IL PASSAGGIO DALL’ASTRATTO AL CONCRETO
NEL “CAPITALE” DI MARX
[1]

Eval’d Vasil’evič Il’enkov

La completezza concreta dell’astrazione e dell’analisi come condizione della sintesi teorica

L’esame della struttura logica del Capitale e il suo continuo confronto con il corso logico del pensiero di Ricardo e con le concezioni teoriche dei predecessori di Marx nel campo della logica devono mostrarci la logica marxiana nella sua applicazione pratica all’analisi dei fatti e dei dati empirici.

Il nostro compito è di individuare nel materiale economico i momenti logici universali del pensiero di Marx, le forme cioè che, grazie alla loro universalità, sono valide anche per ogni altra disciplina teorica.

Il Capitale inizia con un’analisi attenta e precisa della categoria del valore, forma reale dei rapporti economici e forma universale ed elementare dell’essere del capitale. Tra tutti i rapporti umani Marx ne analizza uno solo — lo scambio diretto di merci — che, fra l’altro, come già si è osservato, è assai raro nella società capitalistica sviluppata. In questa fase dell’indagine del sistema capitalistico Marx non prende volutamente in esame né il denaro, né il profitto, né il salario, tutte cose che per il momento egli presuppone inesistenti.

Tuttavia l’analisi di questa sola forma di rapporti economici permette di esprimere sul piano della teoria la forma universale oggettiva di tutti i fenomeni e di tutte le categorie del capitalismo sviluppato: il valore come tale, la forma universale del valore.

Il modo elementare di esistenza del valore coincide col valore in generale e lo sviluppo reale di questa forma del valore nelle altre costituisce il contenuto oggettivo della deduzione delle categorie del Capitale. La deduzione, così intesa, perde il carattere formale che ancora aveva in Ricardo ed esprime immediatamente il processo reale di derivazione di certe forme di interazione economica da altre.

È appunto questo l’elemento che mancava sia in Ricardo che nei suoi continuatori di parte borghese.

L’idea marxiana di un concetto universale che sta a fondamento di tutto il sistema delle categorie della scienza non può essere derivata dal carattere specifico dell’oggetto dell’economia politica. Essa rispecchia la legge dialettica universale dello svolgimento di ogni concretezza oggettiva sia nella natura che nella società e nel pensiero.

È un’idea valida per ogni scienza. Per dare una definizione teorica concreta della vita come categoria prima della biologia, per rispondere alla domanda “Che cos’è la vita come tale? “ bisogna operare come ha operato Marx col valore in generale, cioè analizzare concretamente la struttura ed il modo di esistenza della manifestazione più elementare di vita, del corpo albuminoso più semplice. Solo così si ottiene la “definizione” reale e si giunge all’essenza.

Solo così, non astraendo ciò che hanno in comune tutti i fenomeni vitali, è possibile esprimere scientificamente e materialisticamente - la vita nel concetto.

Lo stesso dicasi per chimica. Il concetto di elemento chimico in generale non si elabora astraendo ciò che di uguale e di comune hanno l’elio e l’uranio, il silicio e l’azoto, e tutti gli elementi della tavola di Mendeleev, bensì soltanto mediante un esame particolareggiato dell’elemento più -semplice del sistema: l’idrogeno. L’idrogeno in questo caso è la struttura elementare, scomponendo la quale scompaiono tutte le proprietà chimiche della materia, sia che la scomposizione analitica si compia in sede sperimentale, sia che la si operi solo “nel pensiero.” L’idrogeno è l’elemento universale concreto del chimismo. Le leggi universali necessarie che con esso sorgono e scompaiono sono le leggi elementari dell’esistenza dell’elemento chimico in generale. Nella loro qualità di leggi elementari e universali si ritrovano nell’uranio, nell’oro, nel silicio. Ciascuno di questi elementi composti può essere ridotto, in via di principio, ad idrogeno, il che, fra l’altro, avviene sia in natura che negli esperimenti sui processi nucleari.

Si attua, in altre parole, la trasformazione reciproca di universale e di particolare, di semplice e di composto, che abbiamo osservato nell’esempio delle categorie del capitale dove il profitto si presenta come valore sviluppato, come la forma semplice sviluppata della merce, alla quale il profitto costantemente “si riduce” nel movimento del sistema economico, e quindi anche nel pensiero che quel movimento riproduce. Anche in questo caso, come in tutti gli altri, il concetto universale concreto fissa non una vuota astrazione, ma la forma elementare oggettiva di esistenza di tutto quanto il sistema.

Il “valore -in generale,” la “vita in generale, “ l’“elemento chimico sono concetti concreti. Ciò significa che la realtà in essi rispecchiata è una realtà che esiste (o che è esistita) oggettivamente come caso semplice, non ulteriormente scomponibile, della concretezza data, e che quindi può venir separata come oggetto particolare di esame ed essere studiata e ottenuta sperimentalmente.

Chi invece intende il valore (come del resto, qualsiasi altra categoria universale) soltanto come rispecchiamento dei caratteri generali astratti propri a tutti i fenomeni particolari sviluppati, si trova nell’impossibilità di analizzarlo nella sua essenza, astraendo rigorosamente da tutti i fenomeni sviluppati. In tal caso l’analisi dell’universale si riduce all’analisi formale del concetto. Infatti nel mondo sensibile non vi sono né “l’animale in generale,” né “l’elemento chimico come tale, “né “il valore “: come rispecchiamento di caratteri generali astratti essi esistono realmente soltanto nel pensiero.

Ricardo non sospettava neppure che il valore dovesse essere analizzato concretamente nella sua forma, in rigorosa astrazione dal profitto, dalla rendita fondiaria, dal saggio di profitto, dal capitale e dalla concorrenza. La sua astrazione del valore ha quindi, come ha messo in luce Marx, un doppio difetto: “Da un lato, gli si potrebbe rimproverare di non essere andato abbastanza avanti, di non aver completato l’astrazione, dall’altro di aver concepito la forma fenomenica in maniera immediata, diretta, come conferma o rappresentazione delle leggi generali, di non averla in alcun modo sviluppata. Nel primo senso la sua astrazione è troppo incompleta, nel secondo è astrazione formale, in sé e per sé falsa. “[2]

Non è difficile formulare la concezione marxiana delle categorie universali presupposta in questo giudizio. L’astrazione deve essere:

1) completa, e 2) non formale ma ricca di contenuto. Soltanto in questo caso essa sarà vera, oggettiva.

Ma cosa significa tutto ciò?

Abbiamo già visto che la completezza dell’astrazione presuppone che in essa si esprimano non i caratteri generali astratti propri a tutti i fenomeni particolari cui l’astrazione universale si riferisce, bensì le proprietà concrete dell’elemento oggettivamente elementare e non ulteriormente scomponibile del sistema di interazione, ossia le proprietà della “cellula” della totalità analizzata.

Nel caso del sistema capitalistico di interazione fra gli uomini nel processo di produzione sociale della vita materiale questa cellula è la merce, la forma mercantile semplice di interazione. Nella biologia, con tutta probabilità, è la struttura albuminosa elementare; nella fisiologia del sistema nervoso centrale è il riflesso condizionato, ecc.

A questo punto la questione del “principio della scienza,” della categoria universale iniziale che sta a fondamento di tutto il sistema delle categorie concrete della scienza, si intreccia con la questione della concretezza dell’analisi e del limite oggettivo della scomposizione analitica dell’oggetto.

L’analisi teorica concreta presuppone che l’oggetto venga scomposto non in parti costitutive indifferenti rispetto alla sua particolarità, bensì nelle forme specifiche e necessarie della sua esistenza.

Sotto questo aspetto il metodo analitico di Marx è polarmente opposto al cosiddetto metodo unilaterale analitico, un esempio di applicazione del quale è dato dall’economia politica classica borghese. Il metodo unilaterale analitico, che gli economisti dei secoli XVII e XVIII ereditarono dal meccanicismo delle scienze naturali del loro tempo e dalla filosofia dell’empirismo (attraverso Locke), corrisponde alla idea della realtà oggettiva come aggregato di parti costitutive eterne e immutabili, identiche in ogni oggetto della natura. Da questo punto di vista conoscere una cosa significa scomporla nelle sue parti costitutive eterne e immutabili e quindi capire il loro modo di interazione.

Il “lavoro, “ il “consumo, “ il “profitto “ nella teoria di Smith e di Ricardo sono in questo senso un chiaro esempio di astrazioni unilateralmente analitiche che dissolvono tutta la determinatezza storica concreta dell’oggetto, allo stesso modo della “particella” della fisica di Descartes, dell’“atomo” di Newton e di altrettanti categorie della scienza di quel tempo. Sia Smith che Ricardo tentarono di concepire il sistema capitalistico di interazione come una totalità complessa le cui parti costitutive sono date da realtà eterne identiche in ogni grado dello sviluppo umano il lavoro, gli strumenti di lavoro (il capitale), il consumo, il prodotto addizionale, ecc.

Siffatta operazione di scomposizione analitica dell’oggetto può essere sempre eseguita, sia sperimentalmente che mentalmente. È possibile scomporre analiticamente un coniglio vivo in elementi chimici, in particelle meccaniche, ecc. Ma, dopo aver ottenuto così un ammasso di parti costitutive non siamo in grado di compiere l’operazione opposta, muovendo dal loro esame dettagliato, né possiamo capire perché prima della scomposizione analitica esse formassero nei loro insieme un coniglio vivo.

L’analisi, in questo caso, ha ucciso e distrutto proprio ciò che noi volevamo comprendere per suo mezzo: l’interconnessione viva, concreta, peculiare dell’oggetto. L’analisi ha reso impossibile la sintesi.

In una difficoltà analoga s’è imbattuta l’economia classica borghese, la teoria di Smith e di Ricardo.

La sintesi, che è comprensione del nesso necessario delle parti costitutive dell’oggetto prese astrattamente, risultò impossibile per via del carattere unilaterale dell’analisi con cui le categorie erano state ottenute: essa “aveva fatto a pezzi” la forma storica concreta della loro connessione reciproca.

Già Aristotele aveva rilevato le difficoltà cui si va incontro quando si affronta il problema dell’analisi e della sintesi. Egli aveva giustamente osservato che un’analisi unilaterale non può di per sé risolvere, e tanto meno esaurire, il compito della conoscenza. Il compito della conoscenza, ci insegna la sua Metafisica, è duplice: dobbiamo non solo conoscere di quali parti una cosa è composta, ma anche determinare perché queste parti costitutive sono connesse in modo tale che nel loro insieme formano la data cosa concreta e non un’altra.

Non è difficile scomporre analiticamente nelle sue componenti un oggetto dato nell’intuizione: la sedia è nera, di legno, pesante, ha quattro gambe, un sedile rotondo, ecc. Ecco un esempio elementare di analisi empirica e nello stesso tempo di sintesi empirica di definizioni astratte in un giudizio.

Va osservato che anche in questo caso ha luogo una coincidenza immediata dell’analisi e della sintesi. Nel giudizio “questa sedia è nera” si ritrovano entrambe. Da un lato, si tratta di una sintesi, cioè dell’unione di due astrazioni in un giudizio, dall’altro di un’analisi, ossia dell’articolazione in un’immagine sensibile di due determinazioni diverse. Analisi e sintesi si compiono simultaneamente nel processo di enunciazione dei giudizio più elementare.

Ma nell’esempio addotto garanzia e fondamento della correttezza dell’analisi e della sintesi è l’intuizione immediata, dove le proprietà sintetizzate dal giudizio sono riunite e date come diverse. L’intuizione è infatti la base e il criterio della correttezza della individuazione analitica delle astrazioni connesse nel giudizio.

La coincidenza di analisi e sintesi in un giudizio individuale non presenta difficoltà. Assai più complessa è la relazione di analisi e sintesi in un giudizio teorico, dove è necessario un fondamento più profondo rispetto alla semplice enunciazione che una cosa nell’intuizione appare così e non altrimenti.

Il giudizio “tutti i cigni sono bianchi,” dal punto di vista della sua comprensione logica, non presenta difficoltà alcuna poiché esso non esprime l’unione necessaria di due determinazioni. Ben diverso è il giudizio “tutti i corpi sono estesi.” Se il cigno può essere o non essere bianco, nel giudizio “tutti i corpi sono estesi” abbiamo invece la sintesi necessaria di due determinazioni. Non può esservi un corpo inesteso, come, d’altra parte, non vi è estensione che non inerisca a un corpo.

In altre parole, il giudizio teorico consta di astrazioni ognuna delle quali esprime una determinatezza, venendo meno la quale una cosa cessa di essere sé stessa, cessa di esistere come tale.

Possiamo colorare un cigno, privarlo del suo colore bianco, ma con ciò esso non cessa di essere un cigno.

Non possiamo invece togliere l’estensione ad un corpo senza con ciò stesso distruggerlo.

Il giudizio teorico deve quindi contenere soltanto astrazioni che esprimano forme necessarie di esistenza dell’oggetto.

Dove trovare la garanzia che il giudizio consti proprio di determinazioni astratte di questa specie?

L’intuizione empirica dell’oggetto non può dare una risposta a questa domanda. Per distinguere la forma necessaria di un oggetto da un’altra non necessaria alla sua esistenza di oggetto concreto determinato si deve passare dall’intuizione all’esperimento pratico-sensibile alla pratica sociale dell’uomo in tutto il suo ambito storico.

Soltanto la pratica sociale dell’umanità, cioè l’insieme delle forme storiche di interazione reale dell’uomo con la natura, è la base e il criterio della verità dell’analisi e della sintesi teoriche.

Come si presenta questo problema reale nello sviluppo dell’economia politica? La risposta è chiara, se si esaminano la categoria del lavoro e quella connessa del valore.

Poiché la categoria del valore sta alla base di tutta la teoria e funge da fondamento teorico di tutte le altre generalizzazioni, dalla concezione del lavoro come sostanza del valore dipende la comprensione teorica di tutti gli altri fenomeni del sistema capitalistico.

È giusto il giudizio “la sostanza del valore è il lavoro”? No. Esso equivale nel suo significato al giudizio “l’uomo è per sua natura un proprietario privato,“ ossia all’affermazione che I’“essere proprietario privato” è un attributo intrinseco alla natura dell’uomo quanto l’estensione lo è all’oggetto naturale.

In altre parole, nell’analisi dello stato di cose empiricamente dato vengono individuati, in un tale giudizio, solo caratteri astratti, ciascuno dei quali non appartiene necessariamente alla natura del “lavoro” e del valore.

Marx ha mostrato chiaramente dove sta l’errore. Una proprietà storicamente provvisoria del lavoro viene scambiata per una caratteristica che ne esprime la natura intrinseca assoluta. Non tutte le forme storiche concrete di lavoro creano valore, allo stesso modo che proprietario privato non è l’uomo come tale bensì un uomo storicamente concreto, l’uomo per entro una forma storicamente determinata dell’essere sociale.

Ma come distinguere ciò che appartiene ad una forma storicamente determinata di esistenza dell’uomo da ciò che invece è proprio all’uomo come uomo in generale?

Alla domanda può fornire una risposta soltanto l’analisi ulteriore della realtà da cui si ricava il giudizio teorico dall’angolo visivo di tutta la pratica dell’umanità. La pratica risulta così l’unico criterio che consente di astrarre e di individuare analiticamente con sicurezza la determinazione che esprime una forma attributiva dell’essere dell’oggetto.

Sia ai tempi di Smith e di Ricardo che ai tempi di Marx l’uomo come proprietario privato era un fatto empirico generale non meno della proprietà del lavoro di creare non semplicemente il prodotto, ma la merce, il valore.

Questo stato di cose era stato fissato dai classici dell’economia politica nel giudizio “la sostanza del valore è il lavoro,” il lavoro in generale, senza ulteriori precisazioni teoriche che esprimessero la sua determinatezza storica concreta, nella quale soltanto esso crea non il prodotto ma la merce, non il valore d’uso ma il valore.

Elaborando le determinazioni teoriche astratte con il metodo unilateralmente analitico, i classici dell’economia politica non riuscirono a capire perché il lavoro si presenti ora sotto forma di capitale, ora sotto forma di salario, ora sotto forma di rendita.

Il compito logico che si erano posti sia i naturalisti dei secoli XVII e XVIII che Smith e Ricardo risultò insolubile. Quelli cercavano di capire come e perché gli atomi, le particelle, le monadi creassero, con la loro unione, il sistema cosmico e il corpo degli animali; questi come e perché il lavoro in generale creasse il capitale, la rendita e il salario. La sintesi teorica rimase estranea agli uni e agli altri in quanto l’analisi da loro condotta non era concreta e smembrava l’oggetto in parti costitutive indifferenti, comuni, nel primo caso, ad ogni sfera oggettiva e, nel secondo, ad ogni forma storica di produzione.

Il lavoro in generale è indubbiamente una condizione necessaria. dell’origine e dello sviluppo della rendita, del capitale, del salario e di tutte le altre categorie specificamente capitalistiche. Ma esso è anche condizione del loro non-essere, della loro negazione e distruzione. Il lavoro in generale è indifferente tanto all’essere del capitale quanto al suo non-essere. È una condizione generale necessaria della sua origine, ma non una condizione intrinsecamente necessaria, ossia una condizione che è nello stesso tempo anche necessario effetto. Qui manca la forma di interazione intrinseca, di intrinseco condizionamento reciproco

A proposito di questo delle astrazioni analitiche unilaterali elaborate dai classici della scienza borghese Marx osserva: “Passare direttamente dal lavoro al capitale è altrettanto impossibile, quanto passare direttamente dalla differenza delle razze umane al banchiere, Oppure dalla natura alla macchina a vapore.“[3]

Parafrasando il noto aforismo di Feuerbach “dalla natura non si deduce direttamente il burocrate,” Marx, anche a questo proposito, giunge alle medesime conclusioni e cioè: tutte le difficoltà dell’analisi e della sintesi teoriche si risolvono in realtà sul terreno della categoria dell’interazione storica concreta, del condizionamento reciproco dei fenomeni entro una totalità determinata sorta e sviluppatasi storicamente, entro un sistema storico concreto di interazione.

