SVILUPPO E CRISI DEL MATERIALISMO STORICO NEI GRUNDRISSE

Nicrosini Claudio

CAPITOLO II

LA RIELABORAZIONE DIALETTICA DEL MATERIALISMO STORICO NEI QUADERNI I-IV DEI GRUNDRISSE

Nel suo importante libro sullo sviluppo del pensiero economico marxiano, comparso in Italia negli anni ’70 sotto il titolo Introduzione ai Grundrisse di Marx[1], Vigodskij ha preso in considerazione il periodo incluso fra la fine dell’agosto del 1849 (cui risale l’inizio del soggiorno londinese[2] e la stesura definitiva del primo libro del Capitale, negli anni 1866-1867[3]. Secondo lo studioso sovietico, infatti, sarebbe solo in quest’arco di tempo che prenderebbe forma nei suoi tratti essenziali l’economia politica marxiana, attraverso un processo formativo nel quale i Grundrisse rivestirebbero un ruolo assolutamente centrale, cronologicamente intermedio e teoricamente decisivo.

Marx, sviluppando i presupposti già presenti nell’Ideologia tedesca era arrivato a concepire, già nella seconda metà degli anni 40’, il capitalismo come ‘prodotto storico’, il capitale come rapporto sociale, la centralità, nell’ambito dell’indagine economica, dei ‘rapporti di produzione’, ed il primato del rapporto fra ‘forze produttive’ su quello fra prodotti. Questi importanti risultati, secondo la delucidazione complessiva fornita da Vigodskij, erano stati conseguiti nella Miseria della filosofia (1847) e nelle conferenze su lavoro salariato e capitale (apparse come articoli, a partire dall’aprile del 1849, sulla Neue Rheinische Zeitung)[4]. Ma tali elementi teorici innovativi erano rimasti ancora vincolati, a giudizio di Vigodskij, ai principi economici fissati da Ricardo. La distinzione fra lavoro concreto e lavoro astratto, e quella fra valore d’uso e valore di scambio della forza-lavoro, erano ancora, nella teoria marxiana, di là da venire.

Secondo lo studioso sovietico è solamente a partire dal luglio 1850, a contatto con la società anglosassone e con il suo eccezionale sviluppo industriale, che Marx intraprende studi di economia politica e di storia economica (con particolare attenzione all’andamento economico dei dieci anni precedenti) tali da consentirgli lo sviluppo compiuto dei fondamenti della propria teoria economica. Dall’agosto del 1850 al giugno del 1853, Marx compila venticinque quaderni di estratti[5], cui fanno seguito numerosi quaderni di appunti, e due importanti abbozzi di vere e proprie trattazioni: Denaro, credito, crisi e Tre libri sulle crisi. Da questo momento in avanti, le osservazioni critiche marxiane sugli economisti classici, secondo Vigodskij, cominciano a farsi precise, puntuali. Marx, approfondito lo studio della teoria del denaro e della circolazione del denaro, in primo luogo, critica la teoria quantitativa del denaro di Ricardo[6]; in secondo luogo, si addentra nell’analisi dei rapporti economici più complessi, ed in particolare del credito e delle crisi[7], in terzo luogo, inizia a riesaminare la teoria della rendita fondiaria.

Con l’ampio manoscritto dei Grundrisse, finalmente, prendono corpo gli studi di questo periodo, sintetizzati attraverso quella che Vigodskij definisce la “grande scoperta”[8] di Marx: la teoria del plusvalore, fulcro logico dell’intera nuova concezione dell’economia politica.

In questo voluminoso manoscritto, secondo Vigodskij, da una parte Marx constata con estrema chiarezza come, nel mondo borghese-moderno, gli individui tendano in modo crescente a produrre nella società e per la società nel suo complesso, ma come al contempo la loro produzione non sia propriamente una produzione sociale (perché nel suo insieme essa non è direttamente pianificata in funzione della soddisfazione dei bisogni collettivi della società, né in definitiva è finalizzata, nello scopo ultimo che ne definisce l’essenza, alla soddisfazione dei bisogni individuali). D’altra parte, questa constatazione induce Marx ad assumere la distinzione teorica fra valore di scambio del prodotto – determinazione quantitativa del valore del prodotto come valore-lavoro, fondata in ultima istanza sulla sempre più reale esistenza lavoro sociale (cooperazione e divisione del lavoro, macchine e tecnologia) e quindi sulla rappresentabilità di quest’ultimo come lavoro astratto – e valore d’uso – determinazione del valore in relazione all’utilità oggettiva delle cosa prodotta, al suo uso concreto – come base fondamentale dell’intera teoria economica. L’insieme delle contraddizioni del sistema sociale capitalistico, fissata questa prima contraddizione-cardine valore d’uso – valore di scambio, può essere efficacemente sistematizzato, a parere di Marx, in una nuova economia politica.

Le conseguenze tratte sono numerose e rilevanti: la ricchezza, nella forma semplice di merce, viene considerata nella sua peculiarità storico-sociale di unità elementare di valore d’uso e valore di scambio; il denaro – che era considerato da Ricardo come puro mezzo o strumento di circolazione –, viene ricondotto alla teoria del valore, nella nuova determintezza storica e determinazione contraddittoria che essa assume (come tale capace di motivare il continuo ripresentarsi di squilibri e crisi monetarie); il capitale, infine, viene inteso come processo sociale complessivo e contraddittorio, e sviluppato teoricamente a partire dalla distinzione fondamentale fra valore di scambio e valore d’uso della forza-lavoro. Soprattutto, quindi, risulta possibile, come Vigodskij giunge a concludere, la comprensione della fondamentale specificità storica della crescita economica e dell’arricchimento capitalistici, la cui fonte viene individuata nella produzione e accumulazione di plusvalore. Marx scopre e spiega l’apparente paradosso della crescita economica attraverso lo scambio di valori equivalenti, e svela “il meccanismo dello sfruttamento capitalistico”[9] come base tanto dell’accumulazione del valore di scambio che della crescita della ricchezza materiale.

Nei Grundrisse, secondo l’espressione di Vigodskij, si ha il primo costituirsi di una teoria “chiusa”, cioè coerente, del plusvalore, cuore pulsante dell’intera concezione economica marxiana[10]. Vigodskij, pertanto, descrive l’evoluzione complessiva del pensiero economico di Marx come un processo avente nei Grundrisse – definiti il “laboratorio creativo”[11] di Marx – la prima ed essenziale formulazione del fondamento teorico basilare[12].

Se presupponiamo che il contenuto economico fondamentale dei Grundrisse sia effettivamente quello delineato da Vigodskij, occorre chiedersi in che modo esso si connetta con il potente ripristino della terminologia e dell’apparato categoriale hegeliani, riscontrato pressoché da tutti gli studiosi che si sono occupati dei Grundrisse – e del tutto ignorato nell’esposizione di Vigodskij. Qual è il senso del recupero della dialettica hegeliana, dopo che essa è stata pressoché del tutto messa al bando nel programma di ricerca formulato con la stesura dell’Ideologia tedesca? Come interagisce la dialettica del 1857-58 con i presupposti del materialismo storico fissati nel 1845-46?

Come mette in luce l’esame della Einleitung svolto nel precedente capitolo, nell’elaborazione della propria economia politica, Marx si trova di fronte al problema del rapporto fra questa economia politica – come teoria del funzionamento e dello sviluppo della moderna società borghese, come scienza avente un oggetto presente –, da una parte, e la concezione generale della storia della società, la teoria materialistica dello sviluppo storico complessivo, dall’altra. Il significato principale del recupero della dialettica hegeliana operato da Marx nei Grundrisse si può comprendere, a nostro avviso, solo entro questa precisa problematica.

Questo capitolo – che prenderà in considerazione i primi quattro quaderni dei Grundrisse, e quindi si limiterà esclusivamente all'iniziale definizione della teoria del plusvalore e dei presupposti fondamentali dell’economia politica marxiana – tenterà di spiegare il recupero della dialettica come una rielaborazione generale del materialismo storico atta ad includere in modo coerente la scienza economica della società moderna, e parimenti a fissarne la specificità delle leggi, distinguendole in modo netto dalle leggi generali dello sviluppo storico. Il primo paragrafo, sarà destinato a riassumere i tratti peculiari della concezione materialistica della storia fissata nell’Ideologia tedesca (rapportando il testo marxiano alla Ricchezza delle nazioni di Smith). Il secondo paragrafo, alla luce del peculiare problema del rapporto fra la scienza di un oggetto attuale (leggi economiche moderne) e la scienza della storia (sviluppo delle forze produttive materiali) che si profila nella Einleitung, tenterà di individuare nella duplice trattazione hegeliana dello Stato (filosofia del diritto e filosofia della storia) quella parte della dialettica hegeliana che, come connessione-distinzione fra scienza e storia di un oggetto concreto, nei Grundrisse in certa misura può essere adottata e riadattata per sciogliere il nodo teorico dei nessi e delle distinzioni storiche del modo di produzione. Il terzo paragrafo affronterà finalmente l’esame effettivo dei quaderni I-IV dei Grundrisse. Da ultimo, il quarto paragrafo riassumerà brevemente i risultati generali del capitolo.

§ 1. La concezione materialistica della storia fissata nell’Ideologia tedesca

Nel suo studio Marx e l’idea di progresso Gian Mario Cazzaniga ha sottolineato, fra le altre, la forte influenza esercitata sull’Ideologia tedesca dalla tradizione di pensiero anglo-scozzese: “[…] progresso come artificialità della natura umana, sviluppo intrecciato di techne e divisione sociale del lavoro, evoluzione delle forme politiche come riflesso delle condizioni materiali e sociali di vita. Questo filone nasce con Hobbes e trova uno straordinario sviluppo nella Scozia del secondo Settecento con Ferguson, Smith, Stuart e Millar […]”[13]. Riferendosi all’Ideologia tedesca, poche pagine dopo, Cazzaniga afferma: “Ciò che prevale in questo manoscritto è il rapporto fra divisione sociale del lavoro e forme di proprietà […]”[14]. Secondo Cazzaniga, Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca darebbero uno sviluppo particolare alla concezione generale del progresso come avanzamento della tecnica e della divisione sociale del lavoro, incentrando la propria analisi sul rapporto fra questo progresso e le forme di proprietà.

Approfondendo e specificando queste indicazioni di Cazzaniga[15], è possibile individuare nell’idea dello sviluppo storico sviluppata nella Ricchezza delle nazioni di Smith un progenitore filosofico diretto della concezione materialistica della storia così come è formulata nell’Ideologia tedesca di Marx ed Engels.

§ 1.1. Le leggi naturali dell’economia ed il progresso storico della società in Smith

Adam Smith, nella Ricchezza delle nazioni (1776), sottolinea il ruolo storico della divisione del lavoro, come causa del progresso delle capacità produttive: “Sembra che la separazione di diversi mestieri e occupazioni”, scrive, “sia nata proprio in conseguenza di questo vantaggio e in genere essa è più spinta nei paesi più industriosi che godono di un più alto livello di civiltà”[16].

Il potenziamento della divisione del lavoro, nella ricostruzione smithiana, ha la propria culla nei luoghi più accessibili al trasporto marittimo e fluviale[17]. Dapprima, è solo in tali sedi che subentra la necessità di accumulare una merce agevolmente scambiabile: il denaro[18]. A questo scopo si prestano particolarmente bene i metalli nobili, che come tali acquistano vieppiù una funzione egemone, ed il cui conio, storicamente, agevola ulteriormente le operazioni commerciali[19].

Ma Smith svolge un discorso più profondo e complesso, che va ben al di là di questa semplice ricostruzione storica. La divisione del lavoro, infatti, esprime il progresso naturale dell’uomo; è manifestazione della stessa natura umana[20].

La divisione del lavoro viene spiegata da Smith come “conseguenza necessaria, per quanto assai lenta e graduale, di una particolare inclinazione della natura umana […]: l’inclinazione a trafficare, a barattare, e a scambiare una cosa con l’altra”[21]. Lo scambio, a sua volta, viene messo in rapporto (sebbene con molta prudenza) con le caratteristiche per eccellenza dell’uomo, con le qualità che lo distinguono dagli animali: la ragione e la parola[22]. Sono queste ultime, in definitiva, che consentono l’incontro fra interessi diversi, lo scambio, la divisione del lavoro, e più in generale il volgersi degli egoismi dei singoli l’uno a favore dell’altro.

Lo scambio, la divisione del lavoro, il commercio, l’accumulazione di denaro e l’incremento della produttività allora, non sono solo storicamente importanti, ma invece essenziali per la stessa definizione della società umana: le capacità commerciali sono caratteristiche naturali dell’uomo.

Le principali leggi che riguardano questi aspetti economici della società umana, pertanto, sono esse stesse leggi naturali. La distinzione del valore di scambio dal valore d’uso[23], il lavoro come prezzo reale del valore di scambio della merce[24], il salario il profitto e la rendita come fonti originarie del reddito, il prezzo naturale come risultato dei loro rispettivi saggi naturali medi[25], il prezzo di mercato come incontro di domanda e offerta effettuali, l’azione della concorrenza sul prezzo di mercato (che lo spinge ad oscillare intorno al prezzo naturale e a tendervi incessantemente)[26]: tutti questi principi economici hanno una validità naturale che prescinde come tale dalla collocazione storica e geografica dello Stato di riferimento. Anzi, la stessa scansione delle epoche storiche e lo stesso grado di sviluppo sociale dello Stato, sono determinabili esclusivamente a seconda del livello di riconoscimento e affermazione di questi principi universali della società nella compagine sociale particolare (Stato ed istituzioni).

Sul lavoro Smith scrive: “In quello stadio primitivo e rozzo della società che precede l’accumulazione dei fondi e l’appropriazione della terra, il rapporto fra le quantità di lavoro necessarie a procurarsi gli oggetti sembra sia la sola circostanza che possa offrire qualche regola per scambiarli uno con l’altro. Se, ad esempio, in un popolo di cacciatori uccidere un castoro costa di solito un lavoro doppio rispetto a quello che occorre per uccidere un cervo, un castoro si scambierà naturalmente per due cervi, ovvero avrà un valore di due cervi. È naturale che ciò che di solito è il prodotto del lavoro di due ore o di due giorni abbia un valore doppio di ciò che di solito è il prodotto del lavoro di un giorno o di un’ora”[27]. Secondo questa concezione, poiché si possono sempre uniformare in termini di tempo, secondo una gradazione, la ‘durezza’ e l’‘arte’ (destrezza) impiegate nei singoli lavori particolari, il lavoro è la misura naturale del valore di scambio. Il lavoro come fonte del reddito, pertanto, in Smith sembra quasi assumere un connotato più di carattere fisico che non di carattere sociale, che consente alla legge del valore-lavoro di risultare valida, fondamentalmente, ab origine.

Rendita e profitto compaiono effettivamente solo dopo come fonti del reddito, perché entrambi presuppongono storicamente un’accumulazione pregressa di mezzi di sussistenza e di materiali per la produzione; ma rendita e profitto sono considerati da Smith economicamente altrettanto originari del lavoro nella creazione del valore[28]. L’accumulazione (di terra e di capitale) è per natura individuale, prodotto naturale dell’inclinazione dell’individuo a barattare e a trafficare. Essa non soltanto in principio è proprietà privata ma anche, coerentemente con il suo carattere naturale, deve rimanere tale. Quindi, l’impiego da parte di altri (da parte di non-proprietari) dei materiali e mezzi accumulati, esige sempre un’adeguata remunerazione (rendita o profitto)[29].

L’accumulazione, spiega Smith, affonda le sue radici nei caratteri costitutivi della natura umana. La prodigalità, ammette Smith, spinge gli uomini, in determinate situazioni, alla spesa ai fini dell’immediato godimento. Ma in ognuno è presente il costante desiderio di migliorarsi: “Il principio che spinge a risparmiare è il desiderio di migliorare la nostra condizione, desiderio che, pur essendo di norma calmo e scevro di passionalità, è presente in noi fino dalla nascita e non ci abbandona fino alla tomba”[30]. Questo sentimento è nettamente predominante nella maggior parte degli individui, perché corrisponde ad un principio fondamentale della natura umana[31].

Infine, alla base della determinazione del prezzo e più in generale degli scambi nel loro insieme viene postulata, nella Ricchezza delle nazioni, l’esistenza di una legge naturale della concorrenza fra produttori privati. Il prezzo naturale è essenzialmente diverso da quello di monopolio (che è un’alterazione dovuta a provvedimenti restrittivi volti a proteggere ambiti e privilegi particolari) perché risponde ad una logica, quella del libero scambio, che vale come principio naturale del divenire economico della società umana[32].

Le leggi economiche fondamentali, dunque, sono leggi naturali della società. Il principio naturale della ricchezza delle nazioni riposa su queste leggi, cui gli Stati che vogliono accrescere il proprio benessere devono necessariamente adeguarsi.

Ma il libero scambio, la concorrenza, l’accumulazione (di denaro), il profitto (industriale), la rendita fondiaria (pecuniaria), il salario (del lavoratore libero), il denaro, il commercio e la divisione e organizzazione (manifatturiera) del lavoro, di fatto, non si affermano pienamente che con l’avvento della società moderna. In che senso sono allora riconducibili a delle leggi naturali? Come spiega Smith lo sviluppo storico complessivo della società?

Sullo sviluppo storico della società, Smith raramente enuncia formulazioni non minuziosamente circostanziate, ed in ogni caso cerca sempre di esprimersi con estrema cautela. Ma ad uno sguardo d’insieme della Ricchezza delle nazioni, al di là della prudenza ‘empiristica’ delle singole affermazioni, agli occhi del lettore paziente sembra rivelarsi una concezione di fondo – forse mantenuta come semplice ipotesi guida del lavoro – estremamente definita e coerente, pur nella gigantesca estensione del suo dispiegamento. 

Il commercio, secondo quanto emerge dalla Ricchezza delle nazioni, è il principio fondamentale dello sviluppo economico. Alle leggi naturali dello sviluppo del commercio, in tal senso, corrisponde un ordine naturale dello sviluppo economico della società, che Smith caratterizza nel seguente modo: 1) sviluppo del commercio interno, il quale favorisce la divisione del lavoro, il sorgere dell’industria, e la saldatura su scala nazionale dell’agricoltura (settore produttivo primario) all’industria cittadina (settore produttivo secondario); 2) sviluppo del commercio estero, con l’impiego di una parte del capitale nazionale nell’attività di scambio fra le merci nazionali e quelle di altri paesi; 3) sviluppo commercio di trasporto, con l’impiego di una parte del capitale nazionale nell’attività di intermediazione commerciale fra altre nazioni, attraverso il trasporto delle loro merci.

Quest'ordine di sviluppo del commercio e della nazione (commercio interno, commercio estero e commercio di trasporto) non è solo proficuo, ma anche – se non intervengono azioni coercitive che alterano il progresso naturale della società – spontaneo[33]. Smith ne riassume i tratti essenziali in questo modo: “[…] secondo il corso naturale delle cose, la maggior parte del capitale di ogni società che comincia a formarsi è diretta prima all’agricoltura, poi alle manifatture, e infine al commercio estero. Quest’ordine di cose è così naturale che credo in una certa misura sia stato sempre osservato in ogni società, qualsiasi territorio abbia avuto. Prima che potessero essere fondate delle città di qualche importanza, è stato necessario coltivare parte delle terre, e prima che queste città potessero pensare a impegnarsi nel commercio estero vi si deve essere svolto qualche tipo di attività manifatturiera”[34]. Questo ordine naturale dello sviluppo economico pertanto vale, come afferma Smith, per tutte le società, in qualsiasi contesto storico e geografico esse si collochino.

Secondo Smith, dunque, esiste un ordine naturale dello sviluppo sociale. Ma quest’ordine naturale non coincide affatto, immediatamente, con lo sviluppo storico della società.

Il commercio tende naturalmente a svilupparsi secondo l’ordine interno – estero – di trasporto. “Ma”, aggiunge Smith, “per quanto quest’ordine naturale delle cose debba aver avuto luogo in qualche misura in ogni società, in tutti i moderni stati europei esso è stato completamente rovesciato. Il commercio estero di alcune delle loro città vi ha introdotto manifatture più raffinate, cioè quelle adatte per la vendita in luoghi remoti e le manifatture e il commercio estero insieme hanno dato occasione ai principali miglioramenti in agricoltura. Gli usi e i costumi che la natura dei loro regimi di origine aveva introdotto, e che restarono dopo che quei regimi erano stati completamente trasformati, le costrinsero necessariamente a quest’ordine di cose innaturale e retrogrado”[35]. L’ordine naturale dello sviluppo del commercio, pertanto, storicamente appare invertito: le manifatture volte al commercio estero sorgono prima di quelle volte al commercio interno, e gli Stati inizialmente adottano politiche volte a favorire prevalentemente questo primo tipo di commercio.

Ma come giustifica Smith questo rovesciamento storico dell’ordine economico naturale dello sviluppo del commercio e della società? A parere di Smith, il rovesciamento storico dei principi naturali dello sviluppo economico, è fondamentalmente imputabile alla violenza e alla guerra, che alterano profondamente i principi naturali della società. Storicamente, le passioni, i sentimenti e gli interessi degli uomini agiscono inizialmente senza essere guidati della ragione, e determinano un divenire storico estremamente violento e disomogeneo.

1) I limiti storici dello sviluppo dell’agricoltura, e la sua paradossale, innaturale arretratezza rispetto al commercio cittadino, sono fenomeni, secondo Smith, le cui prime origini risalgono alla caduta della società in preda alla rapina ed alla violenza dei barbari[36]. È in questo modo che Smith spiega l’origine storica delle istituzioni feudali[37].

2) L’emergere del commercio cittadino nella sua forma prevalente di commercio estero e di commercio di trasporto, affonda le sue radici nei violenti conflitti medioevali fra re e baroni[38]. La manifattura, in tale contesto, necessariamente sorge dapprima come filiazione del commercio estero, ed in funzione di questo.

3) Il carattere incerto e mutevole delle istituzioni, che completa il quadro complessivo del rovesciamento storico dei principi naturali dell’economia e dello sviluppo sociale, è fortemente condizionato, infine, dal dominio secolare ed incontrastato della superstizione e dell’ignoranza, la cui espressione più deleteria è la Chiesa cattolica[39].

Qual è, allora, il senso dell’ordine naturale dello sviluppo sociale determinato da Smith? Ha una valenza puramente prescrittiva, intesa esclusivamente ad orientare la politica economica verso la più razionale e proficua forma possibile? No, o non solo. Secondo Smith, che il commercio tenda a diffondersi ed affermarsi storicamente nella sua forma naturale, rientra anche questo nel corso naturale delle cose. Lo stesso corso storico, infatti, è sostanzialmente determinato da Smith nei termini di un progresso sociale necessario e universale.

1) Il progresso del commercio estero e della manifattura cittadini, nell’interpretazione storica di Smith, tornano gradualmente a promuovere e ad integrarsi con lo sviluppo dell’agricoltura, aprendole un grande e pronto mercato nelle città, mettendole a disposizione ‘fondi’ cospicui e, soprattutto, creando una nuova figura di agricoltore-imprenditore avvezzo all’intraprendenza ed al guadagno. In questo modo vengono poco a poco introdotti nella campagna l’ordine ed il buon governo. Il progresso del commercio ed in generale della società, quindi, ricominciano lentamente ad assumere la loro forma naturale, e l’agricoltura inizia ad affermarsi anche storicamente come la fonte più solida e durevole (perché meno soggetta alle guerre e alle rivoluzioni) della ricchezza nazionale, cui si devono appoggiare manifattura e commercio estero.

2) Le istituzioni feudali, secondo Smith, cercavano di rimediare al dilagare di violenze, rapine e disordini nelle campagne, tentando (con la stessa violenza) di sottomettere i baroni ad un’unica gerarchia e ad un unico potere – inutilmente. “Ma tutto ciò che la violenza delle istituzioni feudali non era mai riuscita ad operare”, scrive Smith, “fu compiuto gradualmente dalla silenziosa e impercettibile opera del commercio estero e delle manifatture”[40]. Nuovi prodotti e nuovi bisogni spingono i signori feudali ad un nuovo stile di vita, a disfarsi dei servitori improduttivi, e ad incrementare e monetizzare le rendite mediante l’introduzione di un rapporto di tipo contrattuale con i conduttori dei fondi agricoli, i quali divengono giuridicamente persone indipendenti. È così che la società riesce progressivamente a sbarazzarsi della violenza, la quale si estingue ad opera delle stesse pulsioni naturali, nel momento in cui esse incominciano ad operare come bisogni più estesi e più raffinati, di un livello più progredito, e conseguibili unicamente attraverso una mediazione sociale e razionale – conseguibili, cioè, soltanto attraverso un corrispondente superiore livello di civiltà. Il progresso perciò è portato avanti inconsapevolmente da persone di due diversi ordini – proprietari fondiari e agricoltori –, egualmente guidate da interessi puramente privati. Ma dall’accidentalità dei loro scopi egoistici emerge e si impone la legge naturale dello sviluppo sociale, perché essi ora sono guidati dalla ragione, quale superiore principio naturale dell’uomo e della società[41].

Il progresso sociale consiste, dunque, nell’affermarsi della ragione – che è non soltanto comprensione ma, in definitiva, contenuto del divenire sociale, inteso come estrinsecazione dell’essenza razionale dell’uomo – e nella graduale ‘marginalizzazione’ della barbarie (della violenza, dell’ignoranza superstiziosa e delle passioni non imbrigliate dalla ragione).

L’ordine storico è diverso dall’ordine puramente naturale (economico) dello sviluppo sociale. Tuttavia la storia, nel marasma delle guerre e delle rivoluzioni, tende asintoticamente, nel lungo periodo, al ristabilimento dei principi naturali dell’economia e della società, e si caratterizza come progresso storico. La ragione che comprende e rappresenta questo essenziale movimento storico, in fondo, non è altro che il progresso sociale, e deve imporsi con esso, favorendone ulteriormente lo sviluppo[42].

Le istituzioni e le leggi, in un certo senso, rispecchiano il grado determinato di sviluppo economico della società, fissando un apparato statale e militare atto a tutelarne l’esistenza, e ad impedire l’irrompere della violenza barbarica ed il ritorno agli stadi precedenti[43]. Sistematicamente, però, le istituzioni date diventano esse stesse un ostacolo per lo sviluppo sociale, e devono essere o modificate, attraverso un adeguamento al corso del progresso del commercio e della produttività, oppure superate e sostituite da nuove istituzioni[44].

Tendenzialmente ogni uomo è naturalmente portato ad investire i propri fondi in modo razionale, per ricavarne il massimo vantaggio. Ma l’imperio incontrastato della violenza può spingerlo a tesaurizzare i propri averi, invece che ad investirli e trarne profitto[45]. Solo lo sviluppo della civiltà sulla barbarie, come sviluppo della sicurezza e libertà personale nel contesto della sicurezza pubblica, e quindi come sviluppo dello Stato e delle istituzioni[46], consente una crescita stabile della produttività e del benessere sociale, e l’affermarsi progressivo delle leggi naturali dello sviluppo economico e sociale. Il progresso economico pertanto, esige una sempre più piena affermazione della ragione come fondamento del  vivere sociale[47]. La ricchezza si espande solo con lo sviluppo della civiltà, e l’intervento della ragione del governo favorisce ed è parte di questo processo necessario. La civiltà (nuovi e più raffinati bisogni, cultura, arte, scienza, apparati statali ed amministrativi efficienti) del resto, è non solo condizione necessaria dello sviluppo della ricchezza, ma anche suo portato[48]: questo circolo virtuoso costituisce l’essenza e la necessità del progresso sociale, quale estrinsecazione della natura razionale dell’uomo.

Le dinamiche della società moderna vengono rappresentate da Smith come espressione palese del progresso storico complessivo, e manifestazione storica sempre più piena delle leggi naturali della natura umana e della società.

1) I contrasti interni alla società moderna, alla luce della loro natura economica più profonda, sembrano dover tendere ad estinguersi gradualmente. I contrasti di classe esistono ma sono destinati a ricomporsi spontaneamente. L’intero prodotto annuo della rendita e del lavoro, secondo Smith, si divide in rendita, salario e profitto “naturalmente”[49].

a) Il salario, ammette Smith, tende ad attestarsi su di un livello naturale prevalentemente perché, nelle contese, i padroni si trovano in una condizione di forza, che gli consente di fissarlo al suo minimo[50]. Ma, quando cresce la produzione, anche gli interessi dei salariati ne traggono, inevitabilmente, soddisfazione. Scrive Smith: “Quando in un paese la domanda di coloro che vivono di salario – lavoratori , lavoranti a giornata, servi di ogni specie – è in continuo aumento; quando ogni anno dà impiego a un numero maggiore dell’anno precedente, allora gli operai non hanno motivo di coalizzarsi per elevare i loro salari. La scarsità di braccia genera la concorrenza tra i padroni, i quali rialzano le offerte l’uno contro l’altro per procurarsi gli operai rompendo così volontariamente la loro naturale coalizione volta ad impedire l’aumento dei salari. La domanda di coloro che vivono di salario non può ovviamente aumentare se non in proporzione all’aumento dei fondi destinati al pagamento dei salari. Questi fondi sono di due specie: primo, il reddito che supera quanto è necessario per il mantenimento; secondo, i fondi che superano quanto è necessario per l’impiego dei loro padroni”[51].

La ricchezza del popolo del resto, quando non è smodata e non ne infiacchisce la laboriosità con l’eccesso ed il lusso, favorisce a sua volta il progresso sociale, procurando lavoratori più forti, più attivi, più produttivi. Per questo, sostanzialmente la remunerazione liberale dei salari risulta utile ai fini della crescita della ricchezza sociale complessiva e si impone, in linea di massima, nel processo storico concreto[52].

Secondo Smith, fra profitto e rendita da un lato, e salari dall’altro, vi è una contraddizione importante. Il profitto e la rendita, se sono alti, indubbiamente fanno diminuire il livello del salario, e viceversa[53]. Ma se si va oltre questa immediatezza, la realtà è diversa. Secondo Smith, “[…] non solo la mole di attività produttiva cresce in ogni paese al crescere dei fondi che la impiegano, ma, a seguito di questo aumento, la stessa quantità di attività fornisce una quantità di prodotto molto più grande”[54]. L’aumento dei fondi reca con sé l’aumento dell’attività produttiva, e quindi anche della domanda di ‘braccia’ e del livello dei salari. Oltretutto, in proporzione, si rende comunque disponibile una maggiore quantità di prodotto; il benessere sociale, nel progresso della produzione, deve dunque accrescersi anch’esso.

Solo la stagnazione, il mantenersi invariato della ricchezza, dunque, può portare alla fissazione  dei  salari  al  loro  livello  minimo,  ‘naturale’.  Ma la fiducia nella necessità del progresso sociale e politico domina ampiamente La ricchezza delle nazioni; e, al di là delle locali e temporanee stagnazioni, la diminuzione graduale dei prezzi della maggior parte dei prodotti, l’aumento del prezzo del lavoro in seguito alle più fiorenti condizioni della società, la diminuzione della quantità del lavoro attraverso il più esteso impiego di macchine, dettano il carattere sostanzialmente progressivo del divenire storico[55].

I rapporti fra padroni e salariati, pertanto, tendono in misura crescente ad armonizzarsi, tanto più spontaneamente quanto più alto è livello di sviluppo della società.

b) Anche fra rendita e profitto, però, Smith scorge una contraddizione a suo avviso importante.

Secondo Smith: “Ogni aumento della ricchezza reale della società, ogni aumento della quantità di lavoro utile che vi è impiegato, tende indirettamente ad aumentare la rendita reale della terra. Una certa quota di questo lavoro va naturalmente alla terra. Un maggior numero di uomini e di bestiame è impiegato nella sua coltivazione, la produzione cresce col crescere del capitale impiegato per coltivarla e la rendita cresce con la produzione[56]. Pertanto: “Qualsiasi progresso nelle condizioni della società tende, direttamente o indirettamente, a elevare la rendita reale della terra, a incrementare la ricchezza reale del proprietario terriero, il suo potere di acquisto del lavoro o del prodotto del lavoro di altre persone”[57]. Dunque, l’interesse di coloro che vivono della rendita, come quello di coloro che vivono del salario, tende a coincidere direttamente con l’interesse generale della società, a prescindere dal loro grado di consapevolezza.

Al contrario, l’interesse di coloro che vivono di profitto, cioè delle classi commerciali ed industriali, tende a confliggere con quello generale. All’opposto del saggio della rendita e di quello del salario: “[…] il saggio del profitto non cresce con la prosperità e non diminuisce col declino della società. Al contrario, esso è naturalmente basso nei paesi ricchi ed alto in quelli poveri, ed è sempre massimo nei paesi che vanno a tutta velocità verso la propria rovina”[58]. L’interesse immediato dei mercanti, quindi, è sempre quello di “allargare il mercato e di restringere la concorrenza”[59]; dunque, sotto questo aspetto, non coincide affatto con quello pubblico, che invece aspira all’affermazione di una libera concorrenza ed alla corrispondente distribuzione razionale dei fondi.

Ma lo sviluppo della società muove nella direzione della concorrenza perfetta e della limitazione al minimo del saggio del profitto[60], nonostante i commercianti siano la parte più attiva ed intraprendente della società, e anzi, proprio in virtù di questo. Essi divengono – spronati dalla ricerca del profitto, spinti ad allargare i mercati, impegnati in una lotta implacabile contro i monopoli altrui – lo sprone dello sviluppo della produzione, ed il motore inconsapevole del progresso: “Sono i fondi impiegati alla ricerca del profitto che mettono in movimento la maggior parte del lavoro utile di ogni società. I programmi e i progetti di coloro che impiegano i fondi regolano e dirigono tutte le più importanti operazioni del lavoro, e il fine che si propongono tutti quei programmi e progetti è il profitto”[61].

In generale, secondo Smith, quando i singoli proprietari sono fondamentalmente liberi di impiegare i propri fondi nel modo che preferiscono, una “mano invisibile” li guida, attraverso la ricerca del guadagno individuale, al conseguimento del benessere sociale. Ogni individuo, secondo il celebre detto di Smith, “mira solo al proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo [nel preferire l’impiego del proprio capitale, a parità di profitti, nell’attività produttiva interna] come in molti altri casi [nel perseguire sempre il maggiore guadagno in relazione al fondo impiegato e nell’impiegare il maggiore fondo possibile proficuamente], a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni[62].

2) Anche nelle relazioni internazionali, dove sono più acuti e pericolosi, i contrasti fra gli uomini col tempo devono venire ad armonizzarsi.

La libera concorrenza è una legge naturale della ricchezza e della prosperità delle nazioni. Evidentemente, però, i rapporti fra gli Stati pongono un’altra esigenza. Nell’ambito dei rapporti internazionali, la difesa si impone come qualcosa di altrettanto importante. L'economia mercantilista, con il suo concetto barbaro della ricchezza come quantità di oro accumulata, con la trascuratezza del commercio interno e l’incentivo di un commercio estero di rapina, risponde ed esprime un contesto internazionale dominato da pulsioni predatorie e guerrafondaie ancora incontrollate[63]. La competizione violenta e la violenza in generale, in tale contesto, riescono a distorcere il senso naturale del commercio come legame razionale e proficuo tra gli uomini, rovesciandone storicamente i presupposti.

Ma le leggi naturali della società e dell’economia rimangono valide, e continuano ad operare silenziosamente ed incessantemente dietro le quinte del teatro storico mondiale. La politica di guerra e di rapina non può recare a nessun paese un vantaggio duraturo. Solo il libero commercio è veramente utile ai fini del progresso della ricchezza nazionale[64].

Il monopolio, infatti, rallenta la crescita della ricchezza nazionale, perché destina una parte eccessiva dei fondi ad una branca della produzione, anche se in essa il lavoro è meno produttivo che in altre. Il sistema mercantilistico crea degli squilibri produttivi e conseguentemente rallenta lo sviluppo complessivo della produttività[65].

Questo pregiudizio assoluto derivante dall’adozione di regimi protezionistici, a parere di Smith, non può affatto essere compensato dal vantaggio relativo nei confronti di altre nazioni. Il commercio inglese, per esempio, è poco sicuro proprio perché scorre attraverso pochi giganteschi canali protetti anziché attraverso tante piccole libere vie di circolazione. Smith paragona il commercio alla circolazione sanguigna: “Il sangue, la cui circolazione venga arrestata in qualcuno dei vasi più piccoli, si riversa facilmente nei vasi più grandi senza generare alcun pericoloso disordine; ma quando la sua circolazione viene arrestata in uno dei vasi più grandi, le conseguenze immediate e inevitabili sono le convulsioni, l’apoplessia o la morte”[66]. Il progresso che può derivare dal monopolio è quindi assolutamente instabile e provvisorio[67]. Solamente il libero scambio, invece, può garantire durevolmente, oltre che la prosperità, la stessa sicurezza nazionale[68].

Il movimento storico complessivo (passato e presente), pertanto – nonostante la violenza (interna ed esterna alle nazioni) in certi momenti lo rallenti, lo arresti o lo costringa ad arretramenti anche drastici –, si caratterizza come affermazione graduale dell’ordine naturale della società, come progresso economico e parimenti progressiva affermazione della civiltà[69] (confino della barbarie e marginalizzazione della violenza, sua relegazione all’ordine di necessità sociale secondaria[70]). Le leggi naturali del progresso sociale, in definitiva, valgono per ogni società determinata, presente e passata; tali leggi, di fatto, si possono dominare solo sottomettendoglisi[71].

