appartiene alla preistoria dell’economia borghese. L’usura, il commercio, le città, e la nascita del fisco che li accompagna svolgono qui un ruolo di primo piano. Altrettanto dicasi dell’accumulazione dei fittavoli, dei contadini, ecc.; pur se in grado minore”[132]. Il patrimonio monetario è la forma preistorica del capitale. Per descrivere l’azione storica del patrimonio monetario come forma preistorica del capitale, Marx però scrive: “[…] nulla è più assurdo che concepire questa formazione originaria del capitale [il patrimonio monetario come forma preistorica del capitale] come se questo avesse accumulato e creato le condizioni oggettive della produzione – mezzi di sussistenza, materie prime e strumenti – e le avesse offerte all’operaio che ne era stato privato. È vero invece che il patrimonio monetario in parte contribuì a privare di queste condizioni le forze lavoro degli individui in grado di lavorare; in parte questo processo di separazione avvenne senza di esso. Allorché questa formazione originaria del capitale ebbe raggiunto un certo livello, il patrimonio monetario poté inserirsi come mediatore tra le condizioni oggettive della vita divenute così libere, e le forze del lavoro divenute libere, ma ormai anche assolutamente disponibili, e con le une poté comprare le altre”[133]. Il patrimonio monetario contribuisce solo in parte al processo storico di separazione fra produttori e condizioni della produzione – in parte, invece, la sua azione storica deve ‘incontrare’ queste condizioni già separate da altri processi storici. L’assoluta disponibilità di forza-lavoro (preparata dall’indebolimento delle forme comunitarie ed ottenuta definitivamente attraverso l’espropriazione e la costrizione al lavoro-salariato) e di mezzi di produzione (creati materialmente da modi produzione precedenti sufficientemente sviluppati – attività artigianale urbana in primis) consentono al patrimonio monetario (forma originaria, germe preistorico del capitale nel quale quest’ultimo esiste solo in potenza, come mera possibilità), di inserirsi e mediare fra questi elementi, ed attecchire stabilmente in nuovi rapporti di produzione (ed in definitiva in un nuovo modo di produzione). Si deve notare, nel discorso marxiano, un lato innovativo e critico, che si impone all’attenzione del lettore per l'audacia delle implicazioni teoriche che contiene. L’artigianato cittadino ed i modi di produzione che precedono il capitale creano i mezzi di produzione che, attraverso la mediazione del patrimonio monetario, diventano la base del nuovo modo di produzione capitalistico (manifatturiero). Una nuova figura sociale (rappresentata dal commerciante-imprenditore), per così dire esterna al sistema della produzione – tanto a quello sviluppato nelle città medievali (incarnato nella forma sociale della corporazione cittadina) che a quello sviluppato nelle campagne –, si impossessa di determinati risultati tecnici e produttivi di questo sistema, e pone i presupposti per un nuovo modo di produzione. Pertanto, il patrimonio monetario nasce ai margini dei precedenti modi di posizione e se ne sviluppa al di fuori (nel commercio di lunga percorrenza e nell’usura), incontrando solo in seguito le condizioni idonee per incunearsi al loro interno (come forma embrionale dei nuovi rapporti sociali capitalistici dalla quale fuoriesce la figura dell’imprenditore-committente – il capitalista esordiente). Il sorgere del capitale in effetti non sembra, alla luce dell’esposizione marxiana, un risultato organico del progresso del modo materiale di produzione della società. Come avviene allora? Interpretando il capitolo del Capitale sull’accumulazione originaria[134] come una delle manifestazioni filosofiche della “corrente sotterranea” del “materialismo aleatorio”, in uno dei suoi ultimi lavori[135] Louis Althusser ha definito l’“incontro” storico fra il proprietario di denaro ed il proletario come un evento “aleatorio”: casuale come congiuntura storica, e accidentale nella possibilità di “presa” sul tessuto sociale e produttivo[136]. I primi elementi di questa concezione teorica, a nostro avviso, si trovano proprio in questa seconda parte delle Formen. Inizialmente, in questo testo, si ha semplicemente una riproposizione dei capisaldi del materialismo storico (carattere storico essenziale dello sviluppo delle forze produttive materiali) come correzione degli esiti estremi cui giungeva la prima parte delle Formen (con la relativa insistenza sul concetto di ‘forze produttive umane’). Fin dall’inizio della seconda parte, però, sotto la pressione dell’esigenza di fissare la specificità storica del capitale rispetto alle forme precapitalistiche, l’accento si sposta impercettibilmente sul ‘grado necessario’ di sviluppo delle forze produttive come uno (sebbene il più essenziale) dei fattori necessari alla genesi storica del capitale. Infine, in diretta contrapposizione con la teoria smithiana, Marx intesse una teoria secondo la quale il capitale come forma compiuta sorge storicamente quando la sua forma preistorica (il patrimonio monetario) incontra altre determinate di condizioni. La genesi del capitale dunque non viene più ad essere descritta come momento necessario dello sviluppo storico complessivo – ma come portato casuale dell’incontro fra processi storici distinti, nell’ambito di una particolare situazione storica capace di favorire la ‘presa’ dei rapporti di produzione che si ingenerano, ed il loro sviluppo in un nuovo modo di produzione. Quale significato ha il profilarsi di questa concezione all’interno del corpo complessivo dei Grundrisse? § 4.3. Genesi storica aleatoria ed imposizione necessaria del capitale: un quadro teorico dello sviluppo storico alternativo ai modelli precedenti Nelle ultime pagine delle Formen, nuovamente Marx affronta il problema del senso del processo storico, a partire dal quesito cruciale: come sorge storicamente il capitale? Ma, adesso, a questa domanda se ne stringe un’altra: una volta sorto, come si impone storicamente il capitale? Ora è questo secondo interrogativo che muove l’indagine marxiana e sembra porre i presupposti per rispondere al primo. I presupposti storici del capitale sono riesaminati da Marx in relazione alla funzione storicamente ‘attiva’ del patrimonio monetario. 1) La logica ferrea del valore di scambio, secondo Marx, in sé stessa, tende ad espandersi ed imporsi come logica economica. Quindi già nel patrimonio monetario, nella misura in cui esso rappresenta l’esordio storico del valore di scambio, è implicita una tendenza storica espansiva – che agisce ai margini dei precedenti modi di produzione. Il patrimonio monetario, in tal senso, ha una propria storia ed agisce storicamente secondo una sua logica immanente – in modo marginale. 2) La logica ferrea del valore di scambio, per sé stessa, una volta incarnata nel sistema produttivo come modo di produzione (capitale), agisce efficacemente sugli altri modi di produzione distruggendoli ed inglobandoli sotto il sistema del valore di scambio. Il capitale diviene modo di produzione egemone e tende ad assorbire rapporti sociali in precedenza unicamente fondati sul valore d’uso – la sua azione storica si fa tendenzialmente universale. In primo luogo, “[…] lo sviluppo dello scambio e del valore di scambio, che ovunque è mediato dal commercio o la cui mediazione può essere chiamata commercio – il denaro riceve una sua esistenza nel ceto mercantile, esattamente come la circolazione nel commercio – porta con sé sia la dissoluzione dei rapporti di proprietà del lavoro sulle sue condizioni di esistenza da una parte, sia la collocazione del lavoro stesso entro le condizioni oggettive della produzione; rapporti che esprimono tutti un predominio tanto del valore d’uso e della produzione diretta al consumo immediato, quanto di una comunità reale che esiste ancora immediatamente come presupposto della produzione”[137]. Il patrimonio monetario come forma preistorica del capitale, benché non sia in grado di trasformare la produzione – ancora fondata sul valore d’uso –, tende in sé stesso già ad intaccare i rapporti comunitari ed i rapporti di proprietà del lavoratore sulle sue condizioni di esistenza. In secondo luogo: “La produzione basata sul valore di scambio e la comunità basata sullo scambio di questi valori di scambio […], e il lavoro come condizione generale della ricchezza”, prosegue Marx riferendosi adesso all’avvenuta appropriazione del processo di produzione da parte del valore di scambio ed alle sue conseguenze, “[…] presuppone e produce la separazione del lavoro dalle sue condizioni oggettive”[138]. Il capitale, come forma storica sviluppata – come modo di produzione, per sé stesso –, non soltanto presuppone e riproduce al suo interno[139] una già compiuta separazione del lavoratore dalle condizioni oggettive del lavoro, ma la produce – ed impone – al suo esterno. Sia come patrimonio monetario che come capitale, dunque, il processo di sviluppo del valore di scambio presuppone logicamente e tende a produrre storicamente la separazione del lavoro dalle condizioni oggettive del lavoro. Ma fra i due modi in cui il valore di scambio agisce storicamente – marginale (patrimonio monetario) ed egemone (capitale) – vi è una ‘dannata differenza’. Dopo aver spregiudicamene sottolineato la tensione logica e l’azione storica del patrimonio monetario (e quindi del denaro) come espressione della logica del valore in generale, Marx mette in luce proprio la differenza specifica – il salto storico – che stacca fra loro patrimonio monetario e capitale. 