In altre parole, solo sul terreno di una concezione consapevolmente storicistica della realtà presa in esame, solo sulla base della rappresentazione di ogni realtà oggettiva come sistema di fenomeni interagenti sorto e sviluppatosi storicamente, analisi e sintesi, deduzione e induzione cessano di essere forme logiche metafisicamente opposte e, quindi, sterili.

Siffatta concezione fornì a Marx un criterio preciso grazie al quale egli, operando su tutta la storia razionalmente interpretata della pratica dell’umanità, superò con sicurezza le difficoltà insite nel problema dell’analisi e della sintesi, della deduzione e dell’induzione teoriche.

Dalla pratica dell’umanità presa in tutto il suo ambito storico Marx derivò anche il criterio per differenziare la sintesi empirica e la sintesi teorica, le astrazioni analitiche che fissano lo stato di cose empirico generale e le astrazioni teoriche che fissano nella loro interconnessione il legame intrinsecamente necessario dei fenomeni in esse espressi.

Se Smith e Ricardo, e persino Hegel, spesso spacciano una sintesi puramente empirica per sintesi teorica e una forma fenomenica storicamente provvisoria di un oggetto per la sua struttura intrinseca, per la sua natura eterna, e derivano per deduzione dalla natura delle cose la giustificazione della più rozza empiria, il metodo di Marx, invece, sia sul piano logico che su quello filosofico si oppone decisamente a siffatti procedimenti del pensiero.

Deduzione e induzione, analisi e sintesi si dimostrano mezzi logici possenti nell’esame dei fatti empirici proprio perché vengono consapevolmente poste al servizio di un atteggiamento sostanzialmente storicistico e si fondano su una concezione materialistica dialettica dell’oggetto come sistema di fenomeni peculiari interagenti sorto ed evolutosi storicamente.

Il metodo analitico di Marx va, quindi, dalla totalità data nell’intuizione alle condizioni della sua possibilità e coincide con il metodo di deduzione genetica delle determinazioni teoriche, con l’indagine logica del sorgere reale di certi fenomeni da altri: del denaro dai movimento del mercato delle merci, del capitale dalla circolazione della merce e del denaro, circolazione nella quale finisce per entrare la forza-lavoro, ecc. Questo atteggiamento sostanzialmente storicistico verso gli oggetti e verso il processo della loro espressione teorica ha permesso a Marx di formulare con esattezza il problema della sostanza reale delle proprietà di valore del prodotto del lavoro e della sostanza generale di tutte le rimanenti categorie storiche concrete dell’economia politica.

Non il lavoro in generale, bensì una determinata forma storica con concreta di lavoro è intesa come sostanza del valore. Si pone così in modo nuovo la questione dell’ analisi teorica del valore dal punto di vista della sua forma: esso risulta una categoria universale concreta che rende possibile la comprensione teorica — ossia la deduzione — della necessità storica reale della trasformazione del valore in plusvalore, in capitale, in salario, in rendita ed in tutte le altre categorie concrete sviluppate.

In altre parole, è stato scoperto e analizzato il principio che permette di sviluppare tutto il sistema delle determinazioni teoriche dell’oggetto con una necessità logica che rispecchia quella della genesi reale della formazione capitalistica.

In che cosa consiste l’analisi concreta del valore dal punto di vista della sua forma, analisi che manca appunto in Ricardo? La risposta a questa domanda ci darà la chiave per comprendere il metodo del passaggio dall’astratto al concreto.

Il movimento dalla determinazione teorica generale dell’oggetto alla comprensione di tutta la complessità della sua struttura (concretezza) storica sviluppata presuppone un’analisi concreta e completa della categoria universale iniziale della scienza. Abbiamo visto che in Ricardo la insufficiente concretezza dell’analisi del valore ha predeterminato il fallimento dell’idea di sviluppare tutto il sistema delle determinazioni teoriche e di costruire tutto l’edificio della scienza su un solo fondamento saldamente e categoricamente stabilito, non permettendogli neppure di “dedurre“ la categoria più prossima, il denaro, per non parlare poi dei resto.

Quale è dunque la particolarità dell’analisi marxiana del valore, che pone un saldo fondamento per la sintesi teorica delle categorie e consente di passare, nel modo più rigoroso, dall’indagine del valore a quella del denaro, del capitale, ecc.?

Posta così, la questione spinge immediatamente la logica ad affrontare il problema della contraddizione nelle determinazioni dell’oggetto, problema questo che, in ultima analisi, racchiude in sé la chiave della comprensione di tutto il resto. Nella contraddizione, intesa come unità e coincidenza di determinazioni teoriche reciprocamente escludentisi, Marx trova la spiegazione del concreto e dei modi della sua espressione teorica nel concetto. Passiamo all’analisi di questo punto.

La contraddizione come condizione dello sviluppo della scienza

La contraddizione logica, ossia la presenza nell’espressione teorica dell’oggetto di determinazioni che si escludono vicendevolmente, ha sempre interessato la filosofia. Non c’è dottrina filosofica o logica che non ponga, in una forma o nell’altra, questo problema e che non lo risolva a suo modo. La filosofia se ne è sempre interessata in quanto la contraddizione nelle determinazioni è un fatto indipendente da ogni concezione filosofica, che si riproduce continuamente e con fatale necessità nello sviluppo scientifico, nel pensiero dell’umanità e, quindi, nella filosofia stessa. Inoltre la contraddizione si rivela nel modo più inequivocabile come la forma nella quale sempre ed ovunque si attua il movimento, lo sviluppo del pensiero.

Gli antichi greci si resero perfettamente conto del fatto che la verità nasce sempre nel contrasto delle opinioni. La critica di una teoria si risolve sempre nella scoperta delle sue contraddizioni Ogni nuova teoria si afferma sempre perché indica come risolvere le contraddizioni di cui la vecchia teoria era incapace di venire a capo.

Quando ci si limita a registrare questo fatto empirico come tale, la contraddizione è come qualcosa di intollerabile da cui il pensiero sempre cerca, in un modo o nell’altro, di liberarsi, ma che, nonostante tutti gli sforzi possibili, il pensiero continuamente riproduce.

Tuttavia poiché la filosofia e la logica non si limitano a constatare e a descrivere questo fatto, ma lo analizzano, si pone il problema delle cause e delle fonti della sua apparizione nel pensiero, il problema della sua natura reale. La filosofia si chiede: è ammissibile la contraddizione nell’espressione vera dell’oggetto? È essa qualcosa di puramente soggettivo o sorge invece necessariamente, in virtù della natura delle cose espresse dal pensiero?

Qui corre il confine tra la dialettica e la metafisica, tra due modi radicalmente opposti di risolvere le contraddizioni che sorgono inevitabilmente nello sviluppo scientifico, nello sviluppo del sapere teorico.

La loro differenza, formulata per sommi capi, consiste nel fatto che mentre la metafisica tratta la contraddizione come un fatto esclusivamente soggettivo che, purtroppo, si rinnova continuamente nel pensiero a causa della sua imperfezione, la dialettica la considera la forma logica necessaria in cui si compie lo sviluppo del pensiero, il passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza, il movimento dal rispecchiamento astratto dell’oggetto nel pensiero al suo rispecchiamento sempre più concreto.

La dialettica vede nella contraddizione una forma necessaria dello sviluppo del sapere, una forma logica universale, come è giocoforza ammettere, se si considerano la conoscenza e il pensiero come un processo storico naturale, regolato da leggi indipendenti dalla volontà del soggetto.[4]

La filosofia è richiamata continuamente al problema della contraddizione logica dallo sviluppo del sapere e della scienza. La questione della contraddizione, del suo senso reale, della fonte della causa del suo apparire nel pensiero, si pone infatti allorquando la scienza si avvicina ad un’espressione concettuale sistematica dell’oggetto, quando il pensiero deve costruire un sistema di determinazioni teoriche. Là dove si ha soltanto una esposizione asistematica dei fenomeni, il problema della contraddizione non esiste; ma già il tentativo più elementare di sistematizzazione della conoscenza porta inevitabilmente ad esso.

Abbiamo già visto in quali punti dell’indagine la teoria del valore lavoro incontri necessariamente il problema: in Ricardo, suo malgrado, sorge un sistema di contraddizioni teoriche poiché si cerca di derivare tutte le categorie dal principio della determinazione del valore mediante la quantità del tempo di lavoro. Alcune contraddizioni logiche del sistema furono notate dallo stesso Ricardo, altre vennero rilevate con compiacimento dagli avversari della teoria del valore-lavoro.

Il tipo fondamentale di contraddizione logica, attorno a cui si sviluppò la lotta pro e contro la teoria del valore-lavoro, era la contraddizione tra la legge universale e le forme universali empiriche della sua esistenza.

I tentativi di dedurre dalla legge universale le determinazioni teoriche dei fenomeni concreti sviluppati, che si ripetevano regolarmente e continuamente alla superficie della produzione e della distribuzione capitalistiche, portavano, ad ogni passo, a risultati paradossali.

Un fenomeno ad esempio, il profitto — da un lato “viene ricondotto” sotto la legge del valore, ma, dall’altro, la sua differenza specifica risulta racchiusa in una determinazione che è in contraddizione diretta e immediata con la formula della legge universale.

Questa fatale contraddizione, fra l’altro, si manifestava in forma tanto più acuta, quanto più intensi erano i tentativi di liberarsene.

La presenza di contraddizioni non è un “privilegio” dell’economia politica, che indaga la realtà dei rapporti economici caratterizzata dagli antagonismi di classe.

La contraddizione è familiare a tutte le scienze moderne. Basta ricordare come è sorta la teoria della relatività. I tentativi di spiegare con le categorie della meccanica classica determinati fenomeni emersi negli esperimenti di Michelson portarono a contraddizioni assurde e paradossali, insolubili mediante le categorie “classiche” e la geniale ipotesi di Einstein sorse appunto come soluzione di quelle contraddizioni.

Ma anche con l’apparizione della teoria della relatività, ovviamente, le contraddizioni nella fisica non sono scomparse. Basterebbe ricordare il noto paradosso racchiuso nelle determinazioni teoriche del corpo rotante su sé stesso. La teoria della relatività, che collega le caratteristiche spaziali dei corpi con il loro movimento, ha espresso questa connessione nella formula secondo cui la lunghezza di un corpo si riduce nella direzione del movimento proporzionalmente alla sua velocità. Questa espressione della legge universale del movimento di un corpo nello spazio è entrata nell’arsenale matematico della fisica contemporanea come una salda conquista teorica.

Ma il tentativo di elaborare e di spiegare teoricamente con essa un caso fisico reale quale la rotazione di un disco solido attorno al proprio asse, porta al paradosso. Si ottiene infatti che la circonferenza del disco rotante si riduce tanto più quanto maggiore è la velocità di rotazione, mentre la lunghezza del raggio, sempre secondo la formula, rimane necessariamente invariata.

Va notato che questo paradosso non è semplicemente una stranezza ma un caso in cui si pone in modo serio il problema della realtà fisica delle formule universali di Einstein. Se la formula generale esprime una legge oggettiva della realtà materiale indagata dalla fisica, occorre ammettere nella realtà stessa una relazione oggettivamente paradossale tra il raggio e la circonferenza del corpo rotante, persino nel caso del frullare di una trottola, in quanto l’insignificanza della riduzione della circonferenza non muta nulla nell’impostazione generale del problema.

La convinzione che nella realtà fisica “non può esserci” una correlazione tanto paradossale equivale alla negazione della realtà fisica della legge universale espressa dalla formula di Einstein. Si arriva così a una giustificazione puramente strumentalistica della legge universale. Se la legge serve alla teoria e alla pratica, non dobbiamo stare a chiederci se le corrispondono le “cose in sé.

Si possono trovare infiniti esempi del fatto che la realtà materiale si scopre sempre al pensiero teorico come una realtà contraddittoria. La storia della scienza da Zenone di Elea ad Albert Einstein mostra, indipendentemente da ogni concezione filosofica, che questo è un fatto indiscutibile, empiricamente constatato.

Torniamo all’economia capitalistica e al processo della sua espressione teorica. Questo esempio è particolarmente significativo per la sua eccezionale tipicità, poiché in esso si palesano con evidenza le vie senza uscita cui conduce inevitabilmente il pensiero metafisico quando tenta di risolvere il compito fondamentale della scienza che è quello di dare un’espressione concettuale sistematica dell’oggetto in un sistema di determinazioni teoriche oggettive sviluppato da un principio teorico generale. Inoltre — e questa è la cosa più importante — esso è molto significativo perché nel Capitale troviamo una soluzione razionale delle difficoltà e delle contraddizioni, una soluzione materialistica dialettica delle antinomie che avevano portato al fallimento la teoria del valore-lavoro nella sua forma classica, ricardiana.

Le contraddizioni della teoria del valore-lavoro e la loro soluzione dialettica in Marx

Abbiamo già detto che le contraddizioni teorico-logiche del sistema di Ricardo sono il frutto del tentativo di esprimere tutti i fenomeni per mezzo della categoria del valore, ossia di comprenderli muovendo da un unico principio.

Là dove manca siffatto tentativo non esistono contraddizioni di sorta. La formula della “scienza” volgare (capitale-interesse, terra-rendita, lavoro-salario) non è in contraddizione né con sé stessa né con i fatti empirici evidenti. Ma proprio perciò non contiene neppure un briciolo di comprensione teorica delle cose. Tale formula non contiene contraddizioni per il motivo semplicissimo che essa non stabilisce alcun nesso intrinseco tra capitale e interesse, tra lavoro e salario, tra terra e rendita. Infatti la “scienza” volgare non tenta neppure di dedurre le determinazioni di tutte queste categorie da un solo principio. Tali determinazioni non appaiono come differenze necessarie che sorgono necessariamente per entro una sostanza generale come sue modificazioni. Non stupisce quindi che qui non vi sia alcuna contraddizione intrinseca, ma soltanto la contraddizione esterna fra cose diverse intrinsecamente non contraddittorie. Il metafisico accoglie di buon grado siffatta situazione. Le cose non sono in contraddizione tra loro in quanto non stanno in un rapporto intrinseco necessario. La formula della scienza volgare ha, quindi, all’incirca lo stesso valore scientifico delle sentenze del famoso insegnante ginnasiale che amava ripetere continuamente che i cavalli mangiano avena e fieno e che il Volga sfocia nel Caspio.

Ricardo, a differenza degli economisti volgari, tentò di sviluppare tutto un sistema di determinazioni teoriche muovendo dai principi della teoria del valore-lavoro e perciò tutta la realtà nella sua opera appare come un sistema di conflitti, di antagonismi, di tendenze antinomiche, di forze contrarie che con la loro opposizione creano la totalità analizzata.

Le contraddizioni logiche, in cui economisti e filosofi di parte borghese hanno visto un indice della debolezza e una prova della imperfezione della teoria ricardiana, dimostrano invece il valore e l’oggettività del metodo della sua teoria. Ricardo si preoccupò che le proposizioni e le conclusioni teoriche corrispondessero prima di tutto allo stato reale delle cose e soltanto poi al noto postulato del pensiero metafisico che l’oggetto non può essere in contraddizione con sé stesso, come le sue determinazioni teoriche non possono esserlo tra loro.

Egli espresse coraggiosamente — o addirittura cinicamente, come dice Marx — lo stato reale delle cose, stato reale contraddittorio che si rispecchiò nel suo sistema sotto forma di contraddizioni nelle determinazioni. Quando poi i suoi allievi e seguaci porranno al centro delle proprie preoccupazioni non tanto l’espressione teorica dei fatti quanto piuttosto la ricerca di un accordo formale tra le determinazioni già elaborate, accordo subordinato al supremo principio di non contraddizione, da quel momento inizierà il processo di dissoluzione della teoria del valore-lavoro.

Analizzando le idee di James Mill, Marx constata: “Ciò a cui tende, è una consequenzialità formalmente logica. Con lui comincia quindi [quindi! N.d.A.] anche la dissoluzione della scuola ricardiana.”[5]

Di per sé l’aspirazione a giustificare la teoria di Ricardo di fronte ai tribunale dei canoni della consequenzialità logica formale non scaturisce, ovviamente, da un platonico amore per la logica formale. Lo stimolo è un altro e precisamente il desiderio di presentare il sistema capitalistico di produzione non come un sistema sorto storicamente, e quindi suscettibile di trasformarsi in un altro sistema superiore, bensì come una forma di produzione eterna, perennemente uguale a sé stessa.

E se un determinato fenomeno, dopo essere stato compreso per mezzo della legge universale del valore, ad un certo momento si pone in rapporto di contraddizione teorica (logica) con la formula della legge universale (la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro), per il teorico borghese si ha una testimonianza della non conformità del fenomeno ai fondamenti eterni ed immutabili dell’essere economico. I tentativi sono rivolti allora a dimostrare la diretta conformità del fenomeno alla legge universale intesa senza contraddizione, come forma eterna ed immutabile dell’economia.

Gli economisti borghesi avvertono con particolare acutezza la contraddizione tra la ricardiana legge universale del valore e il profitto. Il tentativo di esprimere i fenomeni di profitto mediante la categoria del valore e quindi di ricondurre il profitto nella teoria del valore-lavoro, rivela già in Ricardo una contraddizione nelle determinazioni. E poiché il profitto è il “sancta sanctorum” della religione della proprietà privata, gli economisti indirizzano tutti i loro sforzi teorici alla ricerca di un accordo delle sue determinazioni con la legge universale del valore.