Concludendo, a nostro avviso, la concezione della storia di Smith assume quindi una triplice caratterizzazione. In primo luogo, il motore fondamentale dello sviluppo sociale è di carattere economico. Lo sviluppo del commercio e della divisione del lavoro sono causa storica e fine razionale delle trasformazioni delle abitudini, delle istituzioni giuridiche e culturali, dello Stato. Lo sviluppo storico, pertanto è essenzialmente sviluppo economico-sociale[72]. In secondo luogo, lo sviluppo storico è concepito, nei suoi termini essenziali come sviluppo unilineare. Il principio economico-naturale della società è dato, ed è valido per ogni società, indipendentemente dalla sua collocazione nello spazio e nel tempo (gli esempi di Smith concernono le situazioni più diverse dall’antichità egiziana alla contemporaneità cinese). Tale principio, inoltre, sul lungo periodo si impone necessariamente. Ogni società data, pertanto, si colloca – a prescindere dall’accidentalità della sua determinazione particolare e dalla casualità cui è sottoposta storicamente – ad un determinato grado di realizzazione del principio naturale della società umana in genere. La storia, pertanto, è il progresso graduale della società lungo una sola linea di sviluppo, essenzialmente uniforme. Infine, la scienza della società presente e la scienza storica, coerentemente con questa concezione unilineare del progresso sociale, sono esse stesse sostanzialmente uniformi: 1) si basano entrambe sulla constatazione empirica del livello raggiunto dallo sviluppo dello scambio, della divisione del lavoro e del commercio; 2) approdano alle stesse leggi generali (principio fondamentale della libera concorrenza); 3) le sviluppano con i medesimi risultati prescrittivi e pratici (liberoscambismo).

§ 1.2. Lo sviluppo delle forze produttive materiali e lo studio empirico della società nell’Ideologia tedesca

I termini fondamentali del materialismo storico sono definiti da Marx ed Engels nella prima parte dell’Ideologia tedesca, destinata alla critica della filosofia di Feuerbach. “I presupposti da cui muoviamo”, scrivono gli autori, “non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti, quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica”[73]. In contrapposizione alla filosofia classica tedesca, Marx ed Engels vogliono far valere questo assunto preciso: la necessità di studiare i presupposti sociali materiali, empiricamente dati, della società e della storia dell’umanità.

Il cuore della teoria espressa nell’Ideologia tedesca sembra battere nella ripetuta affermazione della necessità della riconduzione della storia alla storia della produzione materiale. Quando, infatti, gli uomini cominciano ad essere veramente tali, distinguendosi dagli animali? Secondo Marx ed Engels: “Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole: ma essi cominciano a distinguersi dagli animali allorché cominciano a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale”[74]. La produzione dei propri mezzi di sussistenza, dunque, è la caratteristica essenziale dell’uomo, che lo distingue dagli animali fin dalla sua origine di uomo. La storia, quindi, deve essere ricondotta al modo di produzione: “Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi esso è già un modo determinato dell’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui estrinsecano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione”[75]. Il riconoscersi ed il rapportarsi degli uomini ai loro simili in un insieme sociale, l’idealità degli uomini ed il loro porsi consapevolmente dei fini, il divenire storico della società e la trasformazione della coscienza degli individui, sono dunque ricondotti da Marx ed Engels ad una medesima base fondamentale, nella quale si manifestano nella forma più elementare, materialmente concreta: la produzione dei mezzi di sussistenza.

I primi presupposti della società umana, secondo Marx ed Engels, devono dunque essere fissati in relazione alla produzione materiale.

Il “primo presupposto di ogni esistenza umana e dunque di ogni storia”, è che “per poter fare storia gli uomini debbano essere in grado di vivere”; la “prima azione storica” è dunque la soddisfazione dei bisogni e la produzione materiale di mezzi atti a tale scopo: la (ri)produzione materiale attraverso il ricambio organico con la natura esterna[76].

“Il secondo punto”, proseguono gli autori, “è che il primo bisogno soddisfatto, l’azione del soddisfarlo, e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni”[77]. La creazione di mezzi per soddisfare i bisogni naturali coincide dunque con la creazione di nuovi bisogni. Dunque, la produzione materiale non consente che il ricambio organico con la natura esterna rimanga invariato.

“Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini delle sviluppo storico,” scrivono i due autori, “è che gli uomini, i quali fanno ogni giorno la propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi”. Si tratta della (ri)produzione sociale. Inizialmente, questa “è il rapporto fra uomo e donna, fra genitori e figli: la famiglia”. La famiglia stessa, secondo Marx ed Engels, non è spiegabile attraverso un puro concetto. Infatti, 1) come rapporto sociale, la famiglia esiste soltanto in un contesto materialmente determinato, e 2) con lo sviluppo della produzione e dei bisogni, progressivamente, la sua forma sostanziale si modifica ed infine, da unico rapporto sociale, essa diviene “un rapporto subordinato”[78].

Questi tre presupposti della società – (ri)produzione materiale, sviluppo dei bisogni, (ri)produzione sociale –, “questi tre aspetti dell’attività sociale non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre ‘momenti’ (tanto per scrivere in maniera chiara per i tedeschi), i quali sono esistiti fin dall’inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il loro peso nella storia”[79]. In altre parole, come precisano gli autori, essi devono essere considerati nella loro relazione reciproca: “La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo.  Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una ‘forza produttiva’ […]”[80].

Nell’Ideologia tedesca, questa valutazione della configurazione sociale complessiva in quanto ‘forza produttiva’, è direttamente e semplicemente funzionale all’intento di evidenziare la necessità ed il modo in cui la stessa configurazione sociale viene a modificarsi con il progredire della tecnica e dell’organizzazione del lavoro, ovvero delle forze produttive in senso stretto, delle forze produttive materiali. La configurazione sociale, come modo di cooperazione, è qualitativamente equiparabile alle forze produttive materiali, perché essa stessa in definitiva è una forza produttiva materiale. Quindi, essa può e deve essere modificata dallo sviluppo delle forze produttive materiali. Perciò Marx ed Engels, concludono il precedente passo, nel quale constatavano il carattere di ‘forza produttiva’ proprio dell’organizzazione sociale, semplicemente affermando: “[…] ne deriva che la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la ‘storia dell’umanità’ deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio”[81]. La storia dell’industria e dello scambio, quindi, costituisce la vera essenza del processo storico nel suo insieme, che ad essa deve essere ricondotto; le forze produttive hanno il loro nucleo centrale nella tecnica e nell’organizzazione del processo produttivo, e lo sviluppo di questo nucleo, determina il vero senso della configurazione sociale e la direzione della trasformazione storica. In modo abbastanza esplicito, l’Ideologia tedesca sembra puntare all’elaborazione più completa ed efficace di questo principio: lo sviluppo delle forze produttive materiali è l’essenza del processo storico[82].

Lo sviluppo storico culmina, secondo Marx ed Engels, in un generale sbocco rivoluzionario: “Nello sviluppo delle forze produttive si presenta uno stadio nel quale vengono fatte sorgere forze produttive e mezzi di produzione che nelle situazioni esistenti fanno solo del male, che non sono più forze produttive ma forze distruttive (macchine e denaro) e in connessione con tutto ciò, viene fatta sorgere una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi; una classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista  [...]”[83]. Evidentemente, già nell’Ideologia tedesca, si può rintracciare un forte motivo di carattere teleologico, una teleologia oggettiva della storia.

Le forze produttive, come sostengono Marx ed Engels fin dalle primissime battute del manoscritto del ’45-’46, necessariamente progrediscono. Il fine immanente al processo storico, il risultato supremo del progresso necessario delle forze produttive, è il comunismo. Nello sviluppo delle forze produttive che prende corpo con il capitalismo, nella corrispondente completa estraneazione dell’individuo di fronte al gigantesco sistema della produzione e dello scambio, i quali si presentano come un potere sociale a lui totalmente alieno, “è già implicita l’esistenza degli individui sul piano della storia universale, invece che sul piano locale”. Lo “sviluppo universale delle forze produttive”, apice del loro divenire storico, pone “relazioni universali fra gli uomini […] ed infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali”[84]. Il fine immanente del processo storico, il comunismo, è in atto nel processo reale, e si manifesta empiricamente nello sviluppo moderno della società[85].

Il progresso delle forze produttive, nell’Ideologia tedesca, fondamentalmente è rappresentato in termini unilineari, come evoluzione cumulativa delle forze produttive materiali. Nella storia, “[…] ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, […] ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze […]”[86]. La divisione del lavoro è il fattore per eccellenza che esprime il grado delle forze produttive materiali: “Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo cui è giunta la divisione del lavoro. Ogni nuova forza produttiva che non sia un’estensione puramente quantitativa delle forze produttive già note (per esempio dissodamento dei terreni), porta come conseguenza un nuovo sviluppo nella divisione del lavoro”[87]. La produttività del lavoro è sintetizzata dal grado di divisione del lavoro; il progresso della produttività del lavoro, a sua volta, costituisce il criterio fondamentale di determinazione dello stadio raggiunto dalle forze produttive materiali.

Il progresso della divisione del lavoro pertanto, da un lato, determina il rapporto stesso fra le diverse nazioni, nella loro situazione attuale: “I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le sue forze produttive, la divisione del lavoro e le relazioni interne”[88]. Dall’altro, più a monte, il progresso nella divisione del lavoro definisce una linea storica precisa di sviluppo della forze produttive materiali, entro la quale ogni nazione si colloca.

Storicamente, le principali forme di proprietà nelle quali si riassume la configurazione sociale esprimono, nella visione propria dell’Ideologia tedesca, gli stadi di sviluppo della divisione del lavoro e delle forze produttive materiali: “I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse di proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro”[89].

Marx ed Engels, stabilito questo principio fondamentale, senza indugio compendiano la storia nel suo complesso attraverso un preciso schema, nel quale ad un modo materiale di lavoro (ed alla sua funzione sociale fondamentale) corrisponde un determinato grado di sviluppo della divisione del lavoro, ed entrambi a loro volta determinano la forma di rapporti tra gli individui, in relazione ai mezzi di produzione ed ai prodotti, e quindi la forma di proprietà ed in generale di società. La sequenza di stadi storici (che rappresentano altrettanti modi di produzione, gradi di sviluppo della divisione del lavoro e stadi di sviluppo della proprietà e della società umana) che si viene così a determinare è la seguente:

1)     La “prima forma di proprietà” è la proprietà tribale, che demarca una società la cui organizzazione sociale “si limita ad essere un’estensione della famiglia”. In essa il grado della divisione del lavoro è ancora estremamente basso (“non è che un prolungamento della divisione naturale del lavoro nella famiglia”), e l’attività produttiva, esprimendosi ad un livello non ancora sviluppato, fondamentalmente rimane vincolata a caccia, pesca e allevamento del bestiame[90].

2)     La “seconda forma di proprietà” è la proprietà della comunità antica e dello Stato, nella quale già più tribù si riuniscono in una città. Affianco alla proprietà della comunità si sviluppa già la proprietà privata mobiliare prima e immobiliare poi. “Con lo sviluppo della proprietà privata”, annota Marx, “appaiono qui per la prima volta quelle stesse condizioni che ritroveremo, soltanto in misura più estesa, nella proprietà privata moderna”. La divisione del lavoro è già abbastanza sviluppata, ed il modo di produzione che soggiace a questa forma sociale, fondamentalmente, è l’agricoltura[91].

3)     La “terza forma d proprietà” è la proprietà feudale o degli ordini, nella quale scompare la schiavitù che esisteva ai livelli precedenti e lo sviluppo, che precedentemente si incentrava sulla città (centro dell’organizzazione statuale), torna a muoversi direttamente a partire dalla campagna. Questa forma di proprietà è la forma sociale propria e necessaria del modo di produzione fondato sull’agricoltura in seguito all’estensione cui lo spingono le conquiste romane, e porta con sé un nuovo stadio nella divisione del lavoro fra città e campagna, e nello sviluppo del lavoro artigianale[92].

Lo sviluppo delle città medievali ed il loro contrasto con la campagna recano col tempo un ulteriore  progresso della divisione del lavoro che, attraverso lo sviluppo del commercio e della proprietà mobiliare, e sulla base dello sviluppo della navigazione e della manifattura, comincia a dispiegarsi sul piano internazionale, ponendo in divenire i primi presupposti storici della società moderna e della forma di proprietà borghese (basate sulla produzione industriale)[93].

Quello che risulta particolarmente evidente, specialmente in virtù dell’accento insistente sulla divisione del lavoro, sull’incremento della produttività, sull’introduzione di nuovi modi di lavoro come principali fattori dello sviluppo storico, è il carattere lineare, graduale ed uniforme che assume, nella trattazione dell’Ideologia tedesca, lo sviluppo delle forze produttive materiali. L’intero processo storico, in fondo, è ricondotto da Marx allo sviluppo della “società civile”: “La forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina, è la società civile […]. Qui già si vede che questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia  […]”[94]. Correggendo da un punto di vista filosofico, fondamentalmente, Hegel con Smith, Marx ed Engels enfatizzano nell’Ideologia tedesca il ruolo della “società civile”, dello sviluppo della produttività e della divisione del lavoro come motori reali dello sviluppo storico: “La società civile comprende tutto il complesso di relazioni materiali degli individui all’interno di un determinato grado della produzione. Essa comprende tutto il complesso della vita industriale e commerciale di un grado di sviluppo e trascende quindi lo Stato e la nazione, benché, d’altra parte, debba nuovamente affermarsi verso l’esterno come nazionalità e organizzarsi verso l’interno come Stato”[95].

Il termine “società civile”, come sottolineano gli autori, nasce solo nel XVIII secolo perché essa comincia a svilupparsi in modo veramente evidente soltanto con l'avvento della modernità, quando lo sviluppo economico della produzione e del commercio assumono una crescente e sempre più palese autonomia dal carattere nazionale e statuale specifico; “tuttavia”, aggiungono Marx ed Engels, “l’organizzazione sociale sviluppantesi immediatamente dalla produzione e dagli scambi, la quale forma in tutti i tempi la base dello Stato e di ogni altra sovrastruttura idealistica, continua ad essere chiamata con lo stesso nome”[96]. In qualche modo quindi, la società civile, anche se in modo latente, è sempre esistita, benché solo con l’eccezionale sviluppo della produzione del mondo moderno mostri apertamente la propria faccia.

Da questo punto di vista, in relazione al carattere lineare del progresso economico e della divisione del lavoro, ed al suo manifestarsi nell’inesorabile progressivo disvelamento della società civile, non bisogna affatto stupirsi del fatto che Marx ed Engels associno ancora alcune categorie economiche proprie della società moderna alle fasi sociali precedenti, senza andare troppo per il sottile: così essi parlano di “capitale naturale”[97], di “capitalisti romani”[98], di “capitale”[99] in relazione alla città antica e medievale, di “lavoro salariato”[100] in relazione alla città medievale, ecc. Non si tratta semplicemente di una carenza linguistica di Marx ed Engels, magari dovuta al carattere scarsamente definito una loro concezione della storia ancora solo abbozzata[101]; ma, invece, del prodotto conseguente di una prospettiva teorica abbastanza chiara e coerente, nella quale riveste un ruolo assolutamente centrale la constatazione dell’uniformità e della linearità della divisione del lavoro, dello sviluppo delle forze produttive materiali e del progresso della società.

Marx ed Engels, nell’Ideologia tedesca, sottolineano il carattere progressivo dell’evoluzione storica complessiva riconducendola allo sviluppo della produzione materiale. Questo, però, non significa che essi non ne sottolineino anche gli aspetti ‘negativi’.

Lo sviluppo storico è inizialmente vincolato ad un carattere locale, che lo costringe a delle ricadute successive: “Fin tanto che non esistono relazioni che oltrepassino le vicinanze immediate, ogni invenzione deve essere fatta separatamente, in ciascuna località, e avvenimenti puramente accidentali, come l’irruzione di popoli barbari o persino le consuete guerre, sono sufficienti per costringere un paese con forze produttive e bisogni sviluppati a ricominciare da principio”[102]. La durata delle forze produttive, quindi è assicurata solo dal dispiegarsi della concorrenza e della produzione, o meglio, del sistema della produzione attraverso il sistema storico della concorrenza, su scala mondiale: “Solo quando le relazioni si sono estese su scala mondiale ed hanno per base la grande industria, quando tutte le nazioni sono trascinate nella lotta della concorrenza, la durata delle forze produttive acquisite è assicurata”[103].

Inoltre, a parte il fatto che l’iniziale dimensione locale delle forze produttive dà necessariamente luogo a sviluppi sociali diversi e di carattere confliggente, e conseguentemente a reiterate ricadute storiche nel livello raggiunto dalle forze produttive, le forze produttive stesse procedono comunque solo in modo rivoluzionario, attraverso il generarsi continuo di contraddizioni oggettive in seno alla società, che rendono possibile il progresso ulteriore della produzione soltanto attraverso il rivoluzionamento della società stessa. Queste rotture rivoluzionarie sono indispensabili per superare il contrasto che si viene a creare fra forze produttive e relazioni sociali, che costituisce la contraddizione fondamentale: “Questa contraddizione fra le forze produttive e la forma di relazioni, che come abbiamo visto si è già manifestata più volte nella storia fino ad oggi senza però comprometterne la base, dovette esplodere ogni volta in una rivoluzione, assumendo in pari tempo diverse forme accessorie, come totalità di collisioni, come collisioni di diverse classi, contraddizione della coscienza, lotta ideologica, ecc., lotta politica, ecc.”[104].

D’altra parte, tuttavia, tanto nel manifestarsi in forma confliggente degli sviluppi interni ad una determinata forma sociale, quanto nella collisione fra i differenti sviluppi locali, Marx ed Engels inseriscono i relativi sbalzi storici in un unico processo materiale, nel quale essi risultano come momenti necessari e transeunti.

Il processo storico, in sostanza, consiste in uno sviluppo dei bisogni e della produzione, in uno sviluppo dell’attività degli uomini cui in definitiva la forma delle loro relazioni si deve adattare: “La forma fondamentale di questa attività è naturalmente quella materiale, dalla quale dipende ogni altra forma intellettuale, politica, religiosa, ecc. La diversa configurazione della vita materiale è naturalmente dipendente, volta per volta, dai bisogni già sviluppati, e tanto la produzione quanto il soddisfacimento di questi bisogni sono essi stessi un processo storico”[105]. La determinata condizione nella quale gli uomini producono, “corrisponde […] finché non è ancora apparsa la contraddizione, alla loro limitazione reale, alla loro esistenza unilaterale, la cui unilateralità si manifesta soltanto quando appare la contraddizione e quindi esiste solo per le generazioni posteriori. Allora questa condizione appare come un intralcio casuale, e allora si attribuisce anche all’epoca precedente la coscienza che essa è un intralcio. Queste diverse condizioni, che appaiono dapprima come condizioni della manifestazione personale e più tardi come un intralcio per essa, formano in tutto lo sviluppo storico una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, diventata un intralcio, ne viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate quindi al modo più progredito di manifestazione personale degli individui […] Poiché ad ogni stadio queste contraddizioni corrispondono allo sviluppo contemporaneo delle forze produttive, la loro storia è altresì la storia delle forze produttive che si sviluppano e che sono riprese da ogni nuova generazione, e pertanto la storia è la storia dello sviluppo delle forze produttive degli individui stessi”[106].

Certamente lo sviluppo storico è inframmezzato da salti rivoluzionari, dal generarsi di contraddizioni oggettive fra rapporti di produzione esistenti e forze produttive, e dalla soppressione violenta dei primi ad opera delle seconde. Il progresso consiste infatti in uno sviluppo di forze produttive che, saltuariamente, in relazione alle situazioni sociali esistenti, divengono parimenti ‘forze distruttive’ e portano, quindi, ad uno scontro sociale e ad una rivoluzione violenta dei rapporti sociali di produzione. Ma in sé stesso lo sviluppo delle forze produttive materiali appare fondamentalmente irreversibile e lineare, graduale ed uniforme.

Le rivoluzioni, quindi, non sono altro che un momento necessario entro il processo di sviluppo delle forze produttive materiali. Ma, altrettanto necessariamente, entro questo processo si collocano i grandi mutamenti connessi agli scontri epocali fra diversi popoli e nazioni.

“Tutta questa concezione della storia sembra contraddetta dal fatto della conquista. Finora erano considerate forze motrici della storia la violenza, la guerra, il saccheggio, la rapina ecc.”; a questo problema, Marx ed Engels fanno fronte attraverso un esempio cruciale: “Possiamo qui limitarci ai punti principali e prendere quindi soltanto l’esempio che più balza agli occhi, la distruzione di un’antica civiltà ad opera di un popolo barbaro e il formarsi di una nuova organizzazione della società che ad essa si ricollega (Roma ed i barbari, feudalesimo e Gallia, Impero romano d’oriente e turchi)”[107]. I due autori si concentrano principalmente sul caso di Roma. I barbari conquistatori rappresentavano una società tribale nella quale la guerra costituiva ancora “una forma normale di relazioni”; al contrario in Italia, in seguito alla concentrazione della proprietà fondiaria ed alla diffusione della schiavitù, “la popolazione libera era quasi sparita”. Solamente questi fattori materiali rendono possibile la conquista da parte dei barbari dell’Impero romano d’occidente[108]. Marx ed Engels proseguono dimostrando, oltre che la necessità, anche il carattere progressivo di questa conquista, che ai loro occhi rappresenta soltanto un vettore del necessario sviluppo delle forze produttive materiali: “Niente è più comune dell’idea secondo cui fino ad oggi nella storia non si è trattato altro che di prendere. I barbari prendono l’Impero romano, e col fatto di questo prendere si spiega il passaggio al feudalesimo. Ma in questo prendere da parte dei barbari importa sapere se la nazione che vien presa ha sviluppato forze produttive industriali, come è il caso presso i popoli moderni, o se le sue forze produttive riposano unicamente sulla sola unione e sulla comunità. Il prendere è inoltre condizionato dall’oggetto che vien preso. […] E infine il prendere ha ben presto un termine dappertutto, e quando non c’è più niente da prendere si deve cominciare a produrre. Da questa necessità di produrre, che si manifesta assai presto, segue che la forma di comunità adottata da conquistatori insediatisi in un paese deve corrispondere al grado d sviluppo delle forze produttive ivi incontrate oppure, se al primo momento questo non è il caso, trasformarsi secondo le forze produttive”[109]. Anche le collisioni fra diverse forme sociali, fra diverse forme di civiltà, pertanto, devono essere ricondotte, entro il quadro teorico prospettato nell’Ideologia tedesca, allo sviluppo unitario e fondamentalmente lineare delle forze produttive materiali.

Dunque, l’intero processo storico è ricondotto ad un essenziale progresso della produttività, della divisione del lavoro, delle forze produttive materiali. Lo sviluppo storico, in definitiva, è ricondotto al procedere della società civile e, attraverso lo sviluppo del modo di produzione, al suo articolarsi ‘unilineare’ nei diversi stadi della divisione del lavoro. Fino ad un certo punto, questo sviluppo (che si compendia essenzialmente nella divisione del lavoro) è assimilato ed espresso dallo sviluppo della proprietà privata; poi, esso giunge ad implicare la sua abolizione ed il passaggio al comunismo.

Quello che ora è importante sottolineare è che lo studio del processo storico, nell’ambito della prospettiva così delineata nell’Ideologia tedesca, può basarsi, rispettando le premesse iniziali, sul piano dell’indagine empirica della società specifica. Infatti, in questa prospettiva, i presupposti materiali che costituiscono la base economica determinata della singola società sono parimenti gli elementi reali ed in divenire dello sviluppo storico complessivo, e si collocano entro la scala di questo processo lineare di sviluppo delle forze produttive materiali e della divisione del lavoro. Marx ed Engels credono sia possibile attenersi al processo reale della produzione perché ritengono che, attraverso l’identificazione dello stadio raggiunto dalla divisione del lavoro da parte delle singole società storicamente determinate, sia possibile comprendere, com’è necessario, la storia dell’umanità nel suo insieme.

Così, la teleologia oggettiva presente nell’Ideologia tedesca – l’idea che l’avvento del comunismo costituisca lo sbocco ineluttabile del progresso necessario delle forze produttive materiali – in linea di principio non urta affatto con la rivendicazione della necessità di ricondurre lo studio storico allo studio empirico della società determinata, e anzi nelle aspirazioni di Marx ed Engels vi si sposa pienamente. L’ambizione dei due pensatori è quella di riuscire a porre l’indagine della produzione materiale come presupposto, ed il progresso necessario delle forze produttive come risultato generale di questo studio empirico della storia e dei suoi stadi determinati: “Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è concessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi […]. Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda al terreno storico reale”[110]. Ad ogni stadio della storia corrisponde un livello di sviluppo della forze produttive materiali e della divisione del lavoro, che deve essere indagato empiricamente. La nuova concezione della storia “mostra che la storia non finisce col risolversi nell’'autocoscienza' come 'spirito delle spirito', ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui tra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, di capitali e di circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze”[111].

Il materialismo storico, dunque, si caratterizza in prima istanza attraverso una concezione ‘unilineare’ della storia, la quale è fondamentalmente intesa come progresso lineare delle forze produttive materiali. Il carattere determinato della società è dato essenzialmente dallo stadio di sviluppo del modo di produzione in cui essa si colloca. L’analisi empirica delle condizioni materiali della società determinata (lo studio del “processo reale della produzione”) è dunque il fondamento della ricerca storica concreta, attraverso il quale si deve indagare la società civile ed il suo sviluppo, e: “sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, filosofia, religione morale, ecc. ecc. […]”[112].

In conclusione quindi, sulla base di questa concezione lineare del progresso delle forze produttive materiali, e della centralità della divisione del lavoro entro questo processo, si spiega l’accento particolare che nell’Ideologia tedesca cade sul carattere empirico dello studio della storia e della società. Nell’Ideologia tedesca, Marx ed Engels scrivono: “Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come condizionati da un determinato sviluppo delle forze produttive e delle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. […]”[113]. La nuova concezione della storia, quindi, deve avere gli uomini reali, le loro reali condizioni di vita come oggetto principale: “Questo modo di giudicare non è privo i presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi reali presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate”[114].

§ 1.3. Il rapporto fra scienza attuale e storia nell’Ideologia tedesca, e la lunga ombra di Smith

Nell’Ideologia tedesca, dunque, possiamo constatare quanto spiccata sia l’influenza di Smith.

In primo luogo, l’idea che lo sviluppo storico della società, del diritto, dello Stato, dell’arte e della cultura sia essenzialmente riconducibile allo sviluppo economico, si trova già nella Ricchezza delle nazioni. Marx ed Engels modificano lo schema smithiano facendo della proprietà privata non un principio economico assoluto, ma un momento economico provvisorio ed un’istituzione sociale ‘derivata’. Ma l’idea fondamentale – che la storia sia essenzialmente sviluppo materiale della società – rimane la medesima.

In secondo luogo, lo sviluppo graduale ed uniforme delle forze produttive materiali, scandito dalla divisione del lavoro, vale nell’Ideologia tedesca come un principio originario e necessario, e quindi appare come un principio naturale della società. L’intero sviluppo storico – pur nella caratterizzazione rivoluzionaria del passaggio da una forma sociale all’altra e nella conseguente valorizzazione storica del momento della violenza (scontro fra forze produttive e relazioni sociali date, lotta di classe, lotta ideologica, ecc.) – si rivela in definitiva, nella sua essenza, progresso lineare delle forze produttive materiali e sviluppo della società attraverso una serie definita di stadi del modo di produzione. Lo sviluppo storico, pertanto, rimane sostanzialmente unilineare ed uniforme.

In terzo luogo – pur nell’individuazione del comunismo come culmine del divenire storico della società –, la scienza sociale è concepita come constatazione empirica del grado e della tendenza di sviluppo delle forze produttive materiali (ed in primis della divisione del lavoro) e dei loro riflessi sociali e culturali. Il comunismo, in tale contesto, è rilevato empiricamente come movimento reale presente. La scienza della società – che essa sia studio storico o studio della società presente –, pertanto, è uniforme: consiste essenzialmente nello studio empirico del modo di produzione.

L’Ideologia tedesca, pertanto, si caratterizza sia per una concezione unilineare della storia, sia per una fondamentale indistinzione fra scienza della società attuale e storia, aspetti entrambi di marca smithiana.

§ 2. Filosofia del diritto e filosofia della storia in Hegel

Hegel, confrontandosi direttamente anche con i risultati di Smith, pretende di includere l’economia politica nello Stato, come una delle sue sfere (sistema dei bisogni). Il diritto razionale, nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts, esplica il divenire sociale nel suo complesso, e lo Stato è la chiusura razionale delle contraddizioni cui dà luogo la società (o più precisamente la società civile [bürgerlische Gesellschaft]).

Rispetto all’impianto fondamentale della filosofia hegeliana del diritto, pertanto, l’Ideologia tedesca (1846) costituisce un formidabile rovesciamento teorico. Alla centralità hegeliana del sistema dei bisogni Marx ed Engels contrappongono il ruolo egemone della produzione materiale come sviluppo dei bisogni; al predominio dello Stato, fanno subentrare il carattere fondativo degli stadi del modo sociale di produzione rispetto alle istituzioni giuridiche ed alla cultura in genere.

D’altro canto, l’Ideologia tedesca concepisce il modo di produzione, sulla base del modello smithiano, come unicum in sviluppo. Perciò, quando Marx, in seguito al potente approfondimento dei suoi studi di economia politica si accinge a riassumerne i risultati, deve incappare in alcuni sostanziali problemi filosofici. La stesura incompiuta della Einleitung (1857) e l’ampio spazio in essa rivestito dalle questioni di metodo, testimoniano dell’importanza e della delicatezza di tali problemi.

La Einleitung dimostra, in primo luogo, l’esigenza marxiana di fissare – contro l’apologetica dell’economia politica borghese – il carattere storicamente specifico delle leggi dell’economia moderna. Quest'esigenza prende corpo, sostanzialmente, nella definizione organicistica del modo di produzione. Con un primo evidente recupero della dialettica hegeliana, Marx definisce il carattere unitario e distintivo del modo di produzione storicamente determinato paragonando la forma sociale complessiva ad un organismo vivente, la cui specificità è centrata su una branca di produzione particolare, su un modo di lavoro particolare e sui rapporti sociali che ad essi corrispondono. Il singolo modo di produzione, quindi, è rappresentato come una formazione economico-sociale. In secondo luogo e conseguentemente, però, la Einleitung pone la questione di quale relazione allacci la formazione economico-sociale determinata allo sviluppo storico complessivo del modo di produzione. Se si vuole considerare materialisticamente la storia riconducendola, secondo quanto stabilito dall’Ideologia tedesca, allo sviluppo delle forze produttive materiali, come è possibile preservare le differenze specifiche fra i singoli modi di produzione? Che rapporto esiste, in particolare, fra l’economia politica (come scienza del modo di produzione attuale) e la storia (come scienza dello sviluppo storico complessivo del modo di produzione)? A nostro avviso, i Grundrisse (1857-58), come tentativo di inquadrare i risultati economici conseguiti negli anni precedenti in uno schema unitario e filosoficamente coerente, costituiscono lo svolgimento di questo tema. È da questo preciso punto di vista, che deve essere spiegato l’ampio recupero di termini e concetti hegeliani che costituisce la straordinaria peculiarità di questo manoscritto della maturità.

Perciò, riteniamo ci si debba prevalentemente riferire, fra le opere di Hegel, alle Grundlinien ed alle Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte (d’ora in poi: Vorlesungen) – invece che, come ha fatto in passato Helmut Reichelt, e sulla sua scia altri importanti studiosi, alla Wissenschaft der Logik[115].

In primo luogo, le Grundlinien sono l’unico scritto hegeliano direttamente citato nei Grundrisse, e per di più sono chiamati in causa all’inizio del manoscritto (nella Einleitung) in diretta relazione al problema del metodo dell’economia politica.

In secondo luogo, come tenteremo di dimostrare, nella dialettica di universale – particolare – individuale sviluppata da Hegel nelle Grundlinien in relazione allo Stato, trova una chiarificazione estremamente perspicua non soltanto l’organicismo che nella Einleitung sintetizza l’idea marxiana di modo di produzione, ma più in generale la dialettica merce – denaro – capitale dei Grundrisse[116].

In terzo luogo, lo stesso schema dialettico (di universale, particolare ed individuale) e lo stesso oggetto (lo Stato) delle Grundlinien si trovano nelle Vorlesungen. Entro certi limiti, si può allora affermare che Hegel, nell’affrontare la questione del rapporto fra Stato moderno (diritto razionale attuale) e storia dello Stato (storia filosofica universale degli Stati, storia ideale dello Stato) si trovi entro la stessa problematica generale che, con la Einleitung, apre la trattazione dei Grundrisse: quella della connessione fra scienza di un oggetto presente (lì leggi economiche della società, qui leggi ideali dello Stato moderno) e sviluppo storico (lì economico, qui ideale-statuale).

Proprio il peculiare tentativo hegeliano di connettere dialetticamente scienza e storia (nella considerazione dello Stato) e la peculiare concezione dello sviluppo storico che ne sta alla base, a nostro avviso, esercitano una nuova e straordinaria influenza sul pensiero di Marx e sulla costruzione teorica dei Grundrisse, ed in ultima istanza si rivelano come le radici più profonde buttate dal recupero della tematica organicistica – nella Einleitung ancora strutturalmente incompleto – nel corpo del manoscritto del ’57-‘58.

Pertanto in questo paragrafo, dopo aver proceduto ad un rapido esame preliminare dei tratti generali delle Grundlinien (§2.1), e dopo aver affrontato al questione del ruolo della società civile in quest’opera e della corrispondente critica marx-enegelsiana (§2.2), tenteremo di leggere le Grundlinien e le Vorlesungen (§2.3) cercando di rintracciare al loro interno e nella loro relazione reciproca la problematica della connessione fra scienza attuale e scienza storica (fra Stato attuale e storia degli Stati), per poterci infine concentrare, nel paragrafo successivo (§ 3), sui primi quattro quaderni dei Grundrisse.

§ 2.1. Esposizione generale del contenuto e del metodo delle Grundilinien der Philosophie des Rechts

Iniziamo con un’esposizione generale, per sommi capi, del contenuto delle Grundlinien.

Il diritto razionalmente concepito, per Hegel, è espressione dell’idea di libertà; il diritto è la produzione della volontà libera, è l’esistenza della volontà libera[117]. La partizione della filosofia del diritto segue, secondo l’espressione di Hegel, “la gradazione dello sviluppo dell’idea di libertà”[118]. La volontà, libera in sé e per sé, dapprima, si dà un’esistenza esterna e immediata, nel diritto astratto, come personalità; quindi viene riflessa dalla propria esistenza esterna nella moralità, come particolarità della volontà soggettiva; infine, come unità e verità di questi due momenti astratti, si realizza nell’eticità, nella quale l’idea della libertà si dà una reale esistenza universale. Diritto astratto, moralità ed eticità costituiscono, dunque, le tre grandi parti delle Grundlinien.

1) Il diritto astratto è diritto della persona. Io, in quanto persona, sono determinato da tutti i lati e finito, ma mi riconosco in questa finitezza come infinito, universale e libero, perché sono “semplicemente puro riferimento a me”[119].

D’altro canto, “la semplice soggettività della persona si annulla”[120]; la persona, pertanto, deve darsi una proprietà, come proprio corpo giuridico oggettivo (prima sezione). L’essere determinato della persona nella sua esistenza è la proprietà. Ma questo essere determinato è parimenti essere per un altro[121]. In quanto rapporto fra le volontà, il contratto si rivela allora come l’altra faccia dell’esistenza della volontà (seconda sezione). La volontà generale inizia a manifestarsi come semplice comunione fra determinate volontà[122]. La volontà generale, formalmente si manifesta come comune, ma rimane ancora solamente in sé, solo in potenza. Astrattamente formale, mantiene così al proprio interno un contenuto particolare, e quindi rimane essa stessa particolare, perché rimane accidentale la sua coincidenza con la volontà particolare. Deve allora esistere il torto in quanto arbitrio e contingenza della volontà rispetto ad una cosa singola (terza sezione)[123].

2) Al diritto astratto, attraverso la dialettica di delitto e pena e l’emergere in essa di una volontà soggettiva che come tale vuole l’universale, subentra la moralità[124]. Il movimento ideale del diritto astratto pone “l’infinita contingenza che è in sé la volontà: la sua soggettività”[125]. La soggettività dapprima si manifesta nell’esistenza personale intesa come diritto di necessità contrapposto al diritto astratto, poi approda all’idea universale del puro bene, e si pone come coscienza morale[126].

3) Alla moralità deve, però, subentrare l’eticità. Nella caratterizzazione della coscienza morale come lavoro dell’autocoscienza, essa è sottoposta al diritto dell’oggettività, al diritto della proprietà e a quello della vita. Non riesce mai a sottrarsene del tutto. Nella misura in cui essa, invece, pretende di sottrarsene del tutto, per assurgere ad una dimensione immediatamente universale, per concepire immediatamente il puro bene, cade inevitabilmente nel suo opposto, generando una contraddizione insanabile all’interno della sua stessa sfera: “La coscienza, in quanto soggettività formale, è semplicemente questo: stare sul punto di capovolgersi in male […]”. La consapevolezza di sé, origine della moralità, in quanto del tutto pura, è vuota, ed è all’origine del male: “[…] la moralità ed il male”, spiega Hegel, “hanno entrambi la loro comune radice nella consapevolezza di sé, che conosce per sé e decide”[127]. La cattiva soggettività qui si costituisce a parte necessaria dello sviluppo del diritto.

