UN COMMENTO: RENDITA E CAPITALE FISSO SOCIALE[1]

Agostino Nardocci

Non credo che sia necessario soffermarsi sull’importanza e sul valore dei lavori di Christian Topalov. Basterà dire che quest’autore rappresenta sicuramente uno degli elementi di punta di quel gruppo di studiosi che agli inizi degli anni ‘70 hanno cercato di rinnovare il pensiero marxista, utilizzandone il metodo nell’ambito di quel nodo teorico, ma anche politico e sociale, che va sotto il nome di «problema urbano».

Quanto «Archivio» presenta è la parte finale dell’ultimo lavoro di Topalov: Le profit, la rente e la ville. Eléments de théorie (Centre de sociologie urbane, mimiografato). L’opera è suddivisa in 5 capitoli, il primo dei quali è dedicato all’analisi della rendita fondiaria all’interno del processo di urbanizzazione capitalistico, con lo scopo dichiarato di individuare le relazioni esistenti tra rendita fondiaria e modo di produzione capitalistico. I tre capitoli che seguono sono dedicati allo studio, rispettivamente, della rendita assoluta, della rendita differenziale e della rendita monopolistica e della loro possibile articolazione nello spazio urbano. Infine il quinto capitolo è dedicato allo studio dinamico della formazione dei prezzi nel mercato fondiario della città.

Dispiace che l’intera opera non sia attualmente a disposizione in lingua italiana, tanto più che su questo tema sono stati presentati dai nostri editori, in tempi più o meno recenti, un certo numero di lavori che, senza voler scomodare il signor Guglielmo Tuicidide, potrebbero essere attribuiti ai picadores della rendita di schumpeteriana memoria.

Non è certamente questo il nostro caso e il lettore avrà ampiamente modo di rendersene conto direttamente. A me pare che il pregio principale dell’opera sia, oltre alla chiarezza dell’esposizione e alla sicurezza con cui l’autore si muove, utilizzando tutti gli elementi che la complessità del tema impone, la corretta metodologica seguita. Questa affermazione non va intesa solamente in riferimento al continuo sforzo di chiarificazione e di precisazione delle categorie concettuali effettuato nei primi quattro capitoli, e che darà i suoi frutti nel capitolo finale, e al suo ininterrotto rapportare il pensiero e la teoria alla realtà effettuale, ma anche allo scopo stesso che Topalov si prefigge con questo lavoro.

L’autore non è il depositario, né il sacerdote, della verità rivelata e lo stesso sottotitolo, ... «Elementi di teoria», ci avverte che se qualche luce è stata accesa sull’oggetto di studio, non per questo le ombre sono completamente scomparse. In queste circostanze, come avverte Topalov nella prefazione, l’obiettivo dell’opera diviene quello di sintetizzare quanto di unitario è stato raggiunto da parte degli autori moderni che si sono cimentati sui temi della rendita urbana e di proporre delle ipotesi di soluzione, laddove le posizioni siano ancora contrapposte o non omogenee.

Proprio per questa ragione mi sembra possibile procedere in modo non tradizionale, nel senso che non entrerò nel merito di quanto esposto dall’autore, se non in modo marginale, e mi limiterò a porre in luce alcuni elementi di ambiguità esistenti nelle analisi marxiane dei nostri giorni.

D’altra parte, considerare solamente l’ultima parte del lavoro di Topalov mi sembrerebbe sconveniente nei confronti dell’autore, così come mi parrebbe scorrette discutere su aspetti dell’opera che il lettore non potrebbe direttamente e immediatamente controllare.

Due questioni mi sembra utile porre. Una, se si vuole più marginale, è relativa apparentemente a questioni terminologiche, mentre la seconda è centrata sull’interpretazione della rendita assoluta.

La prima si riferisce alla rendita di monopolio ed alle differenti aree di significato che sembrano caratterizzare l’uso tra i diversi autori marxiani. Mi pare che su questo aspetto ci si debba soffermare per trovare qualche soluzione adeguata.

Dalle poche note lasciate da Marx su questo argomento si evince quanto segue. Innanzi tutto ogni volta che il prezzo regolatore di mercato non coincide col prezzo di produzione, qualunque sia la causa di questa deviazione, ci si trova di fronte ad un prezzo di monopolio. Ovvero quando in un processo produttivo, sia esso riferito ad un singolo caso o ad una intera sfera produttiva, si forma un sovrapprofitto superiore al profitto medio, si presenta la situazione tipica del monopolio.