Ma se si vuole accordare immediatamente le determinazioni teoriche del valore con quelle del profitto come forma e modificazione (specie) particolare del valore, si aprono due vie.

La prima è di mutare l’espressione del profitto nell’intento di ricondurla in modo non contraddittorio sotto le determinazioni universali della categoria del valore. La seconda è di mutare l’espressione del valore, di “precisarla” in modo che le determinazioni del profitto possano essere ricondotte ad essa senza incorrere in contraddizioni.

Entrambe le vie hanno portato alla dissoluzione della scuola di Ricardo. L’economia politica volgare preferiva la seconda via, quella della “precisazione” delle determinazioni del valore secondo il principio dell’empirismo che esige che si faccia corrispondere la formula universale della legge con lo stato di cose constatabile empiricamente, nel nostro caso con la forma empirica di esistenza del profitto.

Siffatta posizione filosofica può sembrare a prima vista la più ovvia. Ma la sua attuazione non è possibile senza il sacrificio dei principi teorici universali della teoria del valore-lavoro e dello stesso concetto di valore.

Esaminiamo in modo particolareggiato come e perché ciò sia inevitabile.

Col rapporto paradossale tra le determinazioni teoriche del valore e del profitto si scontra lo stesso Ricardo. La sua legge del valore dice che il lavoro vivo, il lavoro umano è l’unica fonte del valore, e che il tempo impiegato nella produzione del prodotto costituisce l’unica misura oggettiva del valore.

Tuttavia, che cosa si ottiene riconducendo alla legge universale, che non può essere né violata né abolita né mutata in quanto esprime la natura intrinseca di ogni fenomeno economico, il fatto empiricamente evidente dell’esistenza del profitto?

Ricardo capiva perfettamente che non è possibile spiegare il profitto per mezzo della sola legge del valore, non esaurendo questa tutta la complessità della sua struttura, e come secondo fattore decisivo, nell’interazione col quale la legge del valore sarebbe in grado di spiegare il profitto, prese la legge del saggio medio di profitto, il saggio generale di profitto.

Il saggio generale di profitto è un fatto puramente empirico e perciò evidente. Esso indica che l’entità del profitto dipende esclusivamente dall’entità complessiva del capitale e non dalla proporzione della sua ripartizione in fisso e circolante, in costante e variabile, ecc.

Per spiegare il meccanismo della produzione del profitto Ricardo si richiama a questa legge empirica universale come a un fattore che modificherebbe e complicherebbe l’azione della legge del valore. Che cosa sia tale fattore, da dove provenga, quale rapporto intrinseco abbia con le legge universale, Ricardo non dice. Egli presuppone .a sua esistenza in modo totalmente acritico, come fatto empiricamente evidente.

Ma anche un’analisi poco approfondita mostra subito che la legge del saggio medio di profitto è in contraddizione diretta con la legge universale del valore, con la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro.

“Invece di presupporre questo saggio generale di profitto, Ricardo avrebbe dovuto piuttosto indagare fino a che punto la sua esistenza corrisponda in generale alla determinazione dei valori mediante il tempo di lavoro, e avrebbe trovato che, invece di corrispondervi, vi contraddice prima facie...[6]

La contraddizione consiste nel fatto che la legge del saggio medio di profitto stabilisce che l’entità del profitto dipende esclusivamente dall’entità del capitale complessivo e non è soggetta alla parte di capitale spesa nel salario e trasformata in lavoro vivo dell’operaio. Ma la legge universale dei valore afferma che ogni nuovo valore è il prodotto del lavoro vivo e non del lavoro morto (del lavoro già in precedenza oggettivato sotto forma di macchine, edifici; materie prime, ecc.) che non crea valore alcuno, limitandosi a trasferire passivamente un po’ per volta il proprio valore nel prodotto.

Ricardo vedeva la difficoltà, ma, preso negli schemi del pensiero metafisico, egli la definiva e la interpretava non come una contraddizione nelle determinazioni della legge, bensì come un’ “eccezione alla regola.” Il che non cambia nulla, e Malthus nota giustamente a questo proposito che nel processo di sviluppo dell’industria la regola diventa un’eccezione e l’eccezione una regola.[7]

Sorge così un problema che il pensiero metafisico non può assolutamente risolvere. Per il teorico metafisico la legge universale ha un senso solo come regola empirica universale alla quale siano subordinati in modo immediato tutti i fenomeni. Ma, nel caso dato, diventa regola empirica universale proprio il contrario della legge universale del valore, la sua negazione appunto.

La legge universale individuata teoricamente finisce per porsi in una contraddizione antinomica insolubile con la regola empirica universale, con l’elemento universale empirico dei fatti. Continuando i tentativi di accordare la legge universale con il generale immediato, astratto dai fatti, si urta in un problema “la cui soluzione è molto più difficile della quadratura del circolo... -È come voler provare l’esistenza di qualcosa che non esiste.“[8]

Nella storia dell’economia politica il rapporto tra l’universale e il particolare, tra la legge universale e la sua forma fenomenica empiricamente evidente (il generale nei fatti), tra l’astrazione teorica e l’astrazione empirica, è stato un ostacolo che la teoria borghese non è riuscita a superare.

I fatti sono una cosa testarda. E qui ci troviamo di fronte a un fatto: la legge universale (la legge del valore) è in contraddizione con la propria forma fenomenica, con la legge del saggio medio di profitto. Accordare in modo immediato l’una e l’altra è impossibile, in quanto accordo non esiste nella realtà economica.

Il teorico metafisico considera questo fatto un paradosso inatteso e lo interpreta inevitabilmente come il portato di errori in cui il pensiero è incorso nel processo di elaborazione teorica dei fenomeni. Egli cerca naturalmente di risolvere il paradosso con un’analisi puramente formale della teoria, “precisando i concetti” e “correggendo le espressioni.” Il postulato che la realtà oggettiva non può essere in contraddizione con sé stessa è per il metafisico una legge suprema e perentoria, in omaggio alla quale egli è pronto a sacrificare tutto.

Denunciando il carattere antiscientifico di simili schemi e la loro totale incompatibilità con l’atteggiamento teorico, Marx osserva: “La contraddizione fra la legge generale e i rapporti concreti meglio sviluppati è qui risolta... con, l’assimilazione diretta e con l’adattamento immediato del concreto all’astratto. E ciò è effettuato mediante una finzione verbale, modificando i veri nomi delle cose. Si tratta in realtà di dispute verbali, perché si vogliono risolvere a parole contraddizioni reali, che realmente non possono essere risolte.[9]

La legge di non contraddizione trionfa, ma perisce la teoria, che si trasforma in una vuota logomachia, in un sistema di trucchi semantici.

La constatazione delle contraddizioni nelle determinazioni teoriche dell’oggetto di per sé non costituisce un “privilegio” della dialettica consapevole. La dialettica non è un tentativo di accumulare contraddizioni, antinomie e paradossi nelle determinazioni teoriche delle cose. A ciò è molto più vicino, anche se contro le proprie intenzioni, il pensiero metafisico.

Il pensiero dialettico, invece, sorge quando il pensiero metafisico si confonde definitivamente nelle contraddizioni con sé stesso, nelle contraddizioni tra alcune sue conclusioni ed altre.

Il tentativo dì liberarsi dalle contraddizioni “precisando” espressioni e termini è un modo metafisico di superare le contraddizioni nella teoria. Modo che, in ultima analisi, non incrementa la teoria, ma la dissolve. Tuttavia, poiché la vita esige che la teoria venga sviluppata, i tentativi di costruire una teoria priva di contraddizioni conducono soltanto all’accumularsi di nuove contraddizioni, ancor più assurde e insolubili di quelle apparentemente superate.

Il compito, ripetiamo, non è quindi di dimostrare semplicemente che la realtà oggettiva si dispiega sempre al pensiero teorico come una contraddizione viva che esige di essere risolta. Nel XX secolo non è più necessario dimostrare questa verità, né nuovi esempi possono aggiungere qualcosa a ciò che è ormai evidente persino per il metafisico più incallito.

Ma il metafisico di oggi, pur accettando il fatto suddetto, dirige tutti i suoi sforzi nel tentativo di giustificarlo come il risultato di insufficienze organiche dell’attività conoscitiva, come il portato della “imperfezione” dei concetti e delle determinazioni, come il frutto della relatività e della imprecisione dei termini, delle espressioni, ecc. Oggi il metafisico riconosce la contraddizione, ma soltanto come inevitabile limite soggettivo e, come ai tempi di Kant, non può ammettere che in essa si esprime la contraddittorietà intrinseca delle cose “in sé,” della realtà oggettiva. Perciò la metafisica si è posta attualmente al servizio dell’agnosticismo e del soggettivismo relativistico.

La dialettica muove da una concezione diametralmente opposta e fonda la soluzione del problema sul fatto che lo stesso mondo materiale, la realtà oggettiva, è un sistema vivo che si svolge attraverso il sorgere e il risolversi delle proprie contraddizioni intrinseche. Il metodo dialettico, la logica dialettica, non solo non teme le contraddizioni nella determinazione teorica dell’oggetto, ma esige di ricercarle attivamente e di stabilirle con precisione non certo al fine di accumulare antinomie e paradossi nelle determinazioni teoriche, ma per trovarne la soluzione razionale.

La soluzione razionale delle contraddizioni nella determinazione teorica è possibile soltanto se si indaga il modo in cui esse sono risolte dal movimento della realtà oggettiva, dal movimento e dallo sviluppo del mondo delle cose “in sé.”

Torniamo all’economia politica e vediamo come Marx risolve le antinomie fissate dalla scuola di Ricardo malgrado la propria intenzione filosofica.

Prima di tutto Marx rigetta ogni tentativo di accordare in modo diretto ed immediato la legge universale (la legge del valore) con le sue forme empiriche di manifestazione, cioè con l’espressione generale astratta dei fatti, con l’elemento immediatamente comune che può essere osservato induttivamente nei fatti.

Tale coincidenza diretta ed immediata, osserva Marx, non esiste nella realtà dello sviluppo economico. Tra la legge universale e la sua manifestazione empirica esiste un rapporto di contraddizione polare. La legge del valore è in diretta contraddizione con la legge del saggio medio di profitto nella realtà stessa e non soltanto nel pensiero di Ricardo.

Nel tentativo di dimostrare la loro coincidenza diretta ed immediata “l’empirismo grossolano si trasforma in falsa metafisica, in scolastica, che si sforza di far derivare direttamente dalla legge generale, o di spiegare con essa, mediante semplice astrazione formale, innegabili fenomeni empirici.“[10]

Quando infine avverte l’inutilità di questo tentativo, l’empirico conclude che errata è la formula della legge generale e comincia a “correggerla.” In questo modo la scienza borghese ha svuotato del suo significato teorico la legge ricardiana del valore e ha smarrito, osserva Marx, il concetto stesso di valore.

Infatti, per accordare la legge del valore con la legge del saggio medio di profitto e con gli altri inconfutabili fenomeni della realtà economica che la contraddicono Mac Culloch muta il concetto di lavoro come sostanza del valore. Ecco la sua definizione del lavoro: “Il lavoro può essere con diritto definito come una specie di azione o di operazione, sia che venga compiuto da uomini, da animali più bassi, o da macchine e da forze naturali, che si sforzano di ottenere un certo risultato. “[11]

Grazie a questa definizione del lavoro Mac Culloch si libera dalle contraddizioni di Ricardo.

“E si è osato dire che il miserevole Mac ha portato agli estremi Ricardo... Lui, che perde il concetto stesso di lavoro!.“[12] Così Marx qualifica questo ragionamento.

La “perdita del concetto” è inevitabile, quando si voglia costruire un sistema di determinazioni teoriche privo di contraddizioni tra la legge universale e la sua forma fenomenica.

Marx opera in tutt’altro modo. Dalle determinazioni teoriche del suo sistema non scompaiono e non si eliminano le contraddizioni che spaventano il metafisico che non conosce una logica diversa da quella formale.

Se prendiamo una proposizione teorica del primo libro del Capitale e la confrontiamo direttamente con una proposizione teorica del terzo libro, vediamo che tra esse vi è sempre un rapporto di contraddizione logica.

Nel primo libro, ad esempio, si mostra come il plusvalore sia prodotto esclusivamente dalla parte del capitale che, spesa nel salario, si è tra sformata in lavoro vivo del salariato, cioè dal capitale variabile.

Tuttavia una proposizione del terzo libro dice: “Comunque stiano le cose, resta ferma la conclusione che il plusvalore deriva contemporaneamente da tutte le parti del capitale impiegato.”[13]

La contraddizione, individuata già dalla scuola di Ricardo, non solo non è scomparsa ma, al contrario, è presentata come contraddizione necessaria dell’essenza stessa del progresso di produzione del plusvalore. E gli economisti borghesi, dopo la pubblicazione del terzo libro del Capitale, hanno constatato trionfalmente che Marx non era riuscito a risolvere le antinomie della teoria del valore-lavoro e non aveva assolto gli impegni presi nel primo libro, e che, insomma, tutto il Capitale si riduceva ad una esercitazione dialettica speculativa.

Il sottofondo filosofico e logico di queste critiche è sempre l’idea metafisica che la legge universale può considerarsi dimostrata nei fatti soltanto quando si riesce ad accordarla senza contraddizione con la forma fenomenica generale, con ciò che hanno di comune i fatti scoperti dall’intuizione immediata.

Proprio questo manca nel Capitale e perciò l’economista volgare strepita che le proposizioni nel terzo libro confutano quelle del primo, essendo con esse in contraddizione diretta. Il che è, per l’empirico, una riprova della falsità della legge del valore, una dimostrazione del fatto che essa è una “pura mistificazione” in contraddizione con la realtà con la quale non ha nulla in comune.

Su questo punto l’empirismo volgare degli economisti borghesi ha trovato l’appoggio dei kantiani. Ad esempio, Conrad Schmidt è formalmente d’accordo con l’analisi di Marx, ma con la riserva che la legge universale del valore è “nella forma di produzione capitalistica, addirittura una finzione, anche se teoricamente necessaria.“[14]

Questa legge è ritenuta dai kantiani una finzione, un’ipotesi artificiosa e speculativa, sempre perché non può essere giustificata da ciò che di immediatamente comune hanno i fenomeni empirici evidenti.

L’elemento comune dei fenomeni — la legge del saggio medio di profitto — è l’opposto della legge del valore, cui contraddice in termini di reciproca esclusione. Quindi per i kantiani la legge del valore è soltanto un’ipotesi artificiosa, una finzione teoricamente necessaria, e non può essere l’espressione teorica della legge universale oggettiva, cui sono sottoposti i fenomeni.

Nel Capitale, dunque, il concreto si trova in contraddizione con l’astratto, e la contraddizione non solo non scompare per il fatto che tra essi si crea tutta una catena di anelli di mediazione, ma si dimostra contraddizione necessaria della stessa realtà economica, non conseguenza di difetti teorici della concezione ricardiana della legge del valore.

La natura logica di questo fenomeno può essere facilmente dimostrata Con un esempio elementarissimo, che non richiede conoscenze particolari nel campo dell’economia politica.

Nell’esame matematico quantitativo di determinati fenomeni spesso si ottiene un sistema contraddittorio di equazioni, in cui ci sono più equazioni che incognite. Ad esempio:

X + X =2

50 X + 50 X = 103

La contraddizione logica è qui evidente. Pur tuttavia questo sistema di equazioni è assolutamente reale. La sua realtà diventa lampante se, ad esempio per x si intenda un copeco e che la somma dei copechi avvenga non soltanto e non tanto nel pensiero, quanto in una cassa di risparmio che paga un interesse annuo del 3% sulla somma depositata.

Date queste condizioni concrete e reali la somma dei copechi si esprime esattamente nel sistema “contraddittorio” di equazioni sopra riportato. La contraddizione è qui l’espressione immediata del fatto che nella realtà si sommano — si sottraggono, si dividono, si elevano a potenza, ecc. — non “quantità” speculativamente pure, bensì grandezze qualitativamente determinate, e che un aumento puramente quantitativo di queste grandezze provoca a un certo punto un salto qualitativo che spezza il processo quantitativo ideale e genera un para dosso nell’espressione teorica.

Ogni scienza si scontra continuamente con fenomeni del genere. Un esempio elementare: è stato scoperto che il volume di un gas, diminuendo la temperatura di 1°, si riduce di 1/273; entro determinati limiti il comportamento del gas corrisponde rigorosamente a questa legge. Tuttavia a temperature molto basse si ottengono risultati completamente diversi. La contraddizione tra la legge iniziale e l’espressione matematica della sua azione nelle basse temperature dimostra la comparsa di un fatto nuovo che è determinato dall’abbassamento della temperatura e che modifica la proporzione, e non attesta affatto dell’ “erroneità” delle espressioni numeriche fra loro contraddittorie. Da tempo la scienza ha imparato a considerare tali contraddizioni per quel che veramente sono. Ma l’avversione o l’incapacità di applicare consapevolmente la dialettica porta a vedere nella matematica una “finzione teoricamente necessaria, “ uno strumento puramente artificioso dell’intelletto.

La matematica, che si scontra di continuo con paradossi analoghi, è per i positivisti contemporanei quello che per Conrad Schmidt era il valore. I positivisti giustificano la “matematica pura” in modo pragmatistico e strumentalistico, come forma artificiosa dell’attività spirituale del soggetto che porta — non si sa perchè — al risultato voluto. Questo atteggiamento verso la matematica ha alla base la circostanza reale che un’applicazione diretta ed immediata delle formule matematiche universali al processo quantitativo e qualitativo di sviluppo dei fenomeni, alla concretezza reale, porta sempre e inevitabilmente al paradosso, alla contraddizione logica nell ‘espressione matematica.