Il diritto astratto e la moralità devono, secondo Hegel, integrarsi reciprocamente, per superare se stessi come violenza e come male. La moralità si deve oggettivare giuridicamente, ed il diritto deve diventare diretta incarnazione della coscienza individuale, deve essere sua esistenza e coscienza. L’universalità astratta del diritto in generale e la particolarità anch’essa astratta della soggettività morale devono saldarsi organicamente nell’individualità esistente della sfera etica.

La morale diventa oggettiva nelle istituzioni etiche. La libertà della volontà, nel dovere etico, diventa libertà sostanziale, reale[128]. La volontà trapassa definitivamente nella sfera della spiritualità oggettiva.

La famiglia è lo spirito etico al suo stadio immediato e sostanziale (prima sezione). Essa è unità libera ed immediata di due persone nel matrimonio, a costituire un’unica persona, dotata di un’unica proprietà (patrimonio). Questa unità diviene un oggetto per sé nei figli, la cui educazione è il fine immanente della famiglia.

La società civile, rappresenta il momento della divisione e dell’apparenza (seconda sezione). La famiglia appare ora come molteplicità atomistica di famiglie, e d’interessi di singoli. Ma questi interessi, in primo luogo, si integrano in un unico sistema dei bisogni[129]; in secondo luogo, assumono una forma razionale nel sistema codificato del diritto ed in quello dell’amministrazione della giustizia; in terzo luogo, il loro rapporto viene dapprima stabilizzato realmente attraverso l’intervento dell’amministrazione centrale a tutela della sicurezza del singolo e della sua proprietà (polizia); poi, attraverso il sistema corporativo (corporazioni), gli interessi vengono ricomposti organicamente, nell’unità dello Stato, che è espressione superiore dell’unità etica della famiglia, perché è l’esistenza oggettiva del popolo (che ha sua volta altro non è che l'ampliamento della famiglia a nazione).

Lo Stato, infine (terza sezione), si esprime come unità individuale dell’universalità etica immediata della famiglia (espansa nel popolo) con la particolarità dell’interesse soggettivo della società civile. L’unità organica della costituzione dello Stato fa capo al potere esecutivo. La piena efficacia del potere esecutivo salda tra loro e rende reali l’universalità del potere legislativo e la particolarità del potere giudiziario. Questa piena efficacia è garantita dalla natura individuale della decisione. La decisione ha infatti la propria individualità e determinatezza ultima nella persona del monarca.

Esternamente, lo Stato deve affermare la propria tendenza universale attraverso l’espansione e la lotta per il territorio. Con ciò stesso, però, diviene Stato particolare. Il diritto statuale esterno rappresenta il superamento dell’accidentalità in cui cade l’esistenza dello Stato nella sua lotta per il riconoscimento, e la sua relazione stabile con gli altri Stati particolari. La filosofia della storia, infine, mostra il ruolo storico universale, rivestito dal singolo popolo nel processo storico complessivo, ed individua nello Stato moderno razionalmente concepito l’espressione ultima e conclusa della storia universale. Con ciò, l’individualità dello spirito del popolo, così come esiste realmente nello Stato attuale, racchiude sinteticamente in un’unità organica lo spirito del mondo.

Quale logica soggiace a questa poderosa teorizzazione hegeliana, che abbraccia, nel sistema del diritto razionale, il diritto privato, la filosofia morale, il diritto di famiglia, l’economia politica, il diritto pubblico, il diritto costituzionale ed il diritto internazionale? Con quale fondamento?

In primo luogo, a livello generalissimo, è del tutto evidente come nella costruzione delle Grundlinien sia presente un metodo argomentativo che in parte travalica il procedimento logico ordinario; un metodo che vuole includere il negativo, la divisione, l’apparenza, la contraddizione, a costituire in un unico sistema determinazioni estremamente diverse; un metodo che vuole procedere per determinazioni dello stesso oggetto (il diritto moderno) fra loro contrapposte, ma via via più concrete nell’intreccio dei loro legami reciproci, e capaci di individuare, costituendo proprio attraverso il processo della contraddizione una rete, un tutto unitario. Hegel, più precisamente, vuole afferrare il diritto proprio in quanto concreto nel suo sviluppo unitario.

In secondo luogo, questo sviluppo del concreto viene fondamentalmente sintetizzato attraverso uno schema preciso: universale (astratto) – particolare (astratto) – individuale (concreto), ed in termini più generali viene espresso come: unità (immediatezza) – divisione (mediazione esterna) – unità (processuale) di unità e divisione. Entrambi questi schemi logici, non soltanto sono esplicitamente indicati da Hegel per spiegare la partizione razionale della filosofia del diritto (§33), ma sono anche estremamente ricorrenti nei passaggi delle Grundlinien.

Tali schemi logici evidentemente, nella concezione hegeliana, devono essere capaci di esprimere la razionalità del diritto, e quindi di ricondurre il negativo, nelle e delle diverse e contrapposte formazioni spirituali (astrattamente esistenti o solo pensate: giuridiche e morali; e realmente esistenti: etiche) all’unità concreta in quanto individualità. La dialettica di universale – particolare – individuale agisce in quanto lo Stato individuale può e deve essere identificato come totalità concreta, in quanto, cioè, la totalità delle determinazioni del diritto razionale è definita da Hegel come totalità facente capo all’individualità in processo dello Stato, come totalità capace di conglomerarsi nella singolarità dello Stato concreto.

In terzo luogo, lo sviluppo logico del concreto di cui parla Hegel nelle Grundlinien non è affatto riconducibile allo sviluppo storico diacronico-temporale, empiricamente constatabile.

Per Hegel, in generale, nello sviluppo del concreto, l’ultima determinazione coincide con la prima. Nell’illustrare il carattere proprio del metodo scientifico, Hegel pertanto spiega che il cominciamento della filosofia (intesa come vera scienza) è un che di relativo: “l’ultima determinazione coincide, nell’unità, nuovamente con la prima”; e: “il concetto resta l’anima, la quale tiene unita la cosa, e soltanto con un procedimento immanente perviene alla sua particolare distinzione”[130]. In merito alla struttura peculiare della  filosofia del diritto, quindi, Hegel precisa: “[…] ciò che, in questo modo otteniamo è una serie di pensieri e un’altra serie di formazioni esistenti, nelle quali può avvenire che l’ordine nel tempo, nel fenomeno reale, sia in parte diverso dall’ordine del concetto. Non si può per esempio dire che la proprietà sia esistita prima della famiglia, malgrado che sia trattata prima di essa […]”[131].

Nella filosofia del diritto, dunque, lo Stato, deve essere l’aspetto centrale della trattazione, o meglio: il suo punto di partenza e di ritorno razionale. La serie di formazioni che lo compongono (diritto di proprietà, moralità, famiglia, società civile, ecc.), non costituisce una successione temporale, ma invece la definizione e la comprensione del concetto razionale dello Stato.

Ma, in quarto luogo, di quale concetto di Stato si deve trattare? Secondo Hegel, sono esistite ed esistono totalità statuali, a livello concettuale, essenzialmente diverse fra loro. A quale Stato determinato si deve riferire il suo concetto puro, nel quale si risolve il sistema del diritto nel suo insieme? La risposta di Hegel è precisa. Nell’Introduzione delle Grundlinien, trovano luogo, non per caso, alcuni noti passi hegeliani dedicati al senso generale della filosofia in relazione alla storia. Hegel scrive: “la filosofia, poiché è lo scandaglio razionale, appunto perciò è la comprensione del presente e del reale”[132]. Poche righe di seguito, aggiunge: “Si tratta allora di riconoscere, nell’apparenza del temporaneo e transitorio, la sostanza che è immanente e l’eterno che è attuale”[133]. Ed infine, la celebre conclusione: “Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come deve essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi […] la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”[134]. La filosofia del diritto ha per oggetto il concetto razionale dello Stato presente; ha per oggetto lo Stato attuale.

Pertanto, la ricostruzione logica dello Stato attraverso la successione dialettica delle formazioni del diritto razionale, oltre a non coincidere con la pura e semplice constatazione empirica dello sviluppo storico diacronico-temporale, non corrisponde neanche, almeno immediatamente, alla ricostruzione logica della storia come espressione ideale, ed all’individuazione del suo senso generale in una determinata successione delle formazioni statuali. Il senso ed il concetto che si vogliono determinare, nella filosofia del diritto sono, in prima istanza, esclusivamente quelli dello Stato attuale.

In quinto ed ultimo luogo, secondo Hegel, il procedimento scientifico non si caratterizza semplicemente come un’approssimazione esterna al vero, ma invece come sviluppo e progresso immanente allo stesso vero concetto. La dialettica pertanto, secondo la definizione di Hegel, come metodo scientifico corretto “è l’anima propria del contenuto, la quale fa germogliare i suoi rami ed i suoi frutti organicamente”[135]. Nella filosofia del diritto si tratta, allora, di stabilire il nesso organico fra le formazioni del diritto razionale, di legarle una all’altra arricchendo e approfondendo via via le determinazioni dello Stato, fino a comporre nella loro serie lo Stato stesso come totalità organica in processo.

In sintesi, dunque, la logica fondamentale immanente alla teorizzazione hegeliana del diritto – per rispondere alla domanda di partenza –, si lega in modo inscindibile alla concezione dello Stato attuale come totalità organica. Nella filosofia del diritto, la dialettica aspira a ricomporre, nell’individualità organica e razionale dell’eticità e dello Stato, l’universalità astratta del diritto formale e la particolarità astratta della soggettività del singolo, agglomerando quindi tutte le sotto-determinazioni di questi tre momenti. L’attualità organica dello Stato che così prende forma, e la dialettica come logica che ad essa corrisponde, sono gli elementi essenziali ed inseparabili costituenti la struttura portante della filosofia hegeliana del diritto.

§ 2.2. La dialettica hegeliana di società civile e Stato, e la critica marx-engelsiana

La società civile [bürgerlische Gesellschaft] si divide, come abbiamo visto, in sistema dei bisogni, amministrazione della giustizia, polizia e corporazioni[136].

Inizialmente (nel primo capitolo della sezione), essa compare come sistema dei bisogni [System der Bedürfinisse], nel senso che la società è mossa esclusivamente dalla particolarità del bisogno soggettivo, che deve essere appagato mediante: a) cose esterne [aüssere Dinge], proprietà e prodotto di altri bisogni e volontà; b) attività e lavoro [Tätigkeit und Arbeit]. In generale, però, pur caratterizzandosi il sistema dei bisogni come sfera della Besonderheit für sich, e quindi dell’arbitrio accidentale, dell’impulso soggettivo e della casualità esterna, l’universale deve tornare a farvisi valere: „Mein Zweck befördernd, befördere ich das Allgemeine, und dieses befördert wiederum mein Zweck“[137]. Infine, infatti, il sistema dei bisogni viene a costituirsi  come c) patrimonio generale [das allgemeine, bleibende Vermögen][138].

La razionalità [Vernunftigkeit] che anima intimamente questa cerchia[139], è quella che in ultima istanza soggiace all’interesse economico privato. L’economia politica, per Hegel, esprime compiutamente questo aspetto: “il suo sviluppo mostra lo spettacolo interessante del modo in cui il pensiero (vedi Smith, Say, Ricardo) dalla quantità infinita di fatti singoli, che si trovano dapprima dinanzi ad esso, rintraccia i principi semplici della cosa, l’intelletto attivo in essa e che la governa”[140]. Ma il pensiero di Hegel, in rapporto all’economia politica contemporanea, si spinge molto più in là, e cerca di diventare sistematizzazione filosofica dei suoi principi fondamentali.

In primo luogo, Hegel assegna un significato filosofico fondamentale all’assunto che i bisogni dei singoli si sviluppino necessariamente e come tali, nella loro semplice relazione reciproca di bisogni individuali. Hegel giunge infatti ad individuare, proprio attraverso questo assioma, la specifica natura dell’uomo, la sua essenziale differenza dall’animale: “L’animale ha una cerchia limitata di mezzi e di modi di appagamento dei suoi bisogni, che sono parimenti limitati. L’uomo, anche in questa dipendenza [dai bisogni], dimostra, nello stesso tempo, il suo superamento della medesima e la sua universalità, soprattutto mediante la moltiplicazione dei bisogni e dei mezzi, e poi mediante la scomposizione e la distinzione del bisogno concreto, in singole parti e in singoli aspetti, che divengono bisogni diversi, particolarizzati e, quindi, più astratti”[141]; e nella Anmerkung allo stesso paragrafo, aggiunge: “Nel diritto [astratto] l’oggetto è la persona; dal punto di vista della morale, è il soggetto; nella famiglia il membro della famiglia; nella società civile, in genere, il cittadino [Bürger] (come bourgeois) – qui, dal punto di vista dei bisogni […] è la concretezza della rappresentazione, che si chiama uomo; quindi, in questo senso, si parla per la prima volta qui, e anche, propriamente, soltanto qui, di uomini”[142].

In secondo luogo, secondo Hegel, nel crescente processo di affinamento dei bisogni – nel quale, con la moltiplicazione e distinzione dei mezzi e modi di appagamento [vervielfältigung][143] i fini diventano sempre più relativi e i bisogni sempre più astratti[144] –, il bisogno “non tanto […] diventa un bisogno di coloro, i quali lo hanno immediatamente, quanto, piuttosto, è prodotto da quelli che cercano un guadagno, mediante il suo sorgere”[145]. Lo sviluppo del guadagno deve quindi sistematicamente divenire, secondo la stessa natura dell’uomo, sviluppo dei bisogni, ed in particolare dei bisogni nella loro forma più evoluta e sempre più spirituale[146].

In terzo luogo, lo sviluppo dei bisogni è riconducibile alla divisione del lavoro descritta dagli economisti perché strutturalmente il lavoro riveste per l’uomo una funzione astratta e universale, essenziale come momento del processo spirituale di liberazione dall’accidentalità e dalla contingenza. Secondo Hegel, il lavoro specifica, attraverso i più diversi processi di produzione, il materiale immediato fornito dalla natura, adeguando i mezzi ai fini particolari dell’uomo: “Quest’elaborazione dà al mezzo [materiale] il suo valore e la sua conformità allo scopo, sì che l’uomo, nel suo consumo, sta in rapporto particolarmente con i prodotti umani e sono tali fatiche che egli utilizza”[147]. L’uomo, in definitiva, attraverso il lavoro trasforma la natura e riproduce se stesso, emancipandosi dal suo stato meramente animale e caratterizzandosi come uomo. Il lavoro, in Hegel, è l’attività dell’idea sulla materia, e rappresenta un momento centrale del movimento dello Spirito: l’idea agisce sotto forma di scopo individuale nel bisogno, indirizzando la produzione, e trasformando il mezzo materiale dato in strumento posto idealmente. I prodotti sono semplicemente, in Hegel, mezzi per il soddisfacimento dei bisogni; il denaro è il mezzo dello scambio, ovvero il mezzo universale per ottenere i mezzi dei bisogni nella loro diversità[148] (ovvero è il mezzo generale del bisogno universale); la divisione del lavoro, infine, è un mezzo per moltiplicare e affinare i mezzi per soddisfare i bisogni. La società civile pertanto si caratterizza, in quanto sviluppo dei bisogni, come potenziamento estremo del momento ideale del lavoro e liberazione dell’uomo dal bisogno, e quindi come piena realizzazione dell’uomo in quanto uomo.

Attraverso la divisione del lavoro: “Il lavoro del singolo diviene più semplice [...]”[149]. Quindi, con la divisione del lavoro, non soltanto la quantità delle produzioni diviene maggiore, ma cresce anche l’attitudine al lavoro astratto. La società civile, pertanto, viene a progressivamente a caratterizzarsi in un’astrazione suprema dell’attitudine e del mezzo di lavoro, che Hegel così sintetizza: “l’astrazione del produrre rende il lavoro sempre più meccanico e, quindi, alla fine, atto a che l’uomo ne sia rimosso e possa essere introdotta, al suo posto, la macchina”[150].

In quarto luogo pertanto, in stretta relazione all’introduzione delle macchine, la conseguenza più generale dello sviluppo dei bisogni dei singoli, per Hegel, è lo sviluppo dell’intelletto astraente [Verstand] e dell’educazione [Bildung], sia pratica (capacità di limitazione razionale del proprio fare – divisione e organizzazione del lavoro), che teoretica (capacità di comprendere le relazioni più intricate e universali di cui si compone la realtà – scienza)[151]; esso determina il passaggio dal barbaro all’uomo educato, dall’inetto al lavoratore [Arbeiter]: è il momento di formazione della civiltà[152].

L’egoismo soggettivo atomistico della società civile, in definitiva, si converte in un sistema nel quale l’appagamento dei bisogni del singolo contribuisce all’appagamento dei bisogni di tutti gli altri uomini: “Questa necessità, che si trova nella complicazione universale della dipendenza di tutti, è ormai per ciascuno il patrimonio universale, permanente”[153]. La possibilità del singolo di partecipare alla ricchezza generale rimane indubbiamente condizionata da fattori accidentali; ma questa particolarità della natura e dell’arbitrio, nel suo permanere, viene ad essere inclusa in una totalità organica: “[…] è la ragione, immanente al sistema dei bisogni umani e del loro movimento, che compone il medesimo a totalità organica di distinzioni”[154].

Questo sistema universale dei bisogni, centrato sul lavoro, si raccoglie in “masse generali”, in “sistemi particolari dei bisogni”, e si distingue nelle grandi classi [Stände] della società (classe sostanziale dell’agricoltura, classe formale dell’industria e classe generale dello stato sociale [gesellschaftlicher Zustand])[155]. Queste classi, secondo Hegel, non soltanto sono momenti dello sviluppo sociale dei bisogni che si integrano in modo necessario ed organico, ma sono anche espressione sostanziale del carattere etico della società civile; sono chiusura sistematica dei bisogni dei singoli in una superiore identificazione etica dell’individuo con la classe di appartenenza[156].

Il sistema dei bisogni così delineato, secondo Hegel, poggia sul principio astratto del diritto di proprietà. La sua universalità, pertanto, rimane solo astratta, almeno fino a quando non viene ad esistere per mezzo dell’amministrazione della giustizia (secondo capitolo della sezione sulla società civile). Attraverso le leggi e la loro applicazione da parte dei giudici, le determinazioni della società civile si calano ulteriormente nella realtà dell’esistenza. Ma la stessa accidentalità del diritto astratto di proprietà, rivive ora necessariamente nella contrapposizione reale delle volontà soggettive all’interno della società civile, e nel riemergere di una volontà soggettiva che pretende come tale solo il proprio benessere, il proprio diritto necessario alla vita. L’accidentalità della partecipazione al patrimonio generale della società prende forma nella povertà, e nell’esistenza di una massa di miserabili senza classe: la plebe [das Pöbel][157]. Hegel scorge con estrema acutezza gli aspetti conflittuali della società moderna. Da un lato, il lusso e l’annesso cinismo, che quasi rovesciano il sistema dei bisogni trasformandolo da liberazione ad aumento infinito della dipendenza e della necessità. Dall’altro, il crescere della massa dei miserabili, senza patrimonio né classe: “[…] non meno dell’arbitrio[158], le circostanze accidentali fisiche e che si trovano nei rapporti esterni possono gettare gli individui nella povertà, in uno stato, il quale lascia loro i bisogni della società civile e il quale,– poiché essa ha tolto loro, insieme, i mezzi d’acquisto naturali e distrugge l’altro legame della famiglia, in quanto stirpe,– fa loro perdere, invece, più o meno, tutti i vantaggi della società civile”[159].

Lo stato che Hegel descrive, non è di semplice povertà, ma di miseria totale, sia materiale che spirituale: “La povertà in sé non trasforma alcuno in plebe; questa è determinata, soltanto dal sentimento che si connette con la povertà, dalla ribellione interna, contro i ricchi, la società, il governo, ecc. […] Quindi sorge nella plebe il male, per cui, essa non ha la dignità di trovare la propria sussistenza, mediante il proprio lavoro, e tuttavia, pretende di trovare la propria sussistenza in quanto suo diritto”[160]. Per Hegel, quindi, si rende necessario un intervento della società civile nel suo complesso affinché i poveri non si mutino in plebe (“non deve sorgere la plebe”[161]); tuttavia, la formazione della plebe e la polarizzazione sociale della ricchezza[162] risultano, almeno in parte, inevitabili: “Appare qui che, nella sovrabbondanza della ricchezza, la società civile non è ricca abbastanza, cioè non possiede, nella ricchezza ad essa propria, abbastanza per ovviare all’esuberanza della povertà e alla formazione della plebe”[163]. Il terzo capitolo della sezione sulla società civile ruota intorno a questo tema inquietante, ed elabora la sua risoluzione teorica come riconduzione della società civile nel suo complesso alla superiore sfera dello Stato.

La polizia (intesa come apparato pubblico-amministrativo) tempera l’attrito degli egoismi regolando di fatto la loro interazione, e mitigando le contraddizioni sociali. Essa surroga la famiglia e la natura esterna nell’educare, tutelare ed assistere il singolo privo di mezzi, e smorza gli squilibri sociali più rilevanti con i provvedimenti per i poveri.

La colonizzazione offre uno sfogo alle contraddizioni sociali; la società civile progredita procura ad una parte della sua popolazione un nuovo territorio, offrendole il ritorno al principio familiare puro e semplice (popolamento di famiglie di coloni pre-statale).

Le corporazioni, infine, come associazioni che accorpano i lavoratori di una ramo determinato, esprimono una comune attitudine di una molteplicità di particolarità soggettive. Nelle corporazioni, pertanto: “il fine egoistico diretto alla propria particolarità, comprende e attua, nello stesso tempo, sé in quanto universale”[164]. Queste associazioni costituiscono per l’individuo una “seconda famiglia”. Essa ha cura dei propri componenti contro “le accidentalità particolari” e, soprattutto, conserva nell’individuo la consapevolezza della sua dignità: “Egli ha così la propria dignità nella propria classe”[165]. “Nella corporazione,” spiega Hegel, “l’aiuto che la povertà riceve, perde la sua accidentalità, così come il suo carattere umiliante a torto; e la ricchezza, nel proprio obbligo verso la propria corporazione, perde l’orgoglio e l’invidia che essa […] può suscitare – l’onestà consegue il suo vero riconoscimento e la sua vera dignità”[166].

La corporazione, pertanto, viene a costituire, dopo la famiglia, la seconda radice etica dello Stato, nel quale entrambe trovano il proprio vero fondamento, il proprio approdo e la propria realizzazione (unità effettiva delle famiglie in un popolo, ed integrazione delle corporazioni in un sistema statuale organico).

Se consideriamo questa strutturazione hegeliana del sistema dei bisogni e la riconduzione della società civile all’unità organica dello Stato, come abbiamo già accennato, possiamo valutare con sufficiente chiarezza il significato più profondo dell’Ideologia tedesca. In questo scritto, Marx ed Engels attaccano alcuni dei più fondamentali presupposti della dialettica società civile – Stato delle Grundlinien. In primo luogo, nell’Ideologia tedesca, lo sviluppo dei bisogni non presuppone la proprietà privata (come sviluppo dei bisogni dei singoli), ma la pone come fase, lunga e necessaria ma provvisoria, del processo storico di incremento delle forze produttive e della divisione del lavoro. In secondo luogo, lo sviluppo sociale dei bisogni non è semplice affinamento graduale dei bisogni dei singoli e loro armonizzazione progressiva, ma ridefinizione delle classi sociali (non più concepite come ceti fissi), dei loro rapporti, delle loro esigenze e dei loro interessi. Lo sviluppo sociale dei bisogni, dunque, si traduce in una continua trasformazione dei bisogni sociali dominanti; come tale, perciò, questo sviluppo non si può più chiudere in un sistema, fisso e definitivo, dei bisogni e delle classi. In terzo luogo, lo sviluppo sociale dei bisogni non costituisce semplicemente una sfera limitata ed astratta della società civile, ma è invece la base fondamentale di tutte le istituzioni giuridiche, amministrative ed associative. Lo Stato, conseguentemente, non si pone come fondamento essenziale e risoluzione necessaria della società civile, ma come suo portato storico. In quarto luogo, infine, nel mondo moderno, lo sviluppo dei bisogni assume necessariamente rispetto ai rapporti di classe ed alle istituzioni esistenti un’espressione radicalmente rivoluzionaria, come superamento della proprietà privata, degli interessi che ad essa corrispondono e dell’apparato statuale che la sostiene e difende.

Il recupero marxiano della dialettica hegeliana che prende corpo nei Grundrisse non modifica questi risultati fondamentali della critica marx-engelsiana alla specifica dialettica di società civile e Stato né, quindi, il presupposto materialistico della priorità dello sviluppo dei bisogni sociali sul sistema dei bisogni individuali e della società civile sul diritto e sullo Stato. Questo recupero, a nostro avviso, riguarda invece il metodo hegeliano di connettere e distinguere dialetticamente l’indagine dello Stato come organismo attuale e la storia degli Stati, il processo sociale attuale e la storia complessiva. La modificazione dialettica del materialismo storico si svolge su questo piano preciso, così come si è profilato nella Einleitung.

§ 2.3. La connessione-distinzione fra filosofia del diritto e filosofia della storia, e la concezione unidirezionale della storia di Hegel

Nelle Grundlinien, il diritto razionale si articola nelle sue categorie attraverso un movimento di riaggregazione concreta dell’universalità astratta e della particolarità astratta. L’individualità dello Stato, come momento conclusivo della costruzione sistematica, non soltanto include e completa la particolarità etica immediata della famiglia e l’universalità etica astratta della società civile, ma anche, essendo queste ultime più solide determinazioni delle sfere precedenti, riesce così ad inglobare ed esprimere ad un livello superiore, come esistenza organica dello Spirito oggettivo, il diritto puramente esteriore e l’autocoscienza morale puramente soggettiva.

L’organicismo hegeliano, in prima istanza, non è altro se non l’inclusione di una serie di categorie in un’unità complessa, nella quale le diverse determinazioni si annodano fra loro e, proprio in virtù del loro carattere contraddittorio, avvolgono e costituiscono, da prospettive e su piani differenti ma connessi, un medesimo oggetto. È in tal senso che le contraddizioni del diritto razionale si risolvono nell’unità organica dello Stato.

Ma il carattere organico dello Stato, al contempo, è qualcosa di più: le contraddizioni, supertate si conservano non soltanto nella loro fissità strutturale, ma nel loro divenire processuale. L’organicità dello Stato rappresenta soprattutto la sua vitalità, il suo ciclo e la sua azione organica, il suo riprodursi vitale ed il volgersi della sua attività all’esterno.

Lo Stato attuale è concepito da Hegel come organismo unitario. Che differenza c’è fra l’unità propria di un organismo e quella di una macchina? La differenza, nella descrizione che Hegel dà dello Stato, sembra esprimersi nella dinamicità interna propria dell’organismo, nel fatto che le singole sfere che lo compongono sono parti attive all’interno del tutto, e agiscono entro un processo di continua trasformazione, di rottura dell’equilibrio e di riequilibrio fra gli organi. L’organismo è vivo, e modifica continuamente se stesso pur mantenendo la propria identità.

Ora, quest’attività organica, nella raffigurazione hegeliana dello Stato, si esprime attraverso l’azione vitale del negativo e della contraddizione, che superano continuamente se stessi e tornano a porsi nell’identità. La negatività non è semplicemente ricondotta all’unità; essa viene inclusa in questa unità come sua parte integrante ed elemento essenziale della sua attività. Qui, la risoluzione della negatività nel processo logico e nella descrizione dello Stato attuale, che nell’esposizione generale avevamo semplicemente constatato e assunto estrinsecamente come caratteristica della teorizzazione hegeliana del diritto, si rivela in tutta la propria essenzialità teorica.

Occorre, per comprendere in modo più concreto l’idea hegeliana dello Stato attuale come totalità organica, ricordare brevemente alcuni dei principali passaggi della filosofia del diritto nei quali agisce “l’immane potenza del negativo”[167].

La realizzazione necessaria del diritto ideale nell’esistente[168], dal quale esso deve assorbire una porzione di accidentalità ed arbitrarietà; la violenza con cui il diritto fin nella sua forma astratta si deve imporre[169]; il male come fenomeno intrinseco e ribaltamento necessario della moralità puramente soggettiva[170]; il sostrato materiale come base indispensabile per l’esistenza dell’unione etica della famiglia[171]; l’azione atomistica degli interessi e dei bisogni dei singoli all’interno della sfera dell’eticità, e la disuguaglianza come elemento strutturale della società civile[172]; l’insorgere inevitabile della plebe[173]: sono tutti momenti negativi, superati ma al contempo necessariamente conservati nello Stato. Sono questi elementi negativi che determinano il divenire interno dello Stato, ed il permanere del suo processo vitale di ricomposizione organica.

Hegel segnala la presenza del negativo nella totalità organica dello Stato in termini non equivocabili: “Lo Stato non è un’opera d’arte; esso sta nel mondo e, quindi, nella cerchia dell’arbitrio, dell’accidentalità e dell’errore”[174]. Questo organismo ha una propria struttura razionale, ma essa può anche essere o diventare difettosa, ed è soggetta all’accidentalità e alla trasformazione. Hegel paragona l’uomo allo Stato, e precisa, contro i detrattori della razionalità dello Stato: “[…] l’uomo più odioso, il reo, un ammalato e uno storpio, sono sempre ancora uomini viventi; l’affermativo esiste malgrado il difetto […]”[175]. Hegel si concentra proprio sull’affermativo; al contempo, però, quest’affermativo, che esiste malgrado il difetto, è vivo, concretamente affermativo proprio perché contiene il difetto e la possibilità del difetto, ed esiste e si evolve nel difetto e tramite il difetto.

Inoltre, non soltanto lo Stato deve contenere il difetto e l’accidentalità come elemento possibile e necessario della propria costituzione[176] e motore del proprio processo interno. La stessa trattazione dello Stato presuppone in sé il lato negativo del confronto dello Stato con gli altri Stati, e la loro reciproca negazione. Lo Stato, come singolo Stato, riprecipita nell’essere per sé, e si caratterizza solo negativamente rispetto all’esterno, agli altri Stati.

La guerra, in primo luogo, è semplicemente imposta in modo estrinseco dalla lotta per l’esistenza e per il riconoscimento. In secondo luogo, però, la guerra assume un funzione etica essenziale[177]. Solo attraverso la guerra il diritto dei singoli è posto come momento che svanisce, di fronte al dovere sostanziale del patriottismo, della lotta per l’indipendenza e la sovranità nazionale: “È necessario che il finito, il possesso e la vita siano posti come cose accidentali; poiché questo è il concetto del finito. Questa necessità ha, da un lato, l’aspetto di una forza naturale, e ogni cosa finita è moritura e passeggera. Ma nell’esistenza etica, nello Stato, questo potere è sottratto alla natura, e la necessità è elevata a opera della libertà, a un che di etico; – quella insensibilità diviene un passaggio voluto; e la negatività, che si trova a fondamento, diviene propria e sostanziale individualità dell’essenza etica”[178]. Solo attraverso la guerra, mediante il fattore vivificante della differenza, secondo Hegel, si conserva la salute etica del popolo[179]; solo attraverso la guerra, perciò, lo Stato si caratterizza come tale, come processo incessante di superamento dell’accidentale ed arbitrario. Il divenire esterno dello Stato, il processo di estrinsecazione dello Stato nella guerra, non soltanto sono il prodotto della sua natura interna, ma sono elementi indispensabili per il permanere vivo del suo processo, per la sua reale determinazione (organica) di Stato.

Riassumendo, allora, è possibile approfondire ulteriormente la comprensione della concezione hegeliana dello Stato in quanto organismo attuale. Questo organismo è un organismo determinato, che ha una propria peculiare dinamica interna – animata dal suo lato negativo, il quale ne rinfocola il processo vitale – ed una propria peculiare dinamica esterna (questo organismo esiste anche come essere per sé, Stato che si rapporta ad altri Stati), estrinsecazione di quella interna e necessaria essa stessa alla vita dello Stato. Il divenire di questo Stato, ad un duplice livello (interno ed esterno), include il lato negativo, l’accidentalità, la violenza, come parti integranti del divenire stesso, lato vitale e carattere organico dello Stato, sua esistenza determinata.

A nostro giudizio, nel descrivere la formazione economico-sociale capitalistica attraverso il concetto di capitale, Marx si avvale di questa concezione hegeliana della totalità organica esistente come realtà caratterizzata, fin nella sua essenzialità, da un incessante divenire processuale interno e da un’incessante attività esterna, intesi come elementi inseparabili e vitali. In modo apparentemente paradossale, proprio nella descrizione del processo economico e della sua centralità sociale svolta nella Einleitung, Marx si ispira alla descrizione hegeliana dello Stato. Il concetto di capitale, a nostro avviso, è sistematicamente sviluppato nei Grundrisse fondamentalmente secondo questo modello hegeliano di Stato organico.

Ma come si relaziona, in Hegel, lo Stato organico attuale alla storia complessiva? Come abbiamo accennato, per Hegel, non soltanto l’ordine del concetto è necessariamente differente dall’ordine del divenire diacronico-temporale; ma anche, l’ordine concettuale della storia è differente dall’ordine concettuale dell’attuale. Come connette Hegel l’ordine storico all’ordine attuale in un sistema filosofico unitario, salvaguardandone al contempo la differenza specifica?

‘Attuale’, anzitutto, in Hegel ha un significato filosofico peculiare: lo Stato è attuale in quanto è razionale. D’altro canto, secondo Hegel, la storia nel suo complesso è razionalmente orientata. La storia, quindi, è orientata alla composizione razionale, organica, dello Stato attuale.

Nelle Grundlinien le tracce di questa concezione sono ben marcate: secondo Hegel, la storia reale è orientata verso il moderno Stato prussiano, in quanto Stato attuale. Alle formazioni del diritto concettualmente poste, al diritto razionale, tende a corrispondere il movimento reale della storia. La storia passata e presente (formazioni del diritto esistite – così come si sono realizzate in altri Stati del passato –, e formazioni del diritto esistenti – così come si realizzano negli altri Stati presenti) muove realmente nella direzione dello Stato attuale, che è direzione razionale presente, attualità dell’intero sviluppo storico. Numerosissime affermazioni contenute nelle Grundilinien potrebbero essere chiamate a testimoniare questa convinzione hegeliana. Per esempio, rispetto alla loro assenza negli Stati del passato, la proprietà (privata)[180], il commercio e il valore (di scambio)[181], la libertà della persona e il lavoro libero[182], la famiglia come nucleo ristretto fondato sul matrimonio di coppia[183] e la società civile come sfera relativamente autonoma[184] devono prevalere storicamente. E, rispetto ai diversi Stati del presente, la divisione del lavoro le macchine e lo sviluppo dei bisogni, lo sviluppo codificato del diritto[185], la chiusura feudale-corporativa delle classi e la struttura costituzionale monarchica su modello prussiano[186] costituiscono lo sviluppo più razionale, e quindi l’unico sviluppo organico veramente sano, che alla lunga deve imporsi.

D’altra parte, però, lo sviluppo storico, nella sua logica propria, è tenuto da Hegel ben distinto dallo sviluppo logico dello Stato attuale. Il processo attuale del diritto razionale nello Stato attuale, è solo la chiusura della storia. La logica della storia è determinata dalla logica dello Stato attuale, dello Stato moderno ideale, unicamente nel suo termine ultimo.

Il processo storico, alla fine delle Grundlinien, è riassunto come percorso ideale che segna la progressiva liberazione dell’autocoscienza e la sua reintegrazione nello Stato etico. La condizione primordiale dell’uomo è caratterizzata da una sorta di innocenza infantile, disinteressata e ottusa, e dal valore militare che si afferma nella lotta per il mero riconoscimento formale[187]: è lo stato di mera accidentalità, il pre-Stato. Matrimonio e agricoltura segnano il primo affermarsi del diritto dell’idea, anche se la legislazione appare inizialmente o come beneficio divino, o come violenza (“diritto degli eroi alla fondazione degli Stati”[188]): lo Stato si impone come universale, ma in modo ancora immediato. Successivamente al sorgere dello Stato, i singoli popoli vengono a rivelarsi come espressioni ideali delle principali formazioni dell’autocoscienza. I singoli Stati, in quanto incarnazioni esistenti, oggettive e concrete, dello spirito dei popoli, idealmente delineano una serie essenziale che si riassume in quattro stadi fondamentali. Il mondo orientale (società di caste) è l’assoluta calma interna dell’universale astratto, ed è la furia verso l’esterno di un universale che nella sua astrazione totale e immediata deve volere inglobare tutto, ma ne è incapace. Il mondo greco è la bella unità di finito e infinito nella particolarità immediata. Il mondo romano è la particolarità astratta spinta al suo estremo come privata autocoscienza personale, che ha come rovescio della medaglia il riproporsi dell’universalità astratta. Dopo l’interludio rappresentato dal popolo israelitico, che rappresenta la crisi e la negatività assoluta dell’autocoscienza, infine, il mondo cristiano-germanico si fa portatore della positività infinita dell’interiorità, dell’unità di natura divina e umana, della riconciliazione della verità oggettiva e della libertà, di particolare soggettivo ed universale etico. Il suo pieno compimento è nello Stato attuale.