Se si spinge l’analisi più in profondità si può affermare che Marx, nel caratterizzare la tipologia dei diversi monopoli, fa riferimento principalmente alle cause che determinano quel sovrapprofitto, anche se almeno in un caso egli prende in considerazione il livello  del prezzo regolatore e quindi del sovrapprofitto ottenuto.

Nel capitolo X del  III Libro del Capitale, dedicato al livellamento del saggio generale del profitto ad opera della concorrenza, Marx accenna al monopolio accidentale e al monopolio «nel senso comune della parola», a sua volta distinguibile in monopolio naturale e in monopolio artificiale. Il primo tipo di monopolio, quello accidentale, si ha quando la domanda di una merce si presenta momentaneamente superiore all’offerta, il secondo, quello naturale, si ha quando in un singolo processo produttivo il lavoro utilizzato risulta essere più produttivo di quanto avvenga in quello (o in quelli), che determinano il prezzo regolatore del mercato ed infine il terzo, quello artificiale, è dato allorché sorge un impedimento alla piena e libera circolazione del capitale in qualche particolare settore produttivo.

Nel capitolo XLVI del III libro del Capitale, dedicato alla trattazione della rendita delle aree fabbricabili, ci si imbatte nel monopolio «in generale», che dà luogo ad un prezzo «che è determinato solo dal desiderio di acquistare e dalla capacità di pagare del compratore». Anche in questo caso Marx distingue la situazione in cui quel prezzo è determinato dalla non riproducibilità della merce considerata dalla situazione in cui esso è il risultato di una barriera talmente elevata all’entrata del capitale in una sfera produttiva, che il prezzo viene sospinto al di sopra non solo del prezzo di produzione, ma addirittura del valore.

Sulla base di queste poche indicazioni fornite da Marx, mi pare che esistano delle difficoltà connesse con il prezzo di monopolio artificiale. In questo ambito ci si troverebbe in una situazione asimmetrica, con almeno tre situazioni differenti. L’elemento discriminante è rappresentato dalla composizione organica del capitale utilizzato in una particolare sfera di produzione e che verrà indicata di seguito con (q).

Consideriamo inizialmente la situazione in cui (q) sia superiore alla media sociale.

In questo caso il prezzo di produzione si presenta superiore al valore di scambio. Se esiste un impedimento al libero afflusso del capitale nel settore, il prezzo regolatore supererà il prezzo di produzione, dando luogo ad un prezzo connesso con il monopolio artificiale toni court.

Consideriamo ora la situazione in cui (q) si presenti inferiore alla media sociale e supponiamo che ciò si abbia nel settore agricolo. In queste circostanze necessariamente il valore della produzione sarà superiore al prezzo di produzione. Si aprono ora due possibilità, a seconda che il prezzo regolatore del mercato sia inferiore o, al limite, eguale al valore, oppure a seconda che esso sia superiore allo stesso valore.

Nel primo caso Marx definisce assoluto il sovrapprofitto che si forma per l’esistenza del monopolio artificiale, mentre, nel secondo caso, si ripresenta la situazione dei monopolio  «in generale», ovvero del monopolio artificiale tout court.

Se poi aggiungiamo i risultati recentemente indicati da Ball, si ha che anche la rendita differenziale di II tipo darebbe luogo ad un monopolio artificiale, non meglio precisabile, in quanto la sua esistenza comporterebbe un impedimento al libero afflusso del capitale nella sfera di produzione.

Come si può constatare ci si trova di fronte ad una categoria che assume un’estensione di significato troppo ampia e che richiede di essere meglio articolata. In questo caso bisognerà procedere mediante una convenzione e pertanto suggerirei di utilizzare, come fa Marx nello studio della rendita differenziale, i numeri ordinali per individuare i diversi tipi di monopolio artificiale. Così, ad esempio, ci si potrebbe riferire al sovrapprofitto assoluto come al caso di monopolio artificiale di I tipo, al monopolio artificiale tout court come al caso di II tipo e alla situazione individuata da Ball[2] come al III tipo e così via.