Ma, anche in questo caso, come nell’economia politica, la contraddizione non è il prodotto di errori commessi dal pensiero nel processo di formulazione teorica del fenomeno. Al contrario, essa esprime in modo diretto ed immediato la dialettica dei fenomeni stessi. Una “soluzione” effettiva di tale contraddizione può consistere solo nell’ulteriore analisi delle condizioni e delle circostanze concrete entro le quali il fenomeno si compie, e nell’individuazione dei parametri qualitativi che in un punto determinato spezzano la serie puramente quantitativa. In questo caso la contraddizione mostra non la falsità o l’erroneità dell’espressione matematica, bensì la falsità dell’opinione che un’espressione data definisca il fenomeno in modo esauriente.

L’equazione x + x = 2, 50X + 50X = 103, esprime esattamente l’aspetto quantitativo del fatto e sembra assurda soltanto fino a quando non si scopre il significato oggettivo concreto dell’incognita e si individuano le condizioni concrete nelle quali le incognite vengono addizionate.

Naturalmente è possibile anche il caso che la contraddizione nell’equazione sia l’indice e la forma di manifestazione di imprecisioni o di inesattezze commesse dal soggetto. Poniamo che il significato reale di x sia, indipendentemente dal soggetto, dalla scala di misurazione e dalla precisione dell’apparecchio di misurazione, uguale per esempio a 1,0286 e che dall’addizione degli x non scaturisca alcun mutamento qualitativo. In questo caso la contraddizione logica dell’espressione matematica sarà, nella sua origine e nel suo significato oggettivo, di tutt’altra specie e costituirà il risultato di un errore o di una imprecisione nella misurazione, di una insufficiente precisione dello strumento di misurazione, di una inadeguatezza della scala, ecc. Qui l’unico colpevole della contraddizione è il soggetto che nella somma di due x non ha saputo cogliere ed esprimere la differenza tra 2 e 2,056, mentre nella somma di cento x ha ottenuto un risultato in cui la differenza risulta chiaramente. Questa contraddizione logica, ovviamente, si risolve in modo affatto diverso da quella che abbiamo esposto nel primo esempio.

Tuttavia in base alla sola struttura matematica formale dell’equazione è impossibile stabilire con quale dei due casi abbiamo a che fare e per che via si debba risolvere la contraddizione. In entrambi i casi è necessaria un’analisi concreta supplementare della realtà nella cui espressione è apparsa la contraddizione.

La differenza tra la dialettica e la metafisica a questo riguardo non è che mentre la metafisica dichiara qualsiasi contraddizione nelle determinazioni un male intollerabile, la dialettica considererebbe invece ogni contraddizione un bene, una verità. Per la logica metafisica le cose stanno effettivamente così. Ma la dialettica non è la semplice affermazione dell’opposto. Altrimenti non sarebbe dialettica, ma metafisica con il segno cambiato, ossia sofistica.

La dialettica non nega che nella conoscenza spesso appaiano contraddizioni puramente soggettive, dalle quali è necessario liberarsi il più rapidamente possibile. Tuttavia non si può stabilire con che genere di contraddizione abbiamo a che fare, riferendosi alla forma esteriore (matematica formale o sintattica verbale) dell’equazione o del giudizio. Per la logica metafisica la contraddizione nelle determinazioni è sempre il risultato di errori e di imprecisioni commessi in precedenza dal pensiero, e quindi la comparsa di una contraddizione nel movimento del pensiero diventa un ostacolo insormontabile. Quando si ha una contraddizione, la logica metafisica vieta di sviluppare oltre il pensiero e raccomanda di tornare indietro e di scoprire ad ogni costo nel ragionamento precedente l’errore, causa della contraddizione. Fino a che non si riesce a mostrare la contraddizione come il risultato di un errore del soggetto, il pensiero non ha il diritto di spingersi più avanti.

La dialettica non nega l’utilità della verifica del corso precedente del pensiero, verifica che in certi casi mostra come la contraddizione sia proprio risultato di errore o di imprecisione.

La dialettica nega che si possa elaborare una formula capace di farci riconoscere sull’istante, evitando qualsiasi analisi del sapere nel senso del suo reale contenuto oggettivo, le contraddizioni “logiche” ossia soggettive, derivanti da imprecisione o incuria d’espressione. Tale pretesa sta alla base delle formulazioni classiche del principio di “non contraddizione,” sia di quella aristotelica che di quella leibniziano kantiana. Secondo la prima, è da escludersi ogni proposizione che esprima una contraddizione dell’oggetto con sé stesso “nello stesso tempo e nella stessa relazione “; secondo l’altra ogni proposizione o giudizio che attribuisce al concetto un predicato (una caratteristica) che gli contraddice.

Il divieto formulato da Aristotele comprende il famoso paradosso zenoniano della freccia. Perciò tutti i logici, che vogliono attribuire un carattere assoluto al divieto aristotelico, da duemila anni tentano in modo strenuo ma vano, di presentare quel paradosso come il risultato di una scorretta formulazione dei fatti e rischiano di consumare altri duemila anni di sforzi inutili perché Zenone ha espresso nell’unica forma possibile — e perciò nell’unica “giusta” — un caso estremamente tipico della contraddizione dialettica contenuta in qualsiasi fenomeno di passaggio, di movimento, di mutamento, di trasformazione.

D’altra parte, la formula di Leibniz e di Kant interdice, ad esempio, il giudizio: l’ideale il materiale trasferito e trasformato nel cervello umano. Questo giudizio esprime il passaggio reciproco di due opposti e perciò definisce il soggetto mediante un predicato che non gli è immediatamente congiunto. L’ideale come tale non è in modo immediato il materiale, è il non-materiale, e viceversa.

Ogni proposizione che esprima il momento e l’atto del passaggio — e non soltanto il suo risultato — racchiude inevitabilmente in sé una contraddizione più o meno esplicita, contraddizione “nello stesso tempo” (il tempo, il momento del passaggio) e “nella stessa relazione” (la relazione del passaggio di un opposto nell’altro).

Perciò sono destinati a priori al fallimento tutti i tentativi di elevare il principio di non contraddizione a regola formale assoluta, indipendente dal contenuto concreto delle proposizioni. Tale regola o interdice le proposizioni “contraddittorie in senso logico” e assieme tutte le proposizioni che esprimono le contraddizioni del mutamento reale, del passaggio reale degli opposti, o ammette le une e le altre. Ciò è inevitabile in quanto per la loro forma di espressione linguistica esse sono assolutamente identiche. La realtà oggettiva assai spesso racchiude in sé una contraddizione intrinseca “nello stesso tempo e nella stessa relazione” e la proposizione corrispondente è considerata dalla logica dialettica perfettamente corretta, nonostante tutti i lamenti dei metafisici.

Così se la contraddizione nelle determinazioni dell’oggetto è il portato necessario del movimento del pensiero conforme alla logica dei fatti che caratterizzano il movimento, il mutamento, lo sviluppo dell’oggetto, il passaggio dei suoi diversi momenti l’uno nell’altro, essa non è una contraddizione “logica,” anche se ne possiede tutti i caratteri formali, ma è l’espressione assolutamente corretta di una contraddizione dialettica oggettiva.

In questo caso la contraddizione non è più una barriera insormontabile nel movimento del pensiero, ma, al contrario, un trampolino che consente di fare un balzo decisivo in avanti nell’analisi concreta e nel processo dell’ulteriore rielaborazione dei dati empirici in concetti.

Ma questo balzo, caratteristico dello sviluppo dialettico dei concetti, si rende possibile soltanto perché di fronte al pensiero sorge, sotto forma di contraddizione, un problema reale che viene risolto con l’ulteriore analisi concreta dei fatti concreti, con la ricerca dei reali anelli di mediazione grazie ai quali la contraddizione si risolve nella realtà. Così la scienza ha sempre risolto i problemi davvero ardui.

La filosofia del materialismo dialettico, ad esempio, è stata la prima che si è dimostrata capace di porre e di risolvere il problema della coscienza perché l’ha affrontato dalle posizioni di una concezione dialettica della contraddizione. Il vecchio materialismo metafisico sfociava al proposito in una patente contraddizione. Da un lato, ogni materialismo afferma che la materia, la realtà oggettiva, è primaria e che la coscienza è il rispecchiamento di questa realtà, cioè è derivata. Ma se si prende in astratto un fatto isolato dell’attività razionale, il rapporto tra la coscienza e l’oggettività appare capovolto. L’architetto dapprima costruisce la casa nella coscienza e soltanto dopo modifica, con l’aiuto dei muratori, la realtà oggettiva conformemente ai piano ideale elaborato. Questo fatto, quando sia espresso in categorie filosofiche, è in “contraddizione logica” con la tesi generale del materialismo. Qui primaria è la coscienza, il piano ideale di attività, mentre l’incarnazione oggettiva del piano è qualcosa di derivato.

I materialisti dell’epoca premarxista, come è noto, non sono riusciti a risolvere sul terreno filosofico questa contraddizione. A proposito della coscienza teorica essi sostenevano il punto di vista del rispecchiamento, la tesi della primarietà dell’essere e del carattere derivato della coscienza, ma, non appena venivano a trattare dell’attività consapevole dell’uomo, non sapevano più trovare il bandolo della matassa. Non a caso tutti quei materialisti avevano una concezione idealistica della storia della società. In questo campo essi sostenevano un principio di interpretazione diametralmente opposto a quello del rispecchiamento. Nelle teorie degli illuministi francesi convivevano concordemente due principi antinomici di interpretazione della conoscenza e dell’attività umane.

Marx e Engels hanno mostrato che il materialismo metafisico cadeva continuamente in tale contraddizione perché non vedeva il vero anello di mediazione tra la realtà oggettiva e la coscienza, non capiva cioè la funzione della pratica. Individuando tale anello di mediazione, il materialismo dialettico risolve il problema concretamente, spiega l’attività del soggetto muovendo da un unico principio generale e introduce il criterio del materialismo nella concezione della storia. Quindi la contraddizione è tolta, concretamente risolta, spiegata nella sua necessità.

Il materialismo metafisico eliminava la contraddizione con l’astratta riduzione delle determinazioni della coscienza a determinazioni della materia. Ma siffatta “soluzione” lasciava intatto il problema reale. I fatti che non venivano direttamente ricondotti alla tesi della primarietà della materia (i fatti dell’attività cosciente dell’uomo) certo non scomparivano per questo dalla realtà, bensì soltanto dalla coscienza del materialista. Il materialismo non era così in grado di sconfiggere definitivamente l’idealismo neppure all’interno della propria dottrina.

Il materialismo metafisico non eliminava il terreno reale sul quale sorgevano di continuo le concezioni idealistiche del rapporto tra la materia e lo spirito.

Soltanto il materialismo dialettico di Marx, Engels e Lenin è stato capace di risolvere questa contraddizione, conservando la tesi prima di ogni materialismo ma introducendola concretamente nell’interpretazione della genesi della coscienza dall’attività pratica sensibile diretta a trasformare le cose.

La contraddizione non viene con ciò eliminata o dichiarata fittizia, ma mostrata come l’espressione necessaria di un fatto reale nel suo sorgere. L’idealismo è così scacciato dal suo rifugio più sicuro, dalla speculazione sui fatti inerenti all’attività del soggetto nella pratica e nella conoscenza.

Non diverso è lo schema generale di soluzione dialettica delle contraddizioni teoriche, le quali non vengono negate o eliminate, ma concretamente risolte in una nuova, più profonda interpretazione dei fatti, nell’analisi di tutta la catena di anelli di mediazione che serra le proposizioni astratte reciprocamente escludentisi.

Il metafisico fra due tesi astratte cerca sempre di sceglierne una, lasciandola in tal modo astratta: questo è il senso della formula “o — o”.

La dialettica, invece, proponendo al pensiero la formula “e — e,” non lo indirizza verso la conciliazione eclettica di due tesi reciprocamente escludentisi, come spesso, nel fervore polemico, vorrebbero dimostrare i metafisici. La dialettica indirizza verso un’analisi più concreta dei fatti nella cui espressione è apparsa la contraddizione e cerca la soluzione della contraddizione nell’analisi concreta dei fatti, nell’esame di tutta la catena degli anelli di mediazione tra due lati effettivamente contraddittori della realtà.

Ognuna delle tesi prima astratte si trasforma così in momento dell’interpretazione concreta dei fatti e si spiega come espressione unilaterale della concretezza contraddittoria reale dell’oggetto, della concretezza nel suo sviluppo. Nello sviluppo compare sempre, in un de terminato punto, una nuova realtà, la quale, benché si sia sviluppata sulla base delle forme precedenti, le nega e possiede caratteristiche che sono in contraddizione con quelle della realtà meno sviluppata.

La contraddizione come principio di sviluppo della teoria

Analizziamo ora la differenza fondamentale tra il processo di deduzione delle categorie nel capitale e la deduzione logica formale, analizziamo cioè la sostanza concreta del metodo del passaggio dall’astratto al concreto.

Abbiamo visto che in Ricardo il concetto di valore, ossia la categoria universale del sistema della scienza, è un’astrazione non solo incompleta ma anche formale e perciò falsa. Considerando il valore un concetto che esprime l’elemento comune astratto di ogni categoria sviluppata e di ogni fenomeno concreto in essa compreso, Ricardo non conduce un’analisi specifica del valore, prescindendo da tutte le rimanenti categorie.

Così già nelle determinazioni teoriche della categoria universale iniziale e nei modi di determinarla è contenuta in germe tutta la differenza tra la deduzione delle categorie nel metafisico Ricardo e il metodo del passaggio dall’astratto al concreto nel dialettico Marx.

Marx ricava consapevolmente le determinazioni teoriche del valore dall’analisi concreta e particolareggiata dello scambio semplice delle merci, lasciando da parte come estranei tutti i fenomeni derivati e le categorie che li esprimono. Ecco un’astrazione realmente completa e ricca di contenuto, e non formale (“ generica “).

Soltanto questa concezione, che presuppone un atteggiamento storicistico concreto verso l’oggetto, permette un’analisi speciale della forma del valore, del contenuto concreto della categoria universale, ossia l’analisi del valore non come concetto ma come realtà concreta sensibile, come concretezza economica elementare.

Il valore viene analizzato non come astrazione mentale dell’elemento comune, bensì come realtà economica specifica, oggettivamente esistente e, quindi, passibile di indagine, come una realtà che ha un contenuto storico concreto, la cui scoperta teorica coincide con l’elaborazione delle determinazioni del concetto di valore.

Marx dimostra che il contenuto reale della forma del valore non è la semplice identità quantitativa astratta dei diversi lavori, come credeva Ricardo, bensì l’identità dialetticamente contraddittoria degli opposti, ossia delle forme relativa e equivalente di espressione del valore di ognuna delle merci soggette a scambio. La scoperta della contraddizione intrinseca della forma semplice della merce è il punto in cui la dialettica di Marx si contrappone ai metodo metafisico di Ricardo.

Il contenuto della categoria universale, del concetto concreto di valore, è, in altre parole, elaborato da Marx non sulla base del principio di identità astratta, bensì sulla base del principio dialettico di identità dei poli che si presuppongono a vicenda e delle determinazioni che si escludono a vicenda.

Il contenuto della categoria del valore è quindi scoperto mediante l’individuazione delle contraddizioni intrinseche della forma semplice del valore che si realizza sotto forma di scambio delle merci. La merce è intesa da Marx come contraddizione viva della realtà così denominata, come vivo e irrisolto antagonismo entro questa realtà. La merce contiene la contraddizione in sé, nelle proprie determinazioni economiche immanenti.

Ciascuna delle due merci che si scambiano possiede, come mostra Marx, la proprietà dello sdoppiamento intrinseco in momenti che ad un tempo si escludono e si presuppongono a vicenda.

Ognuna di esse racchiude in sé la forma economica del valore come propria determinatezza economica immanente. Nello scambio la determinatezza economica intrinseca delle merci si manifesta, si esprime, ma non si crea.

Questo è il punto centrale alla cui comprensione è strettamente connesso non solo il problema del valore ma anche il problema logico del concetto concreto come unità di determinazioni che si presuppongono a vicenda e nello stesso tempo si escludono.

Nello scambio una merce viene sostituita nelle mani del suo detentore da un’altra, e questa sostituzione è reciproca. Essa può aver luogo solo nel caso che le merci si equivalgano come valori. Che cos’è allora il valore?

Che cos’è questa realtà economica la cui natura si rivela nello scambio? Come esprimerla in un concetto? Lo scambio mostra che ogni merce rappresenta per il suo detentore soltanto un valore di scambio, non un valore d’uso, mentre nella merce, in cui intende scambiare la propria, ciascuna delle parti non vede che un valore d’uso, ossia una cosa capace di soddisfare una sua personale esigenza. Questo atteggiamento è identico in entrambe le parti.

Dal punto di vista di un detentore le merci si presentano quindi in forma diversa, anzi opposta: la propria merce (la tela) è soltanto un valore di scambio e non d’uso, che’, altrimenti, non si sarebbe accinto ad alienarla, a cambiarla. L’altra merce (un abito), invece, è per lui soltanto un valore d’uso, un equivalente della propria merce.

Il senso dello scambio sta nella sostituzione reciproca di valore di scambio e di valore d’uso, di forma relativa e di forma di equivalente. Questa sostituzione e metamorfosi di forme economiche polari e opposte del prodotto del lavoro è la più oggettiva delle trasformazioni e ha luogo indipendentemente dalla mente del teorico.

Nella trasformazione reciproca degli opposti si realizza e si attua il valore. Lo scambio è l’unica forma possibile nella quale si manifesta la natura di valore di ognuna delle merci.