Il processo storico deve ricomporsi, attraverso le forme particolari assunte di volta in volta, nell’unità superiore dello Stato attuale, che esiste nella forma migliore nello Stato prussiano moderno, e che è unità individuale di universale etico e particolare soggettivo. Ma, evidentemente, questa ricomposizione logica della successione storica delle formazioni statuali (come linea essenziale dello sviluppo storico): 1) se ha il suo termine ultimo nella ricomposizione attuale del diritto razionale, neanche nella sua linea essenziale segnata dai quattro stadi coincide con la dinamica logica dell’organismo statale attuale (i momenti del diritto razionale affondano le loro origini in stadi storici che non corrispondono, nella loro successione storica, alla loro successione attuale); 2) se ne ricalca la dialettica (universale – particolare – individuale), la pone su un piano oggettivamente diverso, come successione di formazioni statuali che hanno una propria specifica logica immanente ed una propria azione storica.

In primo luogo, lo Stato attuale esistente (di fatto lo Stato prussiano) è un processo organico specificamente distinto da quello degli altri Stati storicamente esistenti (passati e presenti). Ogni singolo Stato ed ogni singola costituzione rispondono allo spirito di un determinato popolo. Lo Stato è sempre uno Stato nazionale: “Il popolo deve avere a sua costituzione il sentimento del suo diritto e della sua situazione; altrimenti, essa, forse, può esistere esteriormente, ma non ha alcun significato e alcun valore”[189]. Il principio dello Stato attuale ed il suo carattere organico, in quanto razionali, devono tendenzialmente prevalere. Ma ogni popolo ed ogni Stato hanno i loro principi specifici.

In secondo luogo, il dispiegamento storico dello Stato attuale non coincide con la linea essenziale dello sviluppo storico degli Stati (orientale – greco – romano – cristiano-germanico) non soltanto nel suo presente divenire di Stato (nel suo divenire processuale interno e nella sua azione esterna), ma neanche nei suoi presupposti storici reali e nella sua fondazione a partire da questi presupposti determinati. I momenti della totalità organica dello Stato attuale, hanno assunto anche forme embrionali di esistenza storicamente precedenti. Per esempio, dell’universalità astratta del diritto, Hegel rintraccia esplicitamente un potente esordio storico, sebbene ancora grezzo, nel  mondo romano; la moralità soggettiva della seconda parte, invece, emerge storicamente solo con il cristianesimo[190]. Ma questo sviluppo embrionale dello Stato attuale in alcune formazioni determinate di Stati esistiti e di realtà storiche precedenti, questi germi dello Stato attuale, sono solo la sua storia, e non la storia tout court.

Il senso di questa impostazione di fondo delle Grundlinien, e della concezione hegeliana del rapporto Stato attuale – storia degli Stati, si chiarisce ulteriormente ad un esame delle Vorlesungen hegeliane, ed in particolare delle loro introduzioni generali[191].

Hegel afferma di voler considerare la storia da un punto di vista filosofico. Il pensiero fondamentale sul quale si regge la considerazione filosofica della storia, secondo Hegel, è “che la ragione governi il mondo, e che quindi la storia universale debba essersi svolta razionalmente”[192]. Da una parte, la storia filosofica delineata da Hegel, non rivolge la propria attenzione alla mera accidentalità: “qui non si tratta della particolarità empirica, in balia del caso”[193]; la storia deve essere afferrata nel suo concetto. D’altra parte, si tratta, secondo Hegel, di ricondurre ed abbracciare nel positivo il negativo, comprendendo il senso razionale dei fenomeni storici più terribili. “Il problema”, scrive Hegel, “è quello della categoria del negativo, […] che ci fa vedere come nella storia del mondo anche le cose più nobili e belle vengano sacrificate sul suo altare”[194]. Il vero concetto della storia deve includere il negativo. Il ruolo del negativo, anzi, viene sottolineato nelle Vorlesungen con toni ancora più spiccati di quelli delle Grundlinien: “La ragione non può affatto arrestarsi al fatto che singoli individui siano stati colpiti; i fini particolari si perdono nell’universale. Nel sorgere e nel tramontare delle cose essa vede l’opera prodotta dal lavoro universale del genere umano; un’opera che è effettivamente nel mondo al quale apparteniamo”[195].

L’oggetto della filosofia della storia è lo stesso della filosofia del diritto: lo Stato. “Lo spirito nella storia è un individuo che è di natura universale, ma che è determinato, cioè, in generale, un popolo”[196]; ogni singolo individuo, secondo Hegel, realizza la propria sostanza unicamente entro lo spirito del popolo: “Ogni individuo è figlio del suo popolo, in un momento determinato dello sviluppo di questo stesso popolo”[197]. Nella religione si esprime nel modo più semplice il principio essenziale di un determinato popolo: è la coscienza che un popolo ha di se stesso; ma l’incarnazione necessaria della religione come coscienza del popolo è lo Stato[198]. Nello Stato, lo spirito del popolo viene ad esistenza concreta: “L’individuo spirituale [das geistige Individuum], il popolo, in quanto è in sé articolato e costituisce un tutto organico [ein organisches Ganze], è ciò che chiamiamo Stato”[199]. Lo Stato, dunque, è l’oggetto della filosofia della storia. In esso, si forma un contenuto spirituale solido, compatto, sottratto agli arbitri ed ai particolarismi. In esso, si ha la conciliazione fra volontà soggettiva e volontà oggettiva: “Lo Stato è con ciò l’oggetto più specificamente determinato della universale storia del mondo […]”[200].

Secondo Hegel, considerare filosoficamente la storia significa attenersi all’idea che Dio e la natura siano la stessa cosa, che la realtà più perfetta si rovesci e si compia nell’esistente[201]. Nel campo dello Spirito (oggettivo), questo significa fra l’altro considerare la storia del mondo, secondo il suo scopo finale, come realizzazione dell’idea della libertà umana (“Quel che dobbiamo considerare è quindi senz’altro l’idea, ma in questo elemento dello spirito umano: più esattamente, è l’idea della libertà umana”[202]). La storia si caratterizza allora come “ascendente gradazione evolutiva del principio il cui contenuto è la coscienza della libertà”[203], ed il progresso appare come “un processo dall’imperfetto al perfetto”[204]. Questo “processo graduale”[205] è lo sviluppo della coscienza che lo spirito ha della propria libertà e lo sviluppo della relativa conformazione dello spirito nello Stato: è la storia del mondo. In che cosa consiste, per Hegel, questa libertà? Sostanzialmente, nell’eticità, nell’incarnazione reale della libertà morale nello Stato.

La storia del mondo come progresso spirituale della coscienza della libertà, perciò, è descritta nelle Vorlesungen attraverso le quattro tappe fondamentali dell’evoluzione dello Stato che abbiamo già visto riassunte nelle Grundlinien: mondo orientale (in cui la libertà è ancora solamente in sé); mondo greco e mondo romano (nei quali incomincia a maturare la coscienza della libertà, che però come tale rimane appannaggio solamente di alcuni, per sé); mondo germanico (nel quale la libertà è in sé e per sé). La libertà del mondo cristiano occidentale è libertà del singolo individuo come persona autonoma, come momento organico dell’eticità e dello Stato. Verso di essa si orienta l’intero corso storico.

Più precisamente, riferendosi in modo più stretto alla storia dello Stato, Hegel segnala, anche nelle Vorlesungen, la costituzione come espressione della forma specifica in cui la totalità statuale viene a manifestarsi. La prima forma è quella in cui la totalità è ancora involuta, e si esprime in un regno patriarcale come un’universalità astratta. La seconda forma è quella dell’autonomia delle singole sfere e dei singoli individui, ed è quindi quella della particolarità, propria dell’aristocrazia e della democrazia. La terza forma è quella della totalità organica in quanto individualità, così come essa si esprime nella monarchia. Queste diverse conformazioni universali della totalità statuale si risolvono dunque nella monarchia, che per Hegel, fondamentalmente, è la moderna monarchia europea. Dunque, lo Stato attuale descritto da Hegel nelle Grundlinien, come realtà ideale, essenza, del moderno Stato europeo-occidentale nazionale, monarchico e borghese, risulta in conclusione anche il fine ultimo della storia ideale delineata nelle Vorlesungen.

Ma se, nella serie storica essenziale degli Stati, la razionalità della struttura logica dello Stato attuale viene a coincidere con la direzione dello sviluppo storico complessivo, che nello Stato moderno filosoficamente descritto ha il suo termine ultimo, tuttavia Hegel mantiene specificamente distinte la logica del diritto razionale e la logica della storia tout court. Ogni grado dello sviluppo storico ha, per Hegel, “un suo determinato principio peculiare” [ein bestimmtes eigentümliches Prinzip][206]. Lo spirito del popolo si configura in uno Stato determinato come un individuo determinato. La forma specifica dell’unità organica fra le varie sfere dello Stato dà luogo ad un’individualità organica, ad un organismo storicamente determinato in sé stesso compiuto. La logica attuale dell’organismo statale moderno, sulla quale si fonda la filosofia del diritto, non coincide affatto con quelle degli organismi storici precedenti, e nemmeno, quindi, ne è un mero completamento lineare.

Risulta molto interessante, in proposito, la distinzione che Hegel sviluppa fra il processo spirituale e quello naturale. In natura, la vita risorge continuamente dopo la morte. L’albero, secondo l’esempio di Hegel, ha un proprio ciclo, e si riproduce nel seme, attraverso il quale supera il momento della propria morte. Ma: “La rianimazione nella natura è solo la ripetizione dello stesso processo, è la stessa noiosa storia con l’identico corso”[207]. Con lo spirito, invece, le cose vanno ben diversamente: “Il suo corso, il suo movimento, non è ripetizione di sé, bensì è la cangiante manifestazione che lo spirito dà di sé in forme sempre differenti, è essenzialmente un progredire”[208]. Il corso dello spirito vede la forma determinata di autocoscienza dissolversi e trasfigurarsi in un’altra, superiore, forma determinata di autocoscienza. Il frutto maturo dell’albero di un popolo non soltanto cade in un terreno diverso, ma questa diversità del terreno spirituale dà luogo ad una pianta specificamente diversa. Il frutto spirituale di un popolo diventa elemento organico di un’altra specie di albero, di un altro popolo: “Lo spirito d’un determinato popolo è solo un individuo nel corso della storia del mondo”[209]. La differenza specifica, in qualche modo, è l’elemento che Hegel vuole marcare con forza entro la continuità del medesimo processo storico, entro l’identità della storia universale: “La vita di un popolo porta a maturazione [Reife] un frutto [Frucht], ché la sua attività mira a realizzare il suo principio. Ma questo frutto non ricade in quel suo grembo, dove esso si è sviluppato: essa non l’ha per goderne, ché anzi quel frutto diventa un calice amaro. Non può farne a meno, perché ne ha sete infinita, ma il gustarne è la sua distruzione [Vernichtung], e pure insieme il sorgere di un nuovo principio. Il frutto diventa seme [Die Frucht wird wieder Samen], ma seme di un altro popolo [eines andern Volkes], per portare questo a maturazione [Reife][210]. Da un popolo si passa ad un altro popolo; da una totalità organica statuale si passa ad un’altra totalità organica statuale. Il senso dell’evoluzione storica consiste proprio in questo trasfigurarsi di un’essenza specifica in un’altra essenza specifica, in un trasfigurarsi spirituale che, per Hegel, non ha in natura un equivalente: “Ogni singolo nuovo spirito di un popolo è trapasso alla vita, e ciò non come nella natura, ove la morte di un individuo ne chiama in vita un altro identico. Lo spirito del mondo invece procede da determinazioni inferiori a superiori principi e concetti di sé medesimo, a rappresentazioni più evolute della propria idea”[211]. L’evoluzione storica, da un lato, “implica un progredire verso il meglio, verso il più perfetto”[212]; dall’altro è profondamente diversa dal mutamento naturale per il fatto che, nello Spirito, “il trapasso dalla sua determinazione nella sua realizzazione è mediato da coscienza e volontà”[213].

In stretta correlazione con la differenza specifica fra gli Stati che Hegel vuole ora stabilire, la filosofia della storia viene a svilupparsi in una maniera ben diversa da quella della filosofia del diritto. Nel descrivere concettualmente il singolo Stato storico (ed in particolare lo Stato attuale), Hegel ripetutamente compara metaforicamente lo Stato all’organismo naturale, sviluppando una dialettica concettuale di universale, particolare ed individuale definibile ‘organicistica’. Invece, nel descrivere lo sviluppo storico complessivo (la serie essenziale degli Stati) attraverso una dialettica di universale, particolare ed individuale astrattamente del tutto simile alla prima, Hegel non soltanto segnala la distinzione fra lo sviluppo spirituale e lo sviluppo organico dell’individuo meramente naturale (distinzione valida in generale per ogni prodotto dello Spirito oggettivo), ma la ribadisce in modo tanto marcato e ripetitivo da fissare definitivamente l’impossibilità stessa della metafora ‘organicistica’.

Hegel scrive: “[…] l’evoluzione, che come tale è un tranquillo prodursi […] è nello spirito, ad un tempo, una lotta dura ed infinita contro sé stesso. […] L’evoluzione è in tal modo non il semplice prodursi innocuo e pacifico, com’è quello della vita organica [des organisches Lebens], ma il lavoro duro e riluttante contro sé stesso”[214]. Inoltre, secondo Hegel: “È conforme al concetto dello Spirito che lo sviluppo della storia cada nel tempo; ma, a differenza della storia uniforme della natura, nella quale la conservazione delle specie sussiste in un mutamento circolare, la storia del mondo spirituale è il dispiegarsi dello spirito nel tempo nello stesso modo in cui l’idea si dispiega come natura nello spazio”[215]. Le determinazioni storiche si devono rapportare reciprocamente in modo spiritualmente molto più estrinseco che non le rappresentazioni dello Stato attuale, che invece compongono una totalità organica compatta.

A nostro avviso, è solo in questa duplicità della dialettica hegeliana della filosofia del diritto e della filosofia della storia, è in questo stacco fra scienza attuale e scienza della storia – i cui contenuti (Stato) e le cui forme (universale-particolare-individuale) coincidono soltanto astrattamente –, che si può trovare il fondamento essenziale del recupero della dialettica hegeliana operato da Marx nei Grundrisse, ed una spiegazione del modo in cui tale dialettica si colloca e si ridefinisce all’interno della tematizzazione marxiana del concetto di capitale (merce-denaro-capitale).

La distinzione hegeliana di scienza attuale e storia, d’altro canto, poggia su un presupposto alquanto preciso, su una concezione complessiva della storia. Solo quest’ultima permette e allo stesso tempo spiega la distinzione e la connessione sistematica di questi due poli – filosofia del diritto e filosofia della storia –, che si distinguono e parimenti si intrecciano.

Nel modo hegeliano di descrivere l’evoluzione storica, a ben vedere, traspare una sorta di ‘elevamento a potenza’ del ruolo rivestito dal negativo nella filosofia hegeliana in genere e nella filosofia del diritto in particolare. Nello sviluppo storico, secondo Hegel, l’elemento negativo svolge effettivamente una funzione assai più incisiva che non nello Stato attuale.

1) Storicamente, secondo Hegel, il passaggio da uno Stato all’altro avviene come un ‘trapasso’ da un principio ad un altro.

2) La guerra e la violenza appaiono come le ‘levatrici’ della storia: i passaggi epocali fondamentali della storia universale si scandiscono ed articolano in modo per lo più estremamente brusco, con degli stacchi netti. Lo sviluppo storico non può essere rappresentato, neanche nella sua essenzialità, da una linea veramente continua.

3) Pur delineandosi un progresso storico universale nella sua essenzialità, le diverse formazioni statuali che ne compongono la serie essenziale, stanno nel passato una affianco all’altra, una esterna all’altra, una contro l’altra.

4) Il ruolo storicamente preponderante della volontà, nel mutare della determinatezza dello Stato, si traduce in un costante e potentissimo rinnovarsi dell’accidentalità, che segmenta e frantuma instancabilmente il dispiegamento storico dello Spirito: “Vi sono nella storia del mondo parecchi grandi periodi evolutivi, che sono trascorsi senza che apparentemente l’evoluzione abbia proceduto oltre, e dopo i quali, anzi, sono risultate invece distrutte tutte le enormi conquiste della civiltà, e si è dovuto disgraziatamente ricominciare da capo […]”.[216] La storia è costellata – e si noti bene: necessariamente e necessariamente proprio in quanto ‘storia’ – di “regressi”  e di “casualità estrinseche”[217].

5) In questo senso, dunque, si può parlare, in Hegel, di unidirezionalità del corso storico, invece che di unilinearità. Il termine ultimo di tutta la storia è lo Stato attuale. Ma in esso convergono linee storiche distinte.

Stati differenti secondo il loro principio essenziale, disegnano nel loro divenire storico linee differenti. Alcune si interrompono bruscamente e solo alcuni singoli tratti vengono ricalcati da altri sviluppi successivi. Altre procedono in modo rettilineo ed apparentemente uniforme. Altre ancora sono segmentate da regressi o da sbalzi storici (nuove religioni, guerre, rivoluzioni). Le linee storiche si intrecciano e si dividono nuovamente. Infine convergono nello Stato attuale. La linea storica essenziale (la serie orientale-greco-romano-germanico), da questo punto di vista, è una direttrice ideale che, attraverso alcuni tratti nazionali separati ed i loro sviluppi storici locali, ed attraverso alcuni nodi fondamentali del loro intreccio, individua la direzione complessiva dello sviluppo storico.

Al fondo della concezione hegeliana, la storia è multilineare e parimenti dotata di un senso razionale. È unidirezionale ma non unilineare.

Se esaminiamo l’intero piano della filosofia della storia hegeliana, tanto nella serie di Stati asiatico – antico (greco e romano) – cristiano-germanico (moderno), che in relazione alla serie delle costituzioni patriarcale (dispotismo orientale) – aristocratica e democratica (sistemi antichi) – monarchica (sistema moderno), troviamo in azione il medesimo schema dialettico di universale – particolare – individuale (U-P-I) che avevamo constatato come modello strutturale della filosofia del diritto.

Più precisamente, la dialettica della filosofia della storia si configura nei seguenti termini: universale immediato, chiuso nella sua particolare immediatezza determinata (mondo orientale, dove le comunità vivono, compiute e chiuse in sé stesse, una affianco all’altra come mondi separati) – particolare astratto della singola soggettività, che si perde nell’universalità estrinseca e astratta dell’atomismo sociale (dal mondo greco al mondo romano) – individuale (che si afferma come riconciliazione progressiva del particolare e dell’universale nel mondo cristiano-germanico, e nella riforma protestante e nella moderna costituzione monarchica dello Stato nazionale). La dialettica U-P-I nella filosofia del diritto indicava la realtà organica dello Stato attuale (dialettica U-P-I numero 1). Questa seconda dialettica U-P-I operante nella filosofia della storia (dialettica U-P-I numero 2), invece, include l’individualità dello Stato moderno (dialettica numero 1) come un proprio momento. La dialettica numero 1 è il punto di approdo finalisticamente necessario dell’intero processo storico; però, costituisce solamente il momento conclusivo della dialettica del processo storico nel suo complesso, e non invece il fine immanente di ogni suo momento.

La distinzione di queste due dialettiche significa, in Hegel, l’articolazione del divenire sociale (statuale) su due piani nettamente distinti anche se strettamente intrecciati fra loro: da una parte, abbiamo la logica generale del processo storico, che ne è la linea essenziale; dall’altra, abbiamo la dialettica della formazione sociale esistente come totalità organica attuale, che attrae a sé il processo storico complessivo ed è il termine della linea storica essenziale, ma che ha una sua esistenza specifica, un suo dispiegamento storico-locale indipendente (presupposti storici propri), ed un suo divenire presente (processo interno ed azione esterna). Lo Stato attuale contiene ancora la contraddizione ed il negativo, ma in modo ormai relativamente stabilizzato –  non più esplosivo –, all’interno di sé stesso come organismo unitario in sviluppo.

Questo doppio schema hegeliano, a suo modo, vuole quindi salvare la specificità delle singole formazioni storiche, intese come singole totalità organiche statali e come momenti della dialettica storica (dialettica U-P-I numero 2), ma, al contempo, riconoscere la superiorità razionale e la tendenza generale verso la formazione statale moderna nella sua forma ideale, come organismo statale in atto. La formazione statale moderna è una totalità organica che è attuale, perché in definitiva è più completa e razionale; perché, cioè, in ultima istanza, essa è capace di includere in un modo compiuto ed in una relazione ideale tutte le sfere del diritto razionale, prefigurate dagli altri Stati esistenti o precedentemente esistiti, come sue proprie formazioni, pienamente organiche al proprio principio (dialettica U-P-I numero 1). Tale impostazione comporta, nelle sue ultime conseguenze, la concezione del progresso in termini unidirezionali. Il più profondo significato di questa duplice dialettica hegeliana, infatti, sta proprio in questo, che il senso generale della storia (dialettica numero 1 come conclusione della dialettica numero 2) è ammesso, solo nella misura in cui è parimenti affermata la sua natura conflittuale, violenta e parzialmente imprevedibile nella sua accidentalità (dialettica numero 2 nella sua specifica differenza dalla dialettica numero 1).

L’intreccio di una dialettica con l’altra, la connessione e la differenza fra questi piani d’indagine, rivela: 1) un tentativo da parte di Hegel di connettere dialetticamente la scienza dello Stato come oggetto attuale, e le leggi specifiche di questo oggetto organico, da una parte, alla storia tout court, alle sue leggi generali, e a quelle specifiche dei singoli Stati che la scandiscono, dall’altra, senza sovrapporre né separare arbitrariamente, astrattamente, i due diversi piani; 2) il connesso profilarsi, all’interno della filosofia hegeliana, di una concezione unidirezionale della storia (di una concezione della storia direzionale ma parimenti multilineare).

A nostro modo di vedere, Marx nei Grundrisse: 1) riprende la dialettica hegeliana di U-P-I nella sua duplice veste, da un lato per descrivere lo sviluppo storico complessivo dei modi di produzione, e dall’altro per definire il concetto di capitale (merce-denaro-capitale) ed il modo di produzione attuale, fissando così una distinzione basilare fra scienza dell’economia politica e scienza della storia in generale[218]; 2) del tutto coerentemente, quindi, tenta di sviluppare il materialismo storico, dalla sua originaria forma unilineare di matrice smithiana (Ideologia tedesca), in una nuova forma multilineare (plasmata sul modello dell’unidirezionalità hegeliana).

§ 3. Storia e concetto di capitale nei quaderni I-IV dei Grundrisse

Nei Grundrisse, Marx vuole attenersi alla definizione della società formulata nell’Ideologia tedesca, ed influenzata dalla lettura di Smith, che ne individua la sostanza nella produzione materiale. Alla dimensione spirituale e semireligiosa che la storia assume in Hegel, Marx contrappone il recupero dell’idea smithiana che il progresso, fondamentalmente, sia imperniato sullo sviluppo materiale del commercio e dell’industria.

D’altro canto, Marx intende anche rilevare il carattere storicamente determinato del processo sociale moderno. Egli pretende, quindi, di affermare la specificità del capitale, come formazione storico-sociale peculiarmente distinta entro il processo storico complessivo. Le leggi che regolano la società moderna devono essere considerate nella loro differenza specifica: “[…] Non solo la produzione di ogni singolo viene a dipendere dalla produzione di tutti gli altri, ma anche la trasformazione del suo prodotto in mezzi di sussistenza personali è venuta a dipendere dal consumo di tutti gli altri. I prezzi sono antichi, e così lo scambio; ma sia la progressiva determinazione degli uni attraverso i costi di produzione, sia il predominio dell’altro su tutti i rapporti di produzione, sono pienamente sviluppati, e si sviluppano sempre più pienamente, soltanto nella società borghese, nella società della libera concorrenza. Ciò che Adam Smith, alla maniera tipica del XVIII secolo, pone nel periodo preistorico e fa precedere alla storia, è piuttosto il suo prodotto”[219].

Il senso del recupero della dialettica hegeliana deve essere colto, precisamente, in questa istanza marxiana. Per chiarirlo, in questo paragrafo, prenderemo in considerazione dapprima il contenuto fondamentale dei Grundrisse così com’è delineato nei quaderni I-IV (§3.1); poi il merito della sua organizzazione ed esposizione dialettica (§3.2); infine tenteremo di sintetizzarne il il significato della dialettica in relazione al problema complessivo della storia (§3.3).

§ 3.1. I fondamenti della teoria economica marxiana ed il concetto di capitale nei quaderni

La struttura del ‘capitolo II’ (Il denaro) e della prima sezione (Processo di produzione del capitale) del ‘capitolo III’ (Il capitale) dei Grundrisse è essenzialmente unitaria.

Secondo Marx, nel modo di lavoro adottato e nei connessi rapporti di produzione (suddivisione in classi degli individui in relazione al loro ruolo nella produzione) si costituisce un modo di produzione. La base di ogni formazione sociale è rintracciabile nel modo di produzione in essa dominante; essa perciò è modo di produzione in senso lato o, in termini più ampi (inclusivi di aspetti giuridico-statali e culturali), formazione economico-sociale. Marx, nei Grundrisse, vuole delineare il concetto economico (il capitale come processo economico essenziale) della formazione economico-sociale moderna (il capitalismo).

Nei Grundrisse, il modo di produzione esaminato, è storicamente determinato: è il modo di produzione industriale attuale. La forma sociale capitalistica, che Marx vuole analizzare nei suoi tratti peculiari ed innovativi rispetto alle forme precedenti, “[…] nella sua estensione totale, nasce solo quando l’industria moderna è giunta ad un alto livello di sviluppo […]”. Il modello reale di questo modo di produzione è preciso: “[…] l’Inghilterra […] è il paese modello per gli altri paesi continentali”[220].

I Grundrisse, per di più, prendono le mosse da un problema ben preciso: quello di spiegare le crisi economiche all’interno di una coerente definizione complessiva del concetto di capitale.

Nell’apprestarsi a stendere il manoscritto, Marx ha di fronte due questioni: dal lato della realtà sociale, la crisi economica, di notevoli proporzioni, insorta nel 1857, inizialmente nella forma di crisi monetaria (come diretta conseguenza della scoperta di rilevanti giacimenti auriferi in Australia ed in California, e dei successivi sbalzi nel prezzo dell’oro); dal lato teorico, invece, le tesi (dell’economista socialista Darimon ma, in generale, dei seguaci di Proudhon) volte a dimostrare la necessità della riforma del sistema di credito, e della sostituzione del denaro con cedole-orario (quantificazione diretta del valore-lavoro oggettivamente condensato nella merce), ai fini del riassorbimento delle crisi e dell’affermazione di una maggiore giustizia sociale.

L’impostazione marxiana del problema delle crisi e la connessa teoria del denaro si oppongono in maniera esplicita a queste tesi. Secondo Marx, il denaro deve essere spiegato come estrinsecazione logica e prodotto organico del valore di scambio. Perciò, le difficoltà esplicite nella forma denaro, sono già le difficoltà implicite nella forma valore[221]. D’altro canto, la circolazione semplice delle merci, e la conservazione del valore delle merci nello scambio, rinviano ad una sfera economica più profonda: quella della produzione. Il fondamento delle crisi, quindi, deve essere ricercato, secondo Marx, nel sistema di produzione delle merci e del valore.

Lo svolgimento dell’analisi marxiana ruota intorno ad un nucleo teorico centrale: la definizione del concetto di capitale in generale, concetto (a suo tempo messo in rilievo da Rosdolsky) indispensabile a comprendere tanto la natura del valore, quanto la teoria del plusvalore.

L’intero sviluppo logico delle categorie economiche marxiane, così come si dipana nei primi quattro quaderni dei Grundrisse (fino alla sezione sulla produzione inclusa), ha come fondamento imprescindibile la considerazione sommamente generale del sistema economico capitalistico. Il capitale è concettualizzato come totalità economica compiuta e omogenea, per mostrarne solo dopo, per successivi approfondimenti, la concreta differenziazione interna e l’effettiva azione storica esterna, e fino a rivelare l’estorsione di plusvalore come il momento essenziale del processo di questa totalità economica. Il passaggio dalla determinazione di merce alla determinazione di denaro e, infine, alla determinazione di capitale ha i suoi presupposti e rimane chiuso in tale struttura teorica.

1) Il valore della merce. I Grundrisse iniziano con un ampio capitolo sul denaro, marcato con il numero romano due. Negli intenti di Marx, questo capitolo doveva essere preceduto da un capitolo sul valore. Di questo capitolo sul valore, invece, si trova un abbozzo incompiuto solo alla fine del manoscritto, nel VII quaderno. Ma la definizione del valore rimane la premessa implicita dell’intera analisi marxiana.

Il sistema sociale di produzione capitalistico, nella definizione datane da Marx, si basa sul presupposto fondamentale della “appropriazione mediante alienazione”, dello scambio di merci: “La prima categoria in cui si manifesta la ricchezza borghese è quella della merce”. Da un lato, il prodotto è valore d’uso, “oggetto della soddisfazione di un sistema qualsiasi di bisogni umani”. Questo è il “lato materiale” del prodotto[222]. Dall’altro lato, l’espressione caratteristica del sistema fondato sullo scambio è, appunto, il valore di scambio, il valore del prodotto realizzato, non nel suo uso diretto – che anzi per il produttore come tale rimane indifferente –, ma sotto forma di un altro prodotto, in un altro prodotto[223]. Il prodotto, così sdoppiato nella sua determinazione sociale, è merce.

Nello scambio le merci vengono equiparate. Alle due merci si attribuisce, con ciò un comune valore di scambio, una sostanza comune. Questa sostanza comune, secondo Marx, in definitiva è il lavoro. Le due merci si equivalgono perché in esse è contenuta una medesima quantità di lavoro oggettivato, di lavoro semplice, la cui qualità è astratta da ogni sua particolare determinazione e la cui misura è il tempo[224].

Le due merci si equivalgono? Come può Marx stabilire questo assioma? Come si possono equivalere lavori materialmente differenti? Cosa assicura l’equivalenza nello scambio? L’astrazione marxiana, a nostro avviso, si chiarisce proprio facendo riferimento al concetto di capitale in generale.

Del capitale, in realtà, non vi è ancora la definizione. L’analisi si mantiene per ora solo alla superficie della società moderna. Però Marx, già a questo livello iniziale, non considera il singolo scambio, ma la totalità degli scambi e delle merci, i cui due estremi reali sono le ‘due merci’ dell’astrazione economica iniziale. Ogni singolo scambio avviene in questa totalità degli scambi, non la modifica, e anzi vi si subordina; può quindi essere idealizzato, come scambio ideale di equivalenti, in relazione ai principi di questa totalità. Se la società è osservata ‘dall’alto’, come totalità, allora nello scambio, complessivamente, nulla si può aggiungere più di quanto vi sia all’inizio. Il risultato dello scambio equivale, in termini di ricchezza, a quanto vi era prima che principiasse. Lo scambio, quindi, è sempre scambio di equivalenti perché, se si considera l’insieme della società, il valore della somma delle merci scambiate permane immutato.

Apparentemente sembrerebbe trattarsi di una mera tautologia. Tuttavia, ne discende una catena di importanti conseguenze. Innanzitutto, si può affermare che il lavoro totale della società sia la fonte del valore di scambio, e che la misura del tempo di lavoro socialmente necessario che la società spende per ogni determinata merce stabilisca il suo reale valore. In secondo luogo, se si ipotizza – come Marx implicitamente fa – un sistema di concorrenza perfetta, inteso come sistema di punti equivalenti e di autoregolazione sociale delle risorse e del lavoro fra questi punti, intorno al valore di scambio devono oscillare i prezzi effettivi delle merci.

Da questo punto di vista – a noi più familiare –, Marx altro non fa che stabilire un sistema astratto iniziale, nel quale poi, nel corso della trattazione, vengono modificate e aggiunte altre varianti. Tale astrazione ed il suo successivo specificarsi poggiano sul presupposto che la struttura economica della società costituisca un tutto unitario. Proprio questa astrazione iniziale, sviluppata fino alla definizione essenziale del meccanismo economico moderno (inteso come estorsione di plusvalore), viene a costituirsi nel concetto di capitale in generale.

2) Il denaro come rapporto sociale. “Il prodotto (o attività) diventa merce; la merce valore di scambio; il valore di scambio denaro”[225]: per Marx non si tratta di una dialettica di pure determinazioni concettuali, ma della rappresentazione di un rapporto sociale ben preciso.

Da una parte, nel mondo moderno, Marx coglie il costituirsi, con l’intensificarsi degli scambi e dei commerci, di “un sistema di ricambio sociale generale, di un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità”[226]. D’altra parte, si tratta di una mutua e generale dipendenza di individui reciprocamente indifferenti. Secondo Marx, la caratteristica più evidente della società borghese è esattamente questa duplice determinazione: dipendenza reciproca da un lato, isolamento degli interessi privati dall’altro. La divisione del lavoro, nella società moderna, si esprime in questa forma specifica.

La dipendenza reciproca universale “si esprime nella necessità permanente dello scambio e nel valore di scambio quale mediatore universale”[227], e dunque nella comparsa effettiva del lavoro generale sociale, e del lavoro astratto come sostanza del valore. Il prodotto dell’attività umana, in tal senso, come merce, acquista un valore di scambio generale. D’altro canto: “È vero che lo scambio […] presuppone l’universale dipendenza reciproca dei produttori, ma presuppone al tempo stesso il completo isolamento degli interessi privati ed una divisione del lavoro sociale, la cui unità e integrazione reciproca esiste, per così dire, come un rapporto naturale esterno agli individui, indipendente da loro”[228]. La produzione, in buona sostanza, è produzione privata. Il denaro, è la necessaria mediazione particolare fra gli interessi di individui indifferenti. La forma generale deve incarnarsi in una merce particolare, proprio perché il rapporto stesso fra i singoli produttori è sempre un rapporto particolare di interessi particolari: gli individui producono nella società e per la società, ma la loro produzione “non è immediatamente sociale, non è il risultato di un’associazione che ripartisce al proprio interno il lavoro”[229]. La produzione sociale stessa, quindi, si deve manifestare come fatto estraneo agli individui, in una cosa estranea agli individui come tali: il denaro.

Non si può eliminare il denaro, dunque, senza eliminare il rapporto sociale che gli soggiace. Il lavoro, nella società moderna, viene posto come lavoro generale solo mediatamente, attraverso lo scambio[230]. Il tempo di lavoro misura il valore di scambio solo mediatamente, attraverso il denaro[231]. In definitiva, secondo Marx, il carattere sociale della produzione non è presupposto, ma posto dalla società moderna: il denaro esprime organicamente questo principio fondamentale della modernità, ed è esso stesso, in tal senso, un “rapporto sociale”[232].

3) Le determinazioni fondamentali del denaro. Nella trasformazione ideale delle merci in prezzi, il denaro, come prezzo, è la misura del valore (prima determinazione del denaro). Il fondamento di questa trasformazione ideale, però, è definito da Marx in modo ben pratico. La merce è scambiabile con tutte le altre merci. Essa è perciò merce generale la cui particolarità naturale è cancellata e viene misurata nello scambio[233]. Lo scambio massimamente frequente e la massimamente frequente equiparazione delle merci all’oro, fanno di quest’ultimo la misura del valore di scambio e trasformano (nella rappresentazione dell’intera società) le merci in prezzi[234] – e, più a monte, equiparano tutte le giornate lavorative alla giornata lavorativa che produce oro[235]. Perché l’oro? Perché l’oro, come e più degli altri metalli nobili – che figurano anch’essi, sebbene in posizione subordinata, nelle vesti del denaro –, ha delle caratteristiche materiali idonee ad assolvere questa funzione sociale: “Durevolezza, inalterabilità, divisibilità e ricomponibilità […]”[236]. Inoltre: “Data l’uniformità dei metalli nobili nelle loro qualità fisiche, uguali quantità di essi sarebbero così identiche da non offrire alcun motivo per preferirne alcuni invece di altri. Ciò non vale, ad esempio, per un egual numero di bestiame e uguali quantità di grano”[237]. Dunque: “Come realizzazione di un determinato tempo di lavoro la merce è valore di scambio; nel denaro la quota di tempo di lavoro che essa rappresenta è insieme misurata e contenuta nella sua forma universale, adeguata al concetto, scambiabile. Il denaro è il medium materiale nel quale i valori di scambio vengono immersi e ricevono una forma corrispondente alla loro determinazione universale”[238]. L’oro (e i metalli nobili in genere) divengono con ciò moneta di conto del valore di scambio. Il valore di scambio, così misurato, diventa prezzo.

Trasformate (idealmente) le merci in denaro – presupposta quindi la loro rappresentazione sociale nei prezzi –, si deve esaminarne la circolazione. “È necessario stabilire, innanzitutto, il concetto generale di circolazione”[239]; per Marx ciò significa considerare “[…] non singoli atti di scambio, ma un circuito di scambi, una totalità di essi, in flusso costante ed estesi più o meno a tutta l’area della società; un sistema di atti di scambio”[240]. Marx sintetizza tale processo complessivo della circolazione attraverso lo schema M-D-D-M (merce – denaro – denaro – merce); la produzione della merce rappresenta il punto di partenza, il consumo il punto finale dell’intero processo sociale di circolazione. Il denaro, semplicemente, media questo incessante movimento delle merci fra gli infiniti differenti produttori-consumatori che punteggiano la società.