1) La genesi storica del capitale, innanzitutto, è temporalmente e localmente determinata: “Solo all’epoca del tramonto del feudalesimo, in cui però ancora si svolgono lotte al suo interno – così in Inghilterra nel XIV e nella prima metà del XV secolo – si ha l’età d’oro del lavoro che va emancipandosi”[140]. Il lavoro effettivamente ‘libero’, una delle condizioni essenziali di esistenza del modo di produzione capitalistico si ha per la prima volta solo in un contesto geografico e storico determinato, a condizione di un aspro scontro di classe. 2) La comunità deve già apparire in una forma ampiamente indebolita e disgregata perché il patrimonio monetario possa fare breccia. 3) Lo sviluppo necessario delle forze produttive non coincide affatto con lo sviluppo logico del valore di scambio e con il processo storico del patrimonio monetario. Il grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive materiali, solamente quando è sufficientemente elevato, consente l’efficace concentrazione dei mezzi di produzione sotto il controllo del capitalista, la rivoluzione del modo di produzione dominante, e l’avvento dei rapporti capitalistici di produzione come rapporti egemoni. Ma questo grado non dipende dal grado di sviluppo del patrimonio monetario se non in misura secondaria. Solo quando il patrimonio monetario incontra queste condizioni la sua azione storica, prima secondaria, diventa incisiva e decisiva. Solo allora esso si costituisce in capitale e rivoluziona il corso storico dell’umanità. Il patrimonio monetario, secondo il risultato fissato da Marx, si appropria degli operai e dei loro strumenti, e solamente in questo consiste l’accumulazione originaria del capitale: nell’inserire condizioni già esistenti, separate con la violenza, in nuovi tipi di rapporti (solo in germe esistenti nel patrimonio monetario stesso), costituendo nuovi rapporti di produzione (capitalistici). Ora Marx approfondisce ulteriormente questi temi: 1) descrivendo in modo più accurato il processo storico aleatorio di trasformazione del patrimonio monetario in capitale; 2) evidenziando che il capitale all’inizio sorge solamente come un modo di produzione affianco ad altri modi di produzione; 3) deducendo dalla logica ferrea del valore specifica di questo particolare modo di produzione la necessità storica della sua imposizione sugli altri modi di produzione. Secondo Marx, il capitale storicamente nasce nella figura dell’imprenditore committente, come emanazione ‘mostruosa’ del patrimonio monetario. Il patrimonio monetario vegeta ai margini dei precedenti modi di produzione, occupandone i pori e le zone di confine. Il capitale stesso sorge ai margini di questi modi di produzione, come modo di produzione secondario che prolifica negli spazi vuoti. Dapprima riveste un ruolo insignificante nella compagine sociale; poi in virtù della sua intrinseca aggressività ne attacca i precedenti fondamenti economici, scompaginandola. In tale senso, evidentemente, si orienta la descrizione storica svolta da Marx: “La maniera in cui il denaro si trasforma in capitale si evidenzia spesso storicamente in modo addirittura tangibile quando, ad esempio, il commerciante prima fa lavorare per sé un certo numero di tessitori e filatori, che finora esercitavano la tessitura e la filatura come attività rurale collaterale, e fa di questa attività collaterale la loro fonte di guadagno principale; ma poi, una volta che se li è assicurati, li mette ai suoi ordini come operai salariati. Portarli quindi via dai loro luoghi di nascita e riunirli in una casa di lavoro, è un passo ulteriore. In questo semplice processo è chiaro che egli non ha approntato né materie prime, né strumenti, né mezzi di sussistenza per i tessitori e filatori. Tutto ciò che egli ha fatto è di averli limitati gradualmente ad un tipo di lavoro in cui essi finiscono col dipendere dalla vendita e dal compratore, dal commerciante, e finalmente col produrre esclusivamente per lui e tramite lui. Egli ha originariamente comprato il lavoro solo tramite l’acquisto del prodotto; non appena essi si limitano alla produzione di questo valore di scambio, e quindi devono produrre direttamente valori di scambio, debbono scambiare completamente il loro lavoro con denaro, per poter continuare a vivere, cadono in suo potere, e alla fine scompare anche la parvenza che essi gli vendessero dei prodotti. Egli compra il loro lavoro e dapprima toglie loro la proprietà del prodotto, ben presto anche quella dello strumento, oppure gliela lascia come proprietà apparente per diminuire i propri costi di produzione”[141]. Il capitale sorge nelle increspature della compagine sciale, impossessandosi di alcuni suoi elementi: di materie prime, di strumenti, e di lavoratori costretti gradualmente ad entrare in una nuova forma di relazioni sociali. Però, tessitori e filatori esistono già, telai e filatoi esistono già, quando il commerciante infine riesce ad inserirli, con le loro caratteristiche produttive proprie, in un processo di produzione-circolazione basato sul denaro – divenendo un capitalista. Gradualmente viene a generarsi un nuovo modo di lavoro ed un nuovo modo di produzione. La manifattura, che ne è l’espressione fondamentale, è parimenti nuovo modo di lavoro e nuova forma di rapporti sociali. Ma, come modo di lavoro, essa si avvale di risultati conseguiti da altri modi di produzione (abilità, mezzi e materie prime), ed addirittura di attività collaterali dell’attività agricola (filatura e tessitura); come modo di produzione in senso lato, inoltre, compare all’inizio affianco ad altri modi di produzione, interponendosi fra città e campagna. Le “forme storiche originarie in cui compare il capitale” perciò, come si esprime lo stesso Marx, sorgono “dapprima sporadicamente o localmente, accanto ai vecchi modi di produzione”; ma, gradualmente, li fanno “saltare”[142]. Come sembra evidente, non si tratta semplicemente di nuovi rapporti di produzione che subentrano come espressione più compiuta dello sviluppo delle forze produttive materiali, della trasformazione del modo di produzione considerato come unicum continuum. Piuttosto, si tratta della formazione di nuovi forme sociali di produzione, che si compendiano, più in generale, nel modo di produzione basato sul lavoro salariato. Questo nuovo modo di produzione nasce sporadicamente e localmente e, in un determinato contesto storico e geografico, è in grado di radicare appieno la propria immanente logica espansiva, di imporsi sugli altri modi di produzione, ed infine di distruggerli od inglobarli in forma nuova. Da una parte, il modo di produzione capitalistico, basato sul lavoro salariato, che presuppone storicamente lunghi e combattuti processi di espropriazione, è concretamente incarnato dalla manifattura. Essa ne è la forma originaria per eccellenza: “[…] la vera e propria manifattura (non ancora fabbrica) […] sorge là dove si produce una nuova massa per l’esportazione, per il mercato estero – dunque sulla base del precedente commercio marittimo e terrestre, nei suoi empori, come nelle città italiane, a Costantinopoli, nelle città fiamminghe, olandesi, in alcune spagnole, come Barcellona, ecc.”