Aldilà dei problemi terminologici, ben altre difficoltà sorgono quando dallo studio del settore agricolo si passa a quello urbano. In quest’ultimo ambito, infatti, Marx sembra porre l’accento sulla rilevanza del ruolo svolto dal monopolio dovuto alla non  riproducibilità  e a quello artificiale tout court. A me pare che seguire sino in fondo solamente questa via non sia agevole e che, tutto sommato, non sia completamente convincente. Infatti, se si espande al massimo l’utilizzo della categoria connessa con la non riproducibilità, si rischia di sfociare nei risultati di Marshall, quando questi fa riferimento al valore di situazione (anche se quest’ultima categoria, nonostante la tradizionale attribuzione a Marshall, è stata utilizzata per primo da List). Mentre un’analisi, che individuasse nell’esistenza della rendita fondiaria essenzialmente l’aspetto connesso con la creazione di «scarsità» del prodotto, non mi sembrerebbe cogliere completamente nel segno. Per rendersene conto basta scorrere i dati dell’ultimo censimento delle abitazioni del nostro paese; si può verificare, infatti, che l’elemento che caratterizza la situazione attuale è paradossalmente la superiorità delle stanze rispetto agli occupanti. Eppure rimane pur vero che il prezzo finale pagato per l’acquisto o per l’uso di un alloggio è il più delle volte determinato «solo dal desiderio di acquistare e dalle capacità di pagare del compratore».

Topalov, posto di fronte a queste difficoltà, pone l’accento sugli aspetti connessi con la circolazione e la realizzazione del prodotto, in altri termini individua un nuovo monopolio   «in generale», che non si forma solamente al livello della produzione della merce, ma che tiene conto dei ciclo complessivo dei prodotto fondiario. Questa nuova concettualizzazione è di estremo interesse, sia in riferimento all’analisi della rendita fondiaria, sia, e ancor più, in relazione alle conseguenze indotte da tale tipo di monopolio, non solo sul funzionamento dell’intero sistema produttivo, ma anche sull’articolazione e sulle dina miche delle classi sociali.

In effetti, se una parte della società che possiede le abitazioni, e quindi la terra su cui esse affondano le proprie radici, è legittimata a pretendere un tributo per permettere la soddisfazione dei bisogno primario di avere un tetto della restante parte della popolazione, allora la distribuzione del prodotto sociale non avviene solamente sulla base della posizione tenuta dai soggetti sociali all’interno del processo produttivo, ma anche in funzione della appartenenza o meno al gruppo sociale dei proprietari. In questo modo si crea la possibilità di incrinare la solidarietà della classe operaia, cooptandone una parte e facendola partecipare al festino imbandito dalla proprietà fondiaria.

Ne consegue che la proprietà urbana, lungi dal rappresentare un residuo sovrastrutturale di formazioni storiche ormai superate, può essersi trasformata in un elemento fondamentale per la riproposizione e la stabilizzazione del modo di produzione capitalistico.

La seconda questione che voglio porre, come ho già accennato in precedenza è relativa alla rendita assoluta e alla utilizzazione che usualmente ne viene fatta. Sempre più mi vado convincendo che la tradizionale interpretazione dei pensiero di  Marx su questo punto — accettata anche da Topalov — sia inconsistente e che tale categoria non rivesta alcuna importanza per l’analisi urbana.

Per poter comprendere questa mia posizione è utile riferirsi alle modalità utilizzate da Marx per procedere al calcolo dei vari tipi di rendita agricola. Infatti, in questo caso, ci si trova di fronte ad una situazione non univoca, in quanto si presentano, quantomeno, tre differenti indicazioni.

Nelle Teoria sul plusvalore si ha innanzitutto che:

[A]

RA = VI — PP

RD = PM — VI

RC = RA + RD

RC = PM — PP

dove Marx chiama

RA la rendita assoluta,

RD la rendita differenziale,

RC la rendita complessiva,

VI il valore ottenuto nei singoli processi produttivi,

PP il corrispondente prezzo di produzione e

PM il prezzo di mercato della produzione[3].

Va sottolineato che queste indicazioni non creano alcun problema, se il valore di mercato è maggiore o, al limite, eguale al valore individuale. Nel caso inverso, quando cioè il valore individuale si presenta inferiore al valore di mercato, Marx procede mediante due diverse modalità di calcolo. Infatti in alcune circostanza mantiene le relazioni imposte nella [A] in altre, e sempre in riferimento dagli stessi esempi numerici, procede nel seguente modo:

[B]

RA = PM — PP

RD = zero

RC = RA + RD

RC = PM — PP

in definitiva, in questo caso, la rendita complessiva coincide con quella assoluta[4].