È chiaro che questa natura misteriosa può manifestarsi e mostrarsi soltanto mediante la trasformazione reciproca degli opposti, del valore di scambio e del valore d’uso, mediante la sostituzione reciproca della forma relativa e della forma di equivalente, cioè, in altri termini, soltanto grazie al fatto che una merce (la tela) si presenta come valore di scambio e l’altra (l’abito) come valore d’uso, che quella funge da forma relativa di espressione del valore e questa da suo opposto, da equivalente. Entrambe le forme non possono abbinarsi in una sola merce, in quanto allora verrebbe meno ogni necessità di scambio. Si aliena mediante lo scambio solo ciò che non rappresenta immediatamente un valore d’uso e che ha esclusivamente un valore di scambio.

Marx ha fissato teoricamente questo stato di cose così; “Dunque la stessa merce non può presentarsi simultaneamente nelle due forme nella stessa espressione di valore. Anzi, queste forme si escludono polarmente.[15]

Senza dubbio il metafisico a questo punto sorriderà. Due determinazioni che si escludono a vicenda non possono abbinarsi in una merce! Una merce può trovarsi soltanto in una delle forme economiche che si escludono a vicenda e non simultaneamente in entrambe!

Marx, che è un dialettico, nega dunque la possibilità di unire in un concetto determinazioni polari? A prima vista si può effettivamente avere un’impressione del genere.

Ma l’analisi del corso del pensiero di Marx mostra che la cosa è assai più complessa. Il passo riportato, infatti, conclude l’analisi della forma empirica di manifestazione del valore e si limita a introdurre il problema del valore come contenuto immanente di ogni merce. L’elaborazione del concetto che esprime quel contenuto è ancora di là da venire. Il pensiero, che per ora si limita a fissare la forma di manifestazione del valore e non il contenuto intrinseco di questa categoria, constata che ogni merce può assumere nella manifestazione del valore soltanto una delle sue forme polari, e non entrambe simultaneamente.

Ma la forma che una merce assume nello scambio non è il valore, bensì soltanto una sua manifestazione unilaterale astratta. Il valore di per sé, il cui concetto appunto dev’essere espresso, è qualcos’altro e non coincide né con le sue forme polari prese separatamente, né con la loro combinazione meccanica.

Un’analisi attenta dello scambio mostra che .l‘“impossibilità” della coincidenza in una merce di due caratteristiche economiche polarmente opposte non è altro che la forma di manifestazione del valore alla superficie dei fenomeni.

“L’opposizione interna fra valore d’uso e valore, rinchiusa nella merce, viene dunque rappresentata da una opposizione esterna, cioè dal rapporto fra due merci, nel quale la merce il cui valore dev’essere espresso, viene espressa immediatamente solo come valore d’uso, e invece l’altra merce, in cui viene espresso valore, conta immediatamente solo come valore di scambio. La forma semplice di valore di una merce è dunque la forma fenomenica semplice del contrasto in essa contenuto fra valore d’uso e valore. “[16]

Poiché qui si tratta non già della forma fenomenica esteriore del valore, ma del valore come realtà economica oggettiva che è contenuta in ognuna delle merci che si scambiano e che costituisce la loro natura intrinseca e nascosta, la questione acquista tutt’altro aspetto.

Il principio che vieta la coincidenza immediata e simultanea in una stessa cosa — e quindi anche nella sua espressione teorica — di forme di esistenza che si escludono a vicenda, viene osservato per la forma fenomenica empirica della realtà presa in esame (nel nostro caso: del valore), ma è respinto per quel che concerne il contenuto intrinseco di questa realtà, cioè le determinazioni teoriche del valore come tale.

La natura intrinseca del valore, sul piano teorico, si esprime solo nel concetto di valore. E tratto distintivo del concetto marxiano di valore è proprio il suo palesarsi mediante l’identità delle determinazioni teoriche che si escludono a vicenda.

Nel concetto di valore non si esprime il rapporto esterno di una merce con un’altra (qui la contraddizione intrinseca non si presenta immediatamente, ma è scissa in contraddizioni “di relazioni diverse”: “in una relazione,” ossia in relazione al suo proprietario, la merce appare solo come valore di scambio, mentre “nell’altra relazione,” ossia in relazione al detentore di un’altra merce, solo come valore d’uso, benchè oggettivamente qui si abbiano non due ma una sola relazione), bensì il rapporto intrinseco della forma della merce. La merce qui viene considerata non più nel rapporto con un’altra merce, ma nel rapporto “con sé stessa” riflesso mediante il rapporto con un’altra merce.

In ciò è racchiuso il segreto della dialettica marxiana, e non è possibile capire né il Capitale né la sua logica, se non si è compreso chiaramente questo loro nucleo decisivo.

Nel rapporto con un’altra merce la sostanza intrinseca di una merce, il valore, si esprime e si riflette. Il valore, realtà economica, nello scambio non si crea ma si manifesta, riflettendosi unilateralmente in un’altra merce come in uno specchio che riflette soltanto il lato dell’oggetto che gli sta dinanzi. Uno specchio infatti riflette solo il volto di un uomo, benchè questi abbia anche una nuca. -

Essendo “riflesso all’esterno,” i valore si presenta sotto forma di opposizioni esterne — valore di scambio e valore d’uso, forma relativa e forma di equivalente — non abbinabili in una sola merce.

Tuttavia ogni merce, in quanto rappresenta un valore, è unità immediata di forme economiche che nello stesso tempo si escludono e si presuppongono a vicenda. Nel fenomeno (l’atto dello scambio) e nella sua espressione teorica, invece, questa doppia natura economica con creta si presenta sempre scissa nei suoi due momenti opposti astratti, ognuno dei quali esclude l’altro e simultaneamente lo presuppone come condizione, esterna ma necessaria, della propria esistenza.

Nel concetto di valore gli opposti astratti del fenomeno si riuniscono, non meccanicamente ma nel modo in cui sono uniti nella realtà economica della merce, ossia in guisa di vive forme economiche — che si escludono e si presuppongono — di esistenza di ogni merce, sotto forma di contenuto immanente della merce sotto forma di valore.

In altre parole, nel concetto di valore viene fissata l’“irrequietezza interna” della forma della merce, lo stimolo intrinseco del suo movimento, del suo sviluppo spontaneo, il contenuto economico della merce prima di ogni scambio fuori di ogni rapporto con un’altra merce.

Muovendo dal concetto di valore come coincidenza viva, dialetticamente contraddittoria degli opposti in ogni singola merce, Marx spiega poi con sicurezza e con precisione l’evoluzione della forma semplice della merce nella forma del denaro, il processo di nascita del denaro nel movimento dello scambio diretto.

Che cosa determina, secondo Marx, la necessità del passaggio dallo scambio semplice, diretto di una merce con un’altra allo scambio mediato dal denaro?

Tale necessità viene dedotta immediatamente dall’impossibilità di risolvere la contraddizione della forma semplice di valore, rimanendo nel suo ambito.

Il fatto è che ognuna delle merci, che entrano nel rapporto di scambio, rappresenta un’antinomia viva. La merce A può trovarsi solo in una forma di valore, ma non simultaneamente in entrambe. Ma se lo scambio ha luogo realmente, ciò significa che ognuna delle due merci suppone nell’altra la forma in cui essa non può trovarsi in quanto già si trova nella sua opposta. Infatti l’altro proprietario non porta la propria merce al mercato per dare a qualcuno la possibilità di misurare in essa il valore della sua merce. Egli stesso deve vuole misurare in un’altra merce il valore della propria, cioè supporre la merce altrui come equivalente. Ma questa non può fungere da equivalente poichè già si trova nella forma relativa.

Tale rapporto è perfettamente identico da entrambe le parti. Il detentore di tela considera la merce abito solo come equivalente e la propria merce solo come forma relativa. Ma il proprietario dell’abito vede le cose esattamente all’opposto: per lui la tela è equivalente, mentre l’abito è soltanto valore di scambio, forma relativa. Se, nonostante ciò, lo scambio avviene, vuol dire, per esprimere il fatto di scambio in termini teorici, che entrambe le merci misurano il proprio valore reciprocamente e altrettanto reciprocamente fungono da materiale in cui il valore viene misurato. In altre parole, l’abito e la tela si suppongono a vicenda nella forma di espressione del valore in cui essi non possono trovarsi in quanto già si trovano nell’altra.

La tela misura il proprio valore nell’abito (ossia fa di questo un equivalente) e viceversa. Ma sia la tela che l’abito si trovano già nella forma relativa di valore, entrambi misurano il proprio valore nell’altro e quindi non possono assumere la forma di equivalente. Tuttavia se lo scambio è realmente avvenuto, ciò significa che entrambe le merci hanno misurato il proprio valore l’una nell’altra, si sono reciprocamente riconosciute valori equivalenti, benché entrambe si trovassero nella forma relativa, forma che esclude la possibilità di trovarsi nel suo opposto, cioè nella forma di equivalente. In tal modo lo scambio è coincidenza reale, oggettiva in ognuna delle merci di due forme di espressione del valore polarmente escludentisi.

Ma ciò non può essere, protesterà il metafisico. Marx è in contraddizione con sé stesso Ora dice che la merce non può trovarsi in ambedue le forme polari di valore, ora che nello scambio reale essa è costretta a trovarsi simultaneamente in entrambe.

Ciò — risponde Marx — non solo è possibile, ma avviene realmente. È questa l’espressione teorica del fatto che lo scambio diretto non può fungere da forma di scambio sociale delle sostanze, forma in cui esso potrebbe realizzarsi con facilità, senza attriti, senza ostacoli, senza conflitti e contraddizioni. Questa non è altro che l’espressione teorica dell’impossibilità reale in cui urta il movimento stesso del mercato, del l’impossibilità di stabilire con precisione le proporzioni in cui viene impiegato il lavoro socialmente necessario in settori diversi del lavoro socialmente diviso, settori collegati fra loro solo dal mercato, dell’impossibilità cioè di assicurare un’espressione precisa del valore.

Lo scambio diretto delle merci non può esprimere la misura socialmente necessaria di impiego di lavoro nelle diverse sfere della produzione sociale, ossia il valore. Quindi, nell’ambito della forma semplice della merce, l’antinomia del valore rimane insolubile. Qui la merce deve — e non può — trovarsi in entrambe le forme economiche reciprocamente escludentisi. Altrimenti lo scambio secondo valore è impossibile. Ma una merce non può in alcun modo trovarsi simultaneamente in entrambe le forme. L’antinomia è insolubile nel l’ambito della forma semplice di valore. Marx, con la sua genialità dialettica, comprese ed espresse l’antinomia come tale.

Ma poiché lo scambio secondo valore deve tuttavia avvenire, l’antinomia deI valore deve in un modo o nell’altro trovare una soluzione relativa reale.

Il movimento stesso del mercato trova questa soluzione generando il denaro, la forma monetaria di espressione del valore. Il denaro nell’analisi di Marx è la forma naturale in cui il movimento del mercato trova il mezzo di soluzione della contraddizione della forma semplice di valore, dello scambio diretto delle merci.

A questo punto risulta chiara la differenza fondamentale che intercorre tra il metodo materialistico dialettico e tutti i metodi noti al pensiero metafisico, per quel che concerne il modo di risolvere le contraddizioni.

Come si comporta il metafisico quando nell’espressione teorica di una certa realtà appare una contraddizione nella determinazione? Egli cerca sempre di risolverla mediante una “precisazione dei concetti,“ una più rigorosa limitazione dei termini, ecc., e di interpretarla come contraddizione non intrinseca bensì esterna, come contraddizione in relazioni diverse, contraddizione, questa, che la metafisica accetta di buon grado. In altre parole, egli cerca di risolverla mediante una modificazione dell’espressione della realtà nella quale la contraddizione è apparsa.

Marx, invece, opera in tutt’altro modo. Egli muove dalla considerazione che nell’ambito della forma semplice di valore l’antinomia nelle determinazioni non può essere risolta oggettivamente e che, quindi, la sua soluzione va ricercata altrove. Nei limiti dello scambio diretto delle merci l’antinomia è insolubile sia oggettivamente, cioè nel movimento del mercato, che soggettivamente, cioè nella teoria. Occorre dunque ricercarne la soluzione non in un’ulteriore indagine della forma semplice del valore, ma analizzando la necessità spontanea oggettiva con cui il mercato stesso trova, crea, elabora un mezzo reale per una sua soluzione relativa.

In tal modo il metodo materialistico dialettico di risolvere la contraddizione nelle determinazioni teoriche consiste nell’indagine del processo in cui il movimento stesso della realtà la risolve in una nuova forma di espressione. Sul piano oggettivo ciò significa che si tratta di esaminare, mediante l’analisi dei nuovi materiali empirici, il processo di generazione della realtà al cui interno la contraddizione precedentemente individuata trova una soluzione relativa in una nuova forma oggettiva di realizzazione.

Cosi opera Marx nell’analisi del denaro. Il denaro appare come il modo naturale grazie ai quale si compie la trasformazione di valore d’uso in valore di scambio e viceversa.

Se, prima della comparsa del denaro, ognuna delle merci che si scontravano nello scambio era costretta a compiere simultaneamente in un’unica relazione entrambe e metamorfosi reciprocamente escludentisi — da forma di valore d’uso a forma di valore di scambio e viceversa, — con l’apparizione del denaro le cose mutano. La duplice trasformazione non avviene più come coincidenza immediata delle due forme reciproca mente escludentisi, ma in modo mediato, tramite la trasformazione in denaro, in equivalente generale.

La trasformazione del valore d’uso in valore non coincide più immediatamente con la trasformazione opposta del valore in valore d’uso. Lo scambio di una merce con l’altra si scinde in due atti di trasformazione diversi e opposti, non più coincidenti in un punto dello spazio e del tempo. La merce si converte in denaro e non in un’altra merce. Il valore d’uso si trasforma in valore di scambio, e in un altro punto del mercato, forse in un altro momento, il denaro si trasforma in merce, il valore si trasforma in valore d’uso.

La coincidenza di due trasformazioni dirette in senso opposto si scinde ora, nella stessa realtà dello scambio, in due trasformazioni diverse per tempo e per luogo: in un atto di vendita (trasformazione di valore d’uso in valore) e in un atto di compera (trasformazione di valore in valore d’uso).

Il denaro monopolizza la forma economica di equivalente, diventa incarnazione del valore come tale, e a tutte le altre merci rimane soltanto la forma di valore relativo. Esse si contrappongono al denaro unicamente come valori d’uso.

L’antinomia nell’espressione teorica dello scambio delle merci sembrerebbe risolta: la contraddizione — come coincidenza immediata di due opposti polarmente escludentisi di una forma economica — appare ora suddivisa tra due cose diverse: la merce e il denaro.

In realtà, la contraddizione del valore non scompare con l’apparizione della forma monetaria del valore, ma acquista soltanto una nuova forma di espressione. Essa rimane come prima — anche se in modo meno evidente — una contraddizione intrinseca che penetra il denaro e la merce e, di conseguenza, anche le loro determinazioni teoriche.

Infatti la merce che si contrappone al denaro appare come semplice valore d’uso e il denaro come pura espressione del valore di scambio. Ma, d’altra parte, ogni merce in relazione al denaro vale soltanto come valore di scambio. Il suo detentore la cede in cambio di denaro, in quanto essa non rappresenta per lui un valore d’uso. Il denaro, a sua volta, fa la parte di equivalente, poiché si contrappone ad ogni merce come immagine universale del valore d’uso. Il significato della forma di equivalente sta nel fatto che essa esprime il valore di scambio dell’altra merce come valore d’uso.

L’antinomia dello scambio semplice delle merci si conserva dunque sia nel denaro che nella merce e continua a costituire l’essenza elementare dell’uno e dell’altra, benché alla superficie dei fenomeni questa contraddittorietà intrinseca della forma del denaro e della merce sembri estinta.

“S’è visto, “ dice Marx, “che il processo di scambio delle merci implica relazioni contraddittorie, che si escludono a vicenda. Lo svolgimento della merce non supera tali contraddizioni, ma crea la forma entro la quale esse si possono muovere. Questo è, in genere, il metodo col quale si risolvono le contraddizioni reali. Per esempio, è una contraddizione che un corpo cada costantemente su di un altro e ne sfugga via con altrettanta costanza. L’ellisse è una delle forme del moto nelle quali quella contraddizione si realizza e insieme si risolve.”[17]

Marx passa dalla contraddizione esterna del valore d’uso e di scambio all’individuazione della contraddizione intrinseca contenuta immediatamente in ognuna delle due merci. Secondo lui, il fatto che la contraddizione si presenti inizialmente come contraddizione in relazioni diverse (in relazione a un proprietario è valore di scambio, in relazione all’altro è valore d’uso) è indice dell’astrattezza e dell’incompiutezza del sapere. La concretezza del sapere consiste nella comprensione della contraddizione esterna come modo superficiale di manifestazione di qualcos’altro, e precisamente della contraddizione intrinseca, della coincidenza nel concetto concreto di valore di determinazioni teoriche che si escludono a vicenda.

Il suo significato risulta chiaro, ad esempio, dal confronto dell’analisi marxiana del valore con le riflessioni dell’empirista inglese Bailey.

Bailey, che vede nella forma esteriore di manifestazione del valore nello scambio l’unica sua effettiva realtà economica e considera tutte le discussioni sul valore in quanto tale astratto scolasticismo dialettico, afferma che “il valore non è niente di speciale né di assoluto” e motiva questa affermazione col fatto che “è impossibile indicare o esprimere il valore di una merce altrimenti che con una certa quantità di un’altra merce.” “Così come è impossibile indicare o esprimere un ragionamento altrimenti che con una quantità di sillabe,”commenta Marx.“ Bailey ne concluderebbe che un pensiero non è altro che sillabe.”[18]

Bailey tenta in questo caso di presentare il valore come un rapporto di una merce con un’altra, come forma esteriore di una cosa, posta dal suo rapporto con un’altra cosa, mentre Ricardo e Marx cercano di esprimere il valore come contenuto intrinseco di ogni cosa che entri in un rapporto di scambio. Sotto la forma di rapporto di una cosa con un’altra si manifesta — ma non si crea — il valore immanente di quella cosa.

