IL CONCETTO FILOSOFICO GENERALE DI BISOGNO
ESTRANIAZIONE DEI BISOGNI
[1]

Agnes Heller

Marx sviluppa il concetto filosofico generale di bisogno nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e nell’Ideologia tedesca. Nella seguente esposizione ci riferiremo quindi di preferenza a queste opere. Parte dei problemi non ritorna nelle opere posteriori, almeno non in forma sistematica; altri si presentano negli scritti della maturità con interpretazioni variamente modificate. Nella nostra trattazione consideriamo quei cambiamenti del pensiero di Marx di cui abbiamo sufficienti indicazioni (che si rintracciano particolarmente nei Grundrisse) confrontandoli con le precedenti elaborazioni.

Bisogno dell’uomo e oggetto del bisogno sono correlati: il bisogno si riferisce sempre a qualche oggetto materiale o ad una attività concreta. Gli oggetti “fanno esistere” i bisogni e viceversa i bisogni gli oggetti. Il bisogno e il suo oggetto sono “momenti,” “lati” di uno stesso insieme. Se non analizziamo un modello statico ma la dinamica di un “corpo sociale” (supposto che questo “corpo sociale” ammetta una dinamica), allora il primato spetta al momento della produzione: è la produzione che crea nuovi bisogni. Certamente anche la produzione che crea nuovi bisogni è in correlazione con quelli già presenti: “La diversa configurazione della vita materiale è naturalmente dipendente, volta per volta, dai bisogni già sviluppati, e tanto la produzione quanto il soddisfacimento di questi bisogni sono essi stessi un processo storico.”[2]

Naturalmente per “oggetto” del bisogno non è da intendersi solo oggettualità cosale. Il mondo nella sua totalità è un mondo oggettivo, ogni rapporto sociale, ogni prodotto sociale è oggettivazione dell’uomo. Più tardi Marx distinguerà a fondo tra oggettivazione (Objectivation) e oggettualizzazione (Vergegenständlichung), però questo non implica modificazioni rilevanti in sede teorica nella concezione dei bisogni. Nel processo di oggettualizzazione dell’uomo si estrinsecano i sensi umani ed è il rapporto umano oggettualizzato, già presente, che sviluppa in ogni uomo, per quanto possibile, sensi e bisogni umani: “...e quindi occorreva l’oggettualizzazione dell’essere umano, tanto dal punto di vista teoretico che dal punto di vista pratico, sia per rendere umani i sensi dell’uomo, sia per creare un senso umano che fosse corrispondente a tutta la ricchezza dell’essere umano e naturale.[3]L’oggetto più alto del bisogno umano è l’altro uomo. In altre parole: la misura in cui l’uomo come fine è divenuto il più alto oggetto di bisogno per l’altro uomo determina il grado di umanizzazione dei bisogni umani.

Anche i bisogni animali sono sempre diretti ad oggetti. Però i bisogni animali e i loro oggetti sono “dati” dalla costituzione biologica dell’animale. Essi possono bensì svilupparsi, ma solo rispetto al modo. Diversamente, con l’arretramento dei limiti naturali, i bisogni umani si dirigono sempre più alla oggettualizzazione (nel senso dell’attività e altrettanto dell’oggettivazione). L’uomo crea gli oggetti del suo bisogno e contemporaneamente anche i mezzi per soddisfarlo (questi possono corrispondersi, ma non incondizionatamente). La genesi dell’uomo è in fondo genesi di bisogni.

La teoria della “genesi,” qui formulata, si trova in due passi vicini dell’Ideologia tedesca: “La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi [quelli animali] bisogni.[4]” E subito dopo: “... e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica.[5]” Entrambe le citazioni esprimono lo stesso pensiero da prospettive diverse. Infatti nella produzione degli strumenti atti a soddisfare bisogni elementari il bisogno degli strumenti è già un bisogno nuovo che si differenzia da quello animale. Con l’espressione poetica “prima azione storica” si descrive quindi la creazione di bisogni nuovi, non dati nella costituzione biologica, cioè le qualità del bisogno.