Il denaro deve circolare esso stesso, però in senso opposto rispetto alla merce. L’oro e i metalli nobili, ancora una volta, sembrano adatti a questo scopo, in virtù della loro  “[…] trasportabilità relativamente facile, in quanto racchiudono un valore di scambio massimo in un minimo spazio […]”[241]. Ma il denaro, ora, viene ad essere puro mezzo della circolazione, mezzo di scambio (seconda determinazione del denaro). Il denaro è determinato come mezzo e realizzatore dei prezzi[242]; in altre parole, è mediazione puramente quantitativa fra i valori di scambio delle merci. Da un lato, perciò, il denaro deve essere presente in una determinata quantità, che dipenderà tanto dalla velocità con cui esso circola, quanto dalla massa complessiva dei prezzi. Dall’altro, però: “Il denaro, come mezzo di circolazione è soltanto mezzo di circolazione. L’unica determinatezza che gli è essenziale […] è quella della quantità, della quantità numerica in cui esso circola. […] In quanto esso realizza il prezzo, la sua esistenza materiale come oro e argento è essenziale; ma finché questa realizzazione è soltanto evanescente ed è destinata a sopprimersi, essa è indifferente. È soltanto una parvenza che si tratti di scambiare la merce con oro e argento in quanto merce particolare: una parvenza che svanisce quando il processo è concluso, non appena si scambino di nuovo l’oro e l’argento con la merce, e quindi la merce con la merce”[243]. In questo processo, dunque, il denaro figura soltanto come segno del prezzo[244]. La sostanza materiale del denaro, perciò, “si presenta come accidente il cui significato scompare nell’atto stesso dello scambio”[245]. Il denaro non è più il prezzo, ma la “rappresentazione del prezzo”[246]; di conseguenza, esso, come segno di sé stesso (segno della misura del valore di scambio), può essere sostituito da qualsiasi altro segno[247]. Il denaro, quindi, diviene moneta coniata e banconota (nella prima, la percentuale di metallo nobile è inferiore al prezzo rappresentato; nella seconda, un segno cartaceo viene a rappresentare il prezzo)[248].

La condizione fondamentale della circolazione delle merci è “che esse siano prodotte come valori di scambio – non come valori d’uso immediati”[249]. Perciò: “la produzione non si presenta come fine a se stessa, ma come mezzo”[250]. Questo però caratterizza, nella forma M-D-D-M, un “falso processo all’infinito”[251]. Marx, di seguito, introduce una nuova variabile, che specifica una caratteristica propria di ogni singolo scambio. Lo scambio della merce con la merce viene mediato dal denaro in un apparente ripetersi infinito della produzione; ma, la realizzazione del prezzo della merce significa parimenti, in questo processo sociale, il rischio di non-realizzazione, il rischio di deprezzamento. Nulla garantisce, in realtà, la realizzazione del prezzo della singola merce prodotta dal singolo individuo, isolato, a sé stante. In tal senso, il denaro, tende ad autonomizzarsi come equivalente generale e come fine assoluto, e torna prepotentemente alla ribalta nella sua natura materiale, come metallo nobile ed oro[252].

In questo modo abbiamo quello che Marx definisce il denaro come denaro [das Geld als Geld] (“terza determinazione” [dritte Determination] del denaro[253]): esso si presenta non più come mezzo della circolazione sociale delle merci, ma come scopo dell’intera circolazione[254], come fine generale che muove ogni singolo scambio, perché esso solo fornisce garanzia e potenza sociale ad ogni interesse particolare, con la sua capacità di acquisire ogni forma particolare di ricchezza.

Il denaro, come rappresentante materiale della ricchezza è, da un lato, materia generale dei contratti, dall’altro, materia dell’accumulazione [Ansammeln][255]: l’individualizzazione del concetto di ricchezza nel denaro (l’individualizzazione del valore di scambio)[256] è accumulazione di oro (e argento) – sotterramento di tesori, incetta di pietre e di gioielli preziosi, e via di seguito[257]. Il denaro, diviene tesoro.

4) Dalla circolazione alla produzione. La logica della terza determinazione del denaro la spinge oltre se stessa come pura e semplice determinazione del denaro, ed implica una concettualizzazione più profonda del processo economico della società. Infatti, secondo Marx, se nella sua terza determinazione il denaro viene ad essere posto come fine del processo della circolazione, tuttavia esso si viene anche a configurare come “perpetuum mobile”[258]. Se, in altri termini, il processo di circolazione si sintetizza nel cerchio D-M-M-D, questo schema, tuttavia, risulta “una pura astrazione arbitraria ed insensata, quasi che si volesse descrivere il ciclo della vita: morte – vita – morte […]”[259]. Nel processo complessivo della circolazione il denaro rimane essenzialmente invariato, dall’inizio alla fine del suo movimento. Il valore circolante, infatti, se si considera la circolazione di merci nella sua totalità, rimane assolutamente costante e, quindi, l’unica differenza che si pone entro la sfera del denaro, quella quantitativa, non sussiste. Se il denaro circolante rimane identico, tanto al principio quanto al termine del movimento delle merci, come può essere lo scopo della loro circolazione?

Il denaro, autonomizzatosi, tesaurizzato, potrebbe essere fine della circolazione solo se fosse fine a se stesso, se, cioè, avesse un’esistenza autonoma esterna alla circolazione[260]. Ma ciò verrebbe a contraddire la stessa definizione del denaro come rappresentazione materiale del valore di scambio della merce. Al di fuori dello scambio, esso non è nulla. Il paradosso è formulato da Marx, molto esplicitamente, nel quaderno II. Il denaro è la forma generale della ricchezza in una merce particolare (l’oro); ma: “Se le altre ricchezze non si accumulano, esso stesso perde il suo valore nella misura in cui si accumula” [261]. In primo luogo, complessivamente, quello “che figura come suo aumento è in realtà la sua diminuzione” [262]. Il valore relativo del denaro, rispetto alle altre merci, infatti, diminuisce o aumenta a seconda della produttività relativa del lavoro che lo crea; se rispetto agli altri lavori aumenta, in modo relativo, la produttività del lavoro che produce denaro (oro, argento, ecc), allora diminuisce il valore relativo della merce denaro rispetto alle altre merci. L’accumulazione di denaro, dunque, a livello sociale, diventa soltanto un’apparenza dietro la quale non vi è – immediatamente – un aumento del valore complessivo. In secondo luogo, dal punto di vista del singolo: “Se [il denaro] è la ricchezza assoluta, la ricchezza del tutto indipendente dalla mia individualità, nello stesso tempo è l’assoluta insicurezza del tutto esterna a me, che può essere separata da me da qualsiasi evento fortuito”[263]. Perciò il denaro viene sotterrato, nascosto; ma, con ciò stesso, è separato da me per mia stessa opera e, ormai indifferente alla ricchezza reale, sparisce, si annichilisce in quanto denaro. Non soltanto, dunque, socialmente il denaro non può essere scopo della circolazione; ma – conseguentemente –, non riesce ad essere neanche scopo individuale veramente efficace e pregnante per il singolo produttore. Questo scopo, tutt’al più, esiste come degenerazione individuale, come avarizia.

La contraddizione è risolta da Marx attraverso un ‘salto’ teorico ad un diverso livello concettuale. Il denaro, per diventare scopo reale della circolazione sociale complessiva delle merci, e movente generale degli interessi particolari dei singoli produttori, deve essere capace di accrescersi quantitativamente, in quanto valore di scambio. Come? Il denaro, risponde Marx, deve presentarsi “come produzione della ricchezza”[264]; essere capace, cioè, oltre che di rigenerarsi, di accrescersi creando nuova ricchezza; ovverosia, più in generale, il valore di scambio deve determinarsi “come processo” [Prozess] (espansivo ed autorigenerante)[265].

Nella circolazione sociale delle merci, nessun valore si crea – tutt’al più si distrugge. Il denaro, in quest’ambito, complessivamente non può produrre, ma solo rappresentare il valore di scambio già creato nella produzione. Il valore di scambio si origina, in effetti, nella sfera della produzione. Solo saltando dalla sfera della circolazione alla sfera della produzione, perciò, la contraddizione si può risolvere attraverso una superiore determinazione della società. Il denaro, nella sua terza determinazione, per affermarsi pienamente come fine a se stesso, deve uscire infine al di fuori della circolazione ed investire la produzione[266].

La terza determinazione del denaro, secondo una fondamentale espressione usata da Marx, ricalca soltanto la superficie della totalità che è l’attuale società borghese: “Viste nel discorso della scienza, queste determinazioni astratte si presentano appunto come le prime e le più povere […]. Nella totalità dell’attuale società borghese, questo ridurre a prezzi, la loro circolazione, ecc. si presentano come il processo superficiale al fondo del quale si verificano invece ben altri processi nei quali questa apparente uguaglianza e libertà dell’individuo scompare”[267]. La circolazione, come processo a sé stante, è solo il manto esterno del corpo del mondo borghese moderno. Essa descrive in modo compiuto, tutt’al più, solamente il movimento del commercio al dettaglio[268]. Il cuore pulsante della moderna società dello scambio e del denaro, e la spiegazione del paradosso del denaro come fine sociale, invece, sono da cercare nella produzione e nei rapporti di produzione. Lì risiede l’essenza del processo economico-sociale moderno.

L’attività produttiva è il lavoro stesso: esso è la “ricchezza potenziale”[269]. Il valore di scambio ha la sua sostanza nel lavoro, e la sua misura nel tempo di lavoro. Ora, mette in evidenza Marx, con il denaro si può scambiare e comprare anche lavoro[270]. Qui, secondo Marx, risiede la soluzione del paradosso della terza determinazione del denaro. Il denaro è in grado di comprare quello che Marx, affinando via via la propria terminologia, nel corso dei quaderni II e III definisce di seguito: “lavoro come soggettività” (il “lavoro come oggettività” contrapposto al lavoro oggettivato)[271], “lavoro temporalmente presente” (contrapposto al lavoro passato come “lavoro spazialmente presente”)[272], “capacità di lavoro”[273], “sorgente viva del valore”[274], “possibilità generale della ricchezza”[275], “forza produttiva di ricchezza, mezzo o attività di arricchimento”[276], “capacità lavorativa”[277] e, infine, “forza-lavoro”[278].

Il processo di produzione in generale, proprio di ogni situazione sociale, si viene in tal modo ad unire alla circolazione, “che in ciascuno dei suoi momenti, ed ancor più nella sua totalità, è un determinato prodotto storico”[279]. Il processo sociale di produzione che in tal modo si viene a delineare, risulta essere, dal lato formale (relativo la valore di scambio della merce), un processo di “autovalorizzazione”[280]. Il valore della forza-lavoro, infatti, equivale ai valori delle merci che sono indispensabili per riprodurre quella determinata capacità di lavoro e abilità[281]. Ma la peculiarità materiale della forza-lavoro come merce, il carattere essenziale del suo valore d’uso, è di produrre, come lavoro astratto, valore di scambio. Nella misura in cui una certa quantità di denaro riesce ad estorcere, rispetto al lavoro necessario per produrre il valore equivalente della forza-lavoro, un pluslavoro, si determina un plusvalore: il denaro, attraverso uno scambio di equivalenti, si accresce quantitativamente. La circolazione, comprendendo in sé il momento della produzione (trasmutato in produzione di plusvalore), assume la nuova forma: D-M-M*-D*. Con la moltiplicazione del valore, il denaro diviene scopo generale della circolazione e, più in generale, si configura come processo sociale[282]. Con ciò stesso, il denaro diviene capitale.

5) Il capitale. Il capitale è la moltiplicazione del valore (valorizzazione) attraverso la compravendita di forza-lavoro. Come capitale, la circolazione sociale complessiva, pertanto, si rimodella in modo sostanziale: non è più essenzialmente un circolo chiuso fra i due estremi del consumo individuale (che è eliminazione della merce), bensì è una “spirale”[283], un circolo che è parimenti accrescimento progressivo, accumulazione [Akkumulation] di valore di scambio.

Il lavoro, che come valore d’uso è indispensabile alla valorizzazione, una volta sussunto nel processo del capitale, risulta lavoro produttivo solo in quanto è attività creatrice di valori. Sotto il capitale, come sistema economico compiuto e complessivo, nessun altro lavoro può propriamente definirsi “produttivo”[284]. Il lavoro, pertanto, assume la forma di “lavoro puro e semplice, lavoro astratto, assolutamente indifferente ad ogni particolare determinatezza ma capace di ogni determinatezza”[285]. Il lavoro, da un lato, è attività semplicemente formale (dal lato economico, dal lato della sua sussunzione al processo di valorizzazione); dall’altro, tende ad esprimersi nella realtà effettiva del processo sociale nel modo più adeguato a questa sua determinazione formale, e a diventare attività semplicemente materiale, omogenea, continua. Ai fini della valorizzazione, il lavoratore deve spendere “le se sue dosi di energia quanto più è possibile senza interruzioni”[286].

Il valore d’uso ricevuto in cambio del denaro si presenta come un rapporto economico particolare: in questo consiste il carattere distintivo del capitale in generale, ovverosia il carattere che distingue il capitale, ad un livello astratto, dalla merce e dal denaro[287]. Il capitale in generale è una determinazione concettuale astratta e complessiva che, come la merce ed il denaro, vuole abbracciare la società nel suo insieme, la totalità economica della società; tuttavia, il capitale in generale, a differenza delle altre due categorie, ha il suo tratto essenziale nella produzione di plusvalore e sviluppa merce e denaro in questa nuova essenzialità. Il concetto di capitale è espressione di una superiore comprensione della società nel suo processo complessivo. Dietro l’apparenza di interazione fra singoli individui[288], lo scambio fra denaro e merce-lavoro (merce forza-lavoro) contiene una scissione assoluta nella loro attività e determinazione sociale: il valore d’uso dell’attività lavorativa si colloca nell’operaio (lavoro oggettivo); il valore di scambio, all’opposto, nel capitale in senso stretto (lavoro oggettivato). Da un lato, il capitale, come attività finalistica volta all’arricchimento fine a se stesso, si particolarizza nella proprietà dei mezzi di produzione; dall’altro, esso include nel suo processo il lavoratore, il soggetto vivo, come altro da sé, come individuo per definizione del tutto escluso dalla proprietà di mezzi di produzione: capitale e lavoro divengono estremi specificamente diversi[289] della medesima totalità sociale (il capitale in senso ampio; il capitale in generale). In breve, secondo Marx, il capitale concettualmente presuppone, per la sua stessa definizione, la separazione della proprietà dal lavoro, del lavoro oggettivato dal lavoro soggettivo: “La separazione della proprietà dal lavoro si presenta come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro”[290]. Quindi, il modo di produzione capitalistico – che nella visione di Marx il concetto di capitale in generale rispecchia nella sua essenza –, come estorsione generale di plusvalore, si deve basare sullo sfruttamento dei lavoratori, che si deve aggravare ed estendere vieppiù, proprio in proporzione alla crescita della ricchezza sociale.

Secondo Marx le crisi, monetarie o commerciali che appaiano, possono essere spiegate scientificamente solo in relazione a tale concetto generale del meccanismo economico moderno, e quindi in relazione alla struttura essenziale della produzione così come si configura intorno al concetto di plusvalore, nel concetto di capitale in generale[291].

§ 3.2. La dialettica logica del capitale ed il suo dispiegamento storico

Il concetto di capitale vuole rappresentare la società moderna nel suo complesso – definita, nei suoi tratti essenziali, sulla base del modello industriale inglese contemporaneo –, e raffigurarla come totalità. Il concetto del capitale è attuale perché anche le sue prime categorie, i suoi momenti più semplici, sono pienamente sviluppati solo nella società moderna, e presupposti fin da subito come pienamente sviluppati. Dunque, secondo Marx, si tratta di studiare la “totalità dell’attuale società borghese” [Totalität der aktuellen bürgerlischen Gesellschaft][292], e di riassumerla logicamente.

Questa totalità, come afferma Marx in un decisivo passo del II quaderno, è una totalità organica: “Se nel sistema borghese sviluppato ogni rapporto economico presuppone l’altro nella forma economico-borghese, per cui ogni elemento posto è nello stesso tempo presupposto – ciò è tipico di ogni sistema organico”[293]. L’apparato logico capace di riassumere questa totalità organica è fondamentalmente costituito dalla logica hegeliana. Come organismo attuale il capitale è infatti un divenire complesso ed autorigenerante;  quindi, esso deve essere concettualizzato logicamente in termini dialettici, come processo (merce – denaro – capitale).

Ma il capitale è un processo che appare espansivo nel presente, e dotato di una serie di presupposti nel passato. Il capitale, come organismo attuale, ha quindi anche un proprio dispiegamento storico, tanto nel presente che nel passato; è 1) un organismo attuale fondamentalmente compiuto che agisce storicamente al suo esterno e si completa ulteriormente mediante questa azione presente; ma è anche 2) un organismo attuale le cui forme embrionali hanno agito nel passato, con più o meno successo, con o senza esiti duraturi, prima che esso potesse raggiungere la sua compiutezza. Il capitale ha una propria storia, un proprio sviluppo organico germinale.

Da un lato, il capitale, abbraccia le due determinazioni fondamentali di merce e denaro che lo precedono logicamente in una totalità attuale. Esso, in atto come processo, è entrambi i momenti, che si succedono nel suo incessante mutamento di forma: “[…] il capitale diventa alternativamente merce e denaro; ma 1) esso è l’alternanza stessa di queste due determinazioni; 2) esso diventa merce; ma non questa o quella merce, bensì una totalità di merci”[294]. Il capitale, perciò, è una totalità che si rigenera incessantemente come merce e come denaro. È una totalità vitale, organica.

Dall’altro lato, non soltanto, alla natura interna del capitale in quanto totalità corrisponde una sua tendenza espansiva all’esterno – una tendenza storica a diventare effettivamente una totalità sociale, ad inglobare le realtà economiche esterne nel proprio processo; ma anche, il capitale ha un proprio dispiegamento storico nel passato, una propria storia specifica. Il passo della parte conclusiva del quaderno II che abbiamo già indicato come decisivo nella nostra interpretazione dell’organicismo maxiano, si conclude in tal senso in modo inequivocabile: “Se nel sistema borghese sviluppato ogni rapporto economico presuppone l’altro nella forma economico-borghese, per cui ogni elemento posto è nello stesso tempo presupposto – ciò è tipico di ogni sistema organico. Questo sistema organico stesso come totalità ha i suoi presupposti, e il suo sviluppo a totalità consiste appunto nel subordinare a sé tutti gli elementi della società, o di ricavare da essa gli organi che ancora gli mancano. In tal modo esso diventa totalità storicamente. Il divenire siffatta totalità costituisce un momento del suo processo, del suo sviluppo”[295].

Le categorie semplici del capitale appaiono nella loro forma veramente pura, e si concatenano in modo conseguente, solo e necessariamente con l’avvento della moderna società industriale. La totalità organica del capitale, d’altro canto, si dispiega storicamente, nel senso che le sue categorie più semplici compaiono, al di fuori di essa, in altre situazioni sociali. Proprio le categorie più semplici del capitale perciò compaiono, nella sua storia propria, effettivamente prima di quelle più complesse, perché esse sono le più astratte e quindi, almeno in parte, le più generiche. Dunque, il processo organico del capitale sintetizzato logicamente è fondamentalmente attuale ma, al contempo, capace nella sua logica di fare riferimento ai suoi primi germi storici, che altro non sono che le forme primitive dei suoi elementi strutturali più semplici.

La logica fondamentale che allaccia le categorie di merce, denaro e capitale (e la relativa adozione da parte di Marx degli schemi dialettici hegeliani) deve essere riesaminata, nel peculiare intreccio della logica della merce e del denaro con la loro storia, secondo questo concetto di attualità organica, fondamentalmente di marca hegeliana e più precisamente mutuato dalle Grundlinien.

1) Merce e denaro. Marx concorda con Smith nell’affermare che, storicamente, il denaro è dapprima “l’oggetto più universale della domanda e dell’offerta, e che possiede un valore d’uso particolare, – per esempio, sale, pelli, bestiame, schiavi”[296]. Il denaro, dunque, è il prodotto dell’intensificazione dello scambio, ed inizialmente è esso stesso una merce determinata in quanto tale. In modo particolare, in un secondo momento, esso tende ad essere rappresentato dai metalli, che agli esordi dello sviluppo delle forze produttive sono “i primi e più indispensabili strumenti di produzione”[297].

In una fase successiva infine, scrive Marx, si ha “il fenomeno esattamente inverso”: diventa denaro la merce che è meno immediatamente consumabile per soddisfare i bisogni dell’individuo o per produrre. Tale merce, prosegue Marx, “risponde al bisogno di scambio in quanto tale. Nel primo caso la merce diventa denaro in ragione del suo particolare valore d’uso; nel secondo caso essa riceve il suo particolare valore s’uso dal fatto di servire come denaro”[298]. Non più i metalli, ma solo i metalli nobili, ora, sono denaro. Le particolari caratteristiche fisiche dei metalli nobili, ed in particolare dell’oro, a questo superiore livello, gli consentono di rappresentare la ricchezza nella sua forma più universale.

Le determinazioni del capitale (merce e denaro), dunque, nella loro successione logica rappresentano parimenti il divenire storico del valore di scambio. Ma anche la prima determinazione del denaro (misura dei valori), secondo Marx, ha un significato storico essenziale nella sua stessa priorità logica. Questa determinazione logica del denaro corrisponde allo stadio del baratto, come prima fase storica dello scambio. Nel baratto, infatti, il denaro appare effettivamente “[…] ancora più nella sua determinazione di misura che come reale strumento di scambio. A questo livello la misura può essere ancora puramente immaginaria”[299]. Alcune pagine dopo, tornando sullo stesso tema, Marx aggiunge: “Tutto ciò presuppone una generale povertà degli scambi; presuppone, cioè, che le merci non siano sviluppate come valori di scambio, e quindi nemmeno come merci”[300].

Ma questo divenire storico, questa storia del valore di scambio che si compendia nella successione delle prime determinazioni logiche di merce e denaro, non coincide direttamente con il divenire storico della società come tale, ma solo con il divenire organico del valore di scambio, con la tendenza immanente ai germi del capitale: uno sviluppo caratteristico e connaturato a questi germi, che non coincide con una necessità storica complessiva, né esprime in alcun modo una legge eterna della società.

In primo luogo, la prima forma storica dello scambio, secondo Marx, è lo scambio di eccedenze fra stirpi e popoli diversi[301]; lo scambio ed il valore di scambio, dunque, si sviluppano ai margini dei modi di produzione arcaici, come pure appendici della loro struttura e del loro divenire storico.

In secondo luogo, la merce ed il suo valore di scambio in questa situazione storica della società non possono essere ancora rappresentati in categorie economiche pure. La determinazione astratta della merce nel valore di scambio come lavoro socialmente necessario oggettivato, infatti, corrisponde veramente ad una realtà sociale solo con l’avvento della moderna società industriale: “Una sviluppata determinazione dei prezzi presuppone che il singolo non produca direttamente il suo fabbisogno, ma che invece il suo prodotto immediato sia un valore di scambio, e cioè debba essere anzitutto mediato da un processo sociale per poter diventare suo mezzi di sussistenza”. Questo pieno sviluppo del valore di scambio, come afferma esplicitamente Marx nel prosieguo del passo ora citato, è “la base della moderna società industriale”[302].

Quindi, il valore di scambio esiste inizialmente solo come valore di scambio in potenza, come primo germe del valore di scambio, ed il suo sviluppo non è di per sé una necessità della società, ma piuttosto uno sviluppo logicamente necessario, una tendenza organica specifica di questo embrione verso la sua forma compiuta (il valore di scambio moderno, il capitale): una tendenza storica di una forma specifica, prodotto della sua logica immanente.

2) Le tre determinazioni del denaro. Nel baratto il valore di scambio si presenta solo in sé, come determinazione supplementare della produzione e del valore d’uso della merce[303]. Solo con un successivo intensificarsi degli scambi, si rende necessaria la reale trasformazione della merce in valore di scambio, ed il denaro, come mezzo di scambio, viene a determinare il prezzo.

Se lo scambio prosegue oltre il baratto, scrive Marx, se diventa “un atto continuativo che contiene in se stesso i mezzi del suo continuo rinnovarsi, allora subentra gradualmente […] la regolazione dello scambio reciproco mediante la regolazione della reciproca produzione, e allora i costi di produzione, che infine si risolvono tutti in tempo di lavoro” diventano “la misura dello scambio”[304]. Si deve notare, pertanto, come la seconda determinazione del denaro (mezzo di scambio), da un lato, succeda cronologicamente (in seguito all’intensificarsi degli scambi) alla sua prima determinazione (misura dei valori), dall’altro, costituisca il primo presupposto della piena realizzazione della stessa.

La terza determinazione del denaro è implicita nella determinazione dei prezzi e, storicamente, le è successiva.

Molto in generale, Marx connette lo sviluppo della terza determinazione del denaro allo sviluppo più avanzato della divisione del lavoro. Da una parte, “quanto più i prodotti si specificano, si differenziano e perdono autonomia, tanto più diventa necessario un mezzo di scambio universale”; la divisione del lavoro, quindi, porta allo sviluppo del denaro come mezzo di scambio. Dall’altra, lo scambio si scinde in compera e vendita come atti separati (mediati dal denaro come mezzo di scambio e dal ceto mercantile come classe particolare); allora: “La scissione di compera e vendita dà la possibilità che io compri soltanto, senza vendere (accaparramento delle merci), oppure venda soltanto, senza comprare. Essa rende possibile la speculazione. Fa dello scambio un negozio particolare, ossia rende possibile il ceto mercantile”[305].

Più concretamente, Marx identifica il passaggio dal mezzo di scambio alla terza determinazione del denaro, con il passaggio storico dall’età feudale a quella moderna: “Di qui i lamenti di Boisguilbert, per esempio, sul denaro che è carnefice di tutte le cose, il Moloch a cui tutto va sacrificato, il despota delle merci. Nell’età della nascente monarchia assoluta, con la sua trasformazione di tutte le imposte in imposte pecuniarie, il denaro figura effettivamente come il Moloch a cui viene sacrificata la ricchezza reale […]. Da schiavo del commercio dice Boisguilbert, il denaro ne è divenuto il despota […]. Il lamento sul denaro come commercio non legittimo lo troviamo in alcuni scrittori che rappresentano il trapasso dall’età feudale all’età moderna […]”[306].

Questa terza determinazione del denaro, però, non segna solamente il passaggio alla società moderna, ma si ripresenta nella stessa società moderna, rivelandosi come tratto essenziale della logica economica attuale. In primo luogo, come segnala Marx nel medesimo brano ora citato, il denaro come denaro, nella sua materialità metallica, si impone come determinazione fondamentale in tutti i casi di panico monetario. In secondo luogo, nella società moderna, la dialettica fra la determinazione del denaro come mezzo di circolazione e quella del denaro come denaro, assume una nuova rilevanza. I due momenti, infatti, diventano determinazioni sincroniche, momenti del movimento economico moderno nella sua articolazione spaziale. La seconda determinazione del denaro, nel suo pieno sviluppo, ha un carattere propriamente nazionale, come moneta coniata e banconota. La terza determinazione del denaro, invece, costituisce l’effettiva moneta mondiale[307].

La stessa successione storica dal denaro come mezzo di scambio al denaro come denaro, anzi, si rivela logicamente subordinata alla pienezza attuale della terza determinazione. La comparsa storica del denaro come denaro prima della sua determinazione come misura o di quella come mezzo di scambio è, secondo Marx, possibile: il denaro “[…] può comparire come mezzo di scambio prima di essere posto come misura [...], così come può anche presentarsi storicamente nella terza determinazione prima di essere posto nelle due precedenti”[308]. Quello che invece è imprescindibile, che è connaturato allo sviluppo organico del valore di scambio, è che la terza determinazione nella sua pienezza abbia come antecedenti storici le prime due determinazioni: “[…] come denaro oro e argento possono essere accumulati soltanto se già esistono in una delle due determinazioni, e nella terza determinazione esso può presentarsi ad un livello sviluppato soltanto se è sviluppato nelle due precedenti. La sua accumulazione altrimenti è soltanto accumulazione di oro ed argento, non di denaro”[309]. La comparsa storica accidentale di un elemento, quindi, è distinta dalla sua esistenza come determinazione economica, essenziale, di un sistema organico attuale, e lo sviluppo che precede l’organismo attuale come suo sviluppo storico è solo per sé stesso necessario come fine immanente dell’organismo determinato. In questo senso, eminentemente logico e attuale: “La terza determinazione del denaro nel suo sviluppo completo presuppone le prime due e ne costituisce l’unità”[310].

3) Dalla terza determinazione del denaro al capitale. Dal canto suo, il denaro come denaro contiene già, implicitamente, la determinazione di capitale: “In questa determinatezza è già acquisita, in maniera latente, la sua determinazione di capitale”[311]. Questa implicazione attuale dal denaro al captale, come i precedenti passaggi nello sviluppo organico del valore di scambio, ha anche un significato storico.

In primo luogo, il denaro come denaro è un portato storico del commercio. Il denaro, secondo Marx, “è il primo concetto del capitale e la sua prima forma fenomenica”[312], perché “il capitale come capitale commerciale”[313] rappresenta già, storicamente in atto, il processo D – M – M – D. Esiste infatti una tendenza storica ‘civilizzatrice’ del commercio, una sua tendenza spontanea e reale a tramutarsi in capitale. Il commercio si sviluppa fra e all’interno di popoli per i quali il valore di scambio non è ancora diventato un presupposto della produzione. Il commercio sempre più continuativo e la comparsa dei mercanti spingono progressivamente la produzione a conformarsi al valore di scambio, e a diventare in modo sempre più importante attività creatrice di valore di scambio. Con il commercio estero, infatti: “la sfera de bisogni si allarga; lo scopo è la soddisfazione di nuovi bisogni, e perciò una maggiore regolarità e aumento della produzione. […] È ciò che si chiama azione civilizzatrice del commercio estero”[314]. La logica intrinseca del valore di scambio, dunque, agisce storicamente in modo estremamente potente nel porre i primi presupposti del capitale. Adottata questa prospettiva storica di origine smithiana in merito allo sviluppo storico del commercio, Marx conclude: “Ciò significa, in altre parole, che lo scambio non si arrestò alla creazione formale di valori di scambio, bensì procedette necessariamente a subordinare la produzione stessa al valore di scambio”[315]. Anche storicamente, dunque, il denaro è la prima forma fenomenica del capitale[316].

In secondo luogo, Marx afferma: “Nella semplice determinazione del denaro stesso è implicito che esso può esistere come momento sviluppato della produzione soltanto là dove esiste il lavoro salariato. […] Quale rappresentante materiale della ricchezza il denaro deve essere immediatamente oggetto, scopo e prodotto del lavoro generale; del lavoro di tutti i singoli. Il lavoro deve produrre immediatamente il valore di scambio, ossia il denaro”[317]. Questa definizione si riferisce in modo diretto alla situazione storica presente, della quale individua una caratteristica organica. Ma essa intende parimenti esprimere una tendenza storica (anche se una tendenza soltanto limitata, soltanto parziale, subordinata alla situazione complessiva e alla natura del modo di produzione in cui si colloca, del modo di produzione nel quale può nascere e fiorire, e che essa può sviluppare o annientare insieme a se stessa). Si tratta della tendenza organica del capitale, individuata attraverso lo studio della sua forma moderna. “Il denaro come capitale”, scrive Marx, “è una determinazione del denaro che oltrepassa la sua semplice determinazione di denaro. Può essere considerato una sua realizzazione superiore, così come si può dire che la scimmia si evolve nell’uomo. Allora però la forma inferiore è posta come soggetto predominante su quella superiore”[318]. Nel caso del denaro e del capitale, invece, la forma predominante è quella del capitale. Essa attrae sé, come fine immanente, organico, lo sviluppo del denaro.

L’accumulazione di oro e argento non è ancora accumulazione di capitale. Ma, entro la logica del valore, lo deve diventare. Lo sviluppo del valore di scambio, portato ai suoi livelli più coerenti, mostra che la proprietà privata del prodotto del proprio lavoro deve divenire sistematicamente separazione di lavoro e proprietà[319]. Il valore di scambio deve pervenire, nel suo sviluppo logico, alla duplice forma antitetica di lavoro salariato e capitale[320], e costituirsi attraverso di essa in capitale vero e proprio, in processo di produzione capitalistico. Ma se il lavoro salariato ed il capitale sono forme diverse del valore di scambio, il denaro ne è la reale sostanza comune[321]. Storicamente, il denaro deve tendere ad assolvere a questa funzione organica; teoricamente, deve essere interpretato come potenzialmente sviluppabile in questa funzione. Il denaro in sé contiene, come stadio evolutivo – ontogenetico – superiore del valore di scambio, il lavoro salariato, e storicamente tende a dispiegarsi in tale direzione.

La totalità dell’attuale società borghese è scomposta nei suoi elementi semplici, che compaiono anche in differenti situazioni sociali. La dialettica organica attuale è in certa misura anche storica, perché agisce storicamente come tendenza organica di questi elementi primitivi, di questi frammenti storici. Il sistema economico attuale del capitale attrae a sé lo sviluppo del valore di scambio, perché è il compimento intrinseco della sua logica, la sua interna razionalità fattasi realtà attuale. Ma, il punto di riferimento essenziale delle determinazioni marxiane è sempre e comunque questa società attuale: “Se nella teoria il concetto di valore precede quello di capitale, ma d’altra parte, per il suo sviluppo puro presuppone a sua volta il modo di produzione fondato sul capitale, lo stesso si verifica nella prassi. […] L’esistenza del valore nella sua purezza e generalità presuppone un modo di produzione in cui il singolo prodotto ha cessato di essere tale per i produttori in generale ed ancor più per il singolo lavoratore, e non è nulla se non si realizza attraverso la circolazione”[322].

Secondo Marx: “Nell’ambito del sistema borghese, […] al valore segue immediatamente il capitale”. Ma: “Storicamente, si riscontrano altri sistemi, i quali costituiscono la base materiale dello sviluppo incompleto dei valori”[323]. Questi sistemi storici, a giudizio di Marx, sono sostanzialmente basati sulla proprietà fondiaria e sul valore d’uso. Al contempo generano storicamente, al proprio interno, quelli che saranno i singoli momenti del capitale come processo sociale complessivo: “[…] i singoli momenti di questa determinazione di valore si sviluppano in precedenti livelli del processo di produzione storico della società”[324]. Ma la propria pienezza organica, questi singoli momenti, la possono raggiungere solo come parti del capitale.

Concludendo, la dialettica di U-P-I anima le determinazioni del capitale (merce-denaro-capitale) ed in sottordine del denaro (misura-mezzo-denaro), sia nel carattere organico eminentemente attuale del sistema economico, sia nella vitalità del processo sociale e nel suo divenire presente, sia, infine, nel suo dispiegamento storico specifico come storia particolare distinta dalla storia tout court. Non si tratta di un’assunzione estrinseca dello schema dialettico hegeliano, ma in un’adozione essenziale del modello teorico impiegato da Hegel nelle Grundlinien per descrivere lo Stato come attualità organica in processo.

§ 3.3. La dialettica storica complessiva

La dimensione logica del capitale ed il suo dispiegamento storico-organico come espressione della sua logica interna (lo sviluppo storico tendenziale dei suoi germi nel passato, e lo sviluppo maturo nel presente) si distinguono nettamente, nella loro dialettica di merce – denaro – capitale, dalla storia tout court, che per Marx deve essere interpretata con categorie e leggi altre da quelle del capitale, e deve essere riassunta da un’altra dialettica. Il divenire storico della totalità organica del capitale è una storia nella storia generale della società. La storia del valore di scambio, infatti, riveste per lunghissimo tempo un ruolo del tutto marginale nel modo di produzione dato. La società non si sviluppa in modo unilineare, per stadi di uno sviluppo essenzialmente uniforme e cumulativo, fino al capitalismo attuale. Fra i due piani – storico complessivo e logico attuale –, Marx vuole mantenere una distinzione di fondo.

La logica storica complessiva, distinta con chiarezza dalla logica attuale del capitale, già nei primi quattro quaderni dei Grundrisse, è delineata nei suoi tratti essenziali.

La concezione dello sviluppo storico dei Grundrisse, a grandi linee, sembra coincidere con quella fissata nell’Ideologia tedesca. Lo sviluppo delle forze produttive si consolida in agglomerati sociali, in formazioni economico-sociali. Ad un determinato livello di questo sviluppo compare il modo di produzione capitalistico.

Tuttavia, nella visione marxiana dello sviluppo storico dei Grundrisse, ogni formazione sociale ha una sua specificità organica. Del processo storico-sociale complessivo di sviluppo delle forze produttive, Marx non ricostruisce più lo sviluppo graduale, ma solo delle macro-zone storiche, determinate a seconda del tipo generale di relazione dell’individuo con la società cui appartiene. La primo tipo generale di forma sociale è quello in cui dominano i rapporti di dipendenza personale fra gli individui. Questa forma sociale, in qualsiasi sua variante, rimane molto limitata e particolaristica dal punto di vista produttivo. La seconda grande fase storica è quella borghese moderna, caratterizzata come momento dell’indipendenza personale nella dipendenza materiale fondata su un ricambio sociale generale[325]. Infine, secondo Marx, deve subentrare lo stadio della libera individualità sociale, del comunismo[326].

In relazione alla posizione dell’individuo nella società, universale astratto (comunità immediata), particolare astratto (particolarità isolata) e individuale (libera individualità sociale) sono, secondo Marx, i momenti fondamentali del processo storico[327].