Infine le indicazioni contenute all’inizio del capitolo quarantacinquesimo del terzo libro del Capitale, dedicato alla trattazione della «rendita assoluta», possono essere generalizzate solamente nel seguente modo:

[C]

rd = pa - pi

rnd = p — pa

rc = rd + rnd

rc = p — pi

dove (pa)  rappresenta il prezzo unitario di produzione ottenuto sul campo meno produttivo, (pi) il prezzo unitario di produzione ottenuto sul campo i esimo, (p) il prezzo unitario di mercato ed infine (rd), (rnd) e (rc) rappresentano rispettivamente i saggi di rendita differenziale, di rendita non differenziale e di rendita complessiva[5].

Qualora la composizione organica del capitale agricolo risulti inferiore a quella sociale media, allora la (rnd) diviene il saggio di rendita assoluta e a questo caso faremo riferimento nel seguito. Generalizziamo e omogeneizziamo le relazioni individuate con la [A], la [B] e la [C] per un qualsiasi campo i-esimo.

La [A] diviene:

[a]

RAi = (vi - pi) . Qi

RDi = (p - vi) . Qi

RCi = (p - pi) . Qi

dove

p = Va / Qa = va

p >= vi

dove (v) rappresenta il valore di un’unità di produzione ottenuta su di un campo i-esimo, (Qi) l’ammontare complessivo della sua produzione, (pi) il suo prezzo unitario di produzione, (p) il prezzo unitario che regola il mercato, (Va) il valore complessivo della produzione ottenuta sul campo meno produttivo, (Qa) tale produzione e (va) il valore di una sua unità di prodotto.

In questo modo la diversa produttività dei terreni può essere ordinata mediante una successione ascendente utilizzando le lettere dell’alfabeto.

La [B] diviene:

[b]

RAi = (p – pi) . Qi

RDi = zero

RCi = (p – pi) . Qi

dove               p = vk               per i < k          k indice del campo regolatore

mentre la [C] risulterà eguale a:

[c]

RAi = (p – pa) . Qi

RDi = (pa – pi ) . Qi

RCi = (p – pi) . Qi

dove pQa = pa.Qa + r. Qa

p = pa + r

Come si può constatare agevolmente solamente la (RC), ossia l’intero ammontare della rendita ottenuta su ciascun campo, viene individuata seguendo sempre le medesime modalità, mentre la (RA), la (RC) e la determinazione di (p) mutano a seconda che si considera la [a], la [b] oppure la [c].

Le distinzioni e le variazioni non sono solamente formali, bensì sostanziali, con conseguenze assai rilevanti per l’analisi della rendita fondiaria. Vale la pena, pertanto, di considerare in modo più attento le diverse indicazioni fornite dallo stesso Marx, per individuare i risultati più importanti a cui esse danno luogo.

Prendiamo in esame inizialmente la [a].

Tenendo presente che il livello unitario dei valori e dei prezzi di produzione è ottenuto mediante il rapporto tra i loro ammontari complessivi e quello della produzione ottenuta, la rendita assoluta può essere individuata anche come segue:

RAi = (Vi — Pi)

In questo modo viene messo in evidenza un aspetto assai rilevante. Infatti, in questo caso, la rendita assoluta è completamente slegata dai livelli di produttività dei vari terreni, mentre è funzione diretta della quantità di lavoro complessivamente utilizzato su ciascun appezzamento e della differenza tra il saggio di sfruttamento della forza – lavoro ed il saggio di profitto medio ottenuto dai capitalisti. Pertanto se si suppone, in maniera assai drastica, che la composizione organica del capitale utilizzato nella sfera agricola sia omogenea, ne discende che la rendita assoluta non è funzione della quantità di prodotto ottenuto e neppure dell’estensione dei campi posti in coltivazione, bensì unicamente dalla quantità di capitale investito.

