RIVOLUZIONE
TEORICA
E RIFORMISMO PRATICO IN POPPER
Fausto Boni
III. POPPERISMO
ED ANTIPOPPERISMO NEL PANORAMA CRITICO INTERNAZIONALE
“Non cercare la totalità
significa, in codice, non guardare il capitalismo.”
Terry Eagleton,
Le illusioni del
postmodernismo, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 22.
III.0.
INTRODUZIONE
Gli esegeti della
riflessione popperiana pur sottolineando, nella stragrande maggioranza dei
casi, l’unità complessiva della sua filosofia politica e della sua
filosofia della scienza, hanno condotto tuttavia due diverse letture,
diametralmente opposte, della sua opera. Questa infatti, come abbiamo già
avuto modo di rilevare, a causa della sua natura ambigua di spartiacque,
si presta a interpretazioni dicotomiche che schematicamente potremmo
affrontare nei termini seguenti.
Da una parte vi sono coloro che, attribuendo maggior
rilievo al momento logico formale del “modus tollens” come linguaggio
unificante le discipline scientifiche, caratterizzano l’opera di Popper
come estremo residuo del positivismo logico. I rappresentanti principali
di questo filone interpretativo sono coloro i quali fanno capo alla
cosiddetta scuola di Francoforte.
Dall’altra parte vi è viceversa chi, mettendo
maggiormente in evidenza il rigetto da parte di Popper dell’osservazione
puramente induttiva con la conseguente affermazione della sostanziale
teoreticità della base empirica della scienza, interpreta il lavoro del
filosofo viennese in chiave irrazionalistica.
All’interno delle due scuole di pensiero suddette, e
trasversalmente ad esse, vedremo anche che vi sono autori che mettono in
discussione le aporie della categoria popperiana di “storicismo”
sottolineandone la natura idealtipica.
A margine di queste interpretazioni, che data
l’importanza della filosofia di Popper in ambito internazionale ineriscono
la riflessione di tutto il mondo accademico, riteniamo infine necessario
registrare, in conclusione di questa terza parte del nostro lavoro, anche
il dibattito nazionale sviluppatosi all’indomani della pubblicazione
complessiva delle opere del filosofo viennese nel nostro Paese. Come
sottolinea Carlo Montaleone nell’introduzione di una sua opera,[1]
la vicenda della traduzione di Popper in Italia è legata a filo doppio
alla polemica politica da parte di alcuni interpreti contro il marxismo.
Costoro, in opposizione alla rilevanza dell’errore nella metodologia
popperiana, propongono “assoluti ideologici” non problematici.
“…Il grande dilemma, così come si è venuto delineando
sempre più spesso nelle pagine dense e morali di taluni scrittori: o
Popper o il gulag, o Popper – e con lui la sua etica coerentemente
individualistica, e la sua politica liberalisticamente siglata – o il
pericolo della morte intellettuale e morale nell’abbraccio “totalitario”
con gente priva di ogni spirito critico, che si sforza di occultare i
propri errori mediante stratagem-twists, stratagemmi, espedienti,
ipotesi ad hoc.”[2]
In questi termini lo spirito critico del razionalismo
popperiano si riduce al vaticinio “dell’ineluttabilità di due vie”,
limitandosi “all’idoleggiamento fideistico di un insieme di regole”, e
scoprendo il “bluff” di una interpretazione della storia che pretenderebbe
di essere, a differenza del materialismo storico, non teleologicamente
orientata.
III.1.
POPPER POSITIVISTA
Capostipiti dell’interpretazione neopositivista dell’opera
di Popper sono sicuramente i filosofi della scuola di Francoforte. Essi,
in un dibattito svoltosi a Tubingen nell’ottobre del 1961, hanno
contrapposto la propria metodologia delle scienze a quella dell’autore
viennese.
Adorno e Habermas, come interpreti della scuola di
Francoforte, rifiutano la “scienza asettica” di Popper. Egli, a loro
parere, insegue un ideale di verità oggettivo che affermi, tramite il
controllo critico di un procedimento autonomo, una “scienza orientata”
fondata sulla “immanenza alla scienza del contesto storico in cui essa si
costituisce” e sulla “complementarità di teoria e prassi”.[3]
A questo proposito,
analizzando lo status degli asserti-base che nella prospettiva popperiana
costituiscono gli elementi ultimi su cui si fonda la falsificazione
teorica e quindi il progresso scientifico, Habermas riconosce il rifiuto
effettuato da Popper della soluzione induttiva neopositivista basata su un
soggettivismo psicologistico che si arresta ai dati dei sensi. Popper,
come abbiamo visto e come riconosce Habermas, si rende conto che
proposizioni osservative rilevanti possono essere accertate solo tramite
una decisione intersoggettiva dei ricercatori. Essi infatti, nelle
esperienze percettive trovano unicamente i motivi della decisione.
Tuttavia Popper, secondo Habermas, non comprende che questa soluzione
reintroduce il “fatto” come “primum” (da qui l’etichetta attribuitagli di
positivista). Certo è un “fatto” socialmente e non induttivisticamente
fondato, ma viene tuttavia, allo stesso modo, presupposto e non
analizzato. Popper non comprende in ultima analisi che:
“l’esigenza
dell’osservazione controllata come base per decidere dell’esattezza
empirica delle ipotesi nomologiche presuppone già una precomprensione di
determinate norme sociali. Non basta conoscere il fine specifico di una
ricerca e la rilevanza di un’osservazione per determinate ipotesi, si deve
invece comprendere il senso del processo di ricerca nel suo insieme, per
poter sapere a che cosa si riferisce la validità empirica delle
proposizioni di base“[4].
Popper non riesce a
mettere a fuoco, secondo Habermas, “il rapporto che intercorre tra le
decisioni dei singoli commentatori”. Un rapporto che appare come “la
coincidenza provvisoria di decisioni soggettive”.[5]
La validità empirica
delle proposizioni di base, e quindi delle teorie delle scienze
sperimentali in genere, non è da ricercare dunque, secondo Habermas, in un
ritorno al soggettivismo neopositivista nel quale ricade anche il
razionalismo critico, ma è da ricondurre al criterio di un successo
pratico realizzato a livello sociale.
La teoria analitica della
scienza identifica il processo della ricerca come una pratica autonoma
priva di qualsiasi rapporto con la vita ed incapace di riconoscere “la
propria connessione col sistema del lavoro sociale”.[6]
I neopositivisti, e Popper con loro, istituiscono uno iato tra la
conoscenza e il processo reale della vita che, a giudizio dei
Francofortesi, occorre ricomporre mettendo in luce il rapporto reciproco
che investe questi due fattori.
È la funzione sociale
della scienza che, rendendola una forza produttiva indipendente rispetto
alla sua genesi, l’ha oggettivata autonomizzandola. Ma i positivisti non
possono riconoscere questo fatto, pena la confutazione del principio
logico-formale di non-contraddizione. Essi non possono riconoscere che la
scienza possa essere allo stesso tempo autonoma e priva di autonomia,
concetto e fatto, istituzione e vita.
“Il positivismo, per il
quale le contraddizioni sono bestemmie, ha la sua contraddizione più
profonda e inconsapevole in ciò, che ritiene di essere votato
all’obiettività più completa, purificata da tutte le proiezioni
soggettive, ma proprio per questo è tanto più prigioniero della
particolarità di una ragione meramente soggettiva, strumentale. Coloro che
si sentono vincitori dell’idealismo, gli sono molto più vicini della
teoria critica: ipostatizzano il soggetto conoscente, non più – è vero –
come creatore assoluto, ma pur sempre come il tòpos noetikòs di
ogni validità del controllo scientifico.”[7]
Sembrerebbe che Popper,
con la sua “epistemologia senza soggetto conoscente”, eviti di cadere
nella trappola del soggettivismo in cui, come riconosce lo stesso filosofo
viennese, incorre il neopositivismo. Tuttavia il terzo mondo oggettivo, o
mondo[8]
dei prodotti di pensiero, che nella riflessione popperiana fonda
autonomamente il proprio costante incremento, retroagisce sul primo mondo
fisico solo attraverso la mediazione del secondo mondo dei processi di
pensiero. Questo fa si che l’accettazione del dato di fatto oggettivo in
grado di modificare la realtà sia basata su una decisione individuale, su
valori soggettivi, per definizione imperscrutabili.
Conta poco a questo punto
che il dato piuttosto che induttivamente venga teoreticamente fondato. La
metodologia sostanzialmente non si modifica mantenendo un carattere
“assolutista e logicista” che trova la sua ragion d’essere in due momenti.
Il primo, come già
Habermas mette in luce, riguarda la non-problematicità delle regole che
guidano l’accettazione da parte dei ricercatori delle asserzioni-base.
Questi criteri non vengono indagati da Popper ma presupposti come dati dal
contesto in cui si colloca la ricerca scientifica.