Il bisogno umano si realizza quindi nel processo della oggettualizzazione; gli oggetti ”dirigono” e “regolano” l’uomo nello svolgimento dei rispettivi bisogni. I bisogni sono “esplicitati” soprattutto nelle oggettivazioni e nel mondo oggettualizzato e le attività che si oggettualizzano creano nuovi bisogni. La tendenza oggettuale dei bisogni indica insieme anche il loro carattere attivo. I bisogni comportano passioni e capacità (passioni e capacità di impossessarsi dell’oggetto) e così pure le capacità implicano bisogni. La capacità dell’attività concreta è pertanto uno dei maggiori bisogni dell’uomo. (Questo è il fondamento filosofico, in seguito così determinante, della concezione marxiana dell’assurgere del lavoro a “bisogno vitale.”)

In generale denominiamo bisogno solamente quello umano riferito ad oggettivazioni e diretto ad esse; nell’animale si tratta di necessità, istinto, “drive,” ecc. Questo è comunque un problema terminologico, a nostro avviso importante solo perché decisivo nell’analisi della psiche socializzata (nell’analisi, ad esempio, di ciò che, come i bisogni, guida gli istinti, “drives” umani, più ancora desideri, passioni, nostalgie, diretti a singoli oggetti dei bisogni). Nell’animale non è possibile distinguere in questo modo tra I’”atteggiamento verso gli oggetti” e il singolo oggetto del suo “drive.” Il bisogno come esigenza, “creata” dalle “oggettualizzazioni,” diretta a classi di oggetti qualitativamente diverse e il desiderio individuale orientato da questi bisogni verso determinazioni concrete di tali oggetti (dove il primo si può porre come rapporto di valore, mentre il secondo può non esserlo) sono caratterizzati da un’intima complessità strutturale. Quindi l’applicazione specificamente storico-antropologica del concetto di bisogno appare quanto meno sensata. Questo vale non solo riguardo a bisogni o desideri perfettamente “liberi” da motivi biologici. Il bisogno sessuale rivolto verso la madre da millenni si contrappone alle norme sociali che regolano la sessualità (e al rapporto di valore inerente al bisogno) — altrimenti non produrrebbe nessun “complesso” (nel senso psicologico della parola).[6]

Non bisogna credere che ci siamo allontanati dall’analisi del pensiero marxiano. Infatti Marx si accinge varie volte a distinguere i bisogni dai desideri diretti ad “oggetti” concreti.

Nell’indagare i rapporti psicologici con i bisogni (cioè il loro aspetto psicologico) Marx si mostra essenzialmente “illuminista” e il suo pensiero è affine a quello di Fourier. Nell’Ideologia tedesca, in polemica con Stirner, scrive: “Che una passione diventi fissa o no […..] dipende dall’essere o non essere consentito […..] di soddisfare normalmente questa passione e di sviluppare, d’altra parte, un complesso di passioni. Quest’ultimo punto a sua volta dipende dal fatto che si viva in circostanze che ci permettano un’attività senza restrizioni e quindi uno sviluppo di tutte le nostre disposizioni.[7]” In un passo, poi cancellato dal manoscritto della stessa opera, esamina a fondo questo problema. Consideriamo corretto riferirci ad esso nel nostro lavoro, essendo fuor di dubbio che Marx riteneva comunque suo quanto espostovi. L’argomentazione corrisponde infatti essenzialmente a quanto precede e nell’ultima stesura è stata ripresa in questi termini: “L’organizzazione comunista agisce in duplice modo sulle passioni che producono nell’individuo le condizioni attuali; una parte delle passioni, ossia quelle che esistono in tutte le condizioni e vengono mutate solo nella forma e nella tendenza da condizioni sociali diverse, anche in questa forma sociale viene solo mutata, in quanto si danno ad esse i mezzi per uno sviluppo normale; invece un’altra parte, ossia le passioni che devono la loro origine soltanto a una forma sociale determinata [….] viene del tutto privata delle sue condizioni di vita”[8]. Poi Marx parla di “passioni” la cui fissità non è “superabile,” quelle dunque che si basano su motivi biologici, e continua: i comunisti “tendono soltanto a un’organizzazione della produzione e dello scambio che permetta loro il soddisfacimento normale di tutti i bisogni, cioè limitato dai soli bisogni stessi”.[9]

Notiamo anzitutto che l’indice “normale” gioca un ruolo decisivo in tutte le tre citazioni. (La “normalità” funge spesso in Marx da criterio valutativo; si pensi all’Introduzione a Per la critica dell’economia politica, dove si parla dell’antica Grecia come “normale” infanzia dell’umanità.) Se l’uomo è ricco di bisogni, se solo altri bisogni pongono limiti alla soddisfazione dei suoi bisogni, allora i desideri sono diretti in un senso “normale,” non sono fissati esclusivamente a un unico oggetto e quindi possono essere soddisfatti “normalmente.”