L’empirista Bailey vuole presentare il rapporto intrinseco di una cosa come suo rapporto esterno con un’altra cosa.

Ricardo e Marx si sforzano di individuare (e qui sta il carattere teorico del loro atteggiamento) mediante il rapporto tra due cose il rapporto intrinseco della cosa con se stessa, il valore come essenza della merce, che nello scambio si manifesta attraverso il rapporto esterno di questa merce con un’altra.

Il metafisico tenta sempre di “ridurre” la contraddizione intrinseca di una cosa alla sua contraddizione esterna con un’altra cosa, alla contraddizione in relazioni diverse, cioè a una forma di espressione in cui la contraddizione sia eliminata dal concetto della cosa. Marx, al contrario, cerca sempre di vedere nella contraddizione esterna solo la manifestazione superficiale della contraddizione interna immanente ad ogni cosa che si ponga in rapporto di contraddizione esterna con un’altra. Qui sta la differenza tra la trattazione veramente teorica e la descrizione empirica dei fenomeni.

La dialettica consiste nella capacità di individuare la contraddizione intrinseca dell’oggetto, lo stimolo del suo sviluppo spontaneo là dove il metafisico vede solo una contraddizione esterna, risultato di uno scontro più o meno casuale di due oggetti intrinsecamente non contraddittori.

In questo caso la dialettica impone di interpretare la contraddizione esterna tra due oggetti come manifestazione necessaria della contraddizione interna di ognuno di essi. La contraddizione esterna è l’identità intrinseca dei momenti reciprocamente escludentisi mediata dal rapporto con l’altro, riflessa tramite l’altro; è una relazione intrinsecamente contraddittoria dell’oggetto con sé stesso, cioè una contraddizione in una sola relazione e in uno stesso tempo. Marx risale dalla manifestazione esterna della contraddizione all’identificazione della sua base intrinseca, passa cioè dal fenomeno all’essenza, mentre il metafisico cerca sempre di operare nella direzione opposta e confuta l’espressione teorica dell’essenza dell’oggetto tenendosi fermo all’apparenza esteriore, che egli ritiene l’unica realtà.

Questa è stata la linea seguita da Bailey nelle sue riflessioni sul valore. E così opera ogni metafisico nel tentativo di interpretare la contraddizione come contraddizione in relazioni diverse. Il che porta sempre alla mortificazione di qualsiasi elementare atteggiamento teorico.

In Marx il valore è considerato non come rapporto di una merce con un’altra, bensì come relazione della merce con sé stessa, per cui esso risulta una contraddizione intrinseca, viva e insolubile. La contraddizione non si risolve presentandosi alla superficie dei fenomeni come contraddizione in due relazioni diverse, come due diversi atti di trasformazione: la compera e la vendita. Tutto il senso dell’analisi di Marx. sta nel dimostrare che la contraddizione del valore è radicalmente insolubile nell’ambito dello scambio semplice delle merci, che il valore si configura qui inevitabilmente come una viva antinomia in sé stesso, nonostante tutte le precisazioni e tutte le analisi del concetto.

La merce come incarnazione del valore non può trovarsi simultaneamente in entrambe le forme polarmente escludentisi di valore, e tuttavia di fatto vi si trova, se lo scambio avviene secondo valore.

In questa antinomia teorica è espressa l’impossibilità reale in cui si scontra ad ogni istante il movimento del mercato semplice. L’impossibilità non scompare solo perché la si raffigura teoricamente come possibilità, come qualcosa di non contraddittorio.

Il mercato reale nel suo movimento supera la forma dello scambio immediato di una merce con un’altra. Marx, prendendo in esame i numerosi dati empirici che esprimono questo movimento, passa all’analisi teorica delle forme più complesse grazie alle quali il mercato realizza e contemporaneamente risolve la contraddizione data. Va ricercata qui la necessità del passaggio al denaro.

Se si considera la cosa dal punto di vista della filosofia, è chiaro che qui si esprime il materialismo del metodo marxiano di soluzione delle contraddizioni nell’espressione teorica della realtà oggettiva. La contraddizione non viene risolta eliminandola dalla teoria. Si parte invece dal principio che la contraddizione nell’oggetto non può essere risolta altrimenti che nel processo di sviluppo della sua realtà in una realtà superiore.

L’antinomia del valore trova una soluzione relativa nel denaro. Il denaro tuttavia non la elimina, ma si limita a creare una forma nella quale essa continua ad attuarsi e ad esprimersi. Questo modo di rappresentazione teorica del processo reale è l’unica forma logica adeguata ad esprimere teoricamente lo sviluppo dialettico dell’oggetto, il suo sviluppo spontaneo mediante contraddizione.

Il carattere materialistico del metodo con cui Marx “risolve” le contraddizioni teoriche nella determinazione dell’oggetto è stato acutamente illustrato da Engels nella sua recensione di Per la critica del l’economia politica: “Seguendo questo metodo prendiamo come punto di partenza il primo e più semplice rapporto che ci si presenta storicamente, di fatto... Ne risultano delle contraddizioni che richiedono di essere rimosse. Ma siccome non consideriamo qui un processo astratto del pensiero che si svolga soltanto nel nostro cervello, ma un fatto reale, che si è realmente svolto in un momento qualunque o che si sta ancora svolgendo, perciò queste contraddizioni devono pure aver avuto uno sviluppo e probabilmente aver trovato la loro soluzione nella pratica. Indaghiamo la forma di questa soluzione, e troveremo ch’essa è stata raggiunta con l’instaurazione di un nuovo rapporto del quale dovremo ora sviluppare i due lati contraddittori, e così via. “[19]

L’impossibilità oggettiva di risolvere mediante lo scambio diretto la contraddizione tra il carattere sociale del lavoro e la forma privata di appropriazione del prodotto si esprime teoricamente come una antino mia, come una contraddizione insolubile della forma semplice di valore e delle sue determinazioni teoriche. Per questo motivo Marx non cerca di evitare la contraddizione nella determinazione del valore. Il valore rimane un’antinomia, una contraddizione insolubile, una coincidenza immediata di determinazioni teoriche che si escludono a vicenda. L’unica soluzione reale è la rivoluzione socialista che pone fine al carattere privato dell’appropriazione del prodotto del lavoro sociale, appropriazione che avviene mediante il mercato.

L’impossibilità oggettiva di risolvere la contraddizione tra il carattere sociale del lavoro e la forma privata di appropriazione dei suoi prodotti, e, d’altra parte, la necessità di compiere quotidianamente sul mercato lo scambio sociale, costringono a ricercare i modi e i mezzi naturali per risolvere la contraddizione. Ciò porta, in ultima analisi, alla comparsa del denaro.

Come nel movimento reale del mercato il denaro sorge in qualità di mezzo naturale di soluzione delle contraddizioni dello scambio diretto delle merci, così nel Capitale le determinazioni teoriche del denaro sono elaborate come mezzo di soluzione delle contraddizioni nella determinazione del valore. Si rivela qui un momento fondamentale del metodo dialettico del passaggio dall’astratto al concreto, della deduzione materialistica dialettica delle categorie. Stimolo dello sviluppo teorico, molla dello svolgimento del sistema delle determinazioni teoriche dell’oggetto è la contraddizione intrinseca della teoria, alla condizione che essa rifletta immediatamente la contraddizione intrinseca dell’oggetto, che è l’impulso del dispiegamento, dello svolgimento e dello sviluppo delle sue forme di esistenza. L’espressione teorica di questo elemento propulsore in concetto è stata preceduta, ovviamente, da un grande e minuzioso lavoro di selezione e di analisi dei dati empirici che caratterizzano lo sviluppo di tali forme.

Da questo punto di vista la struttura logica del Capitale si presenta sotto un profilo nuovo, estremamente interessante: tutto il movimento del pensiero teorico nel Capitale risulta come serrato tra i due poli dell’espressione del valore individuati in partenza.

Già la prima categoria concreta che segue al valore — il denaro — appare come il modo reale di trapasso reciproco dei due poli dell’espressione del valore, come la metamorfosi attraverso cui sono costretti a passare i due poli del valore — che si attraggono a vicenda e nello stesso tempo si escludono — nel processo di trasformazione reciproca.

Ciò orienta oggettivamente il pensiero nell’individuazione delle determinazioni teoriche universali e necessarie del denaro: nell’esame di tutti i dati empirici concreti vengono rilevate e fissate solo le caratteristiche che sono poste con necessità dal processo di trasformazione del valore in valore d’uso e viceversa, mentre non vengono prese in considerazione tutte le particolarità empiriche della forma di denaro che da quel processo non derivano necessariamente.

Appare qui la differenza fondamentale tra la deduzione materialistica dialettica delle categorie e la deduzione intellettiva astratta.

Quest’ultima muove da un concetto generico, astrattamente generale. A esso è ricondotto il fenomeno particolare, nel cui esame vengono poi rilevate le caratteristiche che costituiscono le peculiarità distintive della specie. Si ottiene così una apparenza di deduzione. Ad esempio, all’astrazione “cavallo in generale” è ricondotta la razza “trottatore di Orjòl.” Nella determinazione di questa razza particolare si includono i caratteri che consentono di distinguere il “trottatore di Orjòl” da ogni altra razza di cavalli. Ma, ovviamente, nell’astrazione “cavallo in generale” i caratteri specifici del “trottatore di Orjòl” non sono compresi e, quindi, non possono esserne dedotti. Essi vengono aggregati alle determinazioni del “cavallo in generale” in modo puramente meccanico. Per questo motivo la deduzione formale non dà garanzia alcuna che le differenze specifiche siano rilevate in modo corretto e appartengano di necessità alla razza presa in esame. Può benissimo darsi che le differenze specifiche del trottatore di Orjòl siano ravvisate in ciò che esso ha in comune con il trottatore dell’Oklahoma.

La medesima cosa, come abbiamo visto, accade con le determinazioni teoriche del denaro in Ricardo. Infatti dal valore — così come egli lo concepisce — è assolutamente impossibile dedurre le differenze specifiche della forma del denaro. Egli non è quindi in grado di distinguere le caratteristiche economiche realmente necessarie del denaro come tale dalle proprietà che al denaro, osservato empiricamente, appartengono per il fatto che in esso si incarna il movimento del capitale. Si scambiano così spesso per determinazioni specifiche del denaro le caratteristiche di un fenomeno completamente diverso, il processo di circolazione dei capitali.

Diversamente stanno le cose in Marx. Il fatto che egli consideri il valore nel movimento degli opposti e che nella sua teoria la determinazione teorica del “valore in generale” contenga una contraddizione, gli consente di rilevare nei fenomeni empiricamente osservati della circolazione del denaro proprio e soltanto i caratteri che appartengono necessariamente al denaro come forma specifica del movimento del valore.

Marx include nella determinazione teorica del denaro solo i caratteri della circolazione monetaria che si deducono di necessità dalle contraddizioni del valore, che sono cioè generati necessariamente dal movimento dello scambio semplice delle merci

Questa è la deduzione in Marx. È facile vedere come siffatta deduzione divenga possibile solo quando si abbia come premessa maggiore non un concetto generico astratto bensì un concetto universale concreto, inteso come unità, identità di opposti che si trasformano l’uno nell’altro, come concetto che rispecchia la contraddizione reale dell’oggetto.

È inoltre necessario sottolineare ancora una volta che alla base di tale deduzione teorica sta un’analisi particolareggiata e onnilaterale del sistema dei fatti e dei fenomeni empirici che costituiscono la realtà economica presa in esame.

Solo così è stato possibile ottenere astrazioni veramente complete, non formali ma ricche di contenuto, astrazioni che scoprono la sostanza specifica della forma del denaro. Marx ricava le determinazioni teoriche del denaro “da un punto di vista astratto, cioè, senza tener conto di circostanze che non scaturiscano dalle leggi immanenti della circolazione semplice delle merci... “[20]

Le circostanze che scaturiscono dalle leggi immanenti della circolazione semplice delle merci sono appunto i prodotti della contraddizione intrinseca del valore come tale, della forma semplice di valore.

La dialettica di astratto e di concreto appare qui in modo evidentissimo: proprio perché il denaro è considerato da un punto di vista astratto, si ottengono determinazioni teoriche concrete che esprimono la natura storica concreta del denaro come fenomeno particolare.

Nel concetto generale astratto di “rotondità” è facile far rientrare il pallone, il pianeta Marte e il cuscinetto a sfere. Ma la forma del pallone, del pianeta Marte, del cuscinetto a sfere non possono essere dedotte dal concetto di “rotondità in generale,” in quanto nessuna di esse deriva dalla realtà rispecchiata nel concetto di “rotondità in generale,” cioè da un’affinità reale, da un’identità di tutti i corpi rotondi.

Dal concetto di “valore,” nella sua interpretazione marxiana, la forma economica del denaro viene dedotta nel modo più rigoroso. Ciò è possibile in quanto nella realtà economica oggettiva, rispecchiata dalla categoria di “valore in generale,” è racchiusa la necessità reale della generazione del denaro.

Tale necessità non è altro che la contraddizione intrinseca del valore, insolubile nell’ambito dello scambio semplice delle merci. La categoria del valore è in Marx una categoria universale concreta, in quanto contiene nelle sue determinazioni la contraddizione intrinseca e si scopre come unità, come identità di determinazioni teoriche che si escludono a vicenda e nello stesso tempo si presuppongono.

In Marx la concretezza del concetto universale è indissolubilmente collegata con la contraddizione nella determinazione concettuale. La concretezza è l’identità degli opposti, mentre l’astrattamente generale implica per principio un’identità nuda, un’identità senza opposti.

Se si esamina attentamente il movimento del pensiero d Marx dalla merce, dal valore in generale, al denaro, e lo si confronta con l’analogo movimento del pensiero di Ricardo, si vede con nettezza la differenza tra la dialettica e la metafisica nella questione dell’elemento propulsore del processo di svolgimento di un sistema di categorie.

Ricardo porta avanti la contraddizione tra l’incompletezza, la povertà, l’unilateralità dell’astrazione universale (il valore in generale), e la completezza, la ricchezza, l’onnilateralità dei fenomeni della circolazione del denaro. Riconducendo il denaro, come tutte le altre categorie, alla formula universale della legge del valore, Ricardo si persuade che esso, da un lato, rientra nella categoria del valore (il denaro è pure merce), ma, dall’altro, possiede ancora molte particolarità non espresse nell’astrazione “valore in generale.” In breve, egli vede che il denaro — oltre all’elemento generale, fissato nella categoria del valore  — possiede anche alcune differenze, che egli poi chiarisce. Così si comporta nei confronti di tutte le categorie sviluppate. Che cosa si ottenga l’abbiamo già visto: l’empiricità viene accolta in modo acritico.

Nel Capitale, invece, il movimento del pensiero verso sempre nuove determinazioni non è stimolato immediatamente dalla contraddizione tra l’ “incompletezza dell’astrazione” e la “completezza dell’immagine concreta sensibile” della realtà. Siffatta rappresentazione della contraddizione motrice della teoria non ci porterebbe neppure di un passo fuori dei limiti della concezione lockiana del processo di comprensione teorica della realtà e ci farebbe identificare totalmente il metodo di Marx con quello di Ricardo. Lo sviluppo teorico delle categorie nel Capitale si fonda su una comprensione più concreta della contraddizione che fa progredire immediatamente il pensiero.

Il pensiero si ispira qui al principio che la contraddizione oggettiva si riflette come contraddizione soggettiva — teorica, logica — e in questa forma pone al pensiero un problema teorico, un compito logico, che può essere risalto solo con l’analisi ulteriore dei fatti empirici, dei dati sensibili.

L’analisi ulteriore viene compiuta non più alla cieca, bensì alla luce di un problema, di un compito rigorosamente e concretamente formulato.

Il problema viene ogni volta formulato come una contraddizione logica, cioè formalmente insolubile.

Abbiamo già analizzato il passaggio dall’esame del valore all’esame del denaro e abbiamo visto come nei fenomeni reali empirici della circolazione monetaria sviluppata Marx rilevi soltanto le determinazioni che spiegano il denaro come mezzo di soluzione relativa della contraddizione intrinseca dello scambio delle merci. Il pensiero si trova poi di fronte ad una nuova contraddizione teorica, ad un nuovo problema teorico: l’analisi della circolazione della merce mediante denaro rivela come questa sfera non contenga in sé le condizioni in cui la circolazione del valore potrebbe generare plusvalore.

“Ci si può rigirare come si vuole, il risultato è sempre lo stesso. Se - si scambiano equivalenti, non nasce nessun plusvalore, e se si scambiano non-equivalenti, neppure in tal caso nasce plusvalore.”[21]

Questa generalizzazione sta in un rapporto di contraddizione polare con l’altro fatto, non meno evidente, che il denaro messo in circolazione produce profitto. Anche questo fatto, “ci si può rigirare come si vuole,” resta un fatto, e per di più assai antico, almeno quanto l’usura, che è a sua volta antica quanto il denaro. In altre parole, l’analisi della sfera del denaro e delle merci ha portato alla conclusione che il capitale usuraio non è possibile. Tuttavia tale capitale non solo è possibile, ma è un fatto che si incontra sistematicamente non solo nel capitalismo, ma anche nelle formazioni economiche precedenti: nella società schiavistica e nel feudalesimo.

Questa nuova antinomia — la contraddizione del pensiero teorico con sé stesso — racchiude la formula del problema che Marx ha potuto, per la prima volta nella storia del pensiero economico, risolvere, proprio grazie alla giusta impostazione e alla corretta formulazione.