1) La diretta e totale sussunzione del singolo alla società costituisce il momento dell’universalità astratta. L’individuo si presenta come accidente della società particolare in cui si colloca. La società è ancora determinata come una comunità ristretta e chiusa in se stessa, cui l’individuo è allacciato da solidissimi vincoli personali. Marx elenca, sotto questa medesima rubrica dell’universalità astratta e immediata (chiusa in se stessa come particolarismo locale o di ceto) comunità primitive, rapporti patriarcali, comunità antiche, rapporti feudali, corporazioni[328]. Ad ogni modo, secondo Marx: “La relazione sociale degli individui tra di loro come potere fattosi autonomo al di sopra degli individui – sia essa rappresentata come forza naturale, come caso o in qualsiasi altra forma – è un risultato necessario del fatto che il punto di partenza non è il libero individuo sociale”[329]. La produttività umana, infatti, a questo livello si sviluppa solo “in ambito ristretto ed in punti isolati”[330]: l’individuo e la società sono vincolati in modo ferreo alla contingenza del rapporto con la natura, e le relazioni reciproche si strutturano in gerarchie rigide (assenza di libertà individuale) e particolaristiche (individuo non sviluppato in forma sociale, ovvero: scarso sviluppo estensivo ed intensivo delle relazioni sociali).

2) L’indipendenza personale nella generale dipendenza materiale dalla società costituisce il momento della particolarità astratta. I primi germi del valore di scambio nascono negli interstizi fra i differenti popoli o nei loro pori interni[331]. Moltiplicati, tali germi maturano nella terza determinazione del denaro, di pari passo con il tramonto delle comunità antiche, alla cui dissoluzione, come auri sacra fames, contribuiscono in larga parte[332]. I primi embrioni di società borghese, però, per il raggiungimento della loro forma matura, presuppongono “il pieno sviluppo dei valori di scambio e quindi un’organizzazione della società ad essi corrispondente”[333]; senza lo sviluppo delle forze produttive essi degenerano e muoiono. La società borghese sviluppata è compiutamente quello che il denaro, come individualizzazione della ricchezza, è solamente in potenza: essa è la relazione sociale tendenzialmente universale fra individui isolati, reciprocamente indifferenti, che si costituisce in potere autonomo. La società borghese è la relazione reciproca fra individui isolati, che ha come suo precipitato l’autonomizzazione della ricchezza sotto forma di una materialità indipendente (il denaro come denaro) e la subordinazione progressiva ad essa dell’intero processo sociale (il valore di scambio come fine generale del processo produttivo).

Nella società borghese sviluppata, l’individuo è presupposto come individuo isolato e la ricchezza generale, come denaro, è “[…] mera astrazione, mera cosa estrinseca, accidentale per il singolo individuo e nello stesso tempo mezzo puro e semplice del suo soddisfacimento in quanto singolo individuo isolato”[334]. La società borghese pertanto, per il ruolo che in essa riveste il denaro, è definita da Marx come epoca della ‘prostituzione generale’[335]. Tuttavia, la società borghese, pur con la particolarizzazione di ogni individuo come atomo sociale a sé stante, sostanzialmente ha una funzione fortemente progressiva: “[…] certamente questo nesso materiale è preferibile alla mancanza di nesso o ad un nesso soltanto locale fondato sui rapporti naturali […]”.[336] La società borghese spezza la limitatezza dei rapporti precedenti, sempre di carattere ristretto, personale o determinato in massima parte dalla natura[337]. Il denaro stesso, come scopo sociale, si rivela un formidabile e necessario mezzo storico per lo sviluppo della “laboriosità generale”[338], per la moltiplicazione delle forze produttive, per l’allargamento della ricchezza all’universalità sociale, per la creazione di un individuo, in potenza, socialmente universale.

La “dipendenza reciproca in forma pura” posta dalla modernità significa parimenti che tutti i rapporti compaiono “come rapporti posti dalla società (non determinati dalla natura)”. Soltanto “per questa via […] diviene possibile l’applicazione della scienza e lo sviluppo integrale della forza produttiva”. Attraverso la società borghese, pertanto, diviene possibile “pensare ad una reale collettività sociale”[339]. Le nuove forze produttive e i nuovi rapporti produttivi, che la società borghese genera[340], e la nuova importanza dei consumatori come agenti della produzione[341] e del lavoratore come persona autonoma[342], pongono i presupposti del passaggio ad un superiore stadio dell’umanità. Il capitale, entro questa logica complessiva ha un grande ruolo storico: quello di creare pluslavoro[343]. Ma in ciò la sua funzione storica è compiuta, ed esso stesso diventa un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. Il lavoro produttivo, entro il capitale, è solo quello che produce plusvalore. Ma la logica del capitale, nella sua specificità, non coincide con quella storica (se non con un suo segmento limitato). Il capitale stesso è “produttivo”[344], entro lo sviluppo storico complessivo, solo nella misura in cui crea pluslavoro. Le crisi che esso ingenera e la moltiplicazione della popolazione operaia che esso implica[345] sono già i primi segnali del suo tramonto.

3) Il comunismo costituisce il momento dell’individualità sociale libera, realmente compiuta, organica. Il comunismo, come terza ed ultima grande fase della storia, è definito da Marx nei seguenti termini: “La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio”[346].

Marx, sulla produzione sociale in genere, scrive: “Presupposta la produzione sociale, rimane naturalmente essenziale la determinazione del tempo. Meno è il tempo di cui la società ha bisogno  per produrre frumento, bestiame ecc., tanto più tempo essa guadagna per altre produzioni, materiali o spirituali. Come per il singolo individuo, così per la società la totalità del suo sviluppo, delle sue fruizioni o della sua attività, dipende dal risparmio di tempo. Economia di tempo – in questo si risolve infine ogni economia”[347].

Il comunismo, come specificazione della produzione sociale, sua piena realizzazione attuale, sua individualizzazione organica, sostituisce la misurazione dei valori di scambio mediante il tempo del lavoro come lavoro astratto con la ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione, ossia con una distribuzione del lavoro sociale più capace di tenere presente oltre alla quantità, la qualità del lavoro (umana ed economica insieme). Nella società borghese la differenza fra i lavori e gli oggetti tende ad essere solo astratta, quantitativa. Nel comunismo, invece, vengono riconosciute anche le differenze e le esigenze qualitative. L’economia pianificata a livello centrale è in grado, secondo Marx, di superare la logica piatta ed astratta dell’accumulazione del capitale e le crisi che ne discendono – andando oltre la fase del predominio della concorrenza fra produttori isolati –, ed attuare scelte produttive più lungimiranti e maggiormente aderenti alle concrete necessità umane – maggiore equilibrio fra le branche produttive, tutela sociale delle qualità di ogni individuo. La società comunista, proprio in tal senso, è capace di basare la produzione sociale sulla libera individualità. Veramente compiuta, tale società è fondata sull’individuo sociale (unione elementare di particolarità soggettiva ed universalità sociale). Cripticamente ma in modo efficacissimo, nella conclusione del passo appena citato, Marx si esprime così: “Come la società deve ripartire il suo tempo in maniera pianificata per conseguire una produzione adeguata ai suoi bisogni complessivi, così l’individuo singolo deve ripartire giustamente il suo tempo di lavoro per procurarsi conoscenze in proporzioni adeguate o per soddisfare alle svariate esigenze della sua attività. Economia di tempo e ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione, rimane dunque la prima legge economica sulla base della produzione sociale. È una legge che vale ad un livello molto più alto. Ciò tuttavia è essenzialmente diverso dalla produzione di valori di scambio (lavori o prodotti del lavoro) mediante il tempo di lavoro. I lavori dei singoli individui nel medesimo ramo di lavoro, e le diverse specie di lavoro, sono non solo quantitativamente ma anche qualitativamente differenti. Che cosa presuppone la differenza soltanto quantitativa di oggetti? La loro identità qualitativa. Dunque la misurazione quantitativa dei lavori presuppone la loro uguaglianza d’origine, l’identità della loro qualità”[348]. Ma questa identità della qualità del lavoro, che è un risultato storico fondamentale sul quale si appoggia anche il comunismo, nella società attuale è troppo astratta. Hegelianamente, il comunismo di Marx deve costituirsi come identità fra i diversi lavori che ne salvaguardi parimenti le differenze.

Dunque, anche la serie complessiva delle epoche storiche delineata nei Grundrisse segue lo schema di U-P-I. Lungi dall’essere un espediente espositivo od un piacevole gioco retorico, il recupero di questa dialettica storica comporta una vera e propria rielaborazione del materialismo storico.

Ogni formazione economico-sociale, secondo la visione che abbiamo riassunto, ha una sua logica peculiare, che non può essere immediatamente ridotta a quella della storia in generale. I modi di produzione particolari, del passato e del presente, non possono essere inanellati in una serie, ma tutt’al più incasellati in ‘macrozone storiche’, delle quali Marx fornisce delle definizioni estremamente generali. Il comunismo, come termine ultimo dello sviluppo storico complessivo – ed in sottordine il capitale come fase intermedia già universale – sono semplicemente la direzione necessaria verso cui muove lo sviluppo storico, che però sembra potersi caratterizzare in maniera multilineare. In ciò Marx, non soltanto impiega il classico schema hegeliano di U-P-I ma assume anche, in gran parte, il significato peculiare che tale schema riveste nella dialettica della filosofia della storia, così come essa è delineata nelle Vorlesungen.

La concezione multilineare-unidirezionale hegeliana riadattata in termini materialistici, si adatta indubbiamente a molteplici esigenze della teoria marxiana. Se lo sviluppo storico delle forze produttive è parimenti una loro differenziazione, e non coincide se non in modo provvisorio con la logica particolare di nessuno dei sistemi sociali, storicamente dati, allora la logica della moderna società borghese non è in nessun modo eterna o naturale. Inoltre, se il divenire storico non è unilineare, e se neanche esso è uniforme ma è segmentato dai modi di produzione come da organismi specifici, il passaggio da un sistema organico ad un altro e dalla società borghese al comunismo, come tale, consiste in un salto da un organismo ad un altro e, dunque, in una rottura violenta del primo. Nel caso della società borghese questa rottura violenta è identificata con l’azione rivoluzionaria della classe operaia emergente.

§ 4. La rielaborazione dialettica del materialismo storico

Nei Grundrisse Marx recupera ampiamente la dialettica di U-P-I contenuta nelle Grundlinien e nelle Vorlesungen di Hegel. Questa dialettica, nei Grundrisse, lungi dall’essere un mero strumento espositivo, rappresenta invece una rielaborazione dialettica complessiva della concezione materialistica della storia.

La dialettica di U-P-I compare, nei primi quattro quaderni, in una duplice veste.

1) Da un lato, la dialettica di U-P-I sottesa alla successione merce – denaro – capitale costituisce, in senso propriamente hegeliano, il concetto di capitale. La merce è la forma universale della ricchezza sociale, ancora elementare ed astratta come cellula del processo economico. Il denaro è l’identificazione della ricchezza sociale in una merce particolare, e la sua circolazione effettiva fra estremi isolati. Il capitale, infine, individua il processo sociale complessivo della produzione e circolazione delle merci, che racchiude al suo interno, come totalità organica, l’universalità e la particolarità dei momenti precedenti. Il denaro, inoltre, come momento di questa dialettica che media reciprocamente merce e capitale, si articola organicamente secondo il medesimo schema generale U-P-I. Nel denaro come misura, si ha la determinazione universale ed astratta – rappresentazione sociale ma solamente ideale – del valore di scambio della merce. Nel denaro come mezzo di scambio, si ha particolarizzazione della misura astratta del valore in un segno (mero strumento le cui caratteristiche sono idonee a garantire e favorire la circolazione delle merci. Nel denaro come denaro, infine, l’universale del valore si pone nella realtà – non solo nella rappresentazione sociale, ma nella circolazione reale delle merci – e, quindi, si individua in una merce particolare lo scopo universale dello scambio.

2) Dall’altro lato, in una serie piuttosto considerevole di passi dei quaderni I-IV, la dialettica U-P-I rispecchia i momenti essenziali della trasformazione della società umana nell’intero corso della storia. Questa seconda dialettica (dialettica storica complessiva), si distingue decisamente dalla prima (dialettica organica del capitale). La totalità organica del capitale, infatti, rappresenta solo il secondo momento dialettico (dialettica numero 1) della più ampia dialettica storica della società (dialettica numero 2).

Storicamente si succedono tre grandi fasi: 1) In una prima fase storica, le forze produttive del singolo sono immediatamente forze produttive della società. Il singolo membro è direttamente sussunto alla comunità nel suo insieme, e quindi è immediatamente sociale, universale (comunismo primitivo). 2) Lo sviluppo delle forze produttive, in generale, spezza l’isolamento ed il carattere limitato delle diverse comunità e le articola internamente in modo più complesso. Il secondo momento essenziale della trasformazione storica della società (la moderna società borghese), d’altro canto, rappresenta la particolarizzazione estrema del rapporto individuo-società, e l’isolamento del singolo individuo come tale. 3) Al contempo, però, il moderno sviluppo delle forze produttive pone i presupposti di una nuova universalità dei rapporti sociali. Il terzo e conclusivo momento dello sviluppo storico (il comunismo) – che è contenuto solo in germe nella società attuale, e si compie nel futuro – è la costituzione della libera individualità sociale, come coesione organica della libertà personale del singolo con l’universalità dei rapporti sociali, reciproca identificazione di questi estremi, superamento della loro estraneità.

In Hegel, come abbiamo precedentemente osservato (nel §2 ed in particolare nel §2.3 di questo capitolo), il diritto, la moralità, la famiglia, la società civile e lo Stato costituiscono la totalità organica individuale dello Stato attuale. Lo Stato attuale hegeliano, come fine immanente, ha un’influenza storica universale; tuttavia, nell’intero dispiegamento delle sue categorie (dialettica organica di U-P-I – dialettica numero 1), esso rimane solamente il momento conclusivo del corso storico complessivo. Quest’ultimo si modella anch’esso secondo lo schema U-P-I (dialettica numero 2); tuttavia, questa dialettica storica coincide solo nel suo termine ultimo con quella dello Stato attuale. Essa, come logica della storia, segue delle leggi diverse e, in generale, è più soggetta all’accidentalità e conflittuale. In ogni caso, la dialettica storica non è unilineare, bensì unidirezionale; Hegel individua la direzione necessaria verso cui muove a grandi linee la storia degli Stati, che dà un senso alla storia, ma non pretende di descrivere in modo uniforme gli Stati, ne di tracciare una storia unilineare dello Stato in cui gli Stati figurino come stadi di un unicum in sviluppo.

Nei Grundrisse troviamo la stessa dialettica U-P-I, ma soprattutto la stessa duplice valenza, attuale e storica, che tale dialettica assume nella descrizione hegeliana dello Stato. Lo Stato, come totalità attuale, è sostituito da Marx con la società civile, e più specificamente con la dimensione economica della società civile; il sistema dei bisogni come momento subordinato all’eticità è sostituito con lo sviluppo dei bisogni come costante movimento della produzione che fondamentalmente determina il divenire sociale; ma nei Grundrisse merce, denaro e capitale costituiscono, hegelianamente, il sistema organico della totalità che è attuale, e si articolano secondo la dialettica di U-P-I.

Questa dialettica logica organicistica (del capitale) non è, come in Hegel (dialettica attuale dello Stato), il momento conclusivo, individuale, della dialettica storica; la dialettica del presente individua, al contrario, il momento intermedio, transitorio, dello sviluppo storico tout court, che ha invece il proprio termine ultimo nel comunismo. Il senso (la chiusura razionale) della storia, e la ricostituzione organica della società nella sua forma più perfetta, non si pongono nel presente, come in Hegel, ma nel futuro. Eppure, come in Hegel, la dialettica storica di U-P-I è nei Grundrisse nettamente distinta dalla dialettica attuale. La scienza della società attuale, pertanto, non coincide con la scienza storica: il loro oggetto è differente non soltanto nel tempo, ma nella sostanza.

Il fondamento di questa distinzione marxiana fra scienza e storia non è un risultato puro e semplice della ‘strumentazione’ logica hegeliana, se non nella misura in cui questa strumentazione dialettica implica di fatto una certa prospettiva storica. Nella misura in Grundrisse recuperano la doppia dialettica di U-P-I adoperata da Hegel per descrivere lo Stato – gli Stati, con ciò stesso presuppongono una rielaborazione dialettica del materialismo storico. La storia, nella concezione delineata nei Grundrisse, è sì sviluppo delle forze produttive della società, ma non più sviluppo cumulativo e lineare (come essa appariva, sotto l’evidente influenza di Smith, nell’Ideologia tedesca); al contrario, la storia è intimamente disorganica e violenta, e non è incanalata in un’unica e rassicurante ‘conduttura’ ascendente, rispetto alla quale sia sempre possibile constatare livelli e stadi. La concezione marxiana della storia con i Grundrisse si fa multilineare ed il senso della storia viene a risiedere solo nel suo orientamento complessivo (nel comunismo come termine ultimo e necessario del divenire sociale)[349]. Lo scopo principale della rielaborazione dialettica del materialismo storico (l’intento da cui essa, nella Einleitung, si origina) sembra assolto brillantemente: le leggi del capitale non sono il termine ultimo della storia (Ideologia tedesca), né valgono intrinsecamente per tutti gli stadi storici precedenti. Contro Smith, lo sviluppo del valore di scambio non costituisce più l’essenza di ogni società (e di ogni società del passato) e, quindi, le leggi del capitale non sono né naturali, né eterne ed immutabili.

NOTE


[1] Vigodskij, Introduzione ai Grundrisse di Marx, La nuova Italia, Firenze, 1974.

[2] Cfr. anche Mehring, Vita di Marx, Editori riuniti, Roma, 1976, p. 190 sgg. e Draper (a cura di), The Marx-Engels Chronicle, vol. I, Schocken books, New York, 1985, p. 46.

[3] Cfr. Vigodskij, op cit., p. 11.

[4] Cfr. ivi, p. 9 e Marx-Engels Chronicle, cit., p. 26.

[5] Cfr. Vigodskij, op. cit. p. 33.

[6] Secondo la teoria quantitativa del denaro non sono i prezzi delle merci che regolano la quantità del denaro in circolazione, ma è quest’ultima che viceversa regola i prezzi, e con essi la bilancia commerciale e il corso dei cambi. Sul tema cfr. Ricardo, Opere, vol. I, cit., pp. 476-500, e Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., pp. 148-158.

[7] Secondo Vigodskij, dunque, Marx avvierebbe la propria ricerca da quello che appare il punto di arrivo della trattazione del Capitale (II, III, e IV libro), dalla realtà “superficiale” di rapporti di produzione. Cfr. Vigodskij, op. cit., pp. 31-45.

[8] Cfr. Vigodskij, op. cit., p. 43. Dopo il materialismo storico, la teoria del valore e del plusvalore sarebbe la seconda grande scoperta di Marx.

[9] Vigodskij, Introduzione ai Grundrisse, op. cit., p. 71.

[10] ivi, p. 74. Rispetto all’affermazione di Marx in merito ai suoi studi preliminari contenuta nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale (cfr. Marx, Il Capitale, vol. I, Avanzini e Torraca, Roma, 1968, p. 16), che cioè nell’indagine egli avrebbe seguito un percorso opposto rispetto a quello dell’esposizione, Vigodskij mette in evidenza come questo, già nei Grundrisse, valga solo per i singoli temi analizzati (merce, denaro e plusvalore nelle loro diverse determinazioni), per le singole tappe della ricerca, che nell’insieme procede invece dall’astratto al concreto. Dunque, già negli anni 1857-1858, la concezione economica marxiana sarebbe espressa nei suoi fondamenti attraverso uno schema generale in buona parte definitivo (cfr. Vigodskij, op. cit., p. 17).

[11] Cfr. Vigodskij, op. cit. pp. 43-44.

[12] Anche se, secondo Vigodskij, solo nelle Theorien über den Mehrwert si avrebbe il compimento tematico ed espositivo della teoria economica marxiana. In effetti, a parere di Vigodskij, l’indagine avviata nei Grundrisse, benché avesse fissato dei punti definitivi ed essenziali, e delineato nei suoi aspetti basilari il percorso dell’intera trattazione, non era affatto conclusa. In generale restava ancora irrisolta la necessità di stabilire una connessione fra la categoria di plusvalore e quelle di profitto, profitto medio, interesse rendita fondiaria; fra valore e valore di mercato, e fra valore di mercato e prezzo di produzione. Si trattava dunque di procedere dalle categorie interne alle loro forme modificate. In particolare nei Grundrisse non era compiutamente elaborata la categoria di profitto, poiché non era ancora espresso il suo principio cardine, così enunciato da Vigodskij: “nel capitalismo non è più il valore, bensì il prezzo di produzione il centro attorno al quale oscillano i prezzi di mercato” (Vigodskij, op. cit., p. 82). Proprio a questi compiti assolve il manoscritto delle Theorien, redatto fra il gennaio del 1862 e il luglio del 1863 (poi conosciuto sotto il nome di quarto libro del Capitale). È solo a partire da questo momento, a parere di Vigodskij, che la concezione economica di Marx è veramente completa. Il terzo libro verrà per lo più tratto da un manoscritto della metà degli anni sessanta; il primo verrà edito dallo stesso Marx nel 1867; il secondo, su cui il lavoro si protrasse a più riprese, sarà costituito in buona parte da appunti stesi negli anni settanta: ma i nodi teorico-economici erano già tutti risolti nel 1863. Proprio l’accento sul ruolo delle Theorien costituisce in realtà il secondo fuoco intorno al quale ruota il saggio dello studioso russo, nella versione italiana non del tutto propriamente intitolato Introduzione ai Grundrisse di Marx (il titolo dell’edizione tedesca del 1965 era: Geschichte einer grossen Entdeckung).

In ogni caso, secondo Vigodskij, vi sarebbe una sostanziale continuità fra i Grundrisse ed il Capitale. Di qui si è originata la tendenza ad utilizzare il testo economico di Vigodskij per sottolineare, in ambito filosofico, la persistenza della concezione umanistica dello sviluppo storico e sociale come processo di liberazione (concezione mutuata da Hegel ed evidente nei Grundrisse) in tutto il pensiero e l’opera di Marx – Capitale incluso. Non a caso il libro di Vigodskij è direttamente e più volte chiamato in causa in alcune delle più significative rivisitazioni storico-filosofiche dell’opera marxiana che ne sottolineano la matrice hegeliana, collocandosi o risentendo dell’influenza del cosiddetto marxismo umanistico o hegelo-marxismo. Cfr. per es. Reichelt, La struttura logica del concetto di capitale in Marx, De Donato, Bari, 1973, ed in Italia, fra gli altri, Papi, Sulla memoria filosofica in Marx, cit., (in particolare vedi p. 233).

[13] Cazzaniga, Marx e l’idea di progresso, in id. (a cura di), Marx ed i suoi critici, Quattro venti, Urbino, 1981, p. 58.

[14] ivi, pp. 60-61. In proposito cfr. anche Papi, Sulla memoria filosofica in Marx, cit., p. 228.

[15] Cazzaniga, in verità, rileva l’influenza scozzese come una delle influenze fondamentali sull’Ideologia tedesca, cui si affiancherebbe parimenti “una persistente influenza del pensiero hegeliano” (Cazzaniga, op. cit., p. 61) in relazione alla centralità rivestita dall’emergere dello Stato e delle sue istituzioni politiche nella costruzione marx-engelsiana. Ma l’emergere dello Stato è in realtà assolutamente centrale anche in Smith. È proprio la spiegazione smithiana delle istituzioni giuridiche e statali in relazione allo sviluppo storico della divisione del lavoro, anzi, a condizionare in modo inequivocabile il testo marx-engelsiano. L’influenza hegeliana nell’Ideologia tedesca è in prevalenza ‘negativa’: le tesi hegeliane sono il termine di riferimento ‘falso’, costituiscono la teoria che deve essere smentita. Non a caso, pertanto, Cazzaniga nel suo studio stenta a riconoscere in modo ben definito la peculiarità dei Grundrisse e del relativo recupero della dialettica hegeliana – perché non individua con sufficiente chiarezza nell’influenza smithiana il carattere peculiare dell’Ideologia tedesca.

[16] R. d. nazioni, I, I, p. 67. Cfr. anche l’inizio del I libro: “La causa principale del progresso delle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell’arte, della destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro” (ivi, I, I, p. 66). Lo stesso sviluppo dell’industria è collocato da Smith entro questo processo di sviluppo della divisione del lavoro. La manifattura, con l’impiego sempre più ampio di macchinari, segna un decisivo progresso sull’agricoltura, appunto perché si svincola dalle rigide scadenze periodiche dei lavori connesse al succedersi delle stagioni, e consente quindi una specializzazione ben maggiore (cfr. ivi, I, I, p. 67).

[17] Cfr. R. d. nazioni, I, III, pp. 74-77.

[18] “Non appena la divisione del lavoro si è generalmente consolidata, soltanto una piccolissima parte dei bisogni di un uomo può essere soddisfatta col prodotto del suo personale lavoro”R. d. nazioni, I, IV, p. 78.

[19] R. d. nazioni, I, IV, pp. 78-81.

[20] Nella sua Teoria dei sentimenti morali (1759), Smith aveva fondato la morale e, più in generale, la stessa possibilità delle relazioni umane, sull’agire naturale del sentimento di simpatia, in quanto processo individuale spontaneo e universale di immedesimazione immaginativa ed emozionale con l’altro, di valutazione oggettiva della situazione, e di partecipazione o rifiuto morali. Ora (1776), le relazioni umane su cui si regge, fondamentalmente, l’economia (la divisione del lavoro e lo scambio) sono esse stesse interpretate come risultati storici necessari di una tendenza naturale dell’individuo, spontanea e universale.

[21] Cfr. R. d. nazioni, I, II, p. 72.

[22] “Se poi questa inclinazione [allo scambio] sia uno di quei principi originari della natura umana al di là dei quali non si possono cercare spiegazioni ulteriori, o se invece, come sembra più probabile, essa non sia la conseguenza necessaria delle facoltà della ragione e della parola, è un problema che non riguarda questa ricerca. Quest’inclinazione è comune a tutti gli uomini e non si trova nelle altre razze animali, che sembra ignorino questo come ogni altro tipo di contratto”, R. d. nazioni, I, II, p. 72.

[23] R. d. nazioni, I, IV, p. 81.

[24] R. d. nazioni, I, V, pp. 82-95. Qui bisogna notare di passaggio come, nonostante il lessico simile, le differenze fra Smith e Marx, a livello di teoria economica, siano enormi. E’ sufficiente menzionare il problema del valore: Smith, a differenza di Marx, nel distinguere dal prezzo nominale delle merci (in denaro) il prezzo reale (in lavoro), considera il valore del lavoro impiegato nella produzione di merci e quello del lavoro comandato da quelle stesse merci come misure del tutto equivalenti. Ma, ai nostri fini, interessa quasi esclusivamente l’aspetto inerente la configurazione del rapporto fra scienza economica della società e concezione della storia. È prevalentemente su questo piano che vogliamo svolgere il confronto fra questo due autori.

[25] Cfr. R. d. nazioni, I, VI, pp. 95-100.

[26] Cfr. R. d. nazioni, I, VII, pp. 100-107.

[27] R. d. nazioni, I, VI, p. 95. Anche e soprattutto a questo passo di Smith sembra riferirsi Marx quando, nella Einleitung, ironizza sulle “robinsonate” del XVIII secolo. Cfr. il capitolo precedente del presente lavoro.

[28] Sebbene anche in Smith, come poi in Marx, solo il lavoro sia la misura del valore, egli scrive: “Salario, profitto e rendita sono le tre fonti originarie di ogni reddito, così come di ogni valore di scambio. Ogni altro reddito è derivato in definitiva dall’una o dall’altra di queste tre fonti” (R. d. nazioni, I, VI, p. 98).

[29] Cfr. R. d. nazioni, I, VI, pp. 95-100. La proprietà privata è tacitamente presupposta come base naturale e risultato necessario del progresso storico: “Non appena i fondi sono accumulati nelle mani di singole persone, alcune di loro li impiegheranno naturalmente nel mettere al lavoro gente operosa, a cui forniranno materiali e mezzi di sussistenza allo scopo di trarre profitto dalla vendita delle loro opere o da ciò che il loro lavoro aggiunge al valore dei materiali” (R. d. nazioni, I, VI, pp. 95-96); e poco dopo: “Non appena la terra di un paese diventa tutta proprietà privata, i proprietari della terra, come tutti gli altri uomini, amano mietere dove non hanno seminato ed esigono una rendita anche per il suo prodotto naturale” (R. d. nazioni, I, VI, p. 97).

[30] R. d. nazioni, II, III, p. 312.

[31] Cfr. R. d. nazioni, II, III, p. 313. Il principio valido per i singoli, in verità, non è immediatamente tale per le nazioni. Lo Stato ed in generale il potere solitamente sono gestiti per lo più da persone non soltanto improduttive, ma dedite allo sperpero delle ricchezze della nazione: “Tali sono le persone che compongono una corte numerosa e splendida, una grande istituzione ecclesiastica, le grandi flotte e i grandi eserciti, che in tempo di pace non producono niente, ed in tempo di guerra non procurano niente che possa coprire la spesa del loro mantenimento, neanche per la durata della guerra. Tali persone, poiché esse stesse non producono nulla, sono tutte mantenute dal prodotto del lavoro di altri uomini. Quando perciò si moltiplicano in modo eccessivo, esse possono consumare, in un certo anno, una quota così grande del prodotto di quell’anno da non lasciarne abbastanza per il mantenimento dei lavoratori produttivi che dovrebbero riprodurla l’anno successivo” (R. d. nazioni, II, III, p. 313). Ma il potere in ultima istanza, secondo Smith, non può reggersi sugli appetiti individuali, pena l’impoverimento o la stagnazione collettivi; una ragionevole parsimonia è quindi assolutamente necessaria per garantire tanto uno sviluppo della società, quanto la maggiore solidità dello Stato e delle istituzioni. Perciò, la ragione della parsimonia, storicamente, si impone necessariamente sugli appetiti umani, perché la parsimonia è la tendenza effettiva che corrisponde al sentimento dei più: “[…] sebbene le grandi spese del governo debbano senza dubbio aver ritardato il naturale cammino dell’Inghilterra verso la ricchezza e il progresso, esse non hanno però potuto arrestarlo. […] In mezzo a tutte le esazioni del governo, questo capitale è stato silenziosamente e gradualmente accumulato dalla parsimonia e dalla buona gestione dei singoli privati, dal loro generale, continuo e ininterrotto sforzo per migliorare la propria condizione. È questo sforzo, che la legge protegge e al quale la libertà consente di essere compiuto nel modo più vantaggioso, che ha sostenuto il cammino dell’Inghilterra verso la prosperità e il progresso in quasi tutti i tempi passati e che continuerà a farlo, com’è lecito sperare, nei tempi futuri” (R. d. nazioni, II, III, p. 316).

[32] Cfr. R. d. nazioni, I, VII, pp. 105-107, con particolare riguardo alla determinazione del prezzo dei salari, cui è dedicato il capitolo.

[33] Cfr. R. d. nazioni, II, V, pp. 332-338.

[34] R. d. nazioni, III, I, p. 342. Le istituzioni, e l’intervento violento degli apparati statali e militari, possono solo turbare il corso naturale dello sviluppo: “Se le istituzioni umane non avessero mai ostacolato queste inclinazioni naturali, le città non si sarebbero potute accrescere in nessun luogo oltre il limite che il miglioramento e la coltivazione del territorio in cui sono situate avrebbe potuto sostenere; almeno fino al momento in cui quel territorio non fosse stato coltivato e migliorato” (R. d. nazioni, III, I, p. 340). Cfr. anche il passo di poco successivo: “[…] se le istituzioni degli uomini non avessero mai disturbato il corso naturale delle cose, lo sviluppo della ricchezza e la crescita delle città sarebbero in ogni società conseguenti e proporzionali al miglioramento e alla coltivazione del territorio e della campagna” (R. d. nazioni, III, I, p. 341).

[35] R. d. nazioni, III, I, p. 342.

[36] “La rapina e la violenza che i barbari esercitarono sugli antichi abitanti, interruppero il commercio tra le città e la campagna”, R. d. nazioni, III, II, p. 342.

[37] Le istituzioni feudali, di origine barbara, imbrigliano per secoli lo sviluppo dell’agricoltura, e calcificano lo sviluppo sociale: successione lineare e primogenitura, inalienabilità  della terra (terra come mezzo di potere e di protezione, che dove rimanere in mano ad un unico capo riconosciuto, il principe); lavoro scarsamente produttivo (servitù della gleba – “schiavitù” – imposta con la violenza), mezzadria (sottrazione violenta dei “fondi” dell'agricoltore e impoverimento della terra), assenza di garanzie giuridiche e di incentivi all’incremento della produzione per il lavoratore agricolo (potere assoluto dei proprietari feudali, di origine militare; prestazioni e tasse gravose, dazi e privilegi imposti per partecipare a fiere e mercati). Cfr. R. d. nazioni, III, II, pp. 342-351.

[38] I re, da principio, concedono alle città una forte autonomia per controbilanciare il potere dei grandi e piccoli signori feudali. Gli artigiani ed i commercianti, da servitori che erano, divengono cittadini di comuni più o meno indipendenti. Nelle città, che a differenza delle campagne non sono esposte a continue violenze e saccheggi a causa della più facile difendibilità, e che possono rifornirsi, attraverso le vie navigabili, da un territorio molto più ampio che non i singoli centri agricoli, è possibile un imponente sviluppo dell’artigianato e del commercio (di trasporto ed estero).

Smith porta come esempio dello sviluppo delle città commerciali in particolare le repubbliche marinare italiane del medioevo, che si basavano particolarmente sul commercio di trasporto. Cfr. R. d. nazioni, III, III, pp. 356-57.

[39] La superstizione e gli interessi privati, congiunti, sostengono quella che viene definita da Smith “la più formidabile coalizione che sia mai stata fondata contro l’autorità e la sicurezza del governo civile, come pure contro la libertà, la ragione e la felicità del genere umano, che possono fiorire solo quando il governo è in grado di proteggerle”: la Chiesa di Roma (cfr. R. d. nazioni, V, I, p. 654).

[40] R. d. nazioni, III, IV, pp. 364-65.

[41] L’andamento lento ma incessante del progresso, come spezza le catene dei rapporti feudali, parimenti scaccia via la superstizione ed il potere ecclesiastico: “I graduali processi delle arti, delle manifatture e del commercio, le stesse cause che distrussero il potere dei grandi baroni, distrussero anche, nella maggior parte d’Europa, tutto il potere temporale del clero” (R. d. nazioni, V, I, p. 655). Con lo sviluppo dello scambio, quindi, viene meno il clientelismo l’elemosina ed i legami d’interesse che uniscono clero e ceti inferiori. Il recupero del proprio prestigio da parte dei sovrani diviene possibile promuove ulteriormente l’arretramento della superstizione.

[42] Cfr. R. d. nazioni, III, IV, pp. 360-370 (capitolo dal titolo: Come il commercio delle città contribuì al progresso).

[43] In ogni epoca storica ed in ogni paese, secondo Smith, le istituzioni e le leggi relative al commercio estero, alla sicurezza dei possessori dei fondi, alla tutela della concorrenza (al contrasto dei monopoli) ed alla non-alterazione dei livelli naturali del saggio d’interesse, possono evitare o creare una stagnazione, indipendentemente dalla ricchezza complessiva del paese (Smith porta l’esempio della Cina, paese ricchissimo eppure sofferente di una grave e prolungata situazione di stagnazione economica e sociale (Cfr. R. d. nazioni, I, IX, pp. 129-130). Solo quando regolano la concorrenza secondo la forma adeguata al contesto dello sviluppo del paese, le leggi hanno, nel lungo periodo, un benefico influsso sullo sviluppo della ricchezza e della produzione.

[44] Le corporazioni ed i regolamenti cittadini, per esempio, tutelano inizialmente la produzione, concentrandola nella città e favorendo la sua difesa da parte dei commercianti e degli artigiani, che ne hanno in mano il governo. Questa legislazione è funzionale allo sviluppo economico, fino a quando la campagna si mantiene in uno stato di arretratezza e barbarie. In seguito ad un processo lungo e contrastato, però: “La diminuzione del profitto nella città spinge i fondi a passare alla campagna, dove, creando una nuova domanda di lavoro agricolo, ne aumentano necessariamente il salario. I fondi, dunque, se così si può dire, si diffondono sopra la superficie della terra e, venendo impiegati in agricoltura, sono in parte restituiti alla campagna, a spese della quale, in gran parte, essi erano stati originariamente accumulati nelle città” (R. d. nazioni, I, X, p. 155). A questo punto, le restrizioni alla concorrenza, che in precedenza proteggevano la produzione cittadina, ostacolano la crescita della ricchezza, e hanno ormai fatto il loro tempo. Infine, ogni limite alla libera concorrenza si manifesta come un intralcio al progresso della produzione e della società. Per questo motivo, sebbene lentamente, viene affermandosi l’universalismo economico e politico della società moderna.

[45] Smith porta come esempi Indostan, Asia, Turchia, Europa feudale. Cfr. R. d. nazioni, II, II, p. 267

[46] I compiti dello Stato, fondamentalmente, sono i seguenti: “primo, il compito di proteggere la società dalla violenza e dall’invasione delle altre società indipendenti; secondo, il compito di proteggere, per quanto è possibile, ogni membro della società dall’ingiustizia o dall’oppressione di ogni altro membro della società stessa, cioè il dovere di stabilire un’esatta giustizia; e, terzo, il compito di erigere e conservare certe opere pubbliche e certe pubbliche istituzioni, la cui edificazione e conservazione non possono mai essere interesse del singolo individuo o di un piccolo numero di individui, dato che il profitto non potrebbe mai rimborsarne il costo a un singolo individuo o d un piccolo numero di individui, anche se può spesso rimborsarlo abbondantemente ad una grande società” (R. d. nazioni, IV, IX, p. 571).