Inoltre, poiché l’analisi presuppone esplicitamente che (p) sia pari a (va) sempre in base alla [a] si ha che la rendita differenziale può essere espressa nei modi seguenti:

RDi = (va — vi) . Qi

oppure

RDi = Va . (Qi / Qa) - Vi

Dunque la rendita differenziale di un campo i- esimo sarà data dal prodotto della quantità di merce con la differenza esistente nei valori unitari che si hanno sui terreno considerato e su quello meno produttivo, ovvero è funzione della differenza tra il valore del campo regolatore, ponderato mediante il rapporto delle quantità ottenute sui due campi presi in esame e quello del singolo appezzamento.

In definitiva si può allora affermare che la rendita differenziale, in questo caso è funzione della quantità di lavoro vivo e morto utilizzato nel processo produttivo e delle differenze relative di produttività. Va inoltre rilevato che l’analisi viene in pratica effettuata solamente sulla base dei valori, senza fare riferimento ai prezzi di produzione.

Inoltre essa si basa su di un di un assunto assai drastico, ossia che il prezzo unitario di mercato coincida perfettamente con il valore unitario del campo meno produttivo. Ora Marx di fatto sostiene sia  nelle Teorie sul plusvalore , sia nel Capitale che questa è una delle situazioni ipotizzabili e che, pertanto, ve ne saranno delle altre dove i1 prezzo di mercato sarà inferiore a quel valore. Qualora si verifichi questa circostanza è sempre possibile individuare un campo k tale che il suo valore individuale diviene pari al prezzo regolatore del mercato. In questo caso si possono avere due possibilità, a seconda della diversa produttività degli appezzamenti. Per i campi  più produttivi di k, dove (vi) risulta essere superio a (vk), il riferimento alla [a] non presenta alcuna difficoltà  e, pertanto, i risultati individuati in precedenza permangono sostanzialmente immutati, Per i campi meno produttivi di (k), dove (vi) si presenta inferiore a (vk), il riferimento alla [a] darebbe luogo a un risultato paradossale: la rendita differenziale diviene una grandezza negativa.

Marx è perfettamente cosciente di questo risultato, che esplicita con precisione, tuttavia ciò non deve essergli parso completamente soddisfacente, nella misura in cui a volte per questi casi fa riferimento alla [b]. In questa situazione non si avranno rendite negative in quanto l’analisi impone la non esistenza della rendita differenziale e attribuisce alla rendita assoluta ciò che il capitalista paga al proprietario per poter utilizzare il terreno. Procedere in questo modo significa tuttavia legare l’ammontare della rendita assoluta alla produttività dei vari appezzamenti.

Infatti la [b] può essere anche trascritta come:

RAi = Vi . (Qi / Qk) - Pi

Dunque la rendita assoluta sarà sempre funzione dell’ammontare dell’investimento, ma il rapporto tra le quantità di prodotto ottenuto sui due diversi campi considerati indica che essa è legata funzionalmente anche alla produttività dei due appezzamenti.

Mi sembra logico supporre, a questo punto, che proprio i risultati non completamente soddisfacenti ottenuti con questo modo di procedere (rendite differenziali negative oppure rendite assolute che si presentano differenziate a fronte di rendite differenziali nulle), abbiano spinto Marx ad adottare la [c].

Le relazioni in essa contenute possono essere ritrascritte nel seguente modo:

RA = r . ( Qi / Qa )

RDi = Pa . ( Qi —  Qa ) – Pi

Due elementi vanno sottolineati.

Il primo è dato dal fatto che in questo caso la rendita differenziale è completamente sganciata dall’analisi dei valori, siano essi complessivi o unitari ed è calcolata facendo riferimento solamente ai prezzi di produzione.

Infatti in tale circostanza la rendita assoluta diviene pari a

RAi = ( va – pa ) . Qi

ovvero

RAi = Va . (Qi / Qa) – Pa

Come si può agevolmente constatare, anche in questo caso l’ammontare complessivo della rendita assoluta è direttamente proporzionale alla quantità di prodotto raccolto sui singoli appezzamenti oltre che, naturalmente, alla differenza esistente tra saggio di sfruttamento della forza-lavoro e saggio di profitto medio.