L’impostazione esatta del problema è già una mezza soluzione. La vecchia logica, come è noto, non si occupava del problema come forma logica, come forma necessaria del processo logico. E su questa carenza della vecchia logica speculava abilmente l‘idealismo. Così Kant, constatando che la natura risponde soltanto alle domande che le poniamo, fece di questo fatto un argomento a favore della sua concezione aprioristica della conoscenza teorica: la risposta dipenderebbe essenzialmente dal modo in cui è formulata la domanda, e la domanda è formulata dal soggetto.

Porre la domanda in modo esatto, formulare il problema correttamente è uno dei compiti fondamentali della logica materialistica dialettica. Marx ha mostrato concretamente nel Capitale che cosa significhi porre una domanda concreta e trovare una risposta altrettanto concreta.

Nell’impostazione e nella risoluzione del problema dell’origine del plusvalore la logica di Marx si rivela in modo chiarissimo. Il problema non viene formulato arbitrariamente, ma sulla base di un’analisi oggettiva delle leggi della circolazione delle merci e del denaro. L’analisi si svolge in modo tale che l‘indagine delle leggi immanenti della circolazione porta alla contraddizione teorica.

“Dunque è impossibile che dalla circolazione scaturisca capitale; ed è altrettanto impossibile che esso non scaturisca dalla circolazione. Deve necessariamente scaturire in essa, ed insieme non in essa... Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta![22]

In Marx questa impostazione del problema non è casuale e non ha carattere retorico, ma è connessa con la sostanza stessa della dialettica come metodo di analisi concreta dell’evoluzione della realtà indagata, realtà che si sviluppa attraverso contraddizioni.

La realtà si sviluppa attraverso il sorgere e il risolversi delle contraddizioni, e analogamente si articola il pensiero che tale sviluppo riproduce. Questa particolarità del metodo dialettico consente non solo di porre correttamente il problema, ma anche di trovarne la soluzione teorica.

L’analisi oggettiva della circolazione delle merci e del denaro ha mostrato come questa sfera non contenga in sé le condizioni in cui è possibile e addirittura necessario il fatto economico evidente, universale e indiscutibile dell’autovalorizzazione del valore. Il pensiero cerca quindi di determinare la condizione economica reale e necessaria in cui la circolazione delle merci e del denaro si converte in circolazione capitalistica.

L’incognita deve corrispondere rigorosamente a tutta una serie di condizioni e rientrare in esse. Le condizioni del problema teorico sono individuate dall’analisi della circolazione delle merci e del denaro come fondamento del sistema capitalistico. Su questo piano il pensiero procede davvero deduttivamente: dall’universale al particolare, dall’astratto al concreto, il che determina la sua consequenzialità.

Ecco come Marx formula la questione: il plusvalore sarebbe possibile senza violare la legge del valore soltanto nel caso che si riuscisse a trovare “ ...all’interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d’uso stesso possedesse la peculiare qualità d’essere fonte di valore; tale dunque che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore.“[23]

In questo punto appare nettamente l’opposizione di principio tra la dialettica materialistica di Marx e la dialettica idealistica speculativa di Hegel, il suo metodo di costruire la realtà dal concetto.

Assioma e principio intangibile della dialettica hegeliana è che tutto il sistema delle categorie deve essere sviluppato dalle contraddizioni immanenti del concetto iniziale. Se un seguace ortodosso della logica hegeliana volesse rappresentare lo sviluppo della circolazione delle merci e del denaro in circolazione capitalistica, egli dovrebbe dimostrare che le contraddizioni immanenti della sfera della merce generano di per sé tutte le condizioni in cui il valore diventa valore che si autovalorizza.

Marx fa esattamente l’opposto. Egli mostra che la circolazione delle merci e del denaro, comunque si rigiri nel suo interno, non può accrescere il valore complessivo delle merci scambiate, non può creare col proprio movimento le condizioni in cui il denaro immesso nella circolazione produce di necessità nuovo denaro.

A questo punto decisivo dell’analisi il pensiero fa ritorno alI’empiricità del mercato capitalistico. Nell’empiricità esso ritrova la realtà economica che trasforma il movimento del mercato in processo di produzione e di accumulazione del plusvalore. L’unica merce che rientra nella legge del valore e, senza violarla, rende possibile e necessario il plusvalore, che sta in contraddizione diretta con la legge, è la forza-lavoro.

Ancora una volta vediamo quale enorme importanza teorica abbia il fatto che la merce sia scoperta da Marx come unità immediata, come identità degli opposti “valore” e “valore d’uso.”

L’essenza della forza-lavoro è scoperta nel Capitale come identità immediata delle determinazioni reciprocamente escludentisi del valore e del valore d’uso: il valore d’uso della forza-lavoro — la sua qualità specifica — è dato dal fatto che essa, durante il suo impiego, si trasforma nel suo opposto, in valore.

Le determinazioni economiche della forza-lavoro nel sistema capitalistico di produzione stanno in questa unità di opposti che si escludono a vicenda, nella loro unione antinomica in una stessa merce, il cui valore d’uso consiste esclusivamente nella capacità di trasformarsi, nell’atto stesso del suo uso, in valore.

La forza-lavoro, nel momento in cui figura come valore d’uso (l’atto deI suo impiego da parte del capitalista), si presenta contemporaneamente come valore oggettivato nel prodotto del lavoro. Questa è, di nuovo, una contraddizione in una stessa relazione, nella relazione con il processo di produzione e di accumulazione del plusvalore, una contraddizione intrinseca del processo capitalistico.

Dal punto di vista logico possiamo qui notare un fatto assai importante: ogni categoria concreta del Capitale è una forma della trasformazione reciproca di valore e valore d’uso, ossia dei due poli reciprocamente escludentisi che sono stati individuati all’inizio dell’indagine, durante l’analisi della “cellula” dell’organismo, e che, nella loro unità antagonistica, costituiscono il contenuto della categoria universale iniziale da cui muove tutta l’ulteriore deduzione delle categorie. Quest’ultima appare, sotto questo rispetto, come un processo di complicazione della catena degli anelli intermedi attraverso cui devono passare entrambi i poli del valore nel processo della loro reciproca trasformazione.

Il divenire dell’organismo capitalistico si presenta come un processo di aumento della “tensione” tra i due poli della categoria iniziale. La via della trasformazione reciproca degli opposti “valore” e “valore d’uso“ diviene sempre più complessa. Se nello scambio semplice delle merci questa trasformazione si compie come un atto immediato, con la comparsa del denaro ciascun polo deve prima trasformarsi in denaro soltanto poi nel proprio opposto. La forza-lavoro si pone come nuovo anello di mediazione della trasformazione reciproca delle forme del valore, come nuova forma di esistenza del valore.

I poli, che si attraggono reciprocamente, rimangono due punti estremi tra i quali sorgono sempre nuove forme economiche. Ogni nuova realtà economica acquista significato e importanza solo nella misura in cui serve alla trasformazione reciproca di valore e valore d’uso, nella misura in cui diviene forma di realizzazione del valore come viva unità antagonistica dei suoi opposti.

Il valore diventa arbitro supremo di tutti i destini economici, criterio sommo della necessità economica di qualsiasi fenomeno che entri nel processo del suo movimento. L’uomo stesso — soggetto del processo di produzione — si trasforma in un balocco passivo in un “oggetto“ del valore, che diventa il “soggetto automatico” del processo nel suo insieme, il “soggetto prepotente di tale processo.“[24]

“Se nella circolazione semplice il valore delle merci nei confronti del loro valore d’uso riceve tutt’al più la forma autonoma del denaro, qui esso si presenta improvvisamente come una sostanza dotata di proprio processo vitale e di moto proprio, per la quale merce e denaro sono entrambi pure e semplici forme,“[25] dice Marx sulla funzione del valore nel processo del modo capitalistico di produzione.

Non è difficile cogliere in queste espressioni di Marx una nascosta polemica con la sostanza stessa della filosofia hegeliana, con la proposizione fondamentale della Fenomenologia dello spirito. Hegel in quest’opera, che è la chiave di tutta la sua filosofia, pone alla scienza il compito di “intendere ed esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto.[26]

Per Hegel il soggetto è la realtà che si sviluppa per contraddizioni, la realtà che si autosviluppa. Ma Hegel non riconosce questa qualità come realtà oggettiva esistente fuori dello spirito e indipendentemente da esso. Per lui l’unica sostanza che si autosviluppa è l’idea logica, e quindi egli presuppone e sostiene che il compito di “intendere ed esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come “soggetto” può venir attuato soltanto nella scienza del pensiero, nella filosofia dell’idealismo oggettivo.

Marx, valendosi nel Capitale della terminologia hegeliana, sottolinea in pari tempo l’opposizione di principio intercorrente tra le sue proprie posizioni filosofiche e quelle dello hegelismo e dà un modello di dialettica materialistica come scienza dello sviluppo per contraddizioni intrinseche.

Per esprimere in termini filosofici l’essenza del rivolgimento operato da Marx nell’economia politica, possiamo dire che nella teoria marxiana per la prima volta non solo è stata compresa la sostanza del valore, il lavoro (ciò che abbiamo già in Ricardo), ma lo stesso valore è stato concepito come soggetto di tutto lo sviluppo, cioè come la realtà che mediante le sue contraddizioni intrinseche si sviluppa in un sistema organico di forme economiche. Di questo fatto non si era reso conto Ricardo. Per capirlo bisognava porsi sulle posizioni della dialettica materialistica consapevole.

Soltanto questa concezione delle leggi oggettive dello sviluppo permette di comprendere la logica del Capitale, la sostanza del metodo del passaggio dall’astratto al concreto.

Esteriormente sembra che si tratti puramente di una deduzione, di un movimento dalla categoria universale (il valore) alle categorie particolari (il denaro, il plusvalore, il profitto, il salario, ecc.). L’andamento esterno del pensiero è assai simile alla deduzione tradizionale: il denaro (e poi il plusvalore e le altre categorie) si presenta come una immagine più concreta del valore in generale, come esistenza particolare del valore. A primo sguardo il valore può sembrare un concetto generico, generale astratto, e il denaro e le altre categorie — specie del valore.

Ma l’analisi rivela che qui non esiste un rapporto del tipo genere specie. Infatti il “valore in generale” scopre il proprio contenuto come unità contraddittoria immediata di valore e valore d’uso. Il denaro, e in particolare la moneta, invece, non ha valore d’uso. Esso realizza nelle sue funzioni economiche soltanto una delle due determinazioni del “valore in generale,” ossia la funzione di equivalente generale. Il “valore in generale” risulta più ricco di contenuto della sua specie “denaro.” La categoria universale ha una proprietà che manca alla categoria particolare. Il denaro, perciò, realizza solo unilateralmente (astrattamente) la duplice natura del valore. Tuttavia esso è un fenomeno economico storicamente derivato, più complesso e più concreto del valore. Dal punto di vista della concezione tradizionale della deduzione, questo è un paradosso e, comunque, non una deduzione, ma qualcos’altro.

In realtà non si tratta di una deduzione nel senso della vecchia logica, bensì di un movimento del pensiero che riunisce organicamente in sé il passaggio dall’universale al particolare e, viceversa, dal particolare all’universale, il movimento dall’astratto al concreto e dal concreto all’astratto.

Ogni realtà economica rispecchiata dalle categorie del Capitale (la merce, il denaro, la forza-lavoro, il plusvalore, la rendita) rappresenta oggettivamente, indipendentemente dal processo della sua comprensione, un astratto e un concreto. Infatti ogni categoria rispecchia un fenomeno economico pienamente concreto e nello stesso tempo una realtà che solo unilateralmente (astrattamente) realizza la natura della totalità nel cui ambito essa organicamente rientra come momento transeunte del suo movimento, come sua manifestazione astratta.

La deduzione riproduce il divenire reale di ogni categoria, ossia di ogni formazione economica reale, e di tutto il sistema delle categorie, e scopre un flesso generico reale, un’unità genetica là dove a prima vista si presentano fenomeni sconnessi e persino contraddittori.

Da ciò deriva la differenza sostanziale tra la deduzione sillogistica, logico-formale, e il metodo del passaggio dall’astratto al concreto.

Premessa maggiore della deduzione sillogistica è un concetto generico, il più povero di contenuto e il più ampio di ambito. Sotto tale concetto si possono ricondurre soltanto i fenomeni particolari cl non contengono in sé una proprietà che contraddica alle proprietà del concetto universale. In esso inoltre non si può ricondurre un fenomeno a cui manchi anche una sola delle proprietà contenute nella determinazione del contenuto del concetto universale. Tale fenomeno, secondo la vecchia logica, apparterrebbe a un altro sistema, ad un altro “genere.”

L’assioma della vecchia deduzione afferma che ogni fenomeno particolare riconducibile al concetto astratto deve possedere tutte le proprietà incluse nella determinazione del concetto e non deve contenere alcuna proprietà che sia in contraddizione con quelle del concetto universale. Soltanto i fenomeni che rispondono a questi requisiti sono inclusi dalla vecchia deduzione nel genere di fenomeni determinato dal concetto universale. Il concetto universale è un criterio di selezione dei fenomeni di cui bisogna tener conto nell’analisi di un determinato genere, e condiziona fin dall’inizio, come dicono i logici, il piano dell’astrazione, l’angolo visuale. Ma basta applicare questo assioma alle categorie dell’economia politica per vederne l’estrema artificiosità e arbitrarietà.

Il denaro è privo di una proprietà attributiva del “valore in generale”: esso non possiede infatti valore d’uso. La circolazione capitalistica ha in sé una proprietà che è immediatamente in contraddizione con la legge del valore, con la legge dello scambio di equivalenti: la capacità di creare plusvalore, plusvalore che non può essere ricondotto senza contraddizione alla categoria del valore. Di conseguenza il plusvalore viene considerato fenomeno di un altro mondo, che non riguarda la sfera del movimento del valore.

Simili paradossi hanno messo nell’imbarazzo gli economisti borghesi che non riconoscono altra logica che quella formale ed altra deduzione che quella sillogistica.

Il problema teorico, posto oggettivamente dallo sviluppo dell’economia politica premarxista, era di mostrare come, sulla base della legge del valore e senza alcuna sua violazione, diventino non solo possibili ma addirittura necessari fenomeni che sono in diretta contraddizione con la teoria del valore-lavoro.

Abbiamo già visto abbastanza particolareggiatamente che questo problema resta insolubile finchè il valore è considerato un concetto generale astratto, generico, mentre trova una soluzione razionale, se il valore è concepito come una categoria universale concreta (lo scambio. diretto di una merce con un’altra) in cui è insita la contraddizione.

Questa nozione del valore ha dato a Marx la chiave per risolvere tutte le difficoltà teoriche in cui sbocca ogni analisi di una realtà viva che si sviluppi per contraddizioni.

L’analisi di Marx rileva nel valore stesso, categoria iniziale dello sviluppo teorico, la possibilità delle contraddizioni che si presenteranno poi in modo evidente alla superficie del capitalismo sviluppato sotto forma di rovinose crisi di sovrapproduzione, di antagonismo acutissimo tra la ricchezza esagerata ad un polo della società e la miseria insopportabile all’altro, di lotta diretta delle classi, lotta che può trovare soluzione definitiva soltanto nella rivoluzione.

Sul piano teorico questo è il risultato ineluttabile dello sviluppo della contraddizione contenuta in germe nella circolazione semplice delle merci, nella “cellula” di tutto il sistema, nel valore.

Si capisce ora perché il valore, nel corso dello sviluppo teorico delle categorie dell’economia capitalistica, sia un punto d’orientamento rigoroso che consente di individuare nella realtà analizzata i tratti che le sono connessi in modo attributivo e che rappresentano le forme universali e necessarie di esistenza del sistema capitalistico. Nella rappresentazione teorica di questo sistema rientrano soltanto le generalizzazioni che possono essere ricondotte entro le determinazioni del valore. Ma questo procedimento, attuato nel Capitale, non ha nulla a che vedere con la riduzione puramente formale di un concetto all’altro. Quando si riconduce la forza-lavoro alla categoria del valore, si rispecchia immediatamente un fatto del divenire reale del sistema capitalistico di rapporti.

L’analisi di questo sistema ha mostrato che la circolazione dalle merci e del denaro costituisce la base universale, la condizione elementare, universale e necessaria, senza la quale il capitalismo non può sorgere, esistere, svilupparsi. Con ciò stesso le determinazioni teoriche della circolazione delle merci e del denaro sono il riflesso delle condizioni oggettive generali che devono essere soddisfatte da tutto ciò che può rientrare nel movimento dell’organismo capitalistico.

Se invece un fenomeno non rientra nelle condizioni dettate dalle leggi della circolazione, vuol dire che esso non può venire compreso in questo movimento, non può diventare una forma dello scambio capitalistico deve merci.

Nelle determinazioni del valore il pensiero teorico trova un rigoroso criterio di differenziazione e di scelta dei fenomeni e delle forme economiche intrinseche al capitalismo.

Può trasformarsi in forma di movimento del sistema capitalistico solo ciò che realmente, cioè indipendentemente dal pensiero, rientra nelle condizioni imposte dalle leggi immanenti della sfera delle merci e del denaro, solo ciò che può essere assimilato da questa sfera e assumere la forma economica di valore. Quindi il pensiero, che astrae dall’oceano sconfinato dei fatti empirici la loro determinatezza storica concreta dovuta al capitalismo come sistema economico, ha il diritto di estrarre solo i tratti dell’oggetto che rientrano nelle determinazioni del valore.

Il fatto, invece, che un fenomeno non rientri in queste determinazioni e non abbia i requisiti individuati analiticamente nell’esame della sfera della circolazione ed espressi teoricamente dalla categoria del valore, è l’indice primo e categorico che esso oggettivamente non appartiene al genere di fenomeni dalla cui generalizzazione deve scaturire la teoria, il sistema delle determinazioni storiche concrete del capitale.