Marx non ritorna altrove sugli aspetti psicologici dei bisogni, ma è indubitabile che a questo riguardo non ha mai superato il punto di vista illuministico-razionalista. Non si tratta solo del fatto che nella società dei “produttori associati” conta su di una struttura psichica e di coscienza profondamente diversa dall’attuale, ma anche che non mette mai in forse questa possibilità e perfino questo processo; altrettanto non solleva la questione del tempo in cui dovrà verificarsi il cambiamento psichico. Mentre gli uomini cambiano la società, cambiano radicalmente anche se stessi; è un processo “naturale” (cioè “normale”) il cui risultato è indubbio.

Per prevenire malintesi vorrei chiarire che non voglio difendere, di fronte a Marx, la posizione della “natura umana eterna.” Nel comunismo vi è già l’affermazione della possibilità che la psiche umana muti di fatto radicalmente nel processo di superamento dell’estraniazione. Però, da una parte questo processo è molto più lungo e complicato di quanto Marx non pensasse; dall’altra non credo che possa esistere una società (e una psiche umana) in cui sia possibile eliminare qualsiasi contrasto tra desideri e bisogni. Il fatto che solo altri bisogni pongono limiti alla soddisfazione dei bisogni, non afferma ancora niente sul loro rapporto con le passioni. Inoltre la previsione che solo altri bisogni porranno limiti ai bisogni può essere vera riguardo al rapporto reciproco tra i bisogni soddisfacibili (sebbene anche in questo caso sia dubbio che genere di bisogni ne limitino altri), ma non universalmente valida, perché i bisogni materiali sono limitati dalla produzione, mentre i più svariati “oggetti” pongono limiti agli altri bisogni.

Il problema dell’estraniazione dei bisogni costituisce in Marx il centro dell’analisi filosofica dei bisogni. Anche a questo riguardo, come abbiamo visto, serve da criterio valutativo l’uomo “ricco di bisogni.” L’estraniazione dei bisogni equivale all’estraniazione di questa ricchezza.

L”uomo ricco di bisogni” è così una costruzione consapevolmente filosofica che non si rifà a fatti empirici. Non c’è mai stata una società in cui i membri di una determinata classe o ceto fossero caratterizzati dalla “ricchezza di bisogni.” L’individuo della società antica lo era solo in apparenza: la sua ricchezza era limitata, era la ricchezza di un uomo che non si è ancora sciolto dal cordone ombelicale della “comunità naturale.” Invero quest’epoca era caratterizzata dall’attuazione di sensi “umani” e “teorici”; è altrettanto vero che entro questa struttura di bisogni aveva la predominanza la qualità e non la quantità[10]. Però la struttura della comunità, che circoscrive l’espansione illimitata della produzione, non solo determina la “limitatezza” della versatilità dell’individuo, ma rende effimero e “reversibile” il periodo storico dell’universalità (dei bisogni ricchi) — che in effetti decadde nel successivo sviluppo storico.

Inoltre i bisogni sono “ripartiti” qualitativamente entro la divisione del lavoro delle società basate su “comunità naturali.” Il servo della gleba aveva bisogni qualitativamente diversi da quelli del proprietario terriero, non perché non poteva “acquistare” gli oggetti dei suoi bisogni, ma perché questi erano ”naturalmente” (nel senso del carattere naturale della vita della comunità) differenti dal punto di vista qualitativo. Già per questo motivo i bisogni dovevano rimanere unilaterali e limitati, non potevano individualizzarsi ed erano subordinati tutti alla struttura delle comunità. “Finora i godimenti di tutti gli stati e classi dovevano essere in generale infantili, spossanti o brutali, perché erano sempre separati da tutta l’attività vitale, dal contenuto autentico della vita degli individui, e più o meno si riducevano a dare un contenuto apparente a un’attività priva di contenuto.[11]” L’individuo “ricco di bisogni,” come tipo social mente caratteristico, è quindi una costruzione filosofica non attuale, ma che deve realizzarsi in futuro: “Né la natura, oggettivamente, né la natura, soggettivamente è immediatamente presente all’essere umano in forma adeguata.[12]