A me pare che Marx sia in qualche modo consapevole di questo particolare risultato ottenuto con la sua analisi. A questo proposito è chiarificatrice la risposta, contenuta nel capitolo quarantacinquesimo del III Libro del Capitale al seguente quesito. Posto che il prezzo di mercato abbia raggiunto un livello tale da permettere la normale valorizzazione del capitale investito sui terreni di peggiore qualità, e indicati con A, senza la possibilità che si formi un plusprofitto, ne consegue necessariamente che tali campi possano essere messi in produzione? Eliminando la situazione casuale data dalla diretta coltivazione effettuata in prima persona dai proprietari, secondo Marx i campi di tipo A potranno essere utili nel processo produttivo solo se possono permettere il pagamento di una rendita, come avviene per esempio dopo che sia aumentato l’investimento sui terreni già coltivati in precedenza, oppure dopo che un nuovo e peggiore terreno sia messo a coltura e preso in affitto.

Per questi casi Marx afferma che:

«È vero che si potrebbe dire: la rendita del terreno peggiore di tipo A è essa stessa una rendita differenziale... Questa però sarebbe una rendita differenziale che non sorgerebbe dalla differente fertilità dei vari tipi di terreno, e che quindi non sarebbe fondata sulla premessa che terreno di tipo A non frutta rendita alcuna e vende il suo pro dotto al prezzo di produzione»[6].

Come dire: l’ammontare della rendita che si forma per il terreno di tipo A può apparire determinato sulla base della diversa produttività dei terreni, ma la causa della sua formazione non discende dal concreto funzionamento del processo produttivo, quanto piuttosto dai rapporti di proprietà che impediscono l’uso gratuito dei fondi agricoli.

A questo punto vale la pena di trarre qualche conclusione dall’analisi svolta.

Innanzi tutto si ha che, qualunque indicazione si segua, la rendita assoluta non presenta alcun legame funzionale con l’estensione del terreno coltivato. In effetti essa è direttamente proporzionale all’ammontare dell’investimento effettuato, come nella situazione [a] oppure alla produttività del lavoro attivato sui diversi tipi di terreno, come nella situazione [b] e [c].

In secondo luogo, non mi pare che vi sia la possibilità di collegare tra di loro i tre diversi modi utilizzati da Marx per calcolare la rendita assoluta e la rendita differenziale. Infatti, anche nel caso limite in cui (p) risulti eguale a (va), le relazioni individuate con la [a] divergono profondamente da quelle ottenute con la [c].

In terzo luogo, solo la [a] e la [c] si prestano ad essere utilizzate concretamente per la generalità delle situazioni ipotizzabili, mentre la [b] si riferisce solamente ad un caso particolare.

Tuttavia, prima ancora di ricercare gli elementi che possono permettere di preferire l’una all’altra, è necessario considerare come è determinato il prezzo regolatore del prodotto agricolo, all’interno della formazione sociale dominata dal modo di produzione capitalistico. In altri termini bisogna chiedersi quale relazione intercorra tra prezzo regolatore del mercato e  valore unitario del prodotto conseguito sul terreno di qualità peggiore.

Per quanto molte fonti autorevoli, nel passato come nel presente, procedano nell’analisi come se le due variabili fossero di fatto coincidenti, a me sembra che tra di esse non vi sia, e non ci possa essere alcun legame. Questa mia affermazione, così perentoria e ultimativa, va specificata e articolata con precisione, per l’importanza che l’argomento riveste.

Non nego che, per la ricchezza del reale, valore unitario del prodotto e prezzo di mercato possano momentaneamente coincidere in qualche particolare situazione, così come accolgo la possibilità che lo studio teorico della rendita sia avviato a partire da una situazione siffatta. Procedere in questo modo sarebbe metodologicamente corretto, esattamente come quando Marx suppone che non si paghi alcun fitto sul campo regolatore, allorché avvia lo studio della rendita differenziale. Tuttavia, seguendo il suo metodo delle approssimazioni successive, è necessario chiedersi in un secondo tempo se l’ipotesi iniziale è coerente con l’operare concreto del modo di produzione capitalistico.

Ora, se l’analisi viene effettuata seguendo le - indicazioni di Marx, e in particolare se si suppone che nel processo produttivo della sfera agricola si presentino le figure dei proprietari terrieri, dei capitalisti e dei lavoratori, completamente distinti tra di loro, e che in tale sfera esattamente come nelle altre, esista la libera circolazione del capitale, allora non sono a conoscenza di qualsivoglia argomentazione logica per escludere il settore agricolo dal processo di perequazione del saggio di profitto.