[143]. La manifattura quindi, germoglia in modo sporadico e localmente determinato; ed in ogni caso, aggiunge Marx: “La manifattura non investe in un primo tempo la cosiddetta industria cittadina – ma l’industria accessoria della campagna, la filatura e la tessitura, ossia quel lavoro che meno di tutti richiede l’abilità che si forma nella corporazione, la formazione artigianale”[144]. La manifattura, quindi, sorge appropriandosi dei settori produttivi in cui la concentrazione delle forze produttive ed un loro grado elevato di sviluppo sono meno necessari. Inoltre, essa riveste sempre un ruolo inizialmente marginale, basandosi a livello economico sulla città, ma collocandosene materialmente, a livello produttivo, al di fuori; la manifattura, per lo più, “[…] non pone le sue prime sedi in città, ma in campagna, nei villaggi dove non esistono corporazioni, ecc.”[145]. “D’altra parte”, scrive Marx riferendosi ad una seconda forma nella quale inizialmente viene ad esistere il modo d produzione capitalistico, “si assiste al sorgere del fittavolo e alla trasformazione della popolazione agricola in liberi salariati giornalieri. Sebbene questa trasformazione, nelle sue ultime conseguenze e nella sua forma più pura si imponga solo da ultimo nella campagna, pure anche qui essa comincia molto presto”[146]. Ma, non soltanto la posizione del lavoro ‘libero’ nelle campagne è un processo lungo e combattuto – particolarmente contrastato forse perché in esso è in gioco la definizione del rapporto salariato proprio in rapporto alla terra dalla quale il contadino è stato espulso con la violenza –; l’introduzione in agricoltura di nuovi modi di lavoro risulta anche realizzarsi pienamente solo ‘da ultimo’, come portato di uno sviluppo già maturo del capitale. Il capitale, anche in relazione all’agricoltura, più che essere manifestazione di una nuova esigenza nello sviluppo delle forze produttive materiali e rispondere ad essa come nuovo rapporto sociale, sembra invece incentivare a posteriori lo sviluppo di queste capacità produttive, o addirittura dall’esterno venire ad imporsi nel settore agricolo, esportandovi le capacità tecniche e produttive raggiunte in altri rami della produzione ed annientando, in virtù del superiore grado delle forze produttive materiali, le forme agricole arcaiche. Solo a partire da questo duplice esordio storico marginale, il capitale muove alla progressiva conquista delle altre branche della produzione, e si impadronisce della stessa produzione cittadina, che diviene industriale nel senso moderno del termine: “La dissoluzione dei rapporti di servitù della gleba, come il sorgere della manifattura, trasformano gradualmente tutte le branche del lavoro in branche gestite dal capitale”. Infatti, solo in seguito allo sviluppo delle forze produttive cui il capitale stesso dà impulso, è possibile che esso si impossessi dell’industria cittadina, la quale “richiede una produzione altamente progredita, per poter essere gestita con criteri di fabbrica”[147]. Il capitale come modo di produzione, pertanto, secondo la ricostruzione storico-teorica propria di questa seconda parte delle Formen, non è posto dal progresso delle forze produttive materiali, ma invece pone questo sviluppo in forma nuova. Il capitale non sembra costituire, per se stesso, il portato del processo di sviluppo delle forze produttive materiali, ma invece solo un modo di produzione capace di dare un enorme impulso a questo sviluppo, un impulso tale da consentirgli di imporsi sugli altri modi di produzione con la forza. La sua logica immanente – la logica del valore – lo spinge ad estendere ed intensificare al massimo la produzione. L’estensione della produzione che esso necessita lo spinge a scontrarsi con gli altri modi di produzione; l’aumento della produttività, l’intensificazione della produzione, lo rende d’altro canto oggettivamente superiore dal punto di vista delle forze produttive materiali che è capace di generare. Quindi, una volta accidentalmente sorto, il capitale è in grado di impossessarsi della produzione nel suo complesso, e di spazzare via o sussumere (conservandoli in una posizione secondaria o subordinata) gli altri modi di produzione. L’esposizione marxiana, in questa parte del manoscritto forse in maniera ancora più evidente di quanto già non appaia nel resto dei Grundrisse, rappresenta il pensiero di Marx ancora allo stato fluido: citazioni, annotazioni, accenni, digressioni e affermazioni parzialmente contraddittorie frammentano la linea logica del discorso, aprendolo su sbocchi diversi, se non addirittura alternativi fra loro. Ma sullo scorcio finale delle Formen, a quanto pare, nel magma della ricerca marxiana si staglia una nuova e precisa riflessione, di notevole portata teorica. Anche quando Marx – adducendo come esempi vetrerie, fabbriche metallurgiche, segherie, cartiere – mette in rilievo come alcuni rami della produzione “per principio” richiedano “una maggiore concentrazione di forza lavoro”, “per principio” utilizzino “più forze materiali” e richiedano “una produzione di massa e ugualmente una concentrazione dei mezzi di lavoro, ecc.”[148], il ragionamento sembra fondamentalmente non scorrere più sul binario concettuale secondo il quale le forze produttive e le esigenze sociali materiali esigono e causano nuovi rapporti di produzione. “Vetrerie, cartiere, ferriere, ecc.,” scrive Marx, “non possono essere gestite con criteri corporativi. Esse esigono una produzione di massa; lo smercio su un mercato generale; un patrimonio monetario da parte dell’imprenditore – non nel senso che egli crei le condizioni, né quelle soggettive né quelle oggettive; ma queste condizioni nei vecchi rapporti di proprietà e di produzione non possono essere riunite insieme”[149]. Lo sviluppo di un certo tipo di forze produttive materiali, e quindi la soddisfazione di un certo tipo di bisogni, storicamente sono resi possibili prima e realizzati poi unicamente successivamente all’avvento del capitale. Ma, ancora una volta, Marx ribadisce che il capitale inizialmente – nel momento della sua nascita – non crea nulla né è espressione organica del progresso delle forze produttive; semplicemente esso riunisce elementi già esistenti, forze produttive materiali già create (accumulazione originaria), per portarli solo poi ad una straordinaria espansione ed intensificazione in virtù della propria logica e dinamica interna (accumulazione capitalistica) – ed imporsi su questa base. Marx, non soltanto adesso evidenzia il carattere specifico del capitale rispetto ai precedenti modi di produzione precapitalistici – e più in generale rispetto ai modi di produzione non-capitalistici –, ma anche il carattere specifico del capitale rispetto allo stesso sviluppo delle forze produttive materiali. Quest’ultimo non è un processo unitario e progressivo del quale il capitale è un risultato e momento organico. Il capitale, invece, è un potente moltiplicatore delle forze produttive materiali, ma in certa misura appare storicamente contingente e casuale. Su quest’ultimo aspetto, con vigore e veemenza eccezionali, insiste Marx che, per dissipare del tutto l’illusione che il capitale rappresenti la fase suprema nello sviluppo dei rapporti sociali, spinge agli estremi più radicali la sua riflessione storica, provando addirittura a desacralizzare l’aspetto progressivo dell’avvento del capitale, e a destabilizzare le più solide fondamenta dell’idea della sua ineluttabilità storica. Ne emerge un nuovo e diverso concetto della necessità storica. 1) Processi storici di lunga durata pongono i primissimi presupposti di una massa di lavoratori ‘liberi’, rendendo particolarmente debole la forma comunitaria, atomizzandola – forma germanica – e disgregandola – guerra, schiavitù, servitù della gleba. Questi processi storici sostanzialmente si svolgono indipendentemente dallo sviluppo del patrimonio monetario e a prescindere dal captale, che è ancora di là da venire. 2) I modi di lavoro hanno sviluppi propri, che prescindono dal patrimonio monetario. 3) Il patrimonio monetario ha uno sviluppo proprio (che non necessariamente sboccia nel capitale) 4) Abbozzi di rapporti sociali tipicamente centrali nel modo di produzione capitalistico, spiega Marx, esistono indipendentemente da esso, e già prima che esso compaia alla ribalta storica. “In verità”, annota, “le città stesse implicano, nella figura del salariato giornaliero e del manovale che non fanno parte della corporazione ecc., un elemento per la formazione del lavoro salariato vero e proprio”[150]. 