Abbiamo detto che il concetto di uomo “ricco di bisogni,” nell’intenzione di Marx, è una costruzione filosofica solo in parte pura. Egli cerca sempre di fondarla su fatti empirici particolarmente significativi e, a tal fine, si serve del concetto di “essenza umana.[13] L’essenza umana (la ricchezza dell’uomo), i cui concetti costitutivi sono universalità, coscienza, socialità, oggettivazione e libertà, si configura nelle sue caratteristiche dinamiche quando l’essere umano assurge a “uomo.” Ciò che differenzia l’uomo, come essere sociale, dal mondo animale sono le possibilità del genere in sé. Nel corso del suo processo di sviluppo l’umanità non può realizzare niente altro che le possibilità conformi al genere. Nelle società divise in classi l”essere conforme al genere” •si sviluppa al di là delle opposizioni. È sul piano sociale che gli uomini svolgono le loro datità conformi al genere (almeno fino a un certo grado), però i singoli individui non partecipano alla ricchezza del complesso sociale. Mentre l’individuo, per la divisione del lavoro, rimane povero (nel senso più ampio della parola), si ha un parallelo arricchimento del genere.

Con l’attuale grado  di tale arricchimento, cioè con il capitalismo, si raggiunge l’apice dell’impoverimento individuale. Con il superamento dell’estraniazione (superamento della proprietà privata e della sussunzione sotto la divisione del lavoro) ogni individuo potrà partecipare della ricchezza sociale (tanto riguardo al godimento, quanto all’attività) che assume una forma nuova e superiore. Solo allora l’uomo diventerà un essere conforme al genere per sé, solo allora natura “interna” ed “esterna” saranno adeguate all’essenza umana.

Una forma di estraniazione tipica delle società classica è, secondo Marx, la religione. In essa e nel suo massimo oggetto, “dio,” le forze essenziali dell’uomo appaiono come forze estranee che lo dominano. Nel bisogno religioso si esprime quindi l’estraniazione (estraniazione dell’oggetto e del bisogno umano). La famiglia terrena ci dà la chiave per la Sacra Famiglia. L’estraniazione e il bisogno religiosi scompariranno solo quando l’umanità avrà superato l’estraniazione in questo mondo “terreno.” Al semplice ateismo (un tentativo di vincere una forma di estraniazione sostituendovene un’altra) si deve quindi contrapporre il comunismo, movimento che elimina la discrepanza tra il genere umano e il singolo, tra essenza ed essere in generale e con ciò supera il bisogno religioso come bisogno. Nell’accezione marxiana l’estraniazione non è una sorta di distorsione radicale dell’essenza del genere o della natura umana; l’essenza dell’uomo si sviluppa entro l’estraniazione stessa e questa pone la possibilità per la realizzazione dell’uomo “ricco di bisogni.” L’esposizione di Marx raggiunge toni appassionati quando descrive i momenti di universalizzazione ed arricchimento propri della società capitalistica. I testi relativi sono in generale noti, citeremo qui solo un breve passo: “... lo sviluppo delle scienze naturali fino ai massimi livelli cui esso può giungere; la scoperta, la creazione e la soddisfazione di nuovi bisogni derivanti dalla società stessa; la coltivazione di tutte le qualità dell’uomo sociale e la sua produzione come uomo per quanto è possibile ricco di bisogni perché ricco di qualità e di relazioni; ossia la sua produzione come prodotto per quanto è possibile totale e universale della società [….] tutto ciò è anch’esso una condizione della produzione basata sul capitale.[14]” Però il capitalismo non produce solo bisogni e capacità nuovi (sociali): estendendo il rapporto delle merci, riesce a fare del denaro l”incarnazione” quantitativa della ricchezza sociale. Ora i bisogni non vengono ripartiti in base alla divisione “naturale” del lavoro secondo le loro qualità; nessun membro della società è escluso in linea di principio dalla soddisfazione dei bisogni, di qualunque tipo siano (è sufficiente acquistare gli oggetti corrispondenti).

Contemporaneamente però il capitalismo come rapporto sociale limita l’arricchimento dei bisogni, sua stessa creazione. E ciò, secondo Marx, si effettua in due modi. Sia riproducendo la povertà (soprattutto per il proletariato anche strictu sensu e per la borghesia, nel senso filosofico della parola), sia perché limita in ultima analisi lo sviluppo delle forze produttive (da un lato in conformità alla legge della caduta del saggio di profitto, dall’altro a causa delle crisi che si ripetono necessariamente), sia per il processo di degradazione della principale forza produttiva, il lavoratore.