[47] Smith, per esempio, poiché la sicurezza delle banconote è centrale per lo sviluppo della società (cfr. R. d. nazioni, II, II, p. 301), si oppone all’emissione incontrollata da parte delle banche private di biglietti circolanti o al portatore, proponendo alcune regolamentazioni in proposito (cfr. R. d. nazioni, II, II, p. 303). Contestualmente, Smith avanza delle considerazioni di carattere generale: “Senza dubbio, tali regolamentazioni possono essere considerate, sotto un certo aspetto, come una violazione della libertà naturale. Ma un esercizio delle libertà naturali di pochi individui che potrebbe danneggiare la sicurezza dell’intera società è, e deve essere, limitato da tutti i governi, dai più liberi come dai più dispotici. L’obbligo di costruire i muri divisori per impedire il propagarsi degli incendi è una violazione della libertà naturale, esattamente dello stesso genere delle regolamentazioni dell’attività bancaria […]” (R. d. nazioni, II, II, p. 299).

[48] Il crescere del profitto e della rendita significa, infatti, che una quota sempre minore della produzione si risolve nel consumo immediato (cfr. R. d. nazioni, II, III, pp. 304-307). Insieme al profitto ed alla rendita, allora cresce il ceto dei lavoratori improduttivi, che costituiscono la spina dorsale dello sviluppo della civiltà (avvocati, dottori, insegnanti, giornalisti, magistrati, artisti, ecc.). Lo sviluppo del lavoro produttivo, pertanto, coincide con lo sviluppo del lavoro improduttivo e della civiltà (N.B.: 'produttivo' per Smith è il lavoro che produce profitto o rendita. A differenza del Marx dei Grundrisse, però, Smith non distingue in maniera veramente netta la produzione del valore d’uso dalla produzione del valore di scambio, e la produzione del valore da quella del plusvalore. Lavoro produttivo è semplicemente il lavoro che produce un oggetto materiale di nuova utilità e di valore di scambio superiore – rispetto alle componenti iniziali).

[49] Cfr. R. d. nazioni, I, XI, p. 250.

[50] Cfr. R. d. nazioni, I, VIII, p. 109. Il livello naturale del salario deve comunque essere superiore, secondo Smith, a quello della semplice sussistenza individuale del lavoratore: “Un uomo deve sempre vivere del suo lavoro, ed il suo salario deve essere almeno sufficiente a mantenerlo; […] nella maggior parte dei casi deve essere qualcosa di più, altrimenti non potrebbe allevare una famiglia e la razza di questi operai non potrebbe continuare oltre la prima generazione” (ibidem).

[51] R. d. nazioni, I, VIII, p. 110. Poco dopo questo passo Smith aggiunge: “Non è la grandezza assoluta della ricchezza nazionale, ma il suo aumento continuo che dà luogo ad un aumento dei salari del lavoro” (R. d. nazioni, I, VIII, p. 111).

[52] R. d. nazioni, I, VIII,  p. 117. Cfr anche R. d. nazioni, I, VIII, p. 119.

[53] Eccetto che nelle colonie, dove tendenzialmente predomina la scarsità di lavoratori e di fondi (almeno agli inizi).

[54] R. d. nazioni, II, I, p. 261. Questo processo sostanzialmente avviene perché cresce il capitale fisso (macchine utili, edifici, miglioramenti della terra, abilità utili acquisite dalla persona). Cfr. R. d. nazioni, II, I, p. 264. Marx, ovviamente condivide questo assunto ma, a differenza di Smith, non crede affatto che si connetta, nel contesto sociale dato, con un aumento del benessere di tutte le classi sociali.

[55] R. d. nazioni, I, XI, p. 246. È da notare come Smith, nell’impiego sociale delle macchine, non scorga alcun carattere contraddittorio (in relazione ad opposti interessi di classe).

[56] R. d. nazioni, I, XI, p. 250.

[57] R. d. nazioni, I, XI, p. 249.

[58] R. d. nazioni, I, XI, p. 250.

[59] R. d. nazioni, I, XI, p. 252.

[60] Smith, quindi, formula una teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto. Ma essa evidentemente ha poco o nulla a che vedere con la teoria marxiana. In Smith la caduta tendenziale del saggio del profitto è connessa alla scomparsa tendenziale dei monopoli. In Marx, invece, è una legge fondamentale già della concorrenza in astratto, della pura concorrenza.

[61] R. d. nazioni, I, XI, p. 251.

[62] R. d. nazioni, IV, II, p. 391.

[63] Smith fa l’esempio dei rapporti fra l’Inghilterra e la Francia: “ […] le stesse circostanze che avrebbero reso tanto vantaggioso per entrambe le nazioni un commercio estero aperto e libero tra i due paesi, hanno prodotto i principali ostacoli allo sviluppo di tale commercio. Essendo questi due paesi vicini, essi sono necessariamente nemici, e la ricchezza e la potenza di ciascuno diventa, per tale motivo, più minacciosa per l’altro; e ciò che dovrebbe aumentare il vantaggio dell’amicizia fra i popoli serve solo ad eccitare la violenza dell’animosità nazionale. Entrambe sono nazioni ricche e attive; e i mercanti e i manifatturieri di ciascuna temono la concorrenza dell’abilità e dell’attività di quelli dell’altra” (R. d. nazioni, IV, III, p. 423). Per Smith la competizione violenta fra i commercianti è una delle cause principali della guerra: “Il commercio, che tra gli individui avrebbe dovuto naturalmente essere un vincolo di unione e di amicizia, è diventato la più feconda sorgente di discordia e di animosità. La capricciosa ambizione dei re e dei ministri non è stata più fatale alla tranquillità dell’Europa, in questo e nel secolo passato, dell’ingiustificata gelosia dei mercanti e dei manifatturieri”; ma a questa causa della guerra almeno, si può porre certamente rimedio: “La violenza e l’ingiustizia di coloro che governano l’umanità è un male antico, a cui temo che la natura delle cose umane possa difficilmente consentire rimedi; ma la bassa rapacità e lo spirito di monopolio dei mercanti e dei manifatturieri, che non sono né dovrebbero essere coloro che governano il genere umano anche se sono forse incorreggibili, si può sempre fare in modo che non disturbino la tranquillità di nessuno, a parte loro stessi” (cfr. R. d. nazioni, IV, III, p. 421, passim).

[64] Smith critica aspramente la selvaggia ingiustizia degli Europei che ha unicamente danneggiato e distrutto gli sfortunati paesi americani: “Non è con l’importazione dell’oro e dell’argento che la scoperta dell’America ha arricchito l’Europa” (R. d. nazioni, IV, I, p. 385). In verità non è interesse di nessuna nazione imporre il proprio dominio sulle altre al punto di ridurle in stato di mendicità; i guadagni di una nazione non coincidono con le perdite di un’altra, ed anzi presuppongono i guadagni dell’altra. Solo il libero scambio, pertanto, favorisce realmente l’economia nazionale.

Al contrario i regimi di monopolio, impedendo la libera concorrenza e la libera circolazione dei capitali, ne ostacolano anche l’applicazione più proficua e razionale, ed ingessano perciò lo sviluppo del paese: “[…] tutto ciò che in una certo paese aumenta il saggio ordinario di profitto al di sopra del livello al quale sarebbe altrimenti stato, assoggetta necessariamente quel paese a uno svantaggio assoluto e relativo in ogni ramo di commercio di cui esso non abbia il monopolio” (R. d. nazioni, IV, VII, p. 502). Le pulsioni nazionaliste violente danneggiano sempre l’economia, e per quanto spesso alcune misure protezionistiche (di monopolio nazionale) siano imposte dalla guerra militare e commerciale, e dalla conseguente necessità di difendere il paese, il benessere nazionale non coincide mai direttamente con lo sviluppo immediato del saggio di profitto che queste misure provocano (Smith, per esempio, per quanto ritenga l’atto di navigazione di Cromwell dettato in una certa misura dalla necessità di tutelare gli interessi nazionali, parimenti non esita a fornire una valutazione sistematica dei suoi effetti negativi sull’economia inglese).

[65] “[…] senza alcun intervento della legge, gli interessi privati e le passioni private degli uomini li inducono naturalmente a dividere e distribuire i fondi di ogni società fra tutti i diversi impieghi che vi sono effettuati, avvicinandosi il più possibile alla proporzione più conveniente all’interesse dell’intera società. Tutto i vari regolamenti del sistema mercantile sconvolgono necessariamente, in misura più o meno grande, questa distribuzione naturale dei fondi, che è anche la più vantaggiosa”, R. d. nazioni, IV, VII, p. 526; “Il monopolio impedisce al capitale del paese, qualunque ne sia l’ammontare in un determinato momento, di mantenere una quantità di lavoro produttivo tanto grande quanto potrebbe altrimenti mantenerne e di offrire agli abitanti attivi un reddito tanto grande quanto potrebbe altrimenti offrire”, R. d. nazioni, IV, VII, p. 512.

[66] R. d. nazioni, IV, VII, p. 507. Un altro paragone che Smith adotta per descrivere la condizione del commercio inglese è quello con un corpo malato i cui organi si siano sviluppati in modo sproporzionato. La stessa sicurezza nazionale, secondo Smith, è seriamente minata dal gigantismo patologico del commercio con le colonie: “Di conseguenza, la prospettiva di una rottura con le colonie ha terrorizzato la popolazione della Gran Bretagna più di quanto non avesse mai fatto un’Armada spagnola o un’invasione francese” (ibidem).

[67] I monopoli tutt’al più possono favorire i paesi più poveri; ma danneggiano nettamente quelli più ricchi, che ne sono sfavoriti. Cfr. R. d. nazioni, IV, VII,  pp. 527-28.

[68] Con queste argomentazioni Smith sostiene fra l’altro, nello stesso anno in cui inizia la guerra d’indipendenza americana, la necessità di disimpegnare parte del capitale investito nelle colonie e di eliminare il monopolio nel commercio. Le colonie sono il migliore modello di progresso economico:  aumento di salari, aumento della popolazione, aumento della ricchezza avvengono in esse parallelamente e naturalmente (R. d. nazioni, IV, VII, p. 476). La politica inglese e la relativa libertà economica da essa concessa, almeno per quanto concerne il commercio di prodotti grezzi hanno contribuito a questo straordinario sviluppo. Ma i diversi monopoli imposti, sono per Smith una “violazione dei più sacri diritti dell’umanità” (R. d. nazioni, IV, VII, p. 488). “In una fase più avanzata di progresso”, prosegue Smith, “tali proibizioni potrebbero essere effettivamente oppressive e insopportabili” (R. d. nazioni, IV, VII, p. 489), e diventare dei limiti per il progresso, come tali economicamente e militarmente insostenibili. Sulla questione delle colonie, e di quelle nord-americane in particolare, Smith pone dunque un’alternativa chiara: o parità con la madrepatria (modello coloniale romano), o indipendenza (modello greco). In ogni caso la fine del monopolio deve essere e sarà sancita dalla storia.

[69] Perfino la distruzione degli antichi imperi dell’America precolombiana, non è riuscita a fermare lo sviluppo di quei paesi e di quelle popolazioni verso livelli economici e civili superiori. Scrive Smith: “Pietre taglienti servivano come coltelli e scuri per tagliare; spine di pesce e nervi duri di certi animali servivano come aghi per cucire e sembrava anche che fossero il loro principale strumento di commercio. In questo stato di cose, sembra impossibile che questi due imperi potessero essere così progrediti e ben coltivati come adesso che sono forniti abbondantemente di ogni specie di bestiame europeo, e che vi è stato introdotto l’uso del ferro, dell’aratro e di molte altre arti europee. Ma la popolosità di ogni paese deve essere in rapporto al livello dei miglioramenti agrari e delle colture. Malgrado la crudele distruzione degli indigeni che ha seguito la conquista, questi due grandi imperi sono probabilmente più popolosi ora di quanto fossero prima; e la popolazione è sicuramente molto diversa; perché credo si debba riconoscere che i creoli spagnoli sono, sotto molti aspetti, superiori agli antichi Indiani” (R. d. nazioni, IV, VII, p. 478).

[70] La guerra, in fondo, non sembra essere secondo Smith così necessaria come la pace. Si tratta, si può dire, di una necessità di second’ordine, di una “passione non temperata”, che in definitiva deve essere riassorbita dal corso della storia sociale. La guerra, infatti, reca più svantaggi che vantaggi e, quindi, la crescente comprensione umana delle cose sociali deve portare ad accantonarla. Le imposte per esempio, secondo Smith, aiutano i cittadini a rendersi conto dell’inutilità della guerra e di quanto sia sempre preferibile, nella misura in cui non ci si è strettamente obbligati per difendersi, evitarla. Cfr. R. d. nazioni, V, III, p. 754 e p. 756.

[71] Perciò, la pura forza statale e militare non può mai averla vinta, in modo definitivo, sulle leggi del progresso. Smith, a proposito delle colonie, reca come esempio il caso della Spagna: “Anche il governo arbitrario e violento della Spagna è stato obbligato in molti casi, per paura di un'insurrezione generale, a revocare o ad attenuare gli ordini che aveva dato per il governo delle sue colonie. Per questo il progresso delle colonie europee in fatto di ricchezza, popolazione e miglioramenti agricoli è stato molto grande” (R. d. nazioni, IV, VII, p. 477).

[72] In Smith, il succedersi delle epoche storiche rispecchia l’ordine naturale del progresso della produzione. Gli “stadi della società” si susseguono sostanzialmente nel modo seguente: dapprima, nell’ordine, si hanno caccia, pastorizia, agricoltura. Poi, in seguito al progresso delle tecniche di guerra, diviene necessario un forte esercito, e quindi uno Stato. In seguito, diviene indispensabile un esercito permanente, anche in tempo di pace, e quindi uno Stato molto organizzato. Il progresso tecnico e sociale, d’altro canto, complessivamente porta ad una maggiore sicurezza dei popoli, ed anche l’invenzione delle armi da fuoco, in definitiva, risulta favorire la stabilità e la diffusione della civiltà (cfr. R. d. nazioni, V, I, pp. 572-585). Il progresso della produzione e lo sviluppo sociale, infine, si traducono necessariamente nello sviluppo superiore dello Stato (divisione dei poteri) e dei diritti della persona (cfr. ivi, V, I, p. 594).

[73] Ideologia tedesca, I, Feuerbach, p. 8.

[74] Id. ted., I, Feuerbach, p. 8.

[75] Id. ted., pp. 8-9.

[76]Cfr. Id. ted., p. 18, passim.

[77] Id. ted., p. 19.

[78]Cfr. Id. ted., p. 19, passim.

[79] Id. ted., pp. 19-20.

[80] Id. ted., p. 20.

[81] Id. ted., p. 20.

[82] Naturalmente, il principio della centralità della storia della produzione materiale, la quale in qualche modo deve spiegare anche la trasformazione dell’organizzazione sociale nel suo complesso, è tanto più vero per gli aspetti ‘spirituali’ di questa trasformazione. È il legame materiale fra gli uomini, come affermano Marx ed Engels, che deve spiegare la coscienza, e non il contrario; è lo sviluppo delle forze produttive materiali che muove lo sviluppo della coscienza. A parere degli autori, anzi, la coscienza si determina nella sua stessa esistenza autonoma unicamente allorquando, con lo sviluppo della divisione del lavoro, subentra una distinzione fra lavoro materiale e lavoro mentale. La coscienza, poi, progredisce nella misura in cui le forze produttive esistenti entrano in contraddizione con i rapporti produttivi esistenti, e l’intera struttura sociale si evolve di conseguenza. La religione, la filosofia, l’arte, e tutti i prodotti spirituali dell’umanità, esprimono sempre stadi di sviluppo della coscienza, che in qualche modo rispecchiano il progresso delle forze produttive materiali. Cfr. Id. ted., p. 21.

[83] Id. ted., pp. 28-29.

[84] Cfr. Id. ted., p. 25, passim.

[85] A nostro avviso, il celebre passo dell’Ideologia tedesca che indica nel comunismo “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” (Cfr. Id. ted., p. 25) deve essere interpretato tenendo presente che il comunismo come fine della storia ed il suo manifestarsi empirico nel divenire della società moderna, nella concezione marx-engelsiana, non sono elementi contrastanti. Si deve fare riferimento le molteplici constatazioni inerenti il carattere empirico e reale che il comunismo assume nella società borghese. Cfr. per esempio il passo seguente: “[…] questa trasformazione della storia in storia universale è non già un semplice fatto astratto della ‘autocoscienza’, dello spirito del mondo o di qualche altro fantasma metafisico, ma un fatto assolutamente materiale dimostrabile empiricamente, un fatto di cui ciascun individuo dà prova nell’andare e nel venire, nel mangiare, nel bere e nel vestirsi” (ivi, p. 27). Il progresso necessario della società verso il comunismo è concepito da Marx ed Engels come sviluppo reale della produzione materiale, empiricamente constatabile nel suo incremento quantitativo e qualitativo.

[86] Id. ted., p. 30.

[87] Id. ted., p. 9.

[88] Id. ted., p. 9.

[89] Id. ted., p .9.

[90] Cfr. Id. ted., p. 10, passim. Marx ed Engels, in merito alle caratteristiche del modo di produzione primitivo sul quale si fonda la società tribale, esattamente, si esprimono nei seguenti termini: “Essa [la proprietà tribale] corrisponde a quel grado non ancora sviluppato della produzione in cui un popolo vive di caccia e di pesca, dell’allevamento del bestiame, o al massimo dell’agricoltura” (ibidem). Questo sembra indicare che l’agricoltura in generale non riveste un ruolo centrale nella riproduzione materiale della società primitiva, o che, quando essa assume tale ruolo, segna il passaggio ad un’altra forma sociale, e produce materialmente i presupposti di una trasformazione epocale. Comunque, non vi è alcun accenno alla società asiatica, che nei Grundrisse (Formen) invece sarà definita come peculiare forma arcaica di organizzazione sociale del modo di produzione agricolo (cfr. in proposito il capitolo terzo del presente lavoro).

[91] Cfr. Id. ted., p. 10, passim.

[92] Cfr. Id. ted., p. 11, passim. Per l’esattezza Marx ed Engels scrivono: “Al contrario della Grecia e di Roma, lo sviluppo feudale comincia quindi su un terreno molto più esteso, preparato dalle conquiste romane e dalla diffusione dell’agricoltura che originariamente vi è connessa”. La diffusione dell’agricoltura è originariamente connessa alle conquiste romane, e prepara lo sviluppo feudale, che sembra quindi presentarsi come una sua conseguenza. In particolar gli autori segnalano il venir meno del lavoro schiavile, che non è più funzionale al modo di produzione agricolo nella misura in cui questo si estende in modo tale da non poter più essere economicamente incentrato sulla singola città di Roma.

[93] Id. ted., pp. 44-45.

[94] Id. ted., p. 26.

[95] Id. ted., pp. 65-66.

[96] Cfr. Id. ted., p. 66.

[97]Cfr. Id. ted., pp. 42-43.

[98]Cfr. Id. ted., p. 17.

[99] Cfr. Id. ted., p. 41.

[100] Cfr. Id. ted., p. 42.

[101] Luporini, nella sua introduzione all’edizione italiana dell’Ideologia tedesca ha interpretato l’uso di termini quali ‘capitale’, ‘società civile’, ecc. come un’incongruenza linguistica, fondamentalmente riconducibile al carattere ancora provvisorio di questo primo abbozzo concezione materialistica della storia (cfr. Luporini, Introduzione, in: Marx, Engels, L’ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma, 1993, pp. LXXXVIII). Successivamente, però, Luporini ha modificato drasticamente la propria posizione, giungendo a sostenere, nei suoi studi più maturi, l’incompiutezza ed il fallimento teorici dell’impostazione marxiana, non soltanto dell’Ideologia tedesca, ma anche della Einleitung del 1857 e della Vorrede del 1859 (Su questo cfr. la nota su Luporini nel precedente capitolo).

[102] Id. ted., p. 44.

[103] Id. ted., p. 44.

[104] Id. ted., p. 51.

[105] Id. ted., p. 58.

[106] Id. ted., p. 59.

[107] Id. ted., pp. 60-61.

[108] Cfr. Id. ted., p. 61, passim.

[109] Id. ted., pp. 61-62. Il passo citato prosegue nel modo seguente: “Ciò spiega il fatto, osservato dappertutto, a quanto si dice, nel tempo delle invasioni barbariche, che il servo era il signore e che i conquistatori accettarono prestissimo la lingua, cultura e costumi dei conquistati.  Il feudalesimo non fu affatto portato bello e pronto dalla Germania, ma ebbe origine, durante la conquista stessa, da parte dei conquistatori nell’organizzazione militare dell’esercito, e questa si sviluppo in vero e proprio feudalesimo soltanto dopo la conquista, sotto l’effetto delle forze produttive incontrate nei paesi conquistati. Fino a che punto questa forma fosse condizionata dalle forze produttive è dimostrato dai falliti tentativi di imporre altre forme derivate di reminiscenze dell’antichità romana (Carlo Magno, ecc.)” (ivi, p. 62).

[110] Id. ted., p. 30.

[111] Id. ted., pp. 29-30.

[112] Id. ted., p. 30, passim.

[113] Id. ted., p. 13.

[114] Id. ted., p. 14.

[115] Reichelt ha provato a spiegare il recupero della dialettica dei Grundrisse nei termini di un riutilizzo specifico della strumentazione generale della logica hegeliana, ossia di un reimpiego delle categorie hegeliane della Scienza della logica. Il tentativo di Reichelt, sostanzialmente, è stato quello di distillare attraverso la sintesi dei Grundrisse e della Logica hegeliana l’essenza del Capitale. I limiti di questo sforzo, dal punto di vista storico-filosofico, sembrano però rilevanti. Reichelt si è appoggiato in modo decisivo ad elementi esterni al manoscritto, fra cui la lettera di Marx ad Engels del 14 gennaio 1858 (con la relativa affermazione sulla razionalità del metodo contenuto nella Logica di Hegel) ed il testo compiuto e definitivo del Capitale (affiancato sistematicamente a quello dei Grundrisse). Ma, in primo luogo, attraverso la logica hegeliana non si possono direttamente individuare, se non superficialmente, il modo e le ragioni della sua applicazione all’economia politica (come del resto ha dovuto ammettere anche Reichelt nel cimentarsi con un’altra lettera ad Engels, del febbraio del 1858, nella quale Marx ironizza sull’intenzione di Ferdinand Lassalle di esporre l’economia politica “alla Hegel”); perciò, ci sembra, quando Reichelt non si è appoggiato alle opere giovanili di Marx ed ai Manoscritti economico-filosofici ‘44, ha dovuto per lo più limitarsi ad un lavoro filologico sui termini di origine hegeliana. In secondo luogo, il presupposto di Reichelt che i Grundrisse ed il Capitale costituiscano un insieme teorico unitario, se può essere parzialmente plausibile dal punto di vista economico, lo è tutt’altro dal punto di vista filosofico. Come presupposto, in altre parole, non ha alcun fondamento. Cfr. Reichelt, La struttura logica del concetto di capitale in Marx, De Donato, Bari, 1973, in particolare pp. 97-99 e pp. 256-57. Fra gli altri autori che, più di recente, seguono l’esempio di Reichelt, cfr. Dussel, Un Marx sconosciuto, Manifestolibri, Roma, 1999 e, in Italia, Fineschi, Ripartire da Marx, La città del sole, Napoli, 2001. Quest’ultimo, dopo aver svolto un esame estremamente dettagliato dei cambiamenti di piano della critica dell’economia politica operati da Marx dal 1857 in avanti, tenta di spiegarli esclusivamente come perfezionamento progressivo del concetto del ‘capitale’, suo adeguamento progressivo al modello puro della logica (hegeliana). Ancora una volta però, in questo modo, il Capitale finisce per essere usato direttamente per leggere i Grundrisse e la loro struttura – troppo direttamente.

[116] Angelica Nuzzo di recente ha sottolineato, riferendosi alla ‘logica’ soggiacente alle Grundlinien, come essa non possa essere ricondotta, se non nei suoi tratti generici, alle categorie della Scienza della logica: “Ciò che […] impegna Hegel nella Filosofia del diritto, è lo svolgimento di una ‘logica’ che, per così dire, – e molto banalmente – ancora non c’è. Lo svolgimento di una ‘logica’ che, condividendo con la Scienza della logica i principi fondamentali del ‘metodo assoluto’ (in senso propriamente logico), trovi e sviluppi nella Filosofia del diritto stessa, vale a dire nel tessuto di una teoria oggettivamente e sistematicamente ben diversa, le condizioni teoriche immanenti specifiche della propria autocostituzione. La ‘logica’ che va dunque cercata nella Filosofia del diritto è una logica che non c’è già, ma che va  piuttosto costituendosi a partire da quella sua componente fondamentale che è la ‘logica’ della Scienza della logica e da condizioni supplementari a questa estranee. La logica ‘pura’ della prime parte del sistema assume perciò in funzione generalmente primaria, ma non esaurisce in questo la specifica funzionalità di una logica (combinatoria) dello spirito oggettivo. Una ‘logica’ della Filosofia del diritto si ha perciò, propriamente, soltanto a conclusione dell’intero movimento di costituzione e determinazione sistematica dello spirito oggettivo” (Nuzzo, Rappresentazione e concetto nella ‘logica’ della filosofia del diritto di Hegel, Guida, Napoli, 1990, p. 101). Questa definizione della Nuzzo è particolarmente rilevante se si considera la dialettica di universale particolare ed individuale (U-P-I) cui vogliamo riferirci. Questa dialettica, in relazione allo Stato, riceve una determinazione che in altri contesti del sistema hegeliano non ha; come vedremo, nella tematizzazione dello sviluppo organico del singolo Stato come sviluppo distinto dall’evoluzione storica degli Stati, la dialettica hegeliana U-P-I assume un colore teorico del tutto peculiare.

[117] Cfr. F. d. diritto, Introduzione, § 29, p. 52.

[118] F. d. diritto, Partizione, § 33, p. 57.

[119] F. d. diritto, § 35, p. 59.

[120] F. d. diritto, § 41, Z. 24, p. 361.

[121] Cfr. F. d. diritto, § 71, pp. 89-90.

[122] Cfr. F. d. diritto, § 71, Z. 46, p. 4.

[123] Cfr. F. d. diritto, § 81, p. 99.

[124] Il diritto astratto nella misura in cui contiene in sé il torto, deve infine caratterizzarsi come reazione al delitto e alla violenza, seconda violenza, legge del taglione: “il diritto astratto è diritto di violenza” (F. d. diritto, § 94, p. 104). Ma caratterizzandosi in questo modo, il diritto astratto rivela ancora una volta il proprio limite immanente. Il diritto astratto si deve fondare sulla vendetta come annullamento del delitto. La vendetta, è “[…] giusta secondo il contenuto, in quanto è il taglione. Ma, secondo la forma, è l’atto di una volontà soggettiva, che può porre, in ogni lesione avvenuta, la sua infinità e la cui giustizia, quindi, è in generale contingente, così come essa, per gli altri, è soltanto in quanto particolare. La vendetta, per il fatto che è in quanto azione positiva di una volontà particolare, diventa nuova lesione”. La vendetta pertanto “decade nel progresso all’infinito” (cfr. F. d. diritto, § 102, pp. 112-13, passim). Questa contraddizione porta, in definitiva, all’insorgere dell’esigenza di una volontà soggettiva che, in quanto particolare volontà soggettiva, voglia l’universale come tale.

[125] F. d. diritto, §104, A., p. 115.

[126] La soggettività individuale e la morale che qui emergono, si affermano progressivamente, attraverso tre momenti. In primo luogo, l’azione si distingue dal fatto. Io mi riconosco responsabile solo della prima, che avviene come estrinsecazione del mio proponimento, e quindi mi considero in ogni caso non in colpa per fatti inerenti le cose di mia proprietà, ma estranei alla mia volontà (prima sezione). In secondo luogo, anche nell’azione, considero discriminante l’intenzione. Solo di quest’ultima posso sentirmi responsabile. Il rilievo principale ai fini della determinazione oggettiva dell’azione, conseguentemente, viene però ad assumerlo la situazione esterna. L’azione morale stessa, perciò, diventa concreto perseguimento del benessere, della felicità, e la particolarità degli interessi si raccoglie in una totalità di fini materiali (seconda sezione). L’esistenza personale, però, si caratterizza ora come diritto necessario contrapposto al diritto astratto: “La vita, in quanto totalità dei fini, ha un diritto, di fronte al diritto astratto”. Secondo Hegel, “soltanto la necessità dell’attualità immediata può autorizzare ad un’azione ingiusta”; in ciò consiste “il diritto di non essere sacrificati del tutto al diritto” (F. d. diritto, § 127, Z. 81, p. 388). In terzo luogo, in questo diritto necessario viene a manifestarsi la stessa finità e contingenza che caratterizzava il diritto astratto: “il benessere non è bene senza diritto. Parimenti il diritto non è bene senza benessere” (F. d. diritto § 130, p. 135). Occorre allora individuare il bene nella sua universalità ed incoercibilità, nel suo diritto assoluto, come unità del concetto astratto della volontà con la sua particolarità soggettiva. In questo sforzo compiuto dalla volontà, in questo lavoro, essa si costituisce a coscienza morale (terza sezione).

[127] Cfr. F. d. diritto § 139, A., pp. 143-44, passim.

[128] Cfr. F. d. diritto § 149, p. 166.

[129] Nella sfera dell’eticità, la società civile [bürgerlische Gesellschaft] rappresenta la perdita dell’essenza nell’apparenza [Erscheinung], ed il momento in cui l’eticità immediata incarnatasi nella famiglia si dissolve nel mondo dell’accidentalità. In quest’ambito, l’universale è presente solo in sé, ed agisce in modo esterno e coercitivo nel particolare, che resta come tale incosciente, solo per me (cfr. F. d. diritto, § 181, Z. 115, p. 410). La persona concreta si ritrova in rapporto unicamente con un’altra persona particolare, ed il principio dell’universalità si manifesta esclusivamente nella forma del fine particolare. Ma, questa condizione determinata significa pure che il benessere e la sussistenza del singolo vengono a dipendere dal benessere e dalla sussistenza di tutti, in uno stato di universale dipendenza reciproca tra gli individui, in cui deve valere il diritto del singolo ed il diritto di tutti: “Il fine egoistico nella sua realizzazione, condizionato così dall’universalità, fonda un sistema di dipendenza universale” (F. d. diritto, § 183, p. 189).

In questo “stato esterno”, “di necessità e intellettualistico” (ibidem) [Äusserer Staat, Not- und Verstandesstaat], l’eticità si perde nei suoi estremi, e viene costituendosi “il momento astratto della realtà dell’idea, la quale qui è soltanto come totalità relativa e necessità interiore in questa apparenza esterna” (F. d. diritto, § 184, p. 190). In questo stato di necessità esteriore lo Stato stesso, appare ancora solo negativamente, come limite esterno alla libertà individuale; per esempio, le tasse pagate allo Stato sembrano solamente ledere la particolarità del singolo, sebbene, al contrario, esse la rendano possibile. (Cfr. F. d. diritto, § 184, Z. 117, p. 411).

La società civile, quindi, in parte rappresenta la dissolutezza, la miseria, e la corruzione fisica ed etica (Cfr. F. d. diritto, § 185, p. 190). Ma, essa rappresenta questa corruzione nella misura in cui riesce a ricomporsi e ad inserirsi come componente organica nello Stato etico. Gli Stati antichi, secondo Hegel, si dissolvono proprio perché si reggono sul principio patriarcale e religioso proprio dell’eticità semplice, e non possono reggere l’urto della riflessione infinita dell’autocoscienza, assorbendola in sé come momento organico (Cfr. F. d. diritto, § 185, A., pp. 190-91). Secondo Hegel lo Stato platonico rappresenta anch’esso, sul piano teorico, la volontà di escludere la particolarità autonoma, il suo principio nella volontà del singolo, e con esso la proprietà privata, contrapponendogli l’eticità solo sostanziale. Tutto al contrario, nello Stato moderno: “Gli individui, in quanto cittadini di questo Stato, sono persone private [„Die Individuen sind als Bürger dieses Staates Privatpersonen“], che hanno per proprio fine il loro particolare interesse. Poiché questo è mediato dall’universale, che, quindi, appare loro come mezzo, può essere conseguito da loro, soltanto in quanto essi stessi determinino in maniera universale il loro sapere, volere e fare e si costituiscano ad anelli della catena di questa connessione” (F. d. diritto, § 187, p. 192; cfr. H. Werke, 7, p. 343).

[130] Cfr. F. d. diritto, § 2, Z. 3, p. 345, passim.

[131] F. d. diritto, § 32, Z. 19, pp. 357-58. Il significato del passo hegeliano si completa nel suo prosieguo: “[…] Quindi, potrebbe sollevarsi, qui, la questione, perché noi non cominciamo dal sommo, cioè dalla verità concreta. La risposta sarà che noi intendiamo vedere il vero, appunto in forma di risultato, e a questo, essenzialmente, spetta di intendere, anzitutto, lo stesso concetto astratto. Quindi, ciò che è reale nella figura del concetto, è per noi il seguente e l’ulteriore, quand’anche nella realtà sia persino il primo. Il nostro progresso è questo: che le forme astratte si dimostrano non come esistenti per sé, ma come non vere” (ibidem).

[132] F. d. diritto, Prefazione, p. 16.

[133] F. d. diritto, Prefazione, p. 17.

[134] F. d. diritto, Prefazione, p. 20.

[135] F. d. diritto, Introduzione, § 31, A., p. 55.

[136] Cfr. H. Werke, 7, § 188, p. 346.

[137] H. Werke, 7, § 184, Z., p. 341 (la traduzione italiana qui non sembra molto aderente al testo tedesco, cui per questo è preferibile riferirsi direttamente). “L’interesse dell’idea” ad elevare l’individualità verso la libertà e universalità formale del sapere e del volere agisce sottobanco, come mera necessità naturale che spinge però alla liberazione dalla necessità naturale. L’azione dell’intelletto e dell’educazione [Bildung], come risposte ai bisogni, sono orientate proprio alla liberazione dai bisogni, che necessariamente avviene mediante questo duro lavoro. Ragionevolezza [Verständigkeit] e civiltà [Bildung] sono dunque poste come momento necessario dello sviluppo dell’autocoscienza soggettiva: “[…] mediante questo lavoro della civiltà, la volontà soggettiva stessa acquista in sé l’oggettività, nella quale soltanto essa è, da parte sua, degna e capace di essere la realtà dell’idea” (F. d. diritto, § 187, p. 193).

[138] Cfr. H. Werke, 7, pp. 346-360.

[139] Secondo Hegel, all’interno del sistema dei bisogni, nell’azione atomistica che lo contraddistingue, si dà l’appagamento della particolarità soggettiva, “ma in rapporto al libero arbitrio e ai bisogni altrui: si fa valere l’universalità” (F. d. diritto, § 189, p. 194). Cfr. H. Werke, 7, § 189, pp. 346-47.

[140] F. d. diritto, § 189, A., p. 195. Nella Zusatz Hegel svolge il paragone con il moto dei pianeti, moto che a prima vista appare casuale, ed in realtà è invece dettato da ferree leggi di natura, universali (F. d. diritto, § 189, Z. 120, p. 413).

[141] F. d. diritto, § 190, pp. 195-96.

[142] F. d. diritto, § 190, A., p. 196. Cfr. H. Werke, 7, p. 348.

[143] F. d. diritto, § 191, p. 196. Cfr. H. Werke, 7, pp. 348-49.

[144] Nell’uomo divengono criteri di giudizio [Beurteilung] il gusto [Geschmack] e l’utilità [Nützlichkeit]. “Alla fine, non è più il necessario, ma l’intenzione [die Meinung – l’opinione], che deve essere soddisfatta” (F. d. diritto, § 190, Z. 121, pp. 413-14; cfr. H. Werke, 7, p. 348): la necessità e lo stimolo per una cosa particolare perdono la loro originaria potenza.

[145] F. d. diritto, § 191, Z. 122, p. 414.

[146] I bisogni immediati e naturali devono in misura crescente essere integrati dai bisogni spirituali, prodotti dalla rappresentazione che acquisiscono progressivamente una certa una preponderanza. In questo momento sociale del bisogno pertanto, secondo Hegel, si trova “l’aspetto della liberazione” (F. d. diritto, § 194, p. 197).

[147] F. d. diritto, § 196, p. 198.

[148] “Se si considera il concetto di valore, la cosa stessa è ritenuta soltanto come segno, ed essa vale non in quanto se stessa, ma per quello che ha di valore. Una cambiale, per es., non rappresenta la natura cartacea, ma è soltanto segno di un altro universale: il valore. Il valore di una cosa può essere molto vario, in relazione al bisogno; ma, quando non si vuole esprimere la specificità, sebbene l’astrattezza del valore, ciò costituisce la moneta. La moneta rappresenta tutte le cose; ma, non rappresentando il bisogno stesso, bensì essendo soltanto un segno del medesimo, è regolata di nuovo dal valore specifico, che esprime soltanto come astrattezza”, F. d. diritto, § 63, Z. 40, p. 369.

[149] F. d. diritto, § 198, p. 199.

[150] F. d. diritto, § 198, p. 199.

[151] F. d. diritto, § 197, pp. 198-99. Cfr. H. Werke, p. 352.

[152] “Il barbaro è pigro, e si distingue dall’uomo incivilito [Gebildeten], pel fatto che esso cova se medesimo nel torpore; poiché l’educazione pratica consiste, appunto, nella consuetudine e nel bisogno dell’occupazione. L’inetto effettua sempre qualcosa di diverso da quel che vuole, poiché egli non è padrone dei propri atti; mentre può essere chiamato idoneo l’operaio, che produce la cosa come dev’essere e che non trova alcuna ritrosia nella sua azione soggettiva di fronte al fine”, F . d. diritto, § 197, Z. 126, pp. 415-16. Cfr. H. Werke, 7, p. 352.