5) L’azione violenta di espropriazione e di costrizione al lavoro salariato è parte di un processo lungo e tormentato – la posizione storica effettiva del lavoratore ‘libero’ è il risultato di lotte di classe secolari e spietate. L’incontro casuale – storicamente e geograficamente determinato – di questi processi ad un loro stadio determinato, ed il porsi – dopo un’aspra lotta – di determinati loro risultati in una specifica relazione organica nella quale tali risultati figurano come parti integranti di un unico processo di produzione, questi due fenomeni, segnano la genesi storica del modo di produzione capitalistico. Questo nuovo modo di produzione inizialmente si interseca con altri modi di produzione e li affianca. Più modi di produzione, allora, esistono contemporaneamente, e si vengono oggettivamente a trovare in competizione e contrapposizione fra loro. Necessariamente si afferma sugli altri il più produttivo e distruttivo: il capitale. “Se dunque abbiamo visto che la trasformazione del denaro in capitale presuppone un processo storico che ha separato le condizioni oggettive del lavoro, le ha rese autonome di fronte all’operaio”, scrive Marx, “d’altra parte l’effetto del capitale una volta sorto, e del suo processo, è di subordinare a se stesso tutta la produzione e sviluppare e portare a compimento dappertutto la separazione tra lavoro e proprietà, tra lavoro e condizioni oggettive del lavoro. Si vedrà, nello sviluppo ulteriore, come il capitale distrugge il lavoro artigiano, la piccola proprietà fondiaria lavoratrice, ecc., e se stesso, in quelle forme in cui esso non si presenta in antitesi al lavoro – nelle forme del piccolo capitale, e in quelle forme intermedie, ibride, tra i vecchi modi di produzione (o come essi si sono rinnovati sulla base del capitale) e il modo di produzione classico, adeguato al capitale”[151]. Il patrimonio monetario “in sé e per sé è assolutamente improduttivo”[152]. Il capitale, invece, è fondamentalmente produttivo ed espande con violenza la produzione: “Il capitale si forma rapidamente un mercato interno per il fatto che liquida tutte le industrie accessorie della campagna, quindi fila, tesse per tutti, veste tutti, ecc., in breve dà alle merci, prima create come valori d’uso immediati, la forma di valori di scambio […]”[153]. L’artigianato cittadino crea esso stesso valori di scambio, ha bisogno dello scambio; ma “[…] lo scopo fondamentale, immediato di questa produzione è il sussistere in quanto artigiano, in quanto maestro artigiano, dunque valore d’uso; non è l’arricchimento, non è il valore di scambio in quanto valore di scambio. La produzione è pertanto ovunque subordinata a un consumo presupposto, l’offerta è subordinata alla domanda, e si espande solo lentamente”[154]. Esattamente al contrario, il capitale estende ed intensifica costantemente la produzione, e con ciò stesso riproduce ed estende violentemente sé stesso in quanto modo di produzione: “La produzione di capitalisti e di operai salariati è dunque un prodotto fondamentale del processo di valorizzazione del capitale”[155]. *** I Grundrisse rappresentano un gigantesco sforzo di rielaborazione dialettica del materialismo storico. Nella duplice dialettica hegeliana dello Stato (filosofia del diritto e filosofia della storia) Marx scorge una concezione capace di connettere e parimenti distinguere scienza dell’oggetto attuale e scienza della storia. È a questa dialettica che Marx si appella, nel proprio sforzo di separare, entro una concezione unitaria della società e della storia, la scienza economica attuale (e le leggi della società moderna) da una parte, e lo sviluppo storico complessivo (e la sua comprensione) dall’altra. La concezione della storia, in questa sua nuova conformazione dialettica, si ridefinisce in termini multilineari-unidirezionali. Il principio per cui le forze produttive si sviluppano e determinano la trasformazione del modo di produzione e della società nel suo complesso – fissato nell’Ideologia tedesca – nei Grundrisse viene cioè modificato in duplice senso: 1) le linee storiche di sviluppo delle forze produttive sono molteplici – anche se in definitiva devono convergere nel comunismo come fine ultimo della storia e nel capitale come tappa intermedia; 2) ogni modo di produzione è concepito come una totalità organica, come una formazione economico-sociale da esaminare nella sua specificità e nel suo sviluppo peculiare. Ma, se la storia ha un senso e muove a grandi linee in una direzione – il comunismo –, allora è anche individuabile una direttrice fondamentale dello sviluppo storico. Il modo in cui si genera in un determinato contesto storico e geografico il capitale – punto di convergenza delle linee storiche che prepara il comunismo – assume da questo punto di vista un significato essenziale. Nel tematizzare questo sviluppo, però, insorgono nuovi e potenti problemi, che pregiudicano l’esito dell’operazione marxiana nel suo fine di storicizzare le leggi economiche dell’economia politica. Il quadro del materialismo storico così come era formulato nell’Ideologia tedesca, e così come viene rielaborato nei Grundrisse, nelle Formen non soltanto incontra e fa i conti con delle difficoltà, ma viene sviluppato fino ad un suo ‘punto critico’ (prima parte delle Formen). La necessità storica che allaccia i modi di produzione che precedono il capitale infatti – proprio a cagione della specificità di questi modi di produzione come formazioni economico-sociali con una loro storia antichissima, un loro durevolezza ed una loro logica precipua –, nelle Formen sembra sfuggire alla sua caratterizzazione materialistica come sviluppo delle forze produttive materiali, e scivolare od appoggiarsi all’ambiguo concetto di sviluppo delle ‘forze produttive umane’. Quando Marx cerca di ristabilire i fondamenti del materialismo storico in relazione alla questione della genesi del capitale (seconda parte delle Formen), sembra ormai configurarsi un quadro teorico non soltanto diverso – rielaborato – ma alternativo rispetto a quello originario. Verso questo nuovo quadro teorico scivola l’intera esposizione. Nella concezione dell’accumulazione originaria che si profila, il capitale nasce casualmente dall’incontro di una serie di fattori storici (fra i quali un grado determinato di sviluppo delle forze produttive). Casualmente trova le condizioni iniziali adatte alla sua germinazione. Giunto ad esistere come modo di produzione, casualmente fa ‘presa’. Una volta attecchito, però, sistematicamente e necessariamente – per la sua stessa natura e logica specifica – tende a proliferare ed accrescersi. Esso distrugge, in virtù della propria oggettiva ‘superiorità’ dal lato delle forze produttive-distruttive materiali che incessantemente genera ed accresce, gli altri modi di produzione. Essi inizialmente continuano ad affiancarlo, ma che nella loro forma propria non possono resistergli. La storia, pertanto, non può più essere essenzialmente riassunta né come sviluppo unilineare del modo di produzione materiale (considerato come sostanza unitaria della società e della storia) – Ideologia tedesca –, né come progresso multilineare ma orientato (teleologicamente necessario) delle forze produttive materiali – Grundrisse. La storia invece deve essere pensata come confronto-scontro fra più modi di produzione contrapposti. Il progresso delle forze produttive materiali, conseguentemente, viene ad assumere una dimensione violenta di carattere diverso dalla precedente: la violenza non è più un momento indispensabile nella realizzazione dello sviluppo teleologicamente necessario, essenzialmente progressivo, delle forze produttive; al contrario, la necessità del progresso delle forze produttive ha una sua componente e determinazione essenziale nel carattere distruttivo delle forze produttive stesse. La formazione economico-sociale che dà impulso maggiore alle forze produttive materiali – in virtù della propria logica specifica –, nelle misura in cui queste forze produttive materiali sono parimenti forze distruttive nei confronti degli altri modi di produzione e rapporti sociali, tende ad imporsi storicamente su di essi o almeno a costringerli a tenere il passo. Sulla necessità dello sviluppo delle forze produttive materiali, perciò, si innesta una seconda necessità, che ne esaspera il senso: la selezione dei modi di produzione più produttivi-distruttivi. Questo nuovo quadro teorico, appena abbozzato, è uno scivolamento del precedente (sul piano inclinato rappresentato dal tema della specificità storica del capitale).Visto il suo carattere radicalmente alternativo a quello dominante nei Grundrisse, però, sembra costituire un momento oggettivo e non trascurabile di crisi della rielaborazione dialettica del materialismo storico e dei Grundrisse nel loro complesso. Se e come il pensiero successivo di Marx si determini in relazione a questa crisi, potrà essere tema di altre ricerche. NOTA BIBLIOGRAFICA FONTI RACCOLTE DELLE OPERE DI MARX Marx-Engels Gesamtausgabe (MEGA); 1) Dietz, Berlino, 1975-1991; fino al 1989 a cura degli istituti per il marxismo-leninismo (IMEL) di Mosca e di Berlino, poi a cura dell’IMES (fondazione internazionale Marx-Engels) di Amsterdam; 2) Akademie, Berlino, 1992 - in corso di pubblicazione; proseguimento della precedente edizione sulla base di nuovi criteri e secondo un piano di pubblicazione ridimensionato, a cura di: IMES di Amsterdam e Berlino, BBAW (Accademia delle scienze di Berlino e Brandeburgo), RNI (Istituto per i problemi sociali e delle nazionalità) di Mosca, Karl-Marx-Haus di Treviri e Aix en Provence; volumi pubblicati dal 1975 ad oggi: 45 (in 52 tomi più altrettanti tomi di apparato critico); volumi previsti secondo il nuovo piano: 114 (in 114 tomi più altrettanti tomi di apparato critico) Marx-Engels Werke (MEW), Dietz, Berlino, 1956-1968; a cura dell’IMEL di Berlino; 41 voll.