Non a caso è vigorosamente enfatizzato in Marx il fatto che il capitalismo produce bisogni “molteplici e ricchi,” mentre fa impoverire gli uomini e rende il lavoratore “privo di bisogni.” Qui compare il tema dei “bisogni radicali” e questo, come vedremo ancora, è per così dire il Leitmotiv dell’”opera” marxiana. L’”uomo ricco di bisogni” è un concetto di tipo filosofico e l’”essenza umana,” sebbene fondata anche empiricamente, è però “solo” (e “solo” non è qui inteso in senso peggiorativo) una categoria di valore. Tuttavia se l’esigenza di realizzare l’”essenza del genere,” o se l’idea di un futuro uomo “ricco di bisogni” fosse sorta solo nella mente del “filosofo privato o critico privato” Karl Marx, chi rovescerebbe il capitalismo e perché? Chi non solo lo farebbe cadere, ma anche lo trascenderebbe nella direzione in cui Marx si era posto, per quanto abbia sempre respinta l’espressione “ideale da realizzare?” La teoria che penetra tra le masse diventa una forza materiale, ma solo se i bisogni sono tali da sostenerla. L’estraniazione giunta al massimo grado deve produrre il bisogno di trascenderla, il bisogno della ricchezza e della realizzazione dell’”essenza del genere.” E il massimo paradosso della teoria dell’estraniazione di Marx, un paradosso che — speriamo — possa esprimere possibilità reali.

Seguendo Marx, analizziamo ora l’estraniazione dei bisogni nel capitalismo. Suddividiamo in quattro gruppi di problemi la complessa trattazione: 1) rapporto mezzo-fine; 2) qualità e quantità; 3) impoverimento (riduzione) e infine 4) interesse.

1. Nello sviluppo estraniato, cioè nella “condizione” di estraniazione della ricchezza, ogni fine diviene mezzo ed ogni mezzo fine. Questo “rovesciamento” tra mezzo e fine si esprime in ogni momento dell’essenza umana.

Come abbiamo già accennato, in condizioni” normali,” cioè “umane,” il massimo fine dell’uomo è l’altro uomo. L’estraniazione cambia in mezzo anche questo fine massimo, l’uomo diviene per l’altro uomo un semplice mezzo; un mezzo per la soddisfazione dei suoi fini privati, della sua avidità.

In tutte le società il lavoro possiede un duplice carattere di lavoro astratto e di lavoro concreto. Quest’ultimo ha come fine la soddisfazione di bisogni umani e la sua stessa esecuzione ne costituisce il mezzo. Nell’estraniazione (e particolarmente nel capitalismo) il rapporto fine-mezzo inerente al lavoro si capovolge nel suo contrario. Nella società della produzione delle merci il valore d’uso (il prodotto del lavoro concreto) non serve alla soddisfazione dei bisogni. La sua essenza consiste invece nel soddisfare i bisogni del non-possessore. Al lavoratore è completamente indifferente il genere di valori d’uso da lui prodotto, non avendo con essi alcuna relazione. Quello che compie per la soddisfazione dei suoi bisogni è invece lavoro astratto: lavora unicamente per sostenersi, per soddisfare i meri bisogni “necessari.” Il processo raggiunge il suo culmine quando, con la macchina, l’esecuzione del lavoro diventa semplice mezzo. Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, sopprime l’azione molteplice dei muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale. La stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro.[15]

Lo sviluppo delle forze produttive nella società “puramente sociale” ha il fine “normale” di alleggerire il lavoro dell’operaio (liberarlo dalle forme di lavoro brutali e inumane), di ridurre il tempo di lavoro e di produrre maggiore ricchezza per ognuno. Però anche qui si capovolge il rapporto mezzo-fine. Poiché nel capitalismo la produzione di plusvalore è il fine dell’aumento della produttività, anche questo diventa solo un mezzo. Non si alleggerisce così il lavoro operaio, ma lo si rende ancora più inumano; il tempo di lavoro non diminuisce anzi si allunga. Allora con la ricchezza si produce e riproduce anche la povertà (sia in senso proprio che filosofico).[16]

Secondo Marx il fine della produzione sociale dovrebbe essere la soddisfazione dei bisogni sociali, ma l’industria e l’agricoltura capitalistica non producono per i bisogni, né per la loro soddisfazione. Il fine della produzione è allora la valorizzazione del capitale, e la soddisfazione dei bisogni (sul mercato) ne è unicamente un mezzo.