Il secondo consiste nel
rigetto della dimensione storica della scienza che svincola
automaticamente le strutture teoriche sistematiche dal loro prodursi senza
che vi sia la possibilità di una storia reale tesa alla rielaborazione di
esperienza e teoria nella loro connessione reciproca.
A giudizio di Adorno,
Popper e i positivisti, avendo assimilato i vincoli che la società
esercita sul pensiero affinché esso funzioni in essa, partono da una
concezione generale della impresa scientifica similare giungendo ad una
immagine della società completamente capovolta rispetto alla realtà. La
società, nella riflessione della teoria analitica, diviene un oggetto
determinato dall’esterno, conosciuto tramite una sociologia che assume il
carattere di coscienza reificata della società stessa. La teoria critica
dei Francofortesi viceversa, riconoscendo la società come soggetto
potenzialmente autonomo, afferma la necessità di una sociologia dialettica
che rifiuti l’autonomia del dato immediato per cogliere il tutto sociale
“come sintesi di un molteplice atomizzato, come complesso reale ma
astratto di elementi”,[9]
in modo
tale da mirare all’emancipazione dal dominio politico attraverso la scelta
di finalità alternative a quelle imposte dal sistema sociale vigente.
Afferma Adorno che:
“Popper patrocina la
causa di una ‘società aperta’. Ma all’idea di questa società contraddice
il pensiero non aperto, regolamentato, che è postulato dalla sua logica
della scienza come ‘sistema deduttivo’. Il positivismo più recente è fatto
su misura per il mondo amministrato.”[10]
Non diversamente
dall’analisi dei Francofortesi, Roberto Porciello, partendo dalla
concezione “oggettiva” della verità di Popper basata sulla decisione
intersoggettiva dei ricercatori di accettare determinati asserti-base
implicante l’assunzione induttivistica del contesto sociale presupposto
alla scelta, è convinto di poter scorgere un analogo “empirismo etico” da
parte del viennese. Questa concezione è fondata sulla “possibilità di
stabilire la ‘validità’ di una decisione particolare” in base ad “un suo
riconoscimento intersoggettivo da parte dei membri della comunità
sociale.”[11]
Popper in relazione a
questo convincimento, secondo Porciello, crede che non sia impossibile
trovare un “accordo su quali siano i mali più intollerabili della
società”. Egli in questa maniera tuttavia attribuisce implicitamente ad
“esigenze” etiche urgenti come la guerra, la povertà, o la disoccupazione,
il carattere di dati oggettivi empiricamente determinati. In questa
assunzione è inevitabile ravvisare un circolo vizioso auto-giustificatorio,
che non solo ammette la possibilità di un’esperienza diretta di esigenze
etiche oggettive, ma fa scaturire da queste determinate decisioni
particolari frutto del riferimento intersoggettivo a tale esperienza.
Popper non considera
nemmeno per un istante che tali decisioni possano sorgere in base ad “un
ottuso ed acritico conformismo intellettuale intorno a valori etici
generali pregiudizialmente assunti per ‘validi’, magari perché imposti
dalla tradizione o da un’ideologia di Stato.”[12]
L’induttivismo etico che
risulta da questa concezione proclama un’attitudine acritica verso la
validità dei principi normativi assunti dall’ingegnere sociale gradualista
nella sua opera, ed eleva arbitrariamente allo stato di autorità
etico-politica assoluta l’opinione condivisa dai più, affermando un nuovo
dogmatismo.
“L’ottimistico postulato
di Popper è che ciascuno [dei principi normativi assunti], debba essere
necessariamente, nel momento storico in cui viene adottato, il migliore
possibile. Ed anche in questo caso la posizione popperiana non sembra
molto distante, salvo che per una maggior dose di ingiustificato
ottimismo, da quella dei neopositivisti, i quali, non riconoscendo dietro
le questioni di valore alcun problema dotato di senso, finiscono col
trattare le decisioni degli uomini come dati di cui prendere atto.”[13]
III.2.
POPPER IRRAZIONALISTA
Rispetto alla valutazione
dell’opera popperiana sviluppata nel precedente capitolo,
l’interpretazione di diversi autori, la cui epitome può essere individuata
nel lavoro di Antimo Negri intitolato: “Il mondo dell’insicurezza. Dittico
su Popper”, si situa esattamente agli antipodi.
Negri, nella sua opera,
afferma che la teoria della conoscenza popperiana favorisce relativismo e
scetticismo.
Nella successione delle
teorie da un grado minore ad un grado maggiore di verisimilitudine
l’autore viennese istituisce un elemento storico che, nel giudizio di
Negri, diviene inevitabilmente relativistico.
Le teorie, destinate
prima o dopo ad essere abbandonate in nome di una preferenza piuttosto che
della verità, vengono messe costantemente in discussione estromettendo i
fatti dal cosmo gnoseologico umano. In questa maniera, secondo Negri, il
razionalismo critico di Popper “rigetta un concetto di scienza capace di
generare la speranza, o addirittura la credenza, che una teoria possa
essere una visione, ed anzi una previsione, dei fatti naturali ed umani.”[14]
Il razionalismo critico,
affermando l’inconoscibilità dei fatti “in sé”, sfocia nel nichilismo
antipositivistico. Popper, come Nietzsche, rifiuta la scienza moderna come
scienza applicata fondata dal bisogno pratico di rendere calcolabile il
mondo per utilizzarlo. Egli esalta la ricerca pura, non ostacolata da
alcun interesse pratico.
L’epistemologo viennese
propone un “liberalismo gnoseologico” che inevitabilmente degenera
nell’anarchismo epistemologico di Feyerabend.
Lo scienziato puro
popperiano diviene un rivoluzionario professionista, “professionalmente
disimpegnato di ogni responsabilità di farsi scienziato applicato”.[15]
Egli è completamente avulso da qualsiasi rapporto con la realtà,
fluttuante in una dimensione algida e asettica, lontano anni luce dalla
povertà di stimoli dello scienziato normale di kuhniana memoria. Certo:
“la ‘luce’ della
‘scoperta’ non inonda di sé lo ‘scienziato applicato’. È vero. Ma lo
‘scienziato puro’ corre di avventura in avventura epistemologica, cade in
un ‘angelismo’, che talvolta è anche ‘dongiovannismo’ gnoseologico.”[16]
Questo avviene perché,
secondo Negri, Popper attribuisce all’osservazione un’attività che Kant
non concede. Kant, nella distinzione tra intelletto e sensibilità,
registra un dualismo tra teoria e osservazione che Popper disconosce. Egli
abbandona il criticismo per avventurarsi in territori di pura speculazione
irrazionale. Afferma Negri che:
“…Kant esalta il ruolo
‘servile’ della sensibilità, senza il quale l’intelletto sarebbe signore
del nulla. Sarà anche ‘carica di teoria’ ogni osservazione, ma senza
un’osservazione pur minimamente passiva attraverso la quale si dia il
reale comunque manipolato o censurato in vista del disegno o piano, non
c’è possibilità alcuna di istituire un dominio teorico, quello stesso che
da ultimo, la scienza istituisce o persegue.”[17]
Popper in ultima analisi
non riconosce la natura contraddittoria del reale come rappresentazione
teorica, determinata dall’intelletto, di una materia concreta
sensibilmente esperita. Egli afferma un attivismo teoreticista che intende
fondare la realtà sulla base di uno storicismo relativista di ipotesi
susseguentisi. Popper giunge col presentare come metafisica la stessa
scienza naturale, in quanto mancante di un contenuto reale solido.
L’imperativo del
razionalismo critico è quello di sfuggire ad ogni costo ad un paradigma,
inteso in senso kuhniano, per non farsi carico della necessità storica e
civile del dogmatismo della scienza normale che affranca l’impresa
scientifica dalla sterilità teoretica per renderla praticamente
produttiva.
La vocazione del
razionalista critico popperiano è quella di essere un senza patria, “in
preda ad un errare (‘errore’) perpetuo”.[18]
Egli impegna se stesso in
una “ricerca critica” senza fine, che tuttavia, non potendo mai giungere
ad un punto fermo, paradossalmente nasconde le cose, le occulta, togliendo
al discorso umano ogni intelligibilità.
L’impresa scientifica,
nell’accezione popperiana, diviene così rivoluzione permanente, ma
l’anarchismo delle idee ha sempre significato storicamente un
atteggiamento reazionario o conservatore nella pratica. Così vediamo,
secondo Negri, il portatore del pensiero critico come colui che: “opta per
il ‘movimento’ contro ‘l’istituzione’, per ‘l’apocalisse’ contro
‘l’integrazione’, per ‘l’emergenza’ contro la ‘normalità’, per
‘l’eccezione’ contro la ‘regola’, per la ‘contestazione’ contro
‘l’ordine’, per ‘l’eresia’ contro la ‘chiesa’”,[19]
ma così
facendo si presta contraddittoriamente a servire proprio quella chiesa che
intende delegittimare. Infatti una ricerca aperta è figlia legittima della
chiesa, di qualsiasi chiesa, perché non ha fine e per questo esclude la
conoscenza umana della verità, quella che ogni chiesa ritiene di possedere
e che una ricerca aperta non intende contenderle.