(più altri quattro volumi di integrazioni e registri) Marx K., Engels F., Opere complete (OC), Editori riuniti, 1972 – interrotta; 32 voll. pubblicati (su 51 previsti) Marx K., Engels F., Opere scelte (OS), II edizione, Editori riuniti, Roma, 1969; a cura di L. Gruppi; pp. XXIII-1288 Marx K, Opere filosofiche giovanili (OFG), IV edizione, Editori riuniti, Roma, 1969; a cura di G. Della Volpe; pp. 284 OPERE DI MARX Marx K., Differenz zwischen demokritischen und epikureischen Naturphilosophie, MEGA, I/1; trad. it.: Differenza fra la filosofia di Democrito e quella di Epicuro, OC, I, 1980, pp. 19-102 Marx K., Kritik des Hegelschen Staatsrechts, MEW, I, trad. it. di G. Della Volpe: Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (§§ 261-313), OFG, pp. 15-142 Marx K., Zur Judenfrage, MEW, I; trad. it. di R. Panieri: id., La questione ebraica, Editori riuniti, Roma, 1991, pp. XV-69 Marx K., Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, MEW, XL; traduz. it. di G. Della Volpe: Manoscritti economico-filosofici del 1844, OFG, pp. 143-278 Marx K., Engels F., Die heilige Familie, oder Kritik der kritischen Kritik. Gegen Bruno Bauer und Konsorten, MEGA, I/3; trad. it. di A. 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Heinrich, Die Wissenschaft vom Wert, Argument, Hamburg, 1991, e id., Geschichtsphilosophie bei Marx, in <<Beiträge zur Marx-Engels Forschung>>, Argument, Berlin-Hamburg, 1996, pp. 62-72. [2] In proposito cfr. Sweezy, La crisi e la teoria del valore in Marx, in: Merker (a cura di), Marx, un secolo, cit., pp. 225-272. [3] Vadée in proposito ha osservato: “Una tendenza esprime una necessità allo stato di possibilità” (Vadée, Marx penseur du possibile, Hrmattan, Paris, p. 205). [4] Cfr. Lineamenti, II, VI, pp. 332-335 e pp. 341-42. [5] Cfr., Krätke, Kapitalismus und Krisen. Geschichte und Theorie der zyrklischen Krisen in Marx’ ökonomischen Studien 1857/58, in <<Beiträge zur Marx-Engels Forschung>>, Argument, Berlin-Hamburg, 1998, pp. 5-44. [6] Secondo il piano della critica dell’economia politica, la concorrenza doveva collocarsi fra l’accumulazione e concentrazione del capitale, considerato nella sua particolarità. Cfr. Lineamenti, I, II, pp. 226-27. Sul cambiamento di posizione della concorrenza nelle opere successive, cfr. Fineschi, Ripartire da Marx, cit., pp. 187-194. [7] Lineamenti, I, III, p. 299. [8] Lineamenti, I, III, p. 299. [9] Lineamenti, II, IV, p. 6. [10] Lineamenti, II, IV, p. 65. [11] Richiamandosi esplicitamente alla tesi, sostenuta da Heinrich, di una doppia natura degli scritti marxiani di critica dell’economia politica, nei quali convivrebbero una filosofia della storia e la scienza sociale del modo di produzione capitalistico come formazione economico-sociale, Jannis Milios ha rintracciato nella centralità che la categoria di capitale in generale assume nei Grundrisse la prima ed essenziale fondazione del metodo ‘scientifico’ marxiano. Importante, però, è spiegare come questa categoria sorga all’interno di un piano dialettico complessivamente volto e dominato dalla filosofia della storia e se ne distacchi solo lentamente e, almeno nei Grundrisse, in maniera ancora parziale. Cfr. Milios, Der Marxsche Begriff der asiatische Produktionsweise und die theoretische Unmöglichkeit einer Geschichtsphilosophie, in: <<Beiträge zur Marx-Engels Forschung>>, Hamburg-Berlin, 1997, pp. 101-113. [12] Il titolo Formen, die der kapitalistischen Produktion vorhergehen, come più in generale la stessa suddivisione in paragrafi dei Grundrisse, non risale direttamente al manoscritto marxiano. Originariamente, infatti, pochissimi titoli ne scandivano le pagine. Marx compilò un indice solo in un secondo momento, per rendere il manoscritto più agevolmente consultabile. Sulla base di questo indice, in seguito, i primi curatori (sotto la guida di Pavel Veller) ritennero opportuno suddividere in paragrafi il manoscritto, per facilitarne ulteriormente lo studio. La suddivisione, stabilita per la prima volta nell’edizione curata dall’Istituto Marx-Engels-Lenin (IMEL), pubblicata fra il 1939 ed il 1941 a Mosca, divenne canonica per le edizioni successive, fra cui quelle italiane (sia quella curata da Grillo, sia quella successiva curata da Giorgio Backhaus). Sull’argomento cfr. l’introduzione di Backhaus in Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (‘Grundrisse’), Einaudi, Torino, 1977, vol. I (in particolare a p. XXX), e quella di Grillo in Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, 1857-58, La nuova Italia, Firenze, 1997, vol. I, pp. V-XV (edizione che qui assumiamo come riferimento principale). [13] All’incirca la parte inclusa fra pagina 94 e pagina 126 del II volume dei Lineamenti. [14] All’incirca la parte inclusa fra pagina 126 e pagina 148 del II volume dei Lineamenti. [15] Lineamenti, II, IV, p. 95. [16] Lineamenti, II, IV, p. 95. [17] Marx, con il termine “lavoratori”, sembra in questo caso riferirsi ai lavoratori salariati come lavoratori puri e semplici, privi di proprietà. [18] Lineamenti, II, IV, pp. 95-96. [19] Lineamenti, II, IV, p. 95. [20] Lineamenti, II, IV, p. 96. Cfr. pp. 96-98. [21] Lineamenti, II, IV, p. 98. Cfr. pp. 98-100. [22] Lineamenti, II, IV, p. 102. Cfr. pp. 102-108. [23] Lineamenti, II, V, p. 108. [24] Cfr. Lineamenti, II, V, p. 107, passim. [25] Il punto d’osservazione da cui prende le mosse l’indagine storica marxiana, in sostanza, è fissato nella dissoluzione finale delle forme di proprietà individuale delle condizioni oggettive del lavoro, e delle comunità che ad esse corrispondono, dissoluzione che figura quale presupposto del lavoro salariato e del capitale. Il capitale stesso, pertanto, risulta il riferimento principale stabilito da Marx per orientarsi nella ricostruzione storica. Perciò, la ricerca diventa ricerca storica dei presupposti strutturali del capitale come formazione economico-sociale attuale. [26] F. d. diritto, § 203, p. 202. [27] F. d. diritto, § 203, Z. 128, p. 416. [28] F. d. diritto, § 204, Z. 129, p. 417. [29] F. d. diritto, § 206, p. 204. [30] F. d. diritto, § 206, A., p. 205. [31] Cfr. F. d. storia. Hegel suddivide il cammino della storia universale in: mondo orientale, mondo greco, mondo romano, mondo germanico. In quest’ultimo significativamente rientra, dopo la trattazione dell’alto Medioevo e del Medioevo, anche la storia dell’epoca moderna. [32] A questo proposito bisogna segnalare come Milios, nel già citato articolo apparso sui Beiträge zur Marx-Engels Forschung, si sia richiamato proprio alle Formen – in particolare attraverso la tematizzazione che in questo testo è data alla forma sociale asiatica – per sottolineare l’elaborazione, propria dei Grundrisse in genere, del concetto di modo di produzione in quanto unità complessa di forze produttive e rapporti di produzione, e più in generale unità organica economica, ideologica (culturale) e politica. L’indagine dello sviluppo del modo di produzione materiale – del modo di lavoro, che in quanto tale nella concezione materialistica di Marx costituisce il cuore dello sviluppo storico –, soprattutto nelle prime battute delle Formen, riveste in effetti in quanto tale per così dire un ruolo di secondo piano. L’esame del modo materiale di produzione, infatti, sembra non rappresentare direttamente il centro dello svolgimento teorico delle Formen, rimanendo volutamente sullo sfondo di una trattazione che sembra contemplare invece la struttura sociale come insieme compatto dei rapporti economici (struttura economica) sociali, religiosi e politici. “Deve essere sottolineato”, scrive pertanto Milios richiamandosi alle conclusioni di Althusser in merito al Capitale, “che il modo di produzione asiatico