Supponiamo per assurdo di non voler tener conto di  questo elemento metodologico e di procedere, dopo aver introdotto l’ipotesi di concordanza, col considerare non solo la situazione statica, ma anche tutte le situazioni dinamiche. Ci si chiede se in questo modo il valore ottenuto sul terreno peggiore permane eguale al prezzo regolatore.

La risposta sarà affermativa solamente se si seguono le modalità individuate da Ricardo, ovvero se i nuovi campi messi in produzione risultano essere di minor produttività rispetto ai precedenti e se vige la legge dei rendimenti decrescenti.

La risposta sarà invece negativa se l’incremento degli investimenti sulle vecchie affittanze comporta aumenti crescenti di prodotto, oppure se è possibile mettere in coltivazione terreni di qualità migliore rispetto ai precedenti.

A ben vedere quest’ultima è la situazione considerata da Marx negli esempi numerici che stanno alla base della sua analisi sulla rendita fondiaria, effettuata nelle Teorie sul plusvalore II. Così, si può constatare agevolmente che solamente in uno degli esempi successivi a quello di partenza (il secondo contenuto nella tabella B) permane l’eguaglianza tra il valore ottenuto sul terreno peggiore e il prezzo di mercato, mentre in tutti e tre gli esempi rimanenti (tabella C, D ed E) il prezzo risulta essere inferiore.

Dunque né sulla base dell’analisi, nè sulla base dei risultati ottenuti dallo stesso Marx, è possibile affermare che la sfera agricola possa sottrarsi completamente al processo di perequazione del saggio di profitto.

Ne discende che è necessario scegliere tra le relazioni contenute nella [c] oppure nella [a] tenendo naturalmente presente che in quest’ultimo caso, (p) sarà eguale a (vk) e che quindi il prezzo di mercato sarà inferiore al valore unitario ottenuto su alcuni terreni, ma superiore rispetto a quelli rimanenti.

In queste circostanze a me pare che solo la [c] permetta di analizzare correttamente la formazione e la determinazione della rendita fondiaria agricola. Le ragioni di questa preferenza non sono legate ad una avversione teorica per l’esistenza delle rendite negative, che possono ottenersi con l’utilizzo della [a] e neppure per il fatto che nessun autore, a mia conoscenza, si è mai avventurato per questa via.

Due elementi sono invece dirimenti a questo proposito. Da un lato la [c] si presenta come la conclusione del percorso teorico seguito da Marx, dall’altro lato, se nel mondo delle merci lo scambio è legato alla formazione dei prezzi di produzione, la [a] va abbandonata in quanto l’analisi che sta al suo fondamento è condotta essenzialmente sulla base dei valori.

Va rilevato che i risultati che discendono dalla [c] non sono però in linea con quelli sostenuti dalla tradizione marxista. Infatti, da un lato la rendita differenziale può essere attribuita all’esistenza di un monopolio artificiale connesso con la proprietà fondiaria, come ha recentemente messo in rilievo Ball. Dall’altro lato il ruolo svolto dalla rendita assoluta, pur permanendo rilevante sul piano teorico, viene ridimensionato drasticamente sul piano pratico.

In effetti, la sua esistenza impedisce l’uso gratuito di qualsiasi terreno, tuttavia l’ammontare del fitto pagato per l’utilizzo degli appezzamenti meno produttivi non supererà quella soglia che permette un afflusso di nuovo capitale nella sfera. Come dire che i rapporti sociali esistenti interagiscono con il sistema produttivo, impedendogli di operare secondo le sue potenzialità, però l’ammontare del fitto che di scende da questa particolarità sarà legata alle differenze di  produttività dei vari terreni. In questo modo la conoscenza del livello raggiunto dalla composizione organica del capitale utilizzato nell’agricoltura, presenta un interesse modesto in quanto essa permette solamente di individuare la sfera di provenienza del plusvalore, che, trasformato in profitto dalla concorrenza, retribuisce il capitale investito nelle coltivazioni.

Ora se queste conclusioni sono corrette, ne discende che la rendita assoluta, qualora la terra venga richiesta , per ottenere diversi tipi di merci, interverrà solamente per la produzione di quel settore che sostiene il più basso livello di fitto.

Pertanto, la differenza che esiste tra il pr4ezzo del terreno urbano e quello agricolo non può essere attribuita a tale tipo di rendita, nella misura in cui il primo superi il secondo.