Dopo aver analizzato la
riflessione epistemologica di Popper, Negri passa ad analizzare la
riflessione sociale del viennese non individuando alcuna sostanziale
differenza. Infatti egli, secondo Negri, fa coincidere la “società aperta”
con la società borghese, nella quale la lotta di classe non ha fine allo
stesso modo in cui la “ricerca non ha fine”.
La filosofia politica di
Popper esclude qualsiasi mitologia storicista, soprattutto quella
marxiana, tesa al conseguimento di un traguardo sociale perfetto. Essa
alimenta in opposizione, nel giudizio di Negri, una forte energia
antidogmatica rivolta al miglioramento perenne della società.
L’autore de: “La società
aperta e i suoi nemici” individua nell’ingegneria gradualista, vera
rivoluzione da contrapporre a quella falsa propugnata da Marx, il motore
del perfezionamento sociale; ma evita di domandarsi, a parere di Negri,
come possa concretarsi una “rivoluzione” che perpetuamente pone e
immediatamente scalza le “riforme”.[20]
Se lo facesse si renderebbe conto che il “riformismo” quotidianamente
gestito implicherebbe l’impossibilità di riprodurre la stessa società
aperta.
Secondo Negri, Popper
ritiene possibile la piena realizzazione umana in una società aperta, cioè
borghese. L’autore viennese ritiene praticabile proprio ciò che il
marxismo ritiene impraticabile, ovvero un egualitarismo potenzialmente
illimitato in una società caratterizzata dalla lotta di classe e dalla
divisione del lavoro sociale.
A noi pare, e Negri a
nostro avviso lo mette bene in evidenza, che questo sogno di una piena
realizzazione umana individuale rappresenti in maniera adeguata non la
realtà alienata della riproduzione sociale moderna, ma piuttosto la falsa
coscienza borghese di questa realtà. Una realtà che è essenzialmente
totalitaria e organicistica. Afferma Negri che:
“viviamo in un’epoca in
cui il ‘sociale’ tende ad autonomizzarsi rispetto al ‘politico’,
soprattutto quando il ‘politico’ si pone come ‘statuale’…’Sociale’ e
‘politico’ accennano sempre più a divergere semanticamente; ‘società
civile’ e ‘Stato’ a contrapporsi concettualmente…la ‘società civile’,
allora realmente ‘società borghese’…rivela tutta la sua natura ‘antistatuale’,
quella stessa che la riduce ad uno ‘stato di natura’ in senso hobbesiano;
o quella stessa che, secondo Marx ed Engels, offre a Darwin lo specchio
del più naturale ed animalesco bellum omnium contra omnes.”[21]
Questa “società civile” è
realmente la “società aperta” popperiana. Secondo Negri essa, leggermente
mitigata dalla prassi antiolistica dell’ingegneria sociale a spizzico, si
conferma società dell’individualismo o dell’egoismo borghese. L’ingegneria
gradualista, per la propria natura programmaticamente limitata, non riesce
ad annullare la manifestazione più classica dell’egoismo classistico di
una “società aperta”, vale a dire il corporativismo.[22]
Anche se Popper propone
l’interventismo dello Stato nella società civile, che configura come una
forma di protezionismo, questa proposta minimale, secondo Negri, non può
risolvere le aporie di una società che “vive di ribellione”. La filosofia
politica e sociale di Popper, come la sua epistemologia, pur combattendo
l’olismo gnoseologico “tende a conservare l’unico ‘tutto’ che veramente a
Popper interessa: una realtà politica, sociale ed economica disordinata ed
ingiusta.”[23]
Egli, eletto ad autore di
riferimento sia dai neoliberali che dai liberalsocialisti tesi al
compromesso lib-lab tra libertà e uguaglianza,[24]
in realtà, secondo Negri, rifiuta il letto di Procuste in cui si vuol
ridurre la sua filosofia per affermare molto chiaramente che “la libertà è
più importante dell’uguaglianza” e che “il tentativo di attuare
l’uguaglianza è di pregiudizio alla libertà”.[25]
Questo, conclude Negri, fa si che la “società aperta” di Popper evidenzi
una “evidentissima ingovernabilità dovuta al più esasperato dissenso
critico”. Un’ingovernabilità che non può non portare ad una “degenerazione
anarchica”, la quale:
“…promuovendo la
nostalgia dell’autorità ed il desiderio del consenso, ha preparato,
prepara i tempi della tirannide, come espressione di una ‘governabilità’
che, certo, non si può tollerare, ma contro la quale non vale, spesso, la
lamentazione critica e la chiacchiera libertaria che pure, non meno
spesso, la provocano.”[26]
III.3.
LO STORICISMO
Una delle questioni
maggiormente trattate dalla letteratura critica inerente alla filosofia di
Popper, è sicuramente quella relativa alla definizione della categoria di
“storicismo”.
Come abbiamo visto Popper
ha un’idea molto chiara e netta a riguardo. Per lui lo “storicismo” può
essere definito come una dottrina politico-filosofica finalizzata alla
scoperta nella storia di leggi o tendenze che permettano di predirne il
corso futuro. Sostanzialmente lo “storicismo” per Popper è una metafisica
della storia.
Se questo è ciò che ha in
mente Popper quando parla di “storicismo” non è ciò su cui essenzialmente
convengono gli autori che ne hanno sezionato il pensiero. Costoro infatti,
distillandone tre aspetti, considerano la categoria “storicismo” molto più
problematicamente di quanto faccia l’autore viennese, e alla fine ne
propongono un senso basilarmente differente.
I tre aspetti dello
“storicismo” che andremo ad approfondire di seguito sono: l’aspetto
ontologico, l’aspetto storico, e l’aspetto pratico.
III.3.1. Ontologia storicista
Leggendo “Miseria dello
storicismo”, afferma C. Montaleone in alcuni suoi lavori,[27]
ci si
accorge che l’idea che Popper intende criticare non corrisponde al
pensiero espresso da coloro che possono essere identificati come “storicisti”.
Questo induce a connotare
il bersaglio critico di Popper come “tipo ideale”, come utopia non
rintracciabile nella realtà, come costrutto soggettivo senza alcun
rapporto con affermazioni oggettive.
“Qualche meraviglia, se
mai, potrebbe sorgere circa l’opportunità di mostrare la miseria di
qualcosa di utopico, di qualcosa che ‘non ha un luogo’. Qualcuno potrebbe
anche osservare che non esiste condizione più favorevole di colui che
confuta una cosa che ‘non ha un luogo’.”[28]
Se in base a questi
presupposti lo storicismo popperiano risulta ontologicamente dubbio,
tuttavia l’approccio di Popper alla questione non consiste solo nella
distruzione di un bersaglio immaginario, ma illumina un problema correlato
molto più importante dal punto di vista euristico, vale a dire il problema
della conoscenza storica.
La violenta polemica
antistoricista popperiana infatti, evoca in positivo la questione, ben più
rilevante, del rapporto tra narrazione storica e teoria complessiva dello
sviluppo sociale. Il problema inerisce specificamente la legittimità
gnoseologica di una conoscenza storica e, nel caso in cui fosse
scientificamente testabile, lo spettro di validità di un’inferenza storica
dal punto di vista dell’influenza pratica sul tessuto sociale complessivo.
Prima però di occuparci
di questo aspetto della questione affrontiamo più dettagliatamente le
motivazioni storiche che rendono problematica l’esistenza dello
“storicismo” popperiano.
III.3.2. Storia
dello storicismo
Il bersaglio critico
della polemica popperiana, come afferma P. Rossi, è una concezione della
storia che può essere definita di tipo romantico nella misura in cui
riduce le scienze sociali a fattori della conoscenza storica e fonda la
spiegazione di ogni avvenimento sociale sulla base di leggi dello sviluppo
storico.[29]
Queste tesi, che Popper definisce “storiciste”, sono in realtà altrettanto
violentemente combattute proprio da quello che è il reale movimento
storicistico contemporaneo al viennese. Infatti, la negazione
dell’esistenza di leggi di sviluppo storico come base della polemica
storicista contro la filosofia della storia, è il motivo caratterizzante
dello storicismo tedesco da Dilthey a Weber fino ad arrivare a Benedetto
Croce.[30]
Costoro, rifiutando ogni
ipotesi che faccia della storia un percorso necessitante, intendono
mettere in luce la diversità dei procedimenti di indagine della
storiografia rispetto a quelli delle scienze naturali. Essi vogliono
liberare la storia, che si occupa “dell’idion”, del fatto individuale, da
ogni inquinamento di tipo naturalistico per non confonderla con la scienza
che si occupa del “nomos”, della norma generale.