è un oggetto teorico, che non rinvia solamente alle caratteristiche strutturali delle relazioni economiche, ma anche all’esistenza di un tutto sociale strutturato che si costituisce attraverso l’annodamento dell’economico, del politico e dell’ideologico” (Milios, Der Marxsche Begriff der asiatische Produktionsweise, cit., in <<Beiträge>>, cit., 1997, p. 102 – traduzione nostra). [33] Pure se svolta in termini ‘strutturalistici’, la linea storica individuata da Marx è storicamente essenziale in relazione allo sviluppo storico complessivo. Da questo punto di vista i Grundrisse sono estremamente lontani rispetto alla lettura della teoria marxiana svolta da Althusser. [34] Almeno dal punto di vista storico-filosofico, in tal senso, rimane fondamentalmente valida la critica rivolta da Sebastiano Timpanaro contro l’interpretazione strutturalistica della teoria marxiana. Cfr. Timpanaro, Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa, 1970. [35] Cfr. Lineamenti, II, V, p. 114, passim. [36] Lineamenti, II, V, p. 110. [37] Questo primo stadio storico, secondo Marx, non rappresenta un livello sociale pre-economico, ma, semplicemente pre-borghese. La polemica di Marx qui si indirizza esplicitamente, per l’ennesima volta nei Grundrisse, contro Proudhon, e la sua inconsapevole assolutizzazione della società borghese. Cfr. Lineamenti, II, V, pp. 113-14. [38] Lineamenti, II, V, p. 112. [39] Lineamenti, II, V, pp. 116-17. [40] Cfr. Lineamenti, II, V, p. 117, passim. [41] Lineamenti, II, V, p. 119. [42] Lineamenti, II, V, pp. 118-19. [43] Lineamenti, II, V, pp. 119-20, passim. [44] Lineamenti, II, V, p. 120. Marx qui si riferisce direttamente alla modifica del modo di produzione in quanto tale, come essenza della trasformazione sociale. La caccia trasforma la terra in territorio di caccia; l’agricoltura ne fa un’estensione del corpo dell’individuo, un suo “prolungamento”. L’esempio concreto che Marx adduce, è quello della fondazione della città di Roma: “Dopo che la città di Roma fu costruita e le terre circostanti furono coltivate dai suoi cittadini, le condizioni della comunità erano diventate diverse rispetto a quelle precedenti” (ibidem). [45] Lineamenti, II, V, p. 120. [46] “Nell’atto della riproduzione stessa non si modificano solo le condizioni oggettive, ad esempio il villaggio diviene città, la boscaglia terreno arativo ecc., ma si modificano anche i produttori in quanto estrinsecano nuove qualità, sviluppano e trasformano se stessi attraverso la produzione, creano nuove forme e nuove concezioni, nuovi tipi di relazioni, nuovi bisogni ed un nuovo linguaggio”, Lineamenti, II, V, p. 121. [47] Lineamenti, II, V, p. 121. [48] “Dove c’è già una separazione dei membri della comunità come proprietari privati da se stessi come comunità cittadina e titolari del territorio urbano, la intervengono anche condizioni grazie alle quali il singolo può perdere la sua proprietà, cioè il duplice rapporto che fa di lui un cittadino con parità di diritti, membro della comunità, e proprietario. Nella forma orientale questa perdita è quasi impossibile, tranne che per influssi completamente esterni, in quanto i singolo membro della comunità non entra mai con essa in un rapporto libero, in virtù del quale egli possa perdere il suo legame (oggettivo, economico, con essa)”, Lineamenti, II, V, p. 121. Alcune pagine prima, in merito agli effetti storici della modificazione della posizione del singolo rispetto alla comunità (antica), Marx scrive: “Se il singolo modifica il suo rapporto con la comunità, con ciò egli modifica la comunità stessa e produce effetti distruttivi sia su di essa, sia, anche, sul presupposto economico; d’altra parte si ha la modificazione di questo presupposto economico […]” (ivi, II, V, pp. 110-111). La modificazione della condizione del singolo, tanto più possibile quanto più esso appare svincolato dai legami comunitari originari, appare dunque una condizione del progresso storico. Questa tendenza storica, d’altro canto, è considerata il lato essenziale dell’evoluzione sociale delle forme precapitalistiche fin dai suoi primi sviluppi: “Di fatto quanto meno la proprietà del singolo può essere valorizzata solo mediante il lavoro comune – come ad esempio gli acquedotti in Oriente – tanto più il carattere puramente naturale della tribù viene spezzato dal movimento storico della migrazione; quanto più poi la tribù si allontana dalla sua sede originaria e occupa territorio altrui, e quindi viene a trovarsi in condizioni di lavoro sostanzialmente nuove, nelle quali si sviluppa di più l’energia del singolo […], tanto più sono date le condizioni per le quali il singolo diventa proprietario privato del territorio […]” (ivi, II, IV, pp. 99-100). [49] Lineamenti, II, V, pp. 121-122. [50] Lineamenti, II, V, p. 122. [51] Lineamenti, II, V, p. 122. [52] Lineamenti, II, V, p. 111. [53] Lineamenti, II, V, p. 124. [54] Questo importante studio di Hobsbawm, tradotto in italiano, costituisce l’introduzione della terza edizione nostrana delle Formen. Cfr. K. Marx, Forme economiche precapitalistiche, Editori Riuniti, Roma, 1970. [55] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori riuniti, Roma, 1969, Prefazione, p. 6. [56] Hobsbawm, Introduzione a: Marx, Forme di produzione precapitalistiche, op. cit., p. 12. [57] ivi, pp. 34-35. [58] ivi, p. 36. [59] ivi, p. 31. [60] Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 18. [61] Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 41. [62] Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 36. [63] Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 59. [64] Hobsbawm sottolinea in modo molto marcato come i Grundrisse siano un’opera della maturità. Già nella prima pagina della sua Introduzione, significativamente, Hobsbawm evidenzia come, fra gli scritti di Marx ed Engels pubblicati postumi e studiati con una certa attenzione solo dopo il 1930, i Grundrisse rappresentino il periodo marxiano della piena maturità, e quindi debbano essere apprezzati come uno dei sommi vertici nello sviluppo del pensiero marxiano. Cfr. Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 7. [65] Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 9. [66] Marx, Per la critica, cit., Prefazione, p. 5. [67] In un passo già ricordato delle Formen che, significativamente, anche Hobsbawm cita nella sua introduzione, del processo storico che conduce dalle forme precapitalistiche al capitale, Marx scrive: “Tutte le forme (più o meno naturali, ma tutte al tempo stesso anche risultati di un processo storico) […] corrispondono necessariamente solo ad uno sviluppo limitato, e limitato in linea di principio, delle forze produttive. Lo sviluppo delle forze produttive le dissolve e la loro dissoluzione si risolve in uno sviluppo delle forze produttive umane. Si lavora dapprima su una certa base – soltanto naturale – poi su un presupposto storico. Poi però questa base o presupposto viene esso stesso soppresso, o si pone come un presupposto che tende a scomparire, che è divenuto angusto per la massa umana che progredisce” (Lineamenti, II, V, p. 124). [68] Perfino alcuni avversari teorici del marxismo umanistico e dello storicismo in generale si sono parzialmente riferiti ai risultati di questo studioso, nella misura in cui hanno tentato di sposare una lettura delle Formen in chiave strutturalista con un salvataggio in ultima istanza del ruolo egemone della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione (strutturalmente ‘dominante’ – sebbene ‘surdeterminata’ – nella società moderna) ad un livello storico complessivo. Così Balibar, in: Althusser, Balibar, op. cit., pp. 217-337. In Italia, l’influenza dello studio di Hobsbawm è stata largamente mediata dall’opera di Luporini. Nel saggio Marx secondo Marx (apparso sulla rivista Critica marxista del marzo-giugno 1972 e riproposto nel 1974 nel libro Dialettica e materialismo), infatti, Luporini si è direttamente richiamato all’interpretazione delle Formen dell’autore anglosassone. Luporini ha ammesso, con Hobsbawm, che le Formen rappresentino il contenuto della storia in forma soltanto generale (ivi, p. 221) e, quindi, che lo sviluppo delle forze produttive sia empiricamente dato e riconosciuto preliminarmente dall’analisi marxiana senza essere ulteriormente specificato. La necessità della connessione fra le varie forme precapitalistiche, pertanto, sarebbe solamente di tipo formale o strutturale (cfr. ivi, p. 228). In tal senso, nonostante la constatazione del ‘fallimento’ della Einleitung e delle mancanze teoriche della Vorrede, nel testo delle