Come spiegare allora il divario che generalmente si instaura tra il valore di mercato dei terreni urbani rispetto al valore dei terreni agricoli?

L’impossibilità di utilizzare la categoria della rendita assoluta dovrebbe a prima vista spingerci a ritrovare l’ancora di salvezza nella non riproducibilità dei terreni urbani e nel monopolio che ne deriverebbe. Inevitabilmente dovremmo riferirci al concetto di scarsità come al centro motore dell’analisi e ottenere, per questa via, risultati sostanzialmente analoghi a quelli di derivazione neoclassica.

L’alternativa concreta a questo modo di  procedere consiste nel prendere atto di un dato di fatto e nel considerare la possibilità che una parte del fitto venga pagata non a titolo di rendita, bensì a titolo di interesse.

Il dato di fatto, si riferisce all’enorme concentrazione di capitale fisso sociale che caratterizza lo spazio urbano, a fronte della sua relativa povertà nelle campagne.

Apparentemente, e nonostante che il capitale investito in questa sfera venga realizzato secondo le regole che vigono qualsiasi produzione , esso non dà luogo alla formazione di una merce. Infatti una parte del capitale fisso sociale (ad esempio la rete viaria) sarà utilizzata sicuramente in modo gratuito dai singoli membri della società, mentre un’altra parte, quella che si concretizza nel supporto necessario all’erogazione di determinati servizi sociali (ad esempio caserme, ospedali, scuole, asili ecc.) sarà utilizzata in modo gratuito o semi-gratuito, nella misura in cui esso non viene ammortizzato, in toto o in parte, nel prezzo dei servizi offerti. Per questo motivo la città perde la caratteristica di un continuo indifferenziato, per assumere l’elemento costitutivo nella dicotomia tra le aree edificabili (in questo senso vera e propria terre-matière) e le aree su cui affondano le radici del capitale fisso sociale (terre capital).

In queste circostanze, che il prezzo della terre-matière sopravanzi in misura anche notevole il prezzo dei terreni agricoli, non deve destare meraviglia; infatti questo fenomeno non è null’altro che il risultato delle relazioni che si instaurano concretamente tra i due differenti tipi di terreni urbani, null’altro che la sanzione sociale per la partecipazione dei primi al privilegio spaziale che contrappone la città alla campagna.

Si noti che questo modo di procedere permette di comprendere anche un ulteriore fenomeno che ha rilevanza sul piano teorico e pratico. Infatti non solo il prezzo delle aree urbane, ma anche quello degli appezzamenti posti nelle loro vicinanze, intese in modo più o meno ampio a seconda delle circostanze, assume valori superiori a quelli che caratterizzano il prezzo dei terreni agricoli. Orbene, le cause di questo accadimento non andrebbero ricercate solamente nel comportamento monopolistico tenuto dai proprietari terrieri o nelle azioni poste in atto dagli speculatori, bensì anche nel fatto che il mercato fondiario è in grado di dare una valutazione, più o meno esatta, del periodo di tempo necessario a far sì che le singole aree di terre matière entrino in relazione concreta con la concentrazione del capitale fisso sociale.

Questa ipotesi di ricerca apre inoltre dei nuovi filoni d’analisi, relativi ad aspetti ben più rilevanti di quanto non siano la formazione e la determinazione dei valori fondiari. Si pensi, ad esempio, ai meccanismi relativi alla distribuzione del prodotto sociale che essa lascia intravedere.

Certo, proseguire per questa via non è necessariamente agevole o privo di pericoli; peraltro se si vuole alzare qualche velo su di una problematica certamente complessa e quanto mai intricata, qual’è connessa con il «nodo urbano», non mi pare che si abbiano a disposizione altre alternative.

NOTE


[1] Estratto da: “Archivio studi urbani e regionali” n° 15, 1982.

[2] Cfr. M. Ball, « Differential rent and the role of landed property » in International Journal of Urban and Regional Research, vol. 1, 1977, n. 3.

[3] Cfr. K. Marx, Teorie sul plusvalore II. Editori Riuniti, Roma 1979, Capitolo XII.

[4] – Ivi e la tabella riassuntiva I a pp. 640-641.

[5] K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1970, Libro III, p. 861.

[6] K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1970. Libro III. p. 861.