Dilthey, ad esempio,
afferma la storicità dei valori negando la realtà di valori metastorici
con validità incondizionata: la storia non ha uno scopo supremo.
Questo piccolo
riferimento alla prospettiva filosofica storicista evidenzia che la
concezione della società come un “tutto” inserito in uno sviluppo storico
globale utopisticamente indirizzabile da una politica totalitaria,
concezione che segna il trapasso da parte di Popper da una critica
metodologica ne: “La miseria dello storicismo” ad una critica ideologica
ne: “La società aperta e i suoi nemici”, non ha nulla a che vedere con il
movimento storicista reale, storicamente determinato. Anzi, il rigetto, da
parte degli storicisti, della nozione di legge e della nozione di
predizione, associato alla “preoccupazione del contagio naturalistico”,[31]
rendono
praticamente identici, sulla base di una radicale eliminazione delle leggi
storiche, lo storicismo reale e l’antistoricismo di Popper.
“…l’oggetto viene
totalmente inglobato dalle deliberazioni volontarie dello storico.
Simmetricamente a ciò lo storico si pone come il possibile inizio di una
deduzione inconfutabile.”[32]
Vedremo di seguito,
tramite l’analisi dell’antistoricismo popperiano effettuata da parecchi
autori, come Popper, istituendo un dualismo di fatti e decisioni, finisca
con il moltiplicare i mondi storici sulla base degli interessi affermati
dai vari soggetti.
III.3.3. Fondamento
pratico dell’antistoricismo popperiano
Popper è motivato a
muovere contro ciò che egli intende per storicismo dal “suo interesse nel
togliere il sostegno intellettuale ad una pratica politica così
rivoluzionaria”.[33]
Una pratica
talmente pericolosa da intraprendere, attraverso la presunta conoscenza
della legge di evoluzione di una società, una azione politica su larga
scala allo scopo di rimuovere gli ostacoli al progresso della storia.
Popper prima di tutto
accusa coloro i quali credono in una legge di evoluzione storica di questo
tipo di considerare erroneamente ciò che è singolare, una affermazione
storico-descrittiva concernente la sequenza di forme organiche, come se
fosse una legge universale, e successivamente di volere descrivere o
spiegare, per mezzo di una sola legge, qualsiasi sequenza o successione
concreta di eventi.
Il primo argomento è di
natura epistemica o metodologica. Esso nega l’esistenza di leggi
scientifiche (epistemiche e falsificabili) di sviluppo storico, ma allo
stesso tempo non nega leggi di sviluppo in generale.
Il secondo argomento è
invece di natura ontologica. Esso implica che “leggi di sviluppo
semplicemente non esistono”.[34]
Popper, dopo essersi
costruito, come abbiamo visto precedentemente, questo storicismo di
comodo, tenta di confutarne la metodologia attraverso il seguente
sillogismo:
“1) Il corso della storia
umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana…
2) Noi non possiamo
predire con metodi razionali o scientifici il futuro sviluppo della
conoscenza scientifica…
3) Non possiamo perciò
predire il corso futuro della storia umana;
4) Questo significa che
si deve escludere la possibilità di una storia teoretica, vale a
dire di una scienza sociale storica che corrisponda alla fisica
teoretica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo
storico che possa servire come base per la predizione storica.”[35]
A parere di H. McLachlan
questo non può essere considerato un argomento logicamente valido. Esso
infatti potrebbe allo stesso modo essere usato, modificandone i termini,
per dedurre una limitazione delle predizioni scientifiche in fisica con la
conseguente negazione della stessa fisica teoretica. McLachlan
ricostruisce l’argomento di Popper così:
“1a) Il corso della
storia non-umana è fortemente influenzato dallo sviluppo della conoscenza
umana;
2) Noi non possiamo
predire, con metodi scientifici o razionali, il futuro sviluppo della
nostra conoscenza scientifica;
3a) Non possiamo perciò
predire il corso futuro della storia non-umana;
4a) questo significa che
dobbiamo rigettare la possibilità di una fisica teoretica. Non vi può
essere alcuna teoria scientifica di uno sviluppo storico non-umano che
serva come base per una predizione storica non-umana.”[36]
È chiaro che Popper
sarebbe costretto a riconoscere la validità di questo argomento,
strutturato sulla base del suo precedente, senza poter accettare (4a). La
sua epistemologia è fondata, come abbiamo visto, sulla possibilità di una
fisica teoretica. Tuttavia non si può negare che il corso della storia
non-umana non sia influenzato dal sorgere della conoscenza umana.
Testimonianze di tale influenza sono le profonde modificazioni
dell’ambiente naturale ingenerate dall’umanità nel corso dei secoli.
Tra l’altro, negando la
possibilità di una storia teoretica nello stesso momento in cui, per
contro, afferma la possibilità di una fisica teoretica, Popper istituisce
una dicotomia profonda tra un mondo della natura, e dell’uomo come parte
di essa,
“contraddistinto da
costanti formulabili a livelli di profondità sempre maggiore, e il mondo
dei fenomeni storici ‘unici’ e ‘singolari’, ove, sostiene Popper in
accordo con Hayek, ‘per la natura stessa delle cose’ sarebbe inutile
cercare delle leggi.”[37]
Questo comporta l’idea di
una storia che, essendo una successione di eventi unici, non può che
assumere la dimensione intuitiva e quindi per definizione imprecisa,
soggettiva, dell’interpretare, lasciando esclusivamente alla scienza la
dimensione logica, per definizione precisa e oggettiva, dello spiegare.
In questi termini per
Popper la storia diviene priva di senso,[38]
un insieme
di punti di vista inconfutabili che presuppongono la decisione soggettiva
di attribuire allo sviluppo storico significati scelti volontariamente.
In Popper la spiegazione
si oppone all’interpretazione nella stessa maniera in cui una teoria
scientifica, o sociologica, che accoglie proposizioni universali,
fronteggia una quasi-teoria storica, che incorpora proposizioni
esistenziali, punti di vista preconcetti, ecc. Paradossalmente
l’antistoricismo popperiano approda, secondo C. Montaleone, ad “una delle
tesi più classiche dello storicismo”: il “relativismo metodologico”.[39]
Questa idea della storia
codifica il dualismo di fatti e decisioni liberando le decisioni morali
dalla dipendenza dei fatti.
Ma se le decisioni non
hanno alcun rapporto coi fatti, qual è la ragione delle nostre azioni?
L’unica ragione
sufficiente per giustificare punti di vista preconcetti che ci permettono
di agire è l’interesse individuale.
“Di fronte ad esso
dobbiamo arrestarci come a un dato che non è scrutabile o comunque che non
è importante scrutare. L’esortazione popperiana a scrivere la storia
che ci interessa affonda qui le sue radici.”[40]
L’antistoricismo
costruito dall’autore viennese basato su un’immagine distorta e capovolta
della filosofia storicista ha sostanzialmente un unico obiettivo polemico:
Marx e il marxismo.
La domanda che si pongono
molti degli esegeti della filosofia di Popper a questo punto allora è: il
pensiero di Marx corrisponde allo pseudostoricismo popperiano?
Gli argomenti usati da
Popper contro la filosofia della storia che chiama storicismo sono
efficaci per affossare il marxismo?
III.3.4. Marx:
storicista o no?
Suchting[41]
accusa Popper di aver tracciato un determinismo storicista troppo radicale
e privo di sfumature. Egli parla invece di quattro diverse gradazioni di
determinismo storico.
La prima, che Suchting
chiama “puro fatalismo”, a suo giudizio la più estrema, assomiglia molto
allo storicismo popperiano. Essa è caratterizzata da un meccanicismo
assoluto che prevede una totale dipendenza umana dalle leggi della storia.
La seconda gradazione,
chiamata “puro determinismo”, afferma una parziale libertà umana tale per
cui: “gli uomini compiono la loro storia, ma la maniera in cui la svolgono
è determinata, tra gli altri fattori, dalle azioni umane”.
La terza forma di
determinismo storico, o “determinismo forte”, è più debole della
precedente in quanto ne limita l’ambito alle generali tendenze della
storia, che sono distinte dagli eventi particolari afflitti
dall’accidentale e dalla libera scelta.
Il quarto e ultimo
modello di determinismo storico infine, ponendo certe limitazioni alla
possibilità effettiva di una azione ad un dato tempo, afferma che le leggi
e le condizioni particolari assieme non determinano tanto le condizioni
reali quanto le possibilità. Secondo questo modello la situazione storica
ad un tempo dato è caratterizzata da determinate tendenze e potenzialità,
“oggettive possibilità”, e non da altre. Queste rendono possibili solo
determinati interventi umani e non altri. Di questi interventi alcuni sono
più adatti di altri per il conseguimento di certi scopi. A causa
dell’insuccesso di determinate azioni a volte le possibilità si compiono,
a volte no.