Formen si troverebbe la punta di diamante del metodo storico marxiano, al quale corrisponderebbe il riconoscimento del carattere non ‘unilineare’ dello sviluppo storico. Nel successivo saggio La concezione della storia in Marx, Luporini ha ulteriormente elaborato questa interpretazione, ipotizzando quale fondamento della concezione della storia dell’opera matura di Marx il concetto di necessità ipotetica o condizionale (cfr. Merker [a cura di], Marx, un secolo, Editori riuniti, Roma, 1983, p. 190). A quest’ultimo concetto, di recente, si è esplicitamente rifatto Burgio (purtroppo tralasciando il nodo problematico del fallimento e dell’incompiutezza di Einleitung e Vorrede evidenziato da Luporini). Burgio, nel suo libro Strutture e catastrofi, sostiene che la concezione marxiana della storia sia una teoria 1) che ipotizza che la storia abbia un senso razionale (come trasformazione razionale del mondo da parte dell’uomo); 2) che costruisca empiricamente modelli esplicativi della storia (strutture) soggetti a smentita fattuale (catastrofi) e quindi a ridefinizione. In tal senso Burgio ammette che lo sviluppo storico (della soggettività) si esprima (realmente e teoricamente) in una “necessità flessibile (o ‘ipotetica’)” (Cfr. Burgio, Strutture e catastrofi, Editori riuniti, Roma, 2000, in particolare p. 174 e p. 190). In generale pertanto, al di là di una valutazione complessiva del lavoro di Burgio (il cui intento di cogliere il metodo essenziale di Marx e di renderne in forma sistematica il pensiero forse pregiudica eccessivamente l’analisi del loro sviluppo teorico), esso sembra comunque direttamente o indirettamente debitore rispetto ai risultati tratti da Hobsbawm a proposito delle Formen e della concezione marxiana della storia. [69] Nelle conclusioni della sua introduzione alle Formen, lo stesso autore anglosassone si richiama direttamente al significato ed alle implicazioni politiche, tanto dell’affermazione quanto del rifiuto dell’interpretazione “unilineare” del materialismo storico. Secondo Hobsbawm, l’interpretazione unilineare della storia propria del marxismo dottrinario – interpretazione che può spingersi, come l’autore anglosassone non manca di sottolineare, fino ad eliminare dallo schema originale di Marx il modo di produzione asiatico per rendere ancora più semplice e deterministica la successione dei modi di produzione –, è risultata vantaggiosa, da un punto di vista diplomatico e politico, per il movimento comunista internazionale a guida sovietica, benché totalmente inadeguata “scientificamente”, per il fatto che essa “elimina la distinzione tra società che nel passato hanno mostrato una maggiore o minore tendenza intrinseca a un rapido sviluppo storico, e perché rende difficile a particolari paesi di poter pretendere di costituire un’eccezione alle leggi storiche generali” (Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 59, passim). La polemica sul carattere della concezione marxiana della storia, in effetti, aveva assunto particolare rilievo nel contesto delle dispute interne al movimento comunista della seconda metà del Novecento, ed in particolare in relazione al ‘ruolo guida’ dell’URSS. Proprio ai nomi dei marxisti più apertamente critici rispetto all’esperienza sovietica di socialismo ‘realizzato’, si legava il filone interpretativo ‘non-ortodosso’. In ambito teorico, certamente, questa scuola si impegnava nel mettere in discussione il determinismo ‘unilineare’ del marxismo dottrinario, così come era riscontrabile nella visione della storia fissata da Engels prima (L’origine della proprietà privata, della famiglia e dello Stato – 1884) dai classici della socialdemocrazia tedesca (ad esempio Otto Bauer), e canonizzata in ambito comunista, seppure con alcune importanti differenze, dal libro di Stalin Materialismo dialettico e materialismo storico (1938). In ambito pratico, d’altro canto, a questo sforzo teorico corrispondeva il preciso intento di trovare una nuova e solida base ideologica, idonea, da un lato, a legittimare il marxismo occidentale e la sua critica della forma staliniana e sovietica di alienazione dell’individuo e di sfruttamento di classe (associata per certi aspetti ad una recrudescenza del dispotismo orientale); dall’altro, a sancire teoricamente, oltre alla necessità di una piena indipendenza politica del movimento comunista internazionale rispetto all’URSS, anche la possibilità storica di uno sviluppo autonomo e vittorioso dei movimenti di liberazione dei paesi del cosiddetto terzo mondo. Un’espressione già molto chiara dell’esigenza di una concezione materialistica della storia che non fosse ‘unilineare’ era stata rivendicata nel celebre articolo di Sweezy e Huberman dal titolo ‘Il Manifesto dei comunisti’ cento anni dopo che, apparendo nel 1949 sull’americana Monthly review, aveva fatto in tale direzione da battistrada, tracciando i contorni di un’interpretazione complessiva del pensiero di Marx sui cui risultati generali si appoggia e della cui influenza risente, anche in modo diretto, lo specifico lavoro Hobsbawm sulle Formen (cfr. Sweezy, Il presente come storia, Einaudi, Torino, 1962, pp. 15-42). Nell’ambito di questa contesa pratica e teorica interna al movimento comunista, e della connessa contesa in merito all’interpretazione veritiera del pensiero di Marx, anche Hobsbawm, pur non esimendo Marx dalle critiche, si sforza nella sua Introduzione quasi di cogliere la concezione marxiana ‘per eccellenza’, il cuore del materialismo storico tout court; ed usa le Formen in tal senso, per chiarire l’essenza della teoria di Marx nel suo insieme, come se essa costituisse un tutto coerente, per lo meno dall’Ideologia tedesca in avanti. [70] Hobsbawm mette direttamente in relazione il progresso sociale con la divisione del lavoro come base dello sviluppo delle forze produttive, e assume questo parametro interpretativo, mutuato dall’Ideologia tedesca, anche come chiave di lettura delle Formen (cfr. Hobsbawm, Introduzione, cit., pp. 10-11). Tutto il secondo capitolo dell’Introduzione di Hobsbawm (ivi, pp. 25-36), dedicato ad un esame dello sviluppo storico della concezione della storia di Marx (e di Engels), parte perciò dal presupposto che le osservazioni storiche dell’Ideologia tedesca rimangano essenzialmente valide anche nelle Formen, le quali semplicemente assumerebbero un taglio più generale nel delineare il processo storico complessivo nei termini dell’individualizzazione, del ritorno dell’individuo, estraniato, in sé stesso, senza però modificare sostanzialmente lo schema delineato nell’Ideologia tedesca in relazione alla crescente divisione sociale del lavoro come motore della trasformazione sociale. [71] Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 16. [72] Le sue caratteristiche, come scrive Hobsbawm, gli “consentono di resistere alla disgregazione e all’evoluzione economica, fino a quando viene distrutto dalla forza esterna del capitalismo” (Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 37). [73] “Di fatto, quanto meno la proprietà del singolo può essere valorizzata solo mediante il lavoro comune – come ad es. gli acquedotti in Oriente – tanto più il carattere puramente naturale della tribù viene spazzato via dal movimento storico, dalla migrazione […]”, Lineamenti, II, IV, pp. 99-100. [74] Lineamenti, II, V, p. 110. [75] Lineamenti, II, V, p. 121. [76] Lineamenti, II, V, p. 119. [77] Cfr. Milios, op. cit. [78] Secondo quanto correttamente annota Hobsbawm:“Due fattori importanti […] tendono a disgregare la società antica. Il primo è costituito dalle differenziazioni sociali in seno alla comunità, contro le quali la peculiare combinazione antica di della proprietà fondiaria della comunità con quella privata non offre alcuna difesa […]. Il secondo fattore, naturalmente è la schiavitù” (Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 38). [79] Scrive giustamente Hobsbawm: “La decadenza del mondo antico è quindi implicita nel suo stesso carattere economico sociale”. Ma, prosegue l’interprete anglosassone: “Non sembra esservi alcuna ragione logica per cui esso debba condurre inevitabilmente al feudalesimo […]” (Hobsbawm, Introduzione, cit., p. 39). [80] “Quello che è esaminato nelle Formen”, scrive Hobsbawm, “è il ‘sistema germanico’, cioè una particolare sottospecie di comunità primitiva, che quindi tende ad evolversi in un tipo particolare di struttura sociale”. Come la forma germanica si evolva in feudalesimo, non è discusso nelle Formen: “Si può azzardare l’ipotesi”, continua Hobsbawm, “che Marx attribuisse grande importanza all’organizzazione militare”. Con Engels, Hobsbawm sottolinea pure il ruolo della conquista nella trasformazione del carattere e delle funzioni del capo militare della tribù (Hobsbawm, Introduzione, cit., pp. 42-43). Cfr. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Newton Compton, Roma, 1974, p. 180 e pp. 193-94. [81] La forma germanica di proprietà della terra e di società è una forma originaria (cfr. Lineamenti, II, V, p. 122); d’altro canto il Medioevo europeo è per eccellenza il periodo germanico della storia europea (cfr. Lineamenti, II, IV, p. 105). [82] Lineamenti, II, V, p. 124. [83] Nelle Formen, a differenza che nell’Ideologia tedesca, compare il modo di produzione asiatico. Il significato teorico di questa comparsa – vale la pena sottolinearlo ancora una volta – è essenziale. L’agricoltura è già il perno di questo modo di produzione che si estende su vasta scala, senza che si possa intravvedere la necessità del passaggio alla struttura antica e alla struttura feudale della società., come passaggio che veicola o diffonde ulteriormente, su più vasta scala, l’agricoltura come base produttiva. I diversi modi di produzione asiatico, antico e germanico, inoltre, vengono tutti e tre ricondotti nelle Formen a forme originarie tribali, e configurati nella loro specificità di formazioni economico-sociali indipendenti, nonostante poi i rapporti di produzione possano e debbano venirsi a collocare entro un medesimo processo storico – questo è parimenti essenziale. [84] Id. ted., p. 14. [85] Lineamenti, II, V, p. 125. [86] Cfr. Lineamenti, II, V, pp. 124-126. [87] Il riferimento di Marx qui corre alle città medievali, all’organizzazione dei maestri artigiani e al sistema sociale corporativo nel suo insieme. In quest’ultimo: “Il lavoro è ancora personale; un determinato sviluppo autosufficiente delle capacità unilaterali” (Lineamenti, II, V, p. 125). [88] Appena prima di ribadire i presupposti puramente negativi della forza-lavoro libera e del capitale, Marx, in riferimento alla precedente analisi delle Formen, annota fra parentesi: “Su tutto ciò è necessario ritornare in modo più approfondito e più particolareggiato” (Lineamenti, II, V, p. 124). [89] Lineamenti, II, V, p. 126. [90] Cfr. Lineamenti, II, V, p. 127, passim. [91] In merito alla proprietà del “fondo di consumo” da parte del produttore entro il sistema corporativo, Marx annota: “Come maestro artigiano egli lo ha ereditato, guadagnato, risparmiato, e come garzone artigiano egli è dapprima apprendista, condizione questa in cui egli non figura ancora affatto come vero e proprio lavoratore autonomo, ma siede in modo patriarcale alla mensa del maestro. Come lavorante (effettivo), esiste una certa comunanza del fondo di consumo posseduto dal maestro” (Lineamenti, II, V, p. 126). [92] Cfr. Lineamenti, II, V, pp. 127-28, passim. [93] Lineamenti, II, V, p. 128. [94] Lineamenti, II, V, p. 127. [95] Il sistema corporativo delle città medievali, ad esempio, secondo quanto sembra trasparire dal ragionamento di Marx è sostanzialmente un prodotto di questa trasformazione materiale dalla situazione storica n. I alla situazione stoica n. II. [96] Lineamenti, II, V, p. 128. [97] Lineamenti, II, V, p. 128. [98] Lineamenti, II, V, pp. 128-29. [99] Lineamenti, II, V, p. 130. [100] Cfr. Lineamenti, I, V, pp. 130-31. [101] Lineamenti, II, V, p. 131. [102] Lineamenti, II, V, p. 132. [103] Lineamenti, II, V, pp. 132-33. [104] Lineamenti, II, V, p. 133. [105] Lineamenti, II, V, p. 133. [106] Lineamenti, II, V, p. 134. [107] Cfr. Lineamenti, II, V, pp. 134-35. [108] Lineamenti, II, V, pp. 135-36. [109] Lineamenti, II, V, p. 136. [110] Lineamenti, II, V, p. 136. [111] Lineamenti, II, V, p. 137. [112] Lineamenti, II, V, p. 137. [113] Lineamenti, II, V, p. 138. [114] Lineamenti, II, V, p. 138. [115] Lineamenti, II, V, p. 138. [116] Marx in realtà si riferisce solo ai mezzi di sussistenza. [117] Lineamenti, II, V, p. 139. [118] Lineamenti, II, V, p. 139. [119] Lineamenti, II, V, p. 139. [120] Cfr. R. d. nazioni, III, IV pp. 360-370. [121] R. d. nazioni, III, IV, p. 360. [122] Cfr. R. d. nazioni, III, IV, pp. 360-61. [123] R. d. nazioni, III, IV, pp. 363-64. [124] Cfr. R. d. nazioni, III, IV, pp. 363-365. [125] R. d. nazioni, III, IV, p. 364. [126] R. d. nazioni, III, IV, p. 365. [127] R. d. nazioni, III, IV, p. 365. [128] Lineamenti, II, V, p. 139. [129] Lineamenti, II, V, pp. 139-40. [130] Lineamenti, II, V, p. 140. [131] Lineamenti, II, V, p. 140. [132] Lineamenti, II, V, p. 141. [133] Lineamenti, II, V, p. 140. [134] Cfr. Marx, Il capitale. I, Avanzini e Torraca, Roma, 1969, vol. II, cap. XXIV, pp. 477-547. [135] Si tratta di un manoscritto risalente al 1982, pubblicato postumo. Il testo, recentemente edito in italiano sotto il titolo La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro, si trova nella raccolta curata da Vittorio Morfino e Luca Pinzolo: cfr. Althusser, Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano, pp. 55-115. [136] Cfr. Althusser, op. cit., pp. 106-115. Althusser in questa formulazione tenta di portare ad uno sviluppo più conseguente una tesi già implicitamente sostenuta in Leggere il Capitale. Nel saggio Sui concetti fondamentali del materialismo storico contenuto in questo lavoro collettivo, applicando la teoria di Althusser sulla ‘struttura’ – intesa come un tutto i cui diversi livelli hanno ciascuno con un tempo proprio – , Balibar descriveva l’accumulazione originaria nei termini di una “combinatoria”: “il passaggio, in luogo di essere pensato a livello delle strutture è pensato a livello degli elementi”. Balibar però ne traeva una conclusione puramente metodologica, segnando il confine fra il modello teorico del Capitale e la storia. Della storia, sosteneva Balibar, non si può sviluppare una ‘Teoria’, “poiché […] una tale storia [in senso teorico] non può essere fatta che pensando la dipendenza degli elementi rispetto ad una struttura” (Cfr. Althusser, Balibar, Leggere il capitale, Feltrinelli, Milano, 1971, p. 301). Nel suo scritto del 1982 Althusser, invece – nel contesto del tentativo di delineare una storia particolare della filosofia materialistica e di sviluppare parimenti una concezione complessiva (metafisica) della realtà come successione di incontri accidentali di eventi fra i quali fluttua la soggettività individuale (cfr. Althusser, Sul materialismo aleatorio, cit., pp. 114-15) –, accenna ad una lettura ontologica della descrizione marxiana dell’accumulazione originaria. Tale descrizione, secondo Althusser, rappresenta brillantemente un evento storico reale. Tuttavia, non soltanto la discussione della teoria di Marx, in quest’ultimo lavoro di Althusser, diventa secondaria, ampiamente subordinata al tentativo di costruire una metafisica del materialismo aleatorio e di ‘leggere’ in tal senso le opere – o parti delle opere – di alcuni grandi filosofi, ed all’intento di eliminare ogni teleologia ed ogni dialettica; ma anche, essa approda a risultati specifici del tutto opposti rispetto a quelli marxiani in merito all’insorgenza del capitale, ipotizzando la continuità di fondo fra la società feudale e quella capitalistica – intese entrambe come manifestazioni di un’unica strutturazione del dominio dei proprietari dei mezzi di produzione (cfr. ivi, pp. 112-13), basata su una combinazione iniziale di condizioni fortuite (che, non meglio specificate, si perdono nel mare metafisico dell’‘aleatorio’). [137] Lineamenti, II, V, p. 141. [138] Lineamenti, II, V, p. 141. [139] Infatti, nel modo di produzione capitalistico come sistema economico già fondamentalmente realizzato, lo stesso scambio di equivalenti si svela in definitiva come apparenza, come ‘parvenza dello scambio’, benché parvenza necessaria. : “[…] il sistema dei valori di scambio – scambio di equivalenti misurati sulla base del lavoro – si ribalta o piuttosto mostra, come suo sfondo nascosto, l’appropriazione di lavoro altrui senza scambio, e la completa separazione tra lavoro e proprietà” Lineamenti, II, V, pp. 141-42. [140] Lineamenti, II, V, p. 142. [141] Lineamenti, II, V, pp. 142-43. [142] Lineamenti, II, V, p. 143. [143] Lineamenti, II, V, p. 143. [144] Lineamenti, II, V, p. 143. [145] Lineamenti, II, V, p. 143 [146] Lineamenti, II, V, p. 144 [147] Cfr. Lineamenti, II, V, p. 143, passim. [148] Lineamenti, II, V, pp. 143-44. [149] Lineamenti, II, V, p. 144. [150] Lineamenti, II, V, p. 144. [151] Lineamenti, II, V, pp. 144-45. [152] Lineamenti, II, V, p. 145. [153] Lineamenti, II, V, p. 145. [154] Lineamenti, II, V, p. 145. [155] Lineamenti, II, V, p. 145. |