Tutto ciò che non può assumere la forma di valore non può neppure trasformarsi in capitale.

Il senso della categoria del valore nella teoria di Marx sta nel fatto che essa rispecchia il momento, l’elemento, la “cellula” universali e necessari del capitale ed è l’espressione più astratta e generale della peculiarità del capitale, pur essendo contemporaneamente un fatto economico assolutamente concreto: lo scambio immediato di una merce con un’altra.

È ora estremamente significativo il passaggio teorico dall’esame della sfera mercantile all’analisi del processo di produzione del plusvalore.

Su che cosa si fonda la necessità logica rigorosa di questo passaggio?

Prima di tutto sul fatto che il pensiero giunge all’analisi del processo di produzione del plusvalore muovendo dalle determinazioni individuate nell’esame della sfera mercantile e, secondariamente, sul fatto che in questo caso si indaga analiticamente un dato reale: il denaro immesso nella circolazione capitalistica, dopo esser passato attraverso tutte le sue metamorfosi, riesce accresciuto, produce plusvalore. Il pensiero torna all’indagine delle condizioni della possibilità di questo fatto. Ma una condizione assolutamente necessaria di tale possibilità è già stata chiarita dall’analisi della sfera della circolazione. Si tratta della legge del valore che, da un lato, appare come legge assolutamente universale della totalità presa in esame, ma che, dall’altro, non contiene in sé tutte le condizioni necessarie della possibilità oggettiva del plusvalore.

Una condizione necessaria del fatto economico analizzato rimane incognita e il pensiero si accinge consapevolmente a cercarla.

Il problema, come è noto, si formula così l’incognita deve essere trovata non mediante un costrutto logico ma nella serie dei fatti economici reali, nella realtà empirica del capitalismo sviluppato. Che cosa sia questo fatto per ora non ci è noto Tuttavia ne conosciamo una caratteristica importantissima e cioè che, in ogni caso, esso deve essere anche una merce, ossia una realtà economica sottoposta alla legge del valore e alle sue esigenze perentorie. Ma questa merce deve possedere una particolarità: il suo valore d’uso deve consistere nella capacità di trasformarsi in valore nell’atto stesso dell’uso. Questa seconda esigenza posta all’incognita è, come è facile capire, la condizione individuata analiticamente della possibilità del plusvalore, del capitale.

L’esame empirico della circolazione capitalistica sviluppata attesta che soltanto una realtà economica — la forza-lavoro — soddisfa entrambe le condizioni. La questione, se posta in modo corretto dal punto di vista logico offre l’unica soluzione possibile: l’incognita che soddisfa le condizioni indicate teoricamente è la forza-lavoro.

Questa conclusione, questa generalizzazione teorica dei fatti reali  ha tutti i pregi della più perfetta delle induzioni, se per induzione si intende una generalizzazione che muova dai fatti. Ma nello stesso tempo essa soddisfa le esigenze più cavillose dei sostenitori del carattere deduttivo del sapere scientifico.

Il metodo del passaggio dall’astratto al concreto consente di individuare con precisione e di esprimere astrattamente le condizioni assolutamente necessarie della possibilità dell’oggetto dato nell’intuizione.

Il Capitale mostra in modo particolareggiato la necessità con cui si realizza il plusvalore, quando si abbiano una circolazione evoluta delle merci e del denaro e una libera forza-lavoro.

L’insieme delle condizioni necessarie si pone, quando ci si attenga a questo metodo d’analisi, come possibilità concreta reale del plusvalore, mentre la circolazione delle merci e del denaro si presenta come sua possibilità astratta. Ma per il pensiero logico la possibilità astratta risulta impossibilità: l’analisi della circolazione mostra che le sue leggi immanenti stanno in un rapporto di contraddizione polare con il fatto del plusvalore. Così pure l’esame della natura della forza-lavoro come tale rivela che essa non può essere considerata la fonte del plusvalore. Il “lavoro in generale” crea il prodotto, il valore d’uso, ma non il valore.

Secondo questo metodo, la comprensione teorica scientifica del valore si risolve nell’individuazione delle condizioni necessarie che nella loro interazione storica concreta lo rendono possibile. Ognuna di esse, considerata astrattamente — cioè fuori dell’interazione concreta con le altre, — esclude per principio la possibilità stessa del plusvalore. Per il pensiero ciò si pone come una contraddizione esclusiva fra la legge del valore, come possibilità astratta del fatto, e il fatto stesso, il plusvalore.

È reale soltanto la possibilità concreta, l’insieme di tutte le condizioni necessarie dell’essere dell’oggetto nel loro intercondizionamento storico concreto. Solo nella scoperta di questo insieme concreto di condizioni il pensiero può trovare la soluzione reale della contraddizione tra la legge universale e la sua forma empirica di realizzazione, tra l’astrazione e il fatto concreto. La legge universale espressa astrattamente si pone inevitabilmente in un rapporto di contraddizione polare con il fatto esaminato. Dal punto di vista della logica dialettica in ciò non c’è nulla di male. Al contrario, in questo caso la contraddizione logica è l’indice del fatto che l’oggetto analizzato è compreso soltanto astrattamente, e non concretamente, del fatto che non sono cioè state ancora scoperte tutte le condizioni necessarie in cui esso esiste. Le contraddizioni logiche, che sorgono necessariamente nel corso della conoscenza, vengono quindi risolte solo nel dispiegamento del sistema concreto di categorie che riproduce l’oggetto in tutta la pienezza dei suoi momenti necessari, delle condizioni oggettive del suo essere.

La comprensione concreta non elimina però le contraddizioni individuate, ma, anzi, mostra specificatamente come esse siano forme logicamente corrette di rispecchiamento della realtà oggettiva che si sviluppa appunto mediante contraddizioni. Il sapere teorico concreto mostra la necessità del fatto che sulla base della legge universale — senza violarla, modificarla, trasformarla — sorgano fenomeni che contraddicono direttamente questa legge.

Inoltre tutte le condizioni necessarie della possibilità del fenomeno analizzato non sono semplicemente elencate l’una accanto all’altra, ma vengono comprese nella loro interconnessione storica concreta, nel loro nesso genetico.

La semplice somma meccanica delle condizioni del plusvalore — la circolazione sviluppata e la forza-lavoro — non costituisce ancora la sua natura concreta, reale. Il plusvalore è un prodotto dell’interazione organica di entrambe, una realtà economica qualitativamente nuova, e la sua comprensione concreta non deriva soltanto dai tratti ricavabili dall’esame della circolazione e della forza-lavoro. La forza-lavoro diventa un fattore della produzione del plusvalore soltanto quando comincia a funzionare nella forma sociale sviluppata dal movimento del mercato, nella forma della merce. Ma anche la forma economica della merce diviene una forma di movimento del capitale solo quando sottomette a sé il movimento della forza-lavoro. L’interazione delle leggi della circolazione e della forza-lavoro genera una nuova realtà economica che non era contenuta né dall’una né dall’altra prese separatamente, fuori della loro interazione concreta.

Il movimento del pensiero logico, movimento che riproduce i momenti necessari dello sviluppo del plusvalore, non può quindi risolvere in una sintesi formale delle determinazioni teoriche ottenute analizzando le sue componenti, ossia le determinazioni della circolazione, da un lato, e della forza-lavoro, dall’altro. L’ulteriore movimento del pensiero che mira alla comprensione del plusvalore, può compiersi soltanto attraverso una nuova analisi dei fatti nuovi: i fatti del movimento del plusvalore come fenomeno economico peculiare irriducibile alle proprie componenti.

D’altra parte, questo ulteriore esame teorico dei fatti del movimento del plusvalore non può aver luogo senza le categorie sviluppate nell’indagine delle leggi del movimento del mercato e delle particolarità della merce forza-lavoro. Senza aver prima sviluppato queste categorie è impossibile l’analisi teorica dei fatti empirici del movimento del plusvalore, perché si rileverebbero soltanto le caratteristiche astratte del processo di produzione del plusvalore, nelle quali si rispecchiano non le determinazioni teoriche concrete bensì soltanto le manifestazioni esteriori del processo.

L’analisi teorica, che coincide immediatamente con la sintesi teorica delle determinazioni astratte del plusvalore rilevate in precedenza, non esprime le forme superficiali astratte del movimento del plusvalore, ma i mutamenti necessari che avvengono nel movimento del mercato quando vi si introduce quella merce originalissima che è la forza-lavoro. Questa produce nel movimento della circolazione i mutamenti che la trasformano in sfera di produzione del plusvalore.

Ma la stessa forza-lavoro è assunta non nella sua caratteristica eterna (identica per tutte le formazioni), bensì nella sua determinatezza storica concreta di merce. Ciò significa che si scopre — e si fissa in concetto — prima di tutto la forma storicamente determinata che essa assume soltanto entro la sfera della circolazione delle merci e del denaro.

Questo distingue la riproduzione teorica scientifica del processo di produzione di plusvalore dalla sua descrizione astratta, dalla semplice espressione astratta dei suoi fenomeni dati in superficie.

Per comprendere, per esprimere in concetti l’essenza della produzione capitalistica, del lavoro produttore di plusvalore occorre prima individuare tutto l’insieme delle condizioni necessarie che rendono possibile siffatto lavoro, e solo dopo osservare quali mutamenti esso produce nelle condizioni stesse della sua esistenza.

L’analisi dei mutamenti che la forza-lavoro apporta nel processo della circolazione delle merci e del denaro, nel processo di produzione del valore presuppone l’analisi preliminare delle condizioni nelle quali la modificazione si introduce, ossia l’analisi del processo di produzione del valore, processo che il lavoro salariato trova già pronto. Altrimenti è impossibile comprendere il processo del sorgere del plusvalore.

Questo modo di intendere i fenomeni dà la possibilità di non limitarsi a descriverli così come sono dati all’intuizione immediata alla superficie di uno stadio sviluppato della loro esistenza, ma di riprodurre, nel senso più completo della parola, il loro divenire, seguendo il processo della loro nascita e del loro sviluppo fino allo stato attuale nei suoi momenti rigorosamente necessari.

Il metodo del passaggio dall’astratto al concreto poggia qui sul fatto che le condizioni veramente necessarie e universali dell’origine e dello sviluppo dell’oggetto si conservano in ogni momento dato come forme di esistenza dell’oggetto. Quindi il pensiero, analizzando l’oggetto sviluppato, può ricostruirne la storia “tolta. “ Una indagine storicistica dell’oggetto è possibile soltanto col metodo del passaggio dalI’astratto al concreto.

Perciò il quadro tracciato dalle sezioni più astratte della teoria (ad esempio, il primo capitolo del Capitale) diverge estremamente dal quadro che uno stadio sviluppato del processo offre all’intuizione immediata e alla rappresentazione. E, al contrario, quante più influenze, tendenze e reazioni essenziali si implicano nel passaggio dall’astratto al concreto, tanto più concreta diventa l’immagine che tende a coincidere sempre più con il quadro dato all’intuizione immediata e alla rappresentazione.

Il Capitale non mostra soltanto lo “scheletro economico” dell’organismo sociale, la sua “struttura intrinseca.” Lenin vede la superiorità del metodo di Marx nel fatto che “pur spiegando la struttura e l’evoluzione di una data formazione sociale esclusivamente con i rapporti di produzione, investiga ciò nondimeno sempre e dappertutto le sovrastrutture corrispondenti a questi rapporti di produzione, riveste lo scheletro di carne e sangue.” Il Capitale, rileva Lenin, mostra “tutta la formazione sociale capitalistica come una cosa viva, con i suoi aspetti della vita quotidiana, con la manifestazione sociale concreta dell’antagonismo delle classi inerente ai rapporti di produzione, con la sovrastruttura politica borghese che protegge il dominio della classe dei capitalisti, con le idee borghesi di libertà, eguaglianza, ecc., con i rapporti familiari borghesi.“[27]

Inoltre il Capitale dimostra che questi rapporti concreti non possono mutare finché alla base di tutta la vita sociale sta l’economia privata, capitalistica, così come non può raddrizzarsi uno storpio. Soltanto la tomba può modificare questi rapporti concreti. Le crisi, la disoccupazione, l’impoverimento relativo e assoluto delle masse lavoratrici, la falsità e la malafede nella vita ideologica e nell’esistenza quotidiana sono inevitabili finché agisce la legge del plusvalore poiché queste non sono che forme esteriori di manifestazione dell’essenza profonda dell’organismo capitalistico, delle contraddizioni del processo di accumulazione del plusvalore. Queste contraddizioni ineriscono organicamente al capitalismo quanto lo scambio di albumine al corpo vivo. Non sono “macchie” superficiali, ma espressioni dell’essenza. Tutto ciò è dimostrato dal Capitale, derivando la comprensione dei fenomeni dalla comprensione della loro essenza universale e attuando il metodo del passaggio dall’astratto al concreto.

Una volta accettato il metodo di Marx, è impossibile non accettare tutte le conclusioni del Capitale. Per questo gli apologeti del capitalismo contemporaneo esecrano il metodo di Marx. Esso infatti dimostra che le crisi di sovrapproduzione, l’esistenza dell’esercito di riserva dei disoccupati e tutti gli altri fenomeni di “ricchezza” borghese sono forme universali e assolute del processo di produzione e di accumulazione del plusvalore, forme organiche, non pure effetti ma condizioni necessarie dello svolgersi del processo.

I filosofi e i logici borghesi si sforzano quindi di screditare il metodo di Marx, definendolo una “costruzione speculativa,” una “forma hegeliana di pensiero” accolta da Marx acriticamente, ecc., sebbene, come abbiamo cercato di dimostrare, le affinità col metodo hegeliano siano puramente esteriori e formali. La “deduzione” di Marx è sinonimo del metodo materialistico, del metodo di spiegazione dei rapporti ideologici, politici, giuridici, morali sulla base dei rapporti materiali di produzione.

Marx nel Capitale indica categoricamente questa circostanza: “Di fatto è molto più facile trovare mediante l’analisi il nocciolo terreno delle nebulose religiose che, viceversa, dedurre dai rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme incielate. Quest’ultimo è l’unico metodo materialistico e quindi scientifico.”[28]

Si tratta del metodo che fissa il compito della conoscenza scientifica del denaro non nella cognizione che anche il denaro è merce, bensì nell’indagine di come e perchè la merce si trasforma in denaro. Ciò è molto più difficile, ma anche molto più vero. Il metodo marxiano non mostra solo i rapporti della vita reale che sono rispecchiati nelle forme ideologiche, ma spiega anche perchè si siano sviluppate proprio quelle determinate forme ideologiche, politiche, giuridiche e scientifiche e non altre. Tutte queste forme sono letteralmente “dedotte” dai rapporti della vita reale, dalle sue contraddizioni, dalla “disgregazione interna del fondamento terreno.” Qui sta la differenza tra la critica marxiana e feuerbachiana delle forme di coscienza religiosa. E in ciò è da ricercare il merito principale del metodo dialettico di Marx, Engels e Lenin e, nello stesso tempo, il suo carattere materialistico in ordine ad ogni campo di indagine: dall’economia politica alla teoria della conoscenza e all’estetica.

NOTE


[1] Titolo originale dell’opera: Dialektika abstraktnogo i konkretnogo v “Kapitale” Marsksa ( Izdatel’stvo Akademii Nauk SSSR, Moskva, 1960).

[2] K. Marx Storia delle teorie economiche, vol. II, Torino 1955, p. 72.

[3] K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Mosca Verlag für fremdsprachige Literatur,1939, p. 170.

[4] È necessario tener presente che qui, come anche nelle pagine seguenti, vengono considerate le contraddizioni che sorgono nel corso di un pensiero corretto dal punto di vista della logica dell’oggetto, cioè le contraddizioni dialettiche del pensiero. Di contraddizioni logiche in senso stretto, cioè verbali, artificiose, soggettive, deve essere ovviamente priva, come osserva Lenin, ogni ricerca scientifica. L’elaborazione di regole che liberino da siffatte contraddizioni è compito della logica formale.

[5] K. MARX, Storia delle teorie economiche, vol. III, Torino 1958, p. 94.

[6] K. MARX, Storia delle teoria economiche, vol. lI, ed. citata., p. 23.

[7] Cfr. K. MARX, Storia delle teorie economiche, voI. II, ed. cit., p. 42.

[8] K. MARX, Storia delle teorie economiche, vol. III, ed. cit., p. 98.

[9] Ibidem.

[10] K. MARX, Storia delle teorie economiche, vol. I, cd. cit., p. 153.

[11] K. MARX, Storia delle teorie economiche, vol. III, ed. cit., p. 199.

[12] Ivi p. 201.

[13] K.. MARX, Il Capitale, III, ed. cit., p. 64 (il corsivo dell’autore).

[14] Cfr. K. M Il capitale, III, I, ed. cit., p. 37 (il corsivo è dell’autore).

[15] K. MARX, il Capitale, libro I, I, ed. cit., p. 62.

[16] lvi, p.75

[17] K. MARX, Il Capitale,vol I, I, ed. cit., p. 118.

[18] K. MARX, Storia delle teorie economiche, vol. III, ed. cit., p. 163.

[19] K. MARX, Per la critica dell’economia politica, Roma 1957, p. 206.

[20] K. MARX, Il Capitale, vol I, I, ed. cit., p. 174 (il corsivo è dell’autore).

[21] lvi, p.180.

[22] lvi pp. 182-183

[23] Ivi, p 184

[24] Ivi, pag.170

[25] lvi, p. 171.

[26] G. F. W. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, trad. De Negri, voI. 1, p. 13, II ediz., Firenze 1960.

[27] V. I. LENIN, Opere Complete, vol. I, Roma 1954, p. 136.

[28] K. MARX Il Capitale, vol I, cap.2. Roma 1952, p. 72.