Sulla base di questa
categorizzazione secondo Suchting, a differenza di quel che pensa Popper,
Marx non è un “puro fatalista”, dopotutto:
“nulla è più certo o
ovvio del fatto che Marx non pensava a leggi storiche dello stesso genere
di leggi naturali nel senso di norme riferite in ogni tempo all’umanità
intera. Una critica fondamentale e ripetuta che Marx rivolge all’economia
politica del capitalismo è che i suoi fautori prendono le leggi
capitalistiche di produzione come ‘naturali’”.[42]
Lo pseudostoricismo
popperiano non ha nulla a che vedere con il materialismo storico. Marx e i
marxisti, a parere di Suchting, sviluppano un determinismo storico che è
un insieme delle tre gradazioni deterministicamente più deboli di cui
sopra. Essi, pur affermando che i movimenti sociali sono guidati da leggi
che, non solo sono indipendenti dalla volontà, dalla coscienza e dai
propositi degli uomini, ma all’opposto ne determinano volontà, coscienza e
propositi, tuttavia sostengono che la nascita del socialismo dal
capitalismo non è inevitabile: “Socialismo o barbarie”. Oltre a ciò,
secondo Suchting, la quarta e ultima gradazione di determinismo storico
incoraggia all’azione individuale e di classe evitando allo stesso tempo
il fatalismo, in tutte le sue forme, e il volontarismo. Conclude Suchting
che:
“…la possibilità di
predizioni a lungo termine (quanto di profezie) non è prevista nel
pensiero di Marx; la teoria e la pratica marxista non richiede predizioni
a lungo termine ma finalità a lungo termine.”[43]
La principale
preoccupazione di Marx, come scrive anche D. McQuarie,[44]
non è quella di scoprire leggi universali di evoluzione, ma piuttosto
quella di “rendere manifesta la ignota struttura e le leggi di movimento
del modo di produzione capitalistico, un particolare e limitato oggetto
teoretico (non empirico)”.
Le leggi di movimento
della società capitalistica del resto, non sono predizioni a lungo
termine, alla maniera della scienza sociale empirica, ma sono piuttosto
“l’elaborazione delle contraddizioni strutturali inerenti al sistema
capitalista di produzione e scambio”. Queste leggi, afferma McQuarie,
sorgono dalle “contraddizioni interne di un particolare (capitalista) modo
di produzione”; esse sono leggi astratte che descrivono le relazioni
interne di un intero sociale nel suo stato “ideale”.
Per Marx la distinzione
tra l’astrazione scientifica e il suo aspetto empirico, tra le leggi di
movimento del modo di produzione capitalistico e le attuali variegate
formazioni sociali, è essenziale per ogni discorso scientifico.
Il cambiamento sociale
per Marx, secondo McQuarie, non è determinato dunque da uno “schema
universale di evoluzione sociale”, come crede Popper, ma è una
“conseguenza della riproduzione di un dato sistema di relazioni sociali”.
Marx risolve così nella
storia umana quel dualismo di fatti e decisioni, di prassi e teoria, di
scienza e libertà, che pone invece a Popper il problema, che non può
essere lasciato solo ad una decisione morale individuale, della
razionalità delle forze sociali.
Il filosofo viennese
tenta di risolvere questa contraddizione affermando che, pur
salvaguardando la libertà individuale di scelta, si possono spiegare le
attività umane, e le istituzioni ad esse connesse, analizzando la
situazione problematica della gente. È possibile per Popper una
spiegazione scientifica dei comportamenti, e non solo una spiegazione
storica inconfutabile, attraverso quella che chiama “logica situazionale”,
o “principio di razionalità”, che sostanzialmente afferma l’azione
tendenzialmente razionale dell’individuo umano in una situazione empirica
data. Basterebbe, secondo Popper, ricostruire la situazione data, per
risalire alla comprensione logica del comportamento di un individuo dato.
Certo, come riconosce
anche N. Koertge, questo approccio implica “una teoria dell’uomo
metafisica e cioè che l’uomo sia un animale solutore di problemi in
maniera razionale”.[45]
Che egli
sia in grado, in base al principio precedente, anche di intervenire
razionalmente nelle scelte che effettua. Questo, secondo Koertge, non
comporta alcuna differenza rispetto alla situazione nelle scienze
naturali, dove le teorie metafisiche sulla natura o sulla vita guidano la
ricerca. Anzi, ribalta lo storicismo marxista che propone pianificazioni
su larga scala tese a plasmare e a trasformare l’individuo per renderlo
adatto al piano, proponendo in antitesi una ingegneria sociale
gradualistica e a spizzico basata sulla logica situazionale. Tale
ingegneria non intende utopicamente trasformare l’uomo, ma più
modestamente le sue istituzioni, la sua situazione empirica.
Sennonché, oltre a
presupporre un “principio di razionalità” metafisico, lo “spizzichismo”
popperiano presuppone anche, come afferma G. Irzik, “una coppia
causa-effetto direttamente proporzionale e commensurabile”, vale a dire
presuppone che, ad un intervento sociale a spizzico teoricamente testabile
e modificabile, corrisponda sempre un effetto sociale scientificamente
controllabile. Ma questo non sempre si verifica.[46]
Emerge così che l’applicabilità o meno del riformismo sociale non è
astorica, ma dipende dal sistema sociale effettivamente esistente. Con lo
“spizzichismo”, secondo Irzik, Popper cade nell’utopia che ha così
severamente criticato.
Quella che il filosofo
viennese descrive come l’utopia totalitaria marxista, finalizzata alla
ricostruzione dell’umanità secondo un piano olisticamente inteso invece,
vuole solamente mettere in rilievo, come sottolinea Montaleone, che l’uomo
non è solo ciò che produce, ovvero il suo essere individuale, ma anche “il
modo e i rapporti in cui produce, ossia il proprio essere sociale”.[47]
Rapporti sociali materiali che esistono indipendentemente dalla
consapevolezza che gli individui possono averne.
Per cui, secondo
Montaleone, l’adozione di un intento di trasformazione sociale non dipende
né da utopismo volontaristico, né da una dialettica soggettiva dei valori,
né tantomeno, come ritiene Popper, da principi di razionalità atemporali;
ma è commisurata “al sistema di condizioni obiettive che il processo di
produzione della vita ha messo in atto”.[48]
Popper, proponendo una
pianificazione su piccola scala che consideri le “conseguenze inattese”
delle azioni individuali per tentare di evitarle, non ha alcuna intenzione
di valutare ed eventualmente di ristrutturare l’identità complessiva del
sistema di riferimento. Questa identità per lui è il dato di base non
altrimenti analizzabile. Egli, secondo Montaleone:
“…nella cornice
drammatica degli anni ’30…individua il terrore del cambiamento come fulcro
di un programma politico-ideologico, dove tuttavia la lotta ‘principale’
contro il catastrofismo eccessivo dei mutamenti incombenti non poteva più
valersi dell’esclusione a priori del principio di piano…Proprio le
trasformazioni morfologiche del capitalismo avrebbero propiziato
l’opportunità d’una utilizzazione del principio di piano tale da renderlo
strumento di quell’ammodernamento del vecchio guscio che Gramsci,
riflettendo su Benedetto Croce ebbe a denominare ‘rivoluzione passiva’.”[49]
III.4.
LA FILOSOFIA POLITICA DI POPPER IN ITALIA TRA RELATIVISMO SOFISTICATO E
PANMERCANTILISMO
In Italia
l’interpretazione del pensiero popperiano, negli anni successivi alla sua
traduzione, ha fatto riferimento soprattutto alla sua produzione
politico-sociale. A volte l’ha denunciata come alternativa alla sua
epistemologia, a volte ne ha esaltato la continuità e la complementarità
con la relativa filosofia della scienza.
Mentre l’esegesi marxista
all’inizio, sottolineando il fraintendimento da parte di Popper del
materialismo storico marxiano, ha teso a mettere in luce la profonda
incommensurabilità tra pensiero storico-sociale popperiano (considerato
irrazionale) ed epistemologia (considerata razionale);[50]
individuando successivamente il compito della ricerca scientifica non
nella profezia storica, che erroneamente Popper attribuisce all’intento di
Marx, bensì nella pianificazione consapevole dell’impresa scientifica
stessa.[51]
Il pensiero liberal-democratico, che affronteremo di seguito sulla base di
alcuni saggi pubblicati nel 1981 su Mondoperaio, ha inteso evidenziare la
consequenzialità feconda della riflessione complessiva del filosofo
viennese, il quale dalla metodologia scientifica ricava le “regole
formali” della democrazia.