[153] F. d. diritto, § 199, p. 200.

[154] F. d. diritto, § 200, A., p. 201.

[155] F. d. diritto, § 201, p. 201. Cfr. H. Werke, 7, p. 354.

[156] Cfr. F. d. diritto, §§ 202-207, pp. 201-206.

[157] Cfr. F. d. diritto, § 245, p. 231 e H. Werke, 7, p. 390. Rilevante è il fatto che Hegel, per determinare il significato di ‘plebe’, muova dall’esempio dell’Inghilterra, intendendo quindi presumibilmente identificarla con il proletariato ed il sottoproletariato industriale. Cfr. ivi, Anmerkung.

[158] Qui Hegel intende l’arbitrio e l’accidentalità del modo in cui genitori esercitano una sorveglianza sui figli e e gli impartiscono un'educazione. Cfr. F. d. diritto, § 239, p. 228.

[159] F. d. diritto, § 241, pp. 228-29.

[160] F. d. diritto, § 244, Z. 149, p. 428.

[161] F. d. diritto, § 240, Z. 148, p. 427.

[162] “Il decadere di una grande massa, al di sotto della misura di un certo modo di sussistenza […], produce la formazione della plebe, il che, al tempo stesso, porta con sé, in cambio, la più grande facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate”, F. d. diritto, § 244, p. 230.

[163] F. d. diritto, § 245, p. 231.

[164] F. d. diritto, § 251, p. 234.

[165] F. d. diritto, § 253, p. 235.

[166] F. d. diritto, § 253, A., p. 236.

[167] Questa espressione si trova in Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione, in: idem, I principi, La nuova Italia, Firenze, 1997, p. 106.

[168] Cfr. F. d. diritto, Introduzione, § 1, A., p. 23: “La filosofia del diritto […] mostra che il concetto […] è unicamente ciò che ha realtà”.

[169] La violenza, in forma specifica, viene trattata esplicitamente nel terzo capitolo della terza sezione (dedicata al torto) della prima parte delle Grundlinien, laddove Hegel si sofferma sull’infrazione violenta del diritto di proprietà o sull’annullamento della stessa esistenza di una volontà ad opera di un’altra volontà (Cfr. F. d. diritto, pp. 103-114). Scrive Hegel: “Nel fatto che la mia volontà nella proprietà si pone in una cosa esteriore, risiede che altrettanto quanto è riflessa in essa, è afferrata in essa ed è posta sotto la necessità”; dunque può esserle imposto un potere o può essa diventare condizione di qualche possesso o di qualche essere positivo: “Può esserle imposto un sacrificio o un’azione, - può esserle recata violenza” (ivi, § 90, p. 103). La negazione violenta del diritto, però, è solo un momento dell’affermazione del diritto. Secondo Hegel la violenza, concettualmente, si auto-dissolve: “l’uomo può certo essere soggiogato […], ma la volontà non può essere in sé e per sé violentata”. La forza o la violenza è l’esistenza della volontà, e dunque distrugge sé stessa in quanto manifestazione della volontà; “distrugge se stessa immediatamente nel suo concetto, in quanto manifestazione di una volontà, che annulla la manifestazione o l’esistenza di una volontà” (ivi, § 92, pp. 103- 104). Quindi, già nel puro pensiero, la violenza è illecita; essa è delitto. Nell’esistenza, però, poiché la volontà è immersa nel mondo dell’accidentalità, per realizzarsi compiutamente come diritto, deve ancora passare per la violenza, che si rende una seconda volta necessaria, come negazione della negazione e vera affermazione del diritto. Qui si tratta di una necessità di livello superiore a quella precedente; una prima volta la violenza è necessaria come pura negazione della volontà, come esteriorità in cui si deve immergere la volontà; una seconda volta invece la necessità della violenza è dettata direttamente dal movimento stesso della volontà, dal suo tornare in sé. Scrive Hegel: “La violenza, per il fatto che si distrugge nel suo concetto ha la reale spiegazione del perché la violenza è annullata dalla violenza; essa quindi, è, non soltanto condizionatamente giuridica, ma necessaria, – cioè, in quanto seconda violenza, che è un annullamento d’una prima violenza”  (ivi, § 93, p. 104). Nel diritto essa è la pena.

[170] Il diritto astratto, in buona sostanza viene a caratterizzarsi come diritto di violenza, e spinge la soggettività individuale a cercare l’universale nella propria particolarità, a riprecipitare in sé stessa. Ma, non soltanto il diritto necessario, il diritto al benessere, si esprime come lotta per la vita e per la morte e diritto ad infrangere la legge; la coscienza morale stessa che insorge come volontà del bene puro e universale, si ribalta nella cattiva soggettività. Il male, con ciò, svela il proprio fondamento più profondo nella soggettività che, quando tenta di concepire il puro bene, lo rende totalmente vuoto ed impossibile come esistente, diventando unico punto di riferimento a sé stessa. Giungendo a considerare di per sé malvagia l’azione, la soggettività impazzita e ripiegata in sé, si fa capace di qualsivoglia azione malvagia. Cfr. F. d. diritto, §§ 139-140, pp. 143-159, e relative Zusätze (pp. 392-397).

[171] Tanto nell’unione fra i due sessi, che nel patrimonio di famiglia e nella procreazione, Hegel individua delle condizioni indispensabili di questo momento immediato dell’eticità. Cfr. F. d. diritto, § 161, Z., p. 403 (critica della concezione contrattualistica del matrimonio); § 163, A., p. 174 (critica della concezione platonica del matrimonio); § 170, p. 179 (necessità del patrimonio come base per il sostentamento materiale della famiglia); § 173, p. 181 (esistenza reale del matrimonio come essere per sé nei figli).

[172] Ad ogni singolo individuo è concessa la possibilità di partecipare al patrimonio generale della società solo per mezzo della propria educazione, dell’attitudine e del proprio lavoro. Il patrimonio particolare, però, è condizionato dalla base di partenza [Kapital] e dall’attitudine [Geschlicklichkeit] (per la cui determinazione contano ancora ed anche fattori quali: “Zufällige Umstände”, “natürlische Anlagen”, “Kapital”); con ciò, si pone la disuguaglianza fra gli individui. Cfr. F. d. diritto, § 200, p. 199, e H. Werke, 7, pp. 353-54.

[173] Cfr. F. d. diritto, §§ 241-244, pp. 228-231; e, ivi, Zusatz 148 al § 240, p. 427, e Zusatz 149 al § 244, p. 428.

[174] F. d. diritto, § 258, Z. 152, pp. 430-31.

[175] F. d. diritto, § 258, Z. 152, pp. 430-31.

[176] Come esempio dell’arbitrarietà e casualità inclusa necessariamente nella costituzione interna dello Stato vale, almeno in parte, il carattere accidentale dell’individualità del monarca. L’individualità del monarca è necessaria solamente per conferire alla decisione del potere esecutivo la determinazione effettiva della volontà, ed all’esistenza dello Stato una determinatezza individuale, un centro organico. La razionalità della costituzione consiste, dunque, nella riduzione al minimo indispensabile degli effetti che la personalità del monarca ha sullo Stato: il monarca non deve essere despota. D’altro canto, il ruolo del monarca, rimane assolutamente imprescindibile, ed incomprimibile oltre il limite minimo che lo conserva come potere supremo della decisione e della volontà di un singolo.

[177] “L’esistenza di questo rapporto negativo ha […] l’aspetto di un che di accaduto e della complicazione con avvenimenti accidentali, che vengono dal di fuori. Ma essa è il suo supremo momento proprio – la sua infinità reale, in quanto idealità di ogni finità in esso,– il lato, nel quale la sostanza, in quanto forza assoluta di fronte a ogni cosa singola e particolare, di fronte alla vita, alla proprietà e ai diritti di essa, come di fronte alle altre cerchie, porta ad esistenza e a coscienza la nullità delle medesime”, F. d. diritto, § 323, p. 317.

[178] F. d. diritto, § 324, p. 318.

[179] Del resto, la stessa forma micidiale che la guerra assume nel mondo moderno esprime sostanzialmente, secondo Hegel, il significato del mondo moderno, ed entro tale significato mostra il suo lato razionale: “Il principio del mondo moderno, il pensiero e l’universale, ha dato al valore militare l’aspetto più elevato, per cui la sua manifestazione sembra essere più meccanica, e non appare come fatto di questa persona particolare, ma, soltanto, come di un componente di una totalità, – per cui, parimenti, essa appare come non rivolta contro persone singole, ma contro una totalità ostile; e, quindi, il coraggio personale appare come non-personale. Quel principio ha inventato, quindi, l’arma da fuoco; e non è già un’invenzione accidentale di quest’arma quella che ha trasformato l’aspetto semplicemente personale del valore militare, nell’aspetto più astratto”  (F. d. diritto, § 328, A., p. 322).

[180] La proprietà è la realtà ideale dell’impossessamento della cosa da parte della singola volontà e quindi è, secondo Hegel, logicamente, proprietà privata, attraverso la quale “il mio volere diviene oggettivo come volere personale” (F. d. diritto, § 46, p. 67): “la razionalità è costituita dal fatto che io ho una proprietà” (ivi, § 49, pp. 70-71). La proprietà privata, però, come momento razionale “deve prevalere” anche storicamente. L’esempio hegeliano non lascia adito ad equivoci: “le leggi agrarie in Roma contengono una lotta tra comunione e proprietà privata nel possesso fondiario. Quest’ultima , come momento razionale dové prevalere […]” (ivi, § 46, A., p. 68) Questa lotta si conclude con la piena affermazione della proprietà privata (Cfr. ivi, § 46 A. p. 68) perché “io”, in quanto persona, immediatamente sono volontà singola: “io sono vivente in quanto corpo organico […]. Ma, in quanto persona, io ho nello stesso tempo la mia vita ed il mio corpo, come altre cose, soltanto in quanto c’è la mia volontà” (ivi, § 47, p. 68-69).

[181] L’essere determinato della persona nella sua esistenza è la proprietà. Ma l’essere determinato deve anche essere per un altro, e dunque si pone il rapporto fra volontà. Il  contratto ed il commercio sono l’altro lato dell’esistenza della volontà, il risvolto logico della proprietà. La volontà generale inizia a manifestarsi, nel contratto, nella forma di semplice comunione [Gemeinsamkeit] di volontà (Cfr. F. d. diritto, § 71, Z. 46, p. 371, e H. Werke, 7, p. 153); ma: “Razionalmente, è necessario, appunto, che gli uomini entrino in rapporti contrattuali – donino, permutino, commercino, etc., in quanto possiedono proprietà” (F. d. diritto, A., § 71, p. 90). Per la loro coscienza è il bisogno a muoverli; in sé è la ragione che porta gli uomini al riconoscimento reciproco, nel contratto e nel commercio. Il commercio ed il contratto, tendenze realizzate nella loro forma più compiuta solo nella società moderna, quindi, costituiscono parimenti un momento assoluto dello sviluppo ideale del diritto. Secondo Hegel inoltre, per la proprietà, quando è sviluppata nella sua forma ideale, è determinante solo il valore della cosa: la proprietà è infatti destinata a sfociare ed a saldarsi con il commercio e con il contratto, come loro contenuto. Solo in epoca moderna, però, l’utilità specifica della proprietà diviene quantitativamente determinata, e la cosa diventa comparabile con altre cose della medesima utilità; solo con lo sviluppo borghese, il bisogno specifico, al quale la cosa serve, diviene anche bisogno in generale e l’universalità della cosa emerge come suo valore (Cfr. F. d. diritto, § 63, p. 81). Invece: “Il feudatario ha, nella sua proprietà la differenza, per cui deve essere proprietario soltanto dell’uso, non del valore della cosa” (ivi, § 63, A., p. 82) Ma, com’è evidente, secondo Hegel i rapporti di origine feudale sono destinati a decadere: “Si può, in generale, essere proprietari di una cosa senza divenire, in pari tempo, proprietario del suo valore […] Ma poiché questa forma di proprietà è inadeguata al concetto della medesima, tali limitazioni (feudi, fedecommessi) sono, per la maggior parte, sul declinare” (ivi, § 63, Z. 40, p. 369).

[182] In Hegel, la persona, è in quanto tale inalienabile, e deve maturare nella storia quella coscienza che la riconduce necessariamente a se stessa: “Questo ritorno in me scopre la contraddizione di aver dato in possesso ad altri la mia capacità giuridica, la mia eticità, la mia religiosità, che io stesso non possedevo, e ciò che, appena lo posseggo, esiste appunto, essenzialmente, soltanto in quanto mio e non in quanto cosa esterna” (F. d. diritto, § 66 A., p. 84) La storia, segue un percorso necessario, coscienziale, perché il diritto deve affermarsi nella sua idealità razionale. Per questo, la schiavitù deve essere soppressa: “E’ nella natura della cosa che lo schiavo abbia un diritto assoluto di rendersi libero. […] Del pari, avviene dell’affidamento della religiosità a un sacerdote, che è mio confessore; perché l’uomo deve regolare tale interiorità unicamente con sé” (F. d. diritto, § 66, Z. 43, p. 370). Il movimento storico si deve allora concludere con l’affermazione del lavoro libero, ed il lavoro libero deve rimanere tale anche come lavoro dipendente. In questo contesto, non a caso, Hegel dà una definizione pregnante del lavoro salariato: “l’uso delle mie forze è differente da esse stesse, e quindi da me, soltanto in quanto esso è quantitativamente limitato” (ivi, § 67, p. 85). Il contratto di lavoro [Lohnvertrag] è: “alienazione della mia produzione o della mia prestazione d’opera, in quanto, cioè, è alienabile a tempo limitato o altrimenti con una limitazione” (ivi, § 80, p. 97-98). In tedesco questo passo risulta più chiaro: „Veräusserung meines Produtierens oder Dienstleistens, insofern es nämilich veräusserlich ist, auf eine beschränkte Zeit oder nach sonst einer Beschränkung“  (H. Werke, § 80, p. 167).

[183] La famiglia è la persona, universale e perdurante, che nasce dall’unione di due persone autonome del matrimonio. In quanto essa è persona etica, la famiglia moderna è essa stessa “un che di autonomo per sé, di fronte alle stirpi o alle casate, dalle quali è pervenuta; il legame con esse ha per base la consanguineità naturale, ma la nuova famiglia ha per base l’amore etico” (F. d. diritto, § 172, p. 180) Intendendo esplicitamente la famiglia moderna, Hegel, nella Zusatz, aggiunge: “quella nuova famiglia è più essenziale, di fronte alla più larga connessione della parentela di sangue […]” (ivi, § 172, Z. 109, p. 407); lo splendor familiae feudale deve dunque cedere il passo alla famiglia borghese, in virtù della superiorità ideale di quest’ultima.

[184] “Anche per questo rispetto, si segnala, in rapporto al principio della particolarità e dell’arbitrio soggettivo, la distinzione in vita politica orientale e occidentale, e del mondo in antico e moderno. La divisione della totalità in classi si produce, in quelli, per vero oggettivamente da sé, poiché essa è razionale in sé; ma il principio della particolarità soggettiva non conserva in essa, nello stesso tempo il proprio diritto […]. Così non accolta nell’organizzazione della totalità e non conciliata in essa, la particolarità soggettiva si mostra […] come un che di ostile, come corruzione dell’ordinamento sociale […] o in quanto sovvertitrice, come negli Stati greci o nella Repubblica romana […]. Ma, conservata dall’ordinamento oggettivo in modo adeguato ad esso, e, nello stesso tempo, nel suo diritto, la particolarità soggettiva diviene principio del ravvivamento della società civile, dello sviluppo dell’attività pensante, del merito e della dignità. Il riconoscimento e il diritto, che ciò che è necessario, mediante la ragione, nella società civile e nello Stato, venga, in pari tempo, mediato dall’arbitrio, è la determinazione prossima di ciò che, particolarmente nella concezione generale, si chiama libertà”, F. d. diritto, § 206, A., pp. 204-205.

[185] Il diritto si sviluppa, nell’idealità dello Stato, necessariamente attraverso un codice. Il diritto attuale, secondo Hegel, anche se non in ogni sua parte, ed anche se ancora integrabile, è compiuto nel codice. Esattamente come un organismo, il diritto è frutto di un lungo e lento sviluppo precedente, è compiuto pur essendo ancora suscettibile di un’evoluzione notevole. Per il diritto in generale sembra valere quanto Hegel afferma per il codice giuridico: “[…] un grande albero antico si ramifica più e più, senza con ciò diventare un nuovo albero” (F. d. diritto, § 216, Z. 136, p. 421).

[186] Per spiegare la necessità del potere del sovrano, Hegel afferma significativamente che l’universalità delle leggi e della costituzione (potere legislativo), la particolarità della deliberazione che riconduce l’accidentale all’universale (potere giudiziario), e l’individualità come autodeterminazione della decisione ultima che tiene unito il tutto (potere del sovrano), sono i momenti immanenti dell’unico e indissolubile organismo statale. “L’idealismo che costituisce la sovranità”, scrive Hegel, “è la medesima determinazione, secondo la quale, nell’organismo animale, le cosiddette parti di esso non sono parti, sibbene membra, momenti organici, il cui isolamento e l’esistenza per sé è infermità” (F. d. diritto, § 277, A., p. 275) Lo stesso impianto basato sulla dialettica organica di universale, particolare e individuale, che vale in generale per l’insieme del diritto, dunque, viene a sintetizzare la costituzione interna per sé, e la moderna divisione dei poteri che ne è alla base.

[187] Cfr. F. d. diritto, § 349, A., p. 333.

[188] F. d. diritto, § 350, p. 334.

[189] Hegel muove l’esempio della costituzione di Cadice imposta da Napoleone agli Spagnoli: benché più razionale, venne rifiutata; ed era destinata ad essere rifiutata in quanto estranea al popolo spagnolo. Cfr. F. d. diritto, § 274, Z. 166, p. 442.

[190] La personalità autonoma, in sé infinita, si impone ineluttabilmente sul piano storico; essa sorge esternamente, in connessione con l’universalità astratta, nel mondo romano, ed internamente, con l’avvento del cristianesimo. Cfr. F. d. diritto, § 185, A., pp. 190-91.

[191] Queste parti generali introducevano i corsi di filosofia della storia tenuti da Hegel. Poiché, della filosofia della storia hegeliana, esaminiamo in assoluta prevalenza solo queste introduzioni e poiché non vi sono grandi discrepanze nel modo in cui esse sono rese (se non nell’ordine delle parti) fra l’edizione dei Werke del 1832-1845 (conosciuta e studiata da Marx) e l’edizione di Lasson del 1917, preferiamo riferirci a quest’ultima, che ci consente di appoggiarci all’unica traduzione italiana delle Vorlesungen (eccettuata quella condotta di recente da Sergio Dellavalle sui corsi del 1822-23 editi a cura di Itling – nei quali però le introduzioni risultano molto più scarne). Su queste edizioni cfr. nota bibliografica.

[192] F. d. storia, I, p. 7.

[193] F. d. storia, I, p. 64.

[194] F. d. storia, I, p. 30.

[195] F. d. storia, I, p. 30-31.Dunque, la logica storica (filosofia della storia) si configura in un modo molto simile, nei suoi fondamenti, a quello della logica attuale (filosofia del diritto), proprio per il ruolo che in entrambe assume il negativo.

[196] F. d. storia, I, p. 43. Cfr. Lasson, VIII-1, p. 36: „Der Geist der Geschichte ist ein Individuum das allgemeiner Natur, dabei ein bestimmtes ist, d.h. ein Volk überhaupt“.

[197] F. d. storia, I, p. 86.

[198] Cfr. F. d. storia, I, p. 124.

[199] F. d. storia, I, p. 108; cfr. Lasson, VIII-1, p. 93. Per questo, secondo Hegel: “Solo nello Stato l’uomo ha la sua esistenza razionale. Ogni educazione tende a che l’individuo non rimanga qualcosa di soggettivo, ma diventi oggettivo a sé stesso nello Stato. […] Tutto ciò che un individuo è, egli  lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua essenza. Ogni valore, ogni realtà spirituale, l’uomo l’ha solo per mezzo dello Stato” (ivi, p. 105).

[200] F. d. storia, I, p. 109.

[201] La natura come tale non può differire, secondo Hegel, dalla natura della volontà di Dio.

[202] F. d. storia, I, p. 36.

[203] F. d. storia, I, p. 157.

[204] F. d. storia, I, p. 160.

[205] F. d. storia, I, p. 171.

[206] F. d. storia, I, p. 171; cfr. Lasson, VIII-1, p. 149.

[207] F. d. storia, I, p. 56.

[208] F. d. storia, I, p. 57.

[209] F. d. storia, I, p. 59.

[210] F. d. storia, I, p. 59; cfr. Lasson, VIII-1, p. 50.

[211] F. d. storia, I, p. 59.

[212] F. d. storia, I, p. 150.

[213] F. d. storia, I, p. 153.

[214] F. d. storia, I, p. 153; cfr. Lasson, VIII-1, p. 132.

[215] F. d. storia, I, p. 156.

[216] F. d. storia, I, p. 154. „Es gibt in der Weltgeschichte mehrere grosse Perioden der Entwicklung, die vorübergangen sind, ohne dass sie sich fort gesetzt zu haben scheinen, nach welchen viel mehr der ganze ungeheuere Gewinn der Bildung vernichtet worden ist und unglücklicherweise wieder von vorne angefangen werden musste“, Lasson, VIII-1, pp. 132-33.

[217] F. d. storia, I, p. 154.

[218] È proprio questa connessione-distinzione fra storia e scienza attuale, fra dialettica storica e dialettica attuale che spinge Marx a recuperare la dialettica hegeliana per definire il carattere ‘storicamente determinato’ del modo di produzione capitalistico e del relativo concetto di capitale: ‘storicamente determinato’, nei Grundrisse, viene a significare sia ‘determinato dal processo storico complessivo’ che ‘determinato nella sua specificità’ e distinto dagli altri momenti di questo processo. Fineschi scrive, in merito alla ‘logica’ della critica dell’economia politica: “L’astratto universale può diventare universale concreto solo attraverso la processualità reale, ossia incarnato nelle diverse formazioni economico sociali […]”; egli crede con ciò di aver fissato il carattere logico della costruzione teorica marxiana in contrapposizione alle interpretazioni storicistiche o antropologiche. Ma l’influenza che nei Grundrisse si afferma è quella di una filosofia della storia – quella hegeliana – capace di conciliare la specificità e multilinearità degli oggetti storici con la direzionalità complessiva del corso storico, e quindi affatto in contrapposizione con il modello logico puro distillato da Fineschi a rappresentare la ‘logica del capitale’. Cfr. Fineschi, op. cit., p. 437.

[219] Lineamenti, I, I, p. 96. L’individuo come produttore di merce (di valore di scambio) non è l’individuo naturale. Marx, nella polemica diretta contro Bastiat, si esprime in proposito nel modo seguente: “[…] si dimentica che il presupposto del valore di scambio quale base oggettiva dell’intero sistema di produzione implica già in sé fin dall’inizio la coercizione per l’individuo, che il suo prodotto immediato non è un prodotto per lui bensì lo diventa soltanto nel processo sociale ed è costretto ad assumere questa forma generale ma estrinseca; che l’individuo ha ormai un’esistenza soltanto come entità produttiva di valore di scambio, nel che è già implicita la negazione totale della sua esistenza naturale; che esso dunque è totalmente determinato dalla società; che ciò inoltre presuppone una divisione del lavoro ecc., nella quale l’individuo è già posto in rapporti differenti da quelli dei semplici individui che scambiano, ecc.; che quindi il presupposto non solo è un presupposto che non scaturisce né dalla volontà dell’individuo né dalla sua natura immediata, ma è un presupposto storico che pone l’individuo già come individuo determinato dalla società” (ivi, I, II, p. 218). Marx, con queste considerazioni, restringe l’ambito di validità della legge del valore, connettendone il significato ad una forma determinata di società.

[220] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 259, passim.

[221] L’impostazione marxiana, in termini politici, ha un’immediata ricaduta rivoluzionaria: “Finché le operazioni sono dirette contro il denaro in quanto tale, si tratta di un semplice attacco alle conseguenze le cui cause continuano a sussistere, e quindi di un disturbo del processo produttivo, che la base solida possiede allora anche la forza di porre e dominare come semplici disturbi transitori attraverso una reazione più o meno violenta” (Lineamenti, I, II, p. 209).

[222] Cfr. Lineamenti, II, VII, p. 645, passim.

[223] Cfr. Lineamenti, II, VII, p. 646.

[224] “Il valore di scambio suppone il lavoro sociale quale sostanza comune a tutti i prodotti a prescindere completamente dalla loro naturalità. […]  Poiché il lavoro è movimento, il tempo ne è la sua misura naturale”, Lineamenti, I, I, pp. 160-61.

[225] Lineamenti, I, I, p. 89.

[226] Lineamenti, I, I, p. 99.

[227] Lineamenti, I, I, p. 96.

[228] Lineamenti, I, I, p. 99. Il passo si conclude così: “È la pressione reciproca della domanda e dell’offerta generali che media la connessione degli individui reciprocamente indifferenti” (ivi, I, I, pp. 99-100).

[229] Lineamenti, I, I, p. 100.

[230] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 117. Alcune pagine prima, per introdurre il denaro, Marx scrive: “il valore di scambio della merce riceve un’esistenza particolare accanto alla merce” (ivi, I, I, p. 108).

[231] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 112.

[232] Lineamenti, I, I, p. 97.

[233] Lineamenti, I, I, p. 108.

[234] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 160.

[235] Rispetto alla giornata lavorativa impiegata nella produzione di oro, Marx scrive:“La concorrenza equipara tutte le giornate lavorative a questa, modificandis modificatis” (Lineamenti, I, I, p. 161).

[236] Lineamenti, I, I, p. 109.

[237] Lineamenti, I, I, p. 120. Di seguito si colloca una trattazione abbastanza ampia sulle qualità fisiche del denaro e sulle quotazioni relative dei vari metalli nobili in varie epoche storiche (cfr. ivi, I, I, pp. 120-136).

[238] Lineamenti, I, I, p. 110.

[239] Lineamenti, I, I, p. 137.

[240] Lineamenti, I, I, p. 138. La circolazione, vista da questo punto di vista, “parte da punti infinitamente diversi e ritorna a punti infinitamente diversi” (ivi, I, I, p. 136).

[241] Lineamenti; I, I, p. 120.

[242] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 166.

[243] Lineamenti, I, I, p. 167.

[244] Cfr. Lineamenti I, I, p. 169. Esattamente, Marx scrive: “[…] la Lst. [lira sterlina] effettiva, in questo processo, è in realtà soltanto un segno, finché si considera non il momento onde essa realizza i prezzi, bensì la totalità del processo in cui essa funge soltanto da mezzo di circolazione e in cui la realizzazione dei prezzi è soltanto una parvenza, una mediazione che scompare” (ibidem).

[245] Lineamenti, I, I, p. 169.

[246] Lineamenti, I, I, p. 169.

[247] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 170.

[248] Su questa base Marx spiega contemporaneamente non soltanto la possibilità della falsificazione ma al contempo anche l’incidenza delle falsificazioni sull’andamento dei prezzi (per il fatto che i metalli nobili rimangono la misura del valore): “Da queste contraddittorie determinazioni del denaro, come misura, come realizzazione dei prezzi, e come semplice mezzo di scambio, si spiega quel fenomeno altrimenti inspiegabile  per cui, se il denaro metallico, oro, argento, viene falsificato mediante una lega di metallo inferiore, si ha il deprezzamento del denaro e l’aumento dei prezzi […]” (Lineamenti, I, I, p. 172).

[249] Lineamenti, I, I, p. 150.

[250] Lineamenti, I, I, p. 151.

[251] Lineamenti, I, I, p. 151.

[252] Cfr. Lineamenti, I, I, pp. 153-54. Marx cita l’economista mercantilista Boisguilebert: “Da schiavo del commercio, dice Boisguilbert, il denaro ne è diventato despota” (Lineamenti, I, I, p. 154) Quest’affermazione, per Marx, non ha solamente una validità storica, ma rispecchia anche e soprattutto una realtà attuale.

[253] Lineamenti, I, I, p. 156.

[254] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 157.

[255] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 159. Marx distingue questa accumulazione [Ansammeln], come accumulazione puramente monetaria, dall’accumulazione di capitale, come accumulazione di plusvalore [Akkumulation].

[256] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 180.

[257] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 193.

[258] Lineamenti, I, I, p. 157.

[259] Lineamenti, I, I, p. 158. Il movimento della circolazione nei termini di D-M-M-D risulta paradossale, in buona sostanza, perché non compare ancora, a questo livello, la categoria del profitto (cfr. ibidem).

[260] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 159.

[261] Lineamenti, I, II, p. 198.

[262] Lineamenti, I, II, p. 198.

[263] Lineamenti, I, II, p. 199.

[264] Lineamenti, I, II, p. 199.

[265] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 200.

[266] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 175.

[267] Lineamenti, I, II, p. 218.

[268] “Soltanto nel cosiddetto commercio al dettaglio, nel traffico quotidiano della vita borghese che ha luogo direttamente tra i produttori e i consumatori, nel piccolo commercio, il cui scopo è da un lato lo scambio della merce con il denaro e dall’altro lo scambio del denaro con la merce, al fine di soddisfare i bisogni individuali – è soltanto in questo movimento che ha luogo alla superficie del mondo borghese, che il movimento dei valori di scambio, la loro circolazione, si verifica in maniera pura. Un operaio che compra un pezzo di pane e un milionario che compra il medesimo pezzo di pane figurano in questo atto come semplici compratori, così come il mercante figura di fronte ad essi soltanto come venditore. Tutte le altre determinazioni qui sono cancellate. Il contenuto dei loro acquisti, così come il loro ambito, appaiono completamente indifferenti rispetto a questa determinazione formale”, Lineamenti, I, II, p. 224.

[269] Lineamenti, I, I, p. 177.

[270] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 177.

[271] Lineamenti, I, II, p. 251.

[272] Lineamenti, I, II, pp. 251-52.

[273] Lineamenti, I, III, p. 277.

[274] Lineamenti, I, III, p. 280.

[275] Lineamenti, I, III, p. 280.

[276] Lineamenti, I, III, p. 293.

[277] Lineamenti, I, III, p. 294.

[278] Lineamenti, I, III, p. 374.

[279] Lineamenti, I, III, p. 311.

[280] Lineamenti, I, III, p. 299.

[281] Cfr. Lineamenti, I, III, p. 315.

[282] Il denaro, guadagna un’autonomia fondamentale come scopo, senza che ciò significhi una cessazione del rapporto con la circolazione semplice: secondo Marx, fra circolazione semplice e denaro, si stabilisce una relazione negativa. Cfr. Lineamenti, I, I, p. 178.

[283] Lineamenti, I, II, p. 244.

[284] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 254.

[285] Lineamenti, I, III, p. 280.

[286] Lineamenti, I, III, p. 277

[287] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 255, sulla specificità del capitale, e ivi, I, II, p. 299, sul concetto di capitale in generale.

[288] Cfr. Lineamenti, I, II, pp. 265-267.

[289] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 244.

[290] Lineamenti, I, III, p. 279.

[291] Tale tentativo di spiegazione delle crisi viene intrapreso nelle altre due sezioni del capitolo sul capitale (Processo di circolazione del capitale e Il capitale fruttifero. Trasformazione del plusvalore in profitto).

[292] Lineamenti, I, II, p. 218.

[293] Lineamenti, I, II, p. 260.

[294] Lineamenti, I, II, p. 238.

[295] Lineamenti, I, II, p. 260.

[296] Lineamenti, I, I, p. 109.

[297] Lineamenti, I, I, p. 110.

[298] Lineamenti, I, I, p. 109.

[299] Lineamenti, I, I, p. 110.

[300] Lineamenti, I, I, p. 145. Il passo completa la seguente constatazione: “Il denaro può essere posto nella determinazione della misura e dell’elemento generale dei valor di scambio, senza essere realizzato nelle sue ulteriori determinazioni; quindi anche prima che abbia assunto la forma di moneta metallica. Ciò accade nel baratto” (ibidem).

[301] “Vale la pena di notare che lo scambio tra stirpi e popoli diversi […] comincia solo quando ad una stirpe non civilizzata viene comprata (estorta) un’eccedenza che non è il prodotto del suo lavoro, ma il prodotto naturale del suolo che occupa”, Lineamenti, I, I, p. 115.

[302] Lineamenti, I, I, p. 146. Il passo citato si conclude così: “Tra il pieno sviluppo di questa base della società industriale e la condizione patriarcale, esistono molti livelli intermedi, infinite sfumature” (ibidem).

[303] “Nel baratto […] il valore di scambio è il prodotto soltanto in sé; è la sua prima forma fenomenica; il prodotto non è però ancora posto come valore di scambio. Questa determinazione […] non domina tutta la produzione ma riguarda soltanto il suo superfluo […]. Il baratto, nel quale si scambia a caso l’eccedente della propria produzione con l’eccedente della produzione altrui, è soltanto la prima comparsa del prodotto nella forma di valore di scambio in generale, ed è determinato da bisogni e desideri accidentali ecc.”, Lineamenti, I, I, pp. 161-62.

[304] “Se [lo scambio] dovesse proseguire oltre il baratto, se dovesse diventare un atto continuativo che contiene in se stesso i mezzi del suo continuo rinnovarsi, allora subentra gradualmente […] la regolazione dello scambio reciproco mediante la regolazione della reciproca produzione, e allora i costi di produzione, che infine si risolvono tutti in tempo di lavoro diventerebbero la misura dello scambio”, Lineamenti, I, I, p. 162.

[305] Cfr. Lineamenti, I, I, pp. 154-55, passim.

[306] Lineamenti, I, I, p. 154.

[307] Cfr. Lineamenti, I, II, pp. 188-89.

[308] Lineamenti, I, I, p. 177.

[309] Lineamenti, I, I, pp. 177-78.

[310] Lineamenti, I, I, p. 177.

[311] Lineamenti, I, I, p. 177.

[312] Lineamenti, I, II, p. 226.

[313] Lineamenti, I, II, p. 226.

[314] Lineamenti, I, II, p. 231.

[315] Lineamenti, I, II, p. 234.

[316] “Che il denaro sia la prima forma fenomenica del capitale […] è un fatto storico […]”, Lineamenti, I, II, p. 235.

[317] Lineamenti, I, II, p. 184.

[318] Lineamenti, I, II, p. 223.

[319] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 203.

[320] Cfr. Lineamenti, I, II, pp. 217-18.

[321] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 187.

[322] Lineamenti, I, II, pp. 224-25.

[323] Lineamenti, I, II, p. 225.

[324] Lineamenti, I, II, p. 225.

[325] La società borghese deve imporsi attraverso la dissoluzione di tutti i rigidi rapporti personali delle forme sociali precapitalistiche. Cfr. Lineamenti, I, I, p. 96.

[326] Cfr. Lineamenti, I, I, pp. 98-99.

[327] In relazione allo sviluppo della ricchezza materiale della società, universale e particolare invertono le loro posizioni; ma il termine ultimo rimane il medesimo: l’individuale sociale (il produttore sociale – universale – come libero produttore individuale).

[328] Cfr. Lineamenti, I, I, p. 98.

[329] Lineamenti, I, I, p. 151.

[330] Lineamenti, I, I, pp. 97-98.

[331] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 182.

[332] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 183. La “preistoria della moderna società borghese” si rintraccia proprio in questa brama di denaro. Cfr. Lineamenti, I, II, p. 186.

[333] Lineamenti, I, II, p. 183.

[334] Lineamenti, I, II, p. 187.

[335] Cfr. Lineamenti, I, I, pp. 105-106.

[336] Lineamenti, I, I, p. 104.

[337] Cfr. Lineamenti, I, I, pp. 106-108.

[338] Lineamenti, I, II, p. 185.

[339] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 258, passim.

[340] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 259.

[341] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 267.

[342] Cfr. Lineamenti, I, II, p. 275.

[343] Cfr. Lineamenti, I, III, p. 317.

[344] Cfr. Lineamenti, I, III, p. 318.

[345] Cfr. Lineamenti, I, IV, pp. 415-417.

[346] Lineamenti, I, I, p. 99.

[347] Lineamenti, I, I, p. 118.

[348] Lineamenti, I, I, p. 119.

[349] Hobsbawm, in passato, ha rivendicato con forza, contro le correnti strutturalistiche interne ed esterne al marxismo, la direzionalità storica di fondo della concezione marxiana (direzionalità che non contrasta affatto con il multilinearismo). Nella sua polemica (indirizzata principalmente contro Althusser), però, lo studioso anglosassone non ha individuato in alcun modo un’origine storica di questa concezione unidirezionale-multilineare, interessandosi più che altro alle sue conseguenze nella storiografia. Nello sviluppo del pensiero di Marx, a nostro avviso, è solo con i Grundrisse, e con il fondamentale reimpiego della dialettica hegeliana delle Grundlinien e delle Vorlesungen, che si definisce veramente il concetto di multilinearità-direzionalità. Esso è specificamente diverso tanto rispetto alla teorizzazione precedente (Ideologia tedesca) che rispetto alle formulazioni successive (Capitale ed ultimi scritti). Cfr. Hobsbawm, Il contributo di Marx alla storiografia, in: Spinella (a cura di), Marx vivo, Mondatori, Milano, 1969, vol. I, pp. 373-394.