Secondo M. Pera[52]
il rapporto tra scienza e società si può declinare in tre maniere
differenti.
La prima, che Pera chiama
“riduzionismo contenutivo”, istituisce una dipendenza tra fatti e
decisioni tale per cui si potrebbe inferire la società migliore in seguito
a considerazioni fattuali. Esempio di questa concezione, secondo Pera,
sono le leggi marxiane di “bronzea necessità che conducono inevitabilmente
la società umana dal regno della necessità al regno della libertà”.
La seconda, o “strumentalismo”,
“detta i mezzi necessari al perseguimento di scopi politici e calcola le
conseguenze delle azioni politiche”.
La terza, quella di
Popper, chiamata da Pera “riduzionismo metodologico”, risolve le due
precedenti. Essa afferma una “politica come scienza”. Secondo questa
concezione società e politica derivano dalla scienza solamente il metodo,
non le scelte, e tantomeno i mezzi. In questa chiave, secondo Pera, la
“società aperta” è la conseguenza necessaria del metodo delle “congetture
e confutazioni”. Essa, mentre afferma il pluralismo politico privilegiando
il dissenso rispetto al consenso, esclude qualsiasi progetto
rivoluzionario con intenti olistici. I programmi istituzionali e politici
coerenti con le regole neutre della “società aperta” infatti, vanno dal
liberalismo al socialismo riformista.
Certo, afferma Pera, il
rischio di una degenerazione anarchica della “società aperta”, conseguente
alla critica e al dissenso continui, è concreto, ma il consenso non è
estraneo ad essa, ed è proprio quest’ultimo che mantiene le regole del
gioco al di fuori dell’esercizio della critica permettendo la
conservazione di una “società aperta”.
Giorello,[53]
intervenendo successivamente a Pera, afferma, riconsiderando in maniera
sostanziale il suo intervento precedente su: “L’Unità” (vedi nota 51), la
problematicità di qualsiasi prospettiva identitaria tra teoria e prassi
denunciandone “l’illusione semplificatrice” nella modellizzazione
monistica. Il bersaglio polemico di Giorello è chiaramente il “modello”
marxista, che propone, a suo giudizio, una “concezione magica del rapporto
tra azione e conoscenza”. Questo “modello”, come ispiratore di una
“tecnologia sociale drastica”, è deleterio e inefficace al cospetto della
tecnologia gradualistica ispirata dall’anarchismo timido o “relativismo
sofisticato” di Popper. Pera, secondo Giorello, ritiene che una certa dose
di consenso imposto sia necessaria per evitare che il “relativismo
sofisticato” popperiano sfoci nell’anarchia sociale, ma non vede che ogni
individuo “è caratterizzato da una particolare funzione di utilità”
sfociante “in un quadro concettuale che, pur muovendo dal riconoscimento
del conflitto come uno stimolo per nuove avventure intellettuali e nuove
configurazioni sociali” introietta autonomamente il consenso. Un’eventuale
“riduzione al consenso”, secondo Giorello, lungi dal rendere stabile la
“società aperta” la soffocherebbe.
Anche per Pellicani[54]
il fallibilismo popperiano dimostra la “superiore razionalità della prassi
riformista” in politica, sia rispetto al conservatorismo che rispetto al
rivoluzionarismo. Stranamente però, il filosofo viennese, non dice nulla
sul mercato che è, secondo Pellicani, strumento istituzionale decisivo per
la razionalizzazione delle scelte degli attori sociali. Eppure vi è una
precisa analogia tra il “mercato dei beni” e il “mercato delle idee”: “in
entrambi vige la legge darwiniana dello sterminio dei più deboli”. “La
stessa democrazia liberale”, secondo Pellicani, “può essere analizzata
ricorrendo al modello del mercato”. Pellicani ritiene dunque che il
mercato sia l’istituzione centrale della “società aperta” in quanto
promuove l’autonomia dallo Stato della società civile e fa prevalere
assieme: una “logica pluralistico-competitiva sulla logica monopolistica”,
e la democrazia liberale sullo gnosticismo dialettico del totalitarismo
marxiano. L’insegnamento di Popper, secondo Pellicani, può essere fatto
risalire, in conclusione, alla cultura illuministica.
Questo resoconto sommario
dell’interpretazione di Popper da parte dei liberal-democratici italiani
ha potuto testimoniare sostanzialmente due cose.
Prima di tutto, come
dicevamo all’inizio del capitolo, è indizio dell’istituzione di una
diretta giunzione tra filosofia politica e metodologia scientifica.
Secondariamente, in contrapposizione “all’oscurantismo totalitario
marxista”, fa assurgere al ruolo di archetipo democratico la “società
aperta”.
Contro queste due
conseguenze dell’ideologizzazione dell’epistemologia popperiana, prima D.
Zolo,[55]
e poi M. Alcaro,[56]
esprimono alcune considerazioni critiche.
Zolo afferma che il
tentativo di associare la filosofia della scienza e la riflessione
politologica di Popper a scelte politiche contingenti era già stato
tentato dal laburista inglese B. Magee nel 1973, e dalla socialdemocrazia
tedesca nel 1975. Nello stesso solco, secondo Zolo, Pera, Pellicani e
Giorello affermano che “le sole politiche razionali, perché direttamente
dedotte dal metodo della scienza, sono le politiche ‘liberalsocialiste’ o
‘social-liberali’”. Ma, si chiede Zolo, è ancora possibile assumere il
falsificazionismo popperiano quale “metodo della scienza”? È ancora lecito
credere che l’epistemologia logicista e radicalmente antinduttivistica di
Popper possa “fondare una qualsiasi deontologia dell’azione sociale
mancando a questo fine di una teoria dei valori minimamente accennata”?
Zolo ritiene ormai
assodato storiograficamente che il falsificazionismo popperiano non sia il
vero metodo scientifico ma solo il metodo che dovrebbe essere
adottato dalla scienza. Allo stesso tempo la teoria della “società aperta”
muove da una iniziale opzione metafisica a favore del primato della
soggettività individuale rispetto alla vita di relazione che non riesce a
fondare oggettivamente alcuna realtà politica. Di conseguenza entrambe le
opzioni sono pure preferenze soggettive, irrazionali. Su queste preferenze
soggettive oltretutto, Popper stabilisce due definizioni politologiche
arbitrarie.
La prima è una nozione
negativa di democrazia che prevede la critica e la sostituzione dei
governi prescindendo dal loro consenso sociale.
La seconda circoscrive la
politica democratica alla tecnologia gradualistica.
“Queste formulazioni, che
a prima vista possono sembrare delle applicazioni rigorose e feconde del
metodo dell’epistemologia falsificazionista alla azione politica, si
rivelano, ad un esame più ravvicinato, delle libere associazioni
analogiche. Per un verso esse rappresentano, rispetto all’epistemologia
per congetture e confutazioni, altrettanti non sequitur, e per un
altro verso risultano, dal punto di vista politologico, prive di contenuto
prescrittivo.”[57]
Se si analizza la
tecnologia sociale gradualistica proposta da Popper in opposizione all’olismo
rivoluzionario marxiano, occorre rilevare, secondo Zolo, che lo scienziato
sociale deve abbandonare il metodo rivoluzionario delle “congetture
ardite” e delle “severe confutazioni” per lavorare “a spizzico” come un
modesto artigiano, adottando procedure di controllo induttivistiche in
contraddizione con le regole generali del falsificazionismo e con le
assunzioni etico-politiche individualistiche alla base della “società
aperta”. Non solo, se si assume che ogni intervento politico si riferisce
ad una “totalità problematica”, si vede chiaramente come sia estremamente
difficile discernere tra un intervento “a spizzico” che, secondo Popper,
consentirebbe la correzione di errori parziali, ed un intervento
“olistico” che non la consentirebbe. Detto questo, Zolo afferma che
l’obiettivo polemico del suo lavoro
“è la pretesa del
‘neoliberalismo italiano di sinistra’…di presentare e raccomandare la
propria opzione politico-ideologica…come una scelta ‘scientifica’ e ‘razionale’,
che a sinistra non avrebbe alternative se non nella irrazionalità
dell’utopismo e del fanatismo politico.”[58]
La visione
“panmercantile” che, secondo Zolo, viene proposta dai neoliberali, non
vanta alcuna autorità epistemologica.
Alcaro, dal canto suo,
convenendo sostanzialmente con l’analisi di Zolo, denuncia in sovrappiù i
limiti del razionalismo illuministico di Popper, che non riconosce “i
pesanti condizionamenti interni ed esterni cui la ragione, la vita
cosciente e l’esistenza stessa degli uomini sono soggetti”, e quindi non
riesce ad andare oltre alla proposizione di giudizi morali e modelli
utopistici senza intervenire operativamente all’interno dei processi
reali.
Se questi ultimi due
autori, come abbiamo visto, si preoccupano di affermare che l’alternativa
secca presentata dai saggisti di Mondoperaio tra ragione e rivoluzione,
tra democrazia liberale e totalitarismo, tra panmercantilismo e
burocratizzazione universale non può essere metodologicamente fondata
sull’epistemologia popperiana ma è piuttosto ontologicamente basata su una
scelta di campo aprioristica, Geymonat,[59]
per parte sua, si preoccupa di smentire il favore con cui alcuni marxisti
guardano alla filosofia della scienza di Popper.
Secondo il filosofo della
scienza italiano infatti, taluni marxisti (ricordiamo l’articolo di Gruppi
citato all’inizio del presente capitolo) riconoscono giustamente a Popper
di aver polemizzato con il neopositivismo allo scopo di umanizzare la
scienza istituendo un rapporto importante tra filosofia della scienza e
storia della scienza, ma non si rendono conto che egli non include nella
storia della scienza la storia della tecnica. Essa è fondamentale invece,
come progresso tecnico dei mezzi di produzione, per l’unità dialettica di
teoria e prassi, sviluppo delle scienze e sviluppo sociale. Questo
significa, secondo Geymonat, che l’interesse di Popper per la storia è
relativo.
La sua stessa analisi
della libertà politica non si fonda su uno studio storico delle
istituzioni concrete, ma si limita alla propria esperienza personale. Su
questa base relativa egli vede le rivoluzioni comuniste come movimenti
rivoluzionari che si concludono necessariamente con una dittatura. A
parere di Geymonat, Popper:
“…plasma l’antitesi
‘libertà-dittatura’ sul modello…‘vero-falso’ che è alla base del suo
falsificazionismo, e questo lo spinge a trattare l’intero argomento con
una schematicità che non ammette sfumature (per esempio non ammette che
tra dittatura e libertà politica esiste un ventaglio di posizioni
intermedie difficili a classificarsi).”[60]
Su queste basi si fatica
dunque, secondo Geymonat, a capire la simpatia che ispira il pensiero di
Popper ad alcuni marxisti.[61]
III.5.
CONCLUSIONI
La letteratura critica
analizzata nella terza parte del nostro lavoro conferma, a nostro avviso,
l’ambiguità del pensiero popperiano.
Come già abbiamo tentato
di mettere in luce anche nelle pagine precedenti a queste ultime, Popper
non riesce a fondare ciò che si propone, vale a dire una filosofia
pluralista e coerentemente individualista, ma riafferma in termini nuovi
l’antico dualismo che dal pensiero greco ad oggi percorre la riflessione
filosofica: il dualismo tra teoria e prassi.
Come spiegare altrimenti
le contraddizioni evidenziate dai suoi interpreti?
Come spiegare la sua
metodologia composta insieme da estremo formalismo, che da un lato propone
un pensiero strutturato rigidamente in modo deduttivo, e da radicale
antinduttivismo, che dall’altro osserva un’infinita successione di ipotesi
teoriche rovesciate da intuizioni soggettive?
Come far convivere
pacificamente il rifiuto dell’istituzione puramente induttiva del dato di
fatto e d’altra parte l’accettazione acritica della sua fondazione
sociale?
Come giustificare il
rigetto del soggettivismo neopositivista e allo stesso tempo
l’affermazione della inevitabile mediazione soggettiva tra conoscenza
oggettiva e mondo reale?
Come accettare
simultaneamente la dicotomia irriducibile di fatti e decisioni, con il
relativismo storicistico associato, e l’empirismo etico fondante l’azione
sociale sul riconoscimento intersoggettivo “dei mali più urgenti della
società”? Un empirismo etico che edifica il “dover essere” “sull’essere”
di un’opinione condivisa dai più costituitasi in base ad una atemporale
razionalità.
Come spiegare
l’affermazione di una incomprensibilità della storia e allo stesso tempo
lo sviluppo razionale dell’impresa scientifica in base al superamento
progressivo delle teorie confutate?
Come far coincidere
rivoluzione teorica permanente e riformismo pratico gradualista?
Vedremo successivamente
nella quarta e ultima parte di questo lavoro, analizzando la teoria
marxista della storia, che il dualismo filosofico popperiano cela, a
nostro avviso, al di là dell’ambiguità apparente, una sostanziale unità
complessiva. Esso, immagine rovesciata del mondo borghese, si sostanzia di
un agnosticismo di fondo composto nella stessa misura di idealismo
oggettivo (l’autonomia del terzo mondo dei prodotti di pensiero) e di
realismo metafisico (l’esistenza inspiegabile di uno schema evolutivo
razionalmente interpretabile: P1-TT-EE-P2).
NOTE
[1]
C. Montaleone, “Introduzione”, in Filosofia e politica in Popper,
Napoli, Guida, 1979.
[3]
G. Gozzi, “Dialettica e razionalismo critico. Analisi del dibattito
metodologico tra Popper e la scuola di Francoforte”, Il Mulino,
XXIII, 1974, n° 231, p. 66.
[4]
J. Habermas, “Epistemologia analitica e dialettica”, in Dialettica
e positivismo in sociologia, a cura di H. Maus e F. Furstenberg,
Torino, Einaudi, 1972, p. 176.
[5]
G. Gozzi, “Dialettica e razionalismo critico.”, p. 69.
[6]
J. Habermas, “Epistemologia analitica e dialettica”, in Dialettica
e positivismo in sociologia, p. 180.
[7]
T. Adorno, “Introduzione”, in Dialettica e positivismo in
sociologia, p. 14.
[8]
Per testimoniare l’idealismo soggettivista avulso da qualsiasi
considerazione di carattere concreto insito in tale concezione è
interessante fare riferimento ad un saggio di M. Bunge. Egli, per
sottolineare come Popper vivesse in “una torre d’avorio”, riporta un
colloquio avuto con il viennese nel 1967 durante il quale, ad una sua
rimostranza che la espressione “terzo mondo” fosse già usata con un
senso totalmente differente rispetto a quello che gli attribuiva
l’autore della “Società aperta”, lo vide “perplesso poiché egli non
aveva mai sentito prima quell’espressione e da allora in poi la cambiò
in mondo3”.
M.Bunge, “The seven
pillars of Popper’s social philosophy”, in Philosophy of the social
sciences, vol. 26, n° 4, dic. 1996, pp. 528-556.
[9]
T. Adorno, “Introduzione”, in Dialettica e positivismo in
sociologia, p. 50.
[11]
R. Porciello, Scienza e decisione, Milano, Angeli, 1999, p.
127. Interessante notare a proposito il saggio di Geoff Stokes.
Secondo questo autore: “…Popper richiede agli scienziati sociali di
adottare un orientamento individualistico e umanitario nel loro
lavoro. Sulla base di questa prospettiva molto del lavoro di Popper
sulla metodologia delle scienze sociali ha il carattere di un trattato
etico.”
G. Stokes, “K. Popper’s
political philosophy of social science”, in Philosophy of the
social sciences, vol. 27, n° 1, mar. 1997, pp. 56-79.
Anche H. Kiesewetter esprime più o
meno lo stesso concetto: “Il significato profondo del diritto
all’esistenza è ancorato alla morale, alla legge etica; in altre
parole, Popper proclama la superiorità della ragione pratica sulla
ragione teoretica.” Peccato che, come afferma B. Magee: “…quando la
giunta militare che allora governava l’Argentina invase le isole
Falkland…Popper mi telefonò al Parlamento con grande passione
chiedendomi pressantemente di agire affinché il governo britannico
dichiarasse formalmente guerra all’Argentina.”
H.
Kiesewetter, “Etical foundations of Popper’s philosophy”, in K.
Popper philosophy and problems, e B. Magee, “What use is Popper to
a politician?”, in K. Popper philosophy and problems, a cura di
A. O’Hear, Cambridge, 1995.
[12]
R. Porciello, Scienza e decisione, p. 129.
[14]
A. Negri, Il mondo dell’insicurezza. Dittico su Popper, Milano,
Angeli, 1983, p. 19.
[16]
Op. cit.
p. 67, n. 158.
[18]
Op. cit.
p. 91, ma anche M. H. Hacohen che
analizza l’impatto nella formazione popperiana del suo lungo esilio.
Esso fu causa, secondo l’autore, del sogno cosmopolita, scientifico e
politico, che lo portò a identificare come falsa, reazionaria e
utopica l’identità nazionale, e come vera, progressiva e possibile
l’identità individuale cosmopolita e imperialista.
M. H.
Hacohen, “K. Popper in exile”, in Philosophy of the social sciences,
vol. 26, n° 4, dic. 1996, pp. 452-492.
[20]
M. Bunge compie la stessa riflessione affrontando un argomento simile.
Afferma Bunge: “il buon cittadino di una società aperta è un
razionalista…[egli] si comporta sostanzialmente alla stessa maniera di
un ricercatore scientifico [procedendo]…per congettura e discussione
critica…Ma che succede dell’azione efficiente? Ovviamente la
razionalità negativa di Popper non ci aiuta.” M. Bunge, “The seven
pillars of Popper’s social philosophy”.
[21]
A. Negri, Il mondo dell’insicurezza. Dittico su Popper, pp.
157-158.
[22]
Il termine corporativismo ha sostanzialmente due significati. Negri
sottoscrive il significato più comune della parola, oseremmo dire
volgare, che fa riferimento a interessi e fini comuni a gruppi di
persone perseguiti senza riguardo per il corpo sociale complessivo.
L’altro significato invece, descrive una politica di patto sociale
introdotta da Bismarck e importata in Italia dal fascismo, in cui si
rimuove ideologicamente la lotta tra le classi per promuovere (come
scrive a p. 13 G. Ciabatti nel suo : Il neocorporativismo edito
da Laboratorio Politico nel 1995) “una disciplina organica delle forze
produttive”. Questo secondo significato viene usato per caratterizzare
la proposta politica popperiana da B. Magee che sia nel volume: Il
nuovo radicalismo in politica e nella scienza le teorie di K. Popper
(Roma, Armando, 1975), sia nel saggio già citato in precedenza,
afferma che l’autore viennese sa perfettamente che la libertà assoluta
è destinata a produrre il proprio contrario e per questo propone un
intervento economico da parte dello Stato. Anche J. G. Ruelland la
pensa alla stessa maniera. Infatti nella sua opera De
l’epistemologie a la politique. La philosophie de l’histoire de K.
Popper (Paris, 1991), egli istituisce un parallelo tra Popper e
Bernstein affermando che entrambi sono alla ricerca di un compromesso
riformista per la conciliazione tra le classi.
[23]
A. Negri, Il mondo dell’insicurezza. Dittico su Popper, p. 162.
[25]
K. Popper, La ricerca non ha fine, p. 38.
[26]
A. Negri, Il mondo dell’insicurezza, p. 166.
[27]
C. Montaleone, Filosofia e politica in Popper, e “Spiegazione
storica e critica dello storicismo in K. Popper”, in Critica
marxista, XIII, 1975, n° 2-3, pp. 147-168.
[29]
P. Rossi, “ Karl Popper e la critica neopositivistica allo
storicismo”, in Storia e storicismo nella filosofia contemporanea,
Milano, Il Saggiatore, 1991, p. 337.
[30]
M. Keaney nel suo “The poverty of rhetoricism: Popper, Mises and the
riches of historicism” su History of the human sciences, vol.
10, del 1997, a p. 6 fa riferimento ad una “tassonomia dello
storicismo” costruita da Lee e Beck nel 1954. Essa comprende cinque
classi di significato determinate dall’uso o dal significato del
termine: “1) la spiegazione e la valutazione di qualcosa sulla base
della sua storia; 2) il concetto (principalmente tedesco) del pensiero
come impresso nella storia; 3) l’idea italiana (attribuibile a B.
Croce) che la vita e la realtà sono pura storia; 4) il trattare le
idee (seguendo la distinzione di Mannheim) relativamente alle
circostanze storiche; 5) l’idea che lo studio della storia riveli
‘leggi naturali’ deterministiche che potrebbero essere usate per
predire il futuro.” Secondo Lee e Beck solo le prime tre possono
essere associate allo storicismo mentre le ultime due no. Popper,
secondo l’autore, ha confuso lo storicismo con la concezione
positivista della storia. In realtà lo storicismo in Germania non
aveva nulla a che vedere con concezioni rivoluzionarie o radicali.
[31]
C. Montaleone, “Spiegazione storica e critica dello storicismo in K.
Popper”, in Critica Marxista, p. 159.
[33]
G. Macdonald, “The Grounds for Anti-Historicism”, in K. Popper
philosophy and problems, p. 241.
[34]
W. A. Suchting, “Marx, Popper, and historicism”, in Inquiry,
XV, 1972, p. 238.
[35]
K. Popper, Miseria dello storicismo, p. 13-14.
[36]
H. V. McLachlan, “Popper, marxism and the nature of social laws”, in
British journal of sociology, vol. 31, n° 1, mar. 1980, p. 70.
[37]
C. Montaleone, Filosofia e politica in Popper, p. 87.
[38]
F. Eidlin nel suo “Blindspot of a liberal”, in Philosophy of the
social sciences, vol. 27, n° 1, del marzo 1997, a p. 19 ritiene
che Popper a riguardo sia troppo radicale. Egli, per suffragare questa
affermazione, immagina che un parente di H. Himmler, il gerarca
nazista, esprima questo concetto: “Sì, ho letto Popper e sono
completamente d’accordo con lui. Capisco bene che molta gente
considera ciò che chiama Olocausto come uno dei più inenarrabili
crimini nella storia. Comunque, come insegna Popper, fatti come quello
non hanno significato. Dobbiamo darglielo noi. Così ho deciso che la
carriera del mio congiunto, H. Himmler, è stata nobile e lodevole.”
[39]
C. Montaleone, Filosofia e politica in Popper, p. 85.
[40]
C. Montaleone, “Spiegazione storica e critica dello storicismo in
Popper”, in Critica Marxista, p. 161.
[41]
W. A. Suchting, “Marx, Popper and historicism”, in Inquiry, XV,
1972, pp. 235-266.
[42]
Op. cit.
p. 261 n. 62.
[44]
D. McQuarie, “A further comment on K. Popper and marxian laws”, in
Science and society, XLI, 1977-78, n° 4, pp. 447-484.
[45]
N. Koertge, “Popper metaphisical research program for the human
sciences”, in Inquiry, 18, 1975, pp. 458.
[46]
G. Irzik nel suo “Popper’s peacemeal engineering: what is good for
science is not always good for society” sul British journal for the
philosophy of science del 1985, vol.36, alle p. 6 e 7 propone i
due esempi seguenti nei quali rispettivamente: nel primo, ad un
piccolo intervento consegue un enorme cambiamento sociale, mentre nel
secondo ad un altrettanto piccolo intervento corrisponde un
cambiamento sociale talmente ridicolo da rendere impossibile qualsiasi
inferenza. Primo esempio: l’introduzione di asce d’acciaio da parte
dei missionari europei nella società dell’età della pietra degli
aborigeni australiani, comportò differenze radicali, in quella
società, che non poterono essere previste. Secondo esempio:
incrementando il reddito di una comunità agricola non cambia, a
differenza di quanto previsto, il livello di qualità della vita.
Questo dimostra che il livello di qualità della vita non è collegato
al reddito, o che l’aumento del reddito non è sufficiente per
migliorare la qualità della vita di quella comunità? Questi esempi
dimostrano l’inadeguatezza dello “spizzichismo” popperiano.
[47]
C. Montaleone, “Spiegazione storica e critica dello storicismo in
Popper”, in Critica Marxista, p. 162.
[49]
C. Montaleone, Filosofia e politica in Popper, p. 137.
[50]
L. Gruppi, “Il pensiero borghese e il distacco dalla storia”, in
Rinascita, 20 sett.1974, 37, pp. 23-24.
[51]
G. Giorello, “I bersagli di Popper”, in L’Unità, 12 aprile
1975, p. 3.
[52]
M. Pera, “I fondamenti epistemologici della società aperta”, in
Mondoperaio, mag. 1981, n° 5, pp. 85-91.
[53]
G.Giorello, “Società aperta e governabilità”, in Mondoperaio,
giu. 1981, n° 6, pp. 94-100.
[54]
L. Pellicani, “I nemici della società aperta”, in Mondoperaio,
sett.-ott. 1981, n° 9-10, pp. 89-101.
[55]
D. Zolo, “La ‘società aperta’ e i suoi amici. Neoliberalismo ed
epistemologia popperiana in Italia”, in Critica marxista, XX,
1982, n° 3, pp. 131-148.
[56]
M. Alcaro, “Alla ricerca di un’alternativa al marxismo. Popper e il
governo spassionato della ragione”, in Classe, giu. 1982, XIII,
21, pp. 61-80.
[57]
D. Zolo, “La ‘società aperta’ e i suoi amici”, in Critica Marxista,
p. 139.
[59]
L. Geymonat, Riflessioni critiche su Kuhn e Popper, Bari,
Dedalo, 1983.
[61]
Interessante notare a questo proposito le lodi sperticate che
L’Unità del 18 settembre 1994, pp. 1-3, rivolge al filosofo
viennese nella circostanza della sua morte. In un passaggio di un
articolo di G. Bosetti intitolato “quella sua voce dolce e rigorosa”,
si legge ad esempio: “…grande è il debito che il pensiero
contemporaneo ha nei suoi confronti; e ancora più grande è il debito
della cultura della sinistra verso il Popper politico.”
|