Siamo testimoni di una “inversione” del rapporto fine-mezzo anche riguardo alle relazioni socio-comunitarie. In “condizioni normali” la comunità adempie una funzione di fine (e ne parleremo anche in seguito); lo stare insieme e il godimento comune sono rispettivamente alcune tra le massime forme di bisogno e di soddisfazione del bisogno: “... l’attività comune e il godimento comune, vale a dire l’attività e il godimento, che trovano la loro estrinsecazione e la loro conferma immediatamente in una società reale con altri uomini, avranno luogo ovunque quella espressione immediata della socialità sia fondata sull’essenza del suo contenuto e commisurata alla sua natura.[17]” Al culmine dell’estraniazione (nel capitalismo) scompare però la comunità autentica perché il rapporto delle merci diventa l’unica pseudo-”comunità”: fini e contenuti sociali (come anche la vita comunitaria) diventano mezzi per fini privati di singoli individui: “È soltanto […] nella “società civile”, che le diverse forme del contesto sociale si contrappongono all’individuo come un puro strumento per i suoi scopi privati, come una necessità esteriore.[18]” A questo riguardo Marx è dell’opinione che il movimento comunista in quanto tale sia capace di ritrovare la “normalità” del rapporto fine-mezzo. Scopo delle riunioni degli operai comunisti è originariamente la propaganda: “Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo, è diventato scopo.[19]” Il bisogno di socialità (bisogno di comunità) da mezzo diventa fine e perciò dai volti di questi operai s’irradia la “nobiltà dell’uomo.[20]

Last but no least la stessa ricchezza di bisogni da fine si converte in mezzo. “Ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno [….] Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico.[21]” Il capitalismo è il ruffiano che producendo oggetti sempre nuovi e sempre nuovi bisogni istiga gli uomini a prostituirvisi. L’aumento numerico dei bisogni non potrà mai diventare vera ricchezza, perché è il mezzo di una forza essenziale estranea agli individui, cioè dell’incremento della produzione capitalistica: “... l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava — schiava ingegnosa e sempre calcolatrice — di appetiti disumani, raffinati, innaturali, e immaginari .....[22]

Nella presente analisi del problema non prenderemo in considerazione il carattere “immaginario” o quello “ingegnoso” degli “appetiti.” Tuttavia bisogni “immaginari” non esistono. Quali siano i bisogni “normali” e quali quelli “raffinati” (con accento negativo) dipende completamente dai valori coi quali definiamo la “normalità.” Però anche se cercassimo un criterio cosiddetto oggettivo potremmo solamente concludere che in ogni tempo sono “normali” quei bisogni che gli individui giudicano tali; “raffinati” o “innaturali”, invece, quelli riconosciuti tali dalla maggioranza degli uomini[23]. Il concetto di bisogni ”raffinati” è ambiguo anche in Marx. A volte egli intende i cosiddetti “bisogni di lusso,” che, come si è già accennato, sono interpretabili solo economicamente (in sede filosofica costituiscono un “gruppo di bisogni” irrilevante), mentre altrove essi definiscono l”accumulazione” di uno specifico tipo di bisogni. Sono caratterizzati dal fatto che la tendenza alla loro soddisfazione non garantisce, bensì ostacola, l’espansione del mondo dei bisogni qualitativamente molteplice e ricco.

Se ora, nel corso dell’analisi della sua concezione globale, interpretiamo in quest’ultimo senso i bisogni “raffinati” o “indotti,” non è eccessivo affermare che Marx ha scoperto il problema dei “bisogni manipolati” ovvero della “manipolazione dei bisogni.” Un determinato bisogno non diventa “manipolato” per sue qualità concrete, ma a causa dei seguenti fattori: a) nuovi oggetti di bisogni e quindi bisogni sempre nuovi appaiono laddove la produzione di determinate merci (e dei bisogni corrispondenti) è più redditizia dal punto di vista della valorizzazione del capitale; b) la vera meta è in effetti la soddisfazione dei bisogni di una “forza essenziale estranea”; la creazione e la soddisfazione di bisogni individuali, anche se appare all’individuo come fine, è in realtà solo un mezzo nelle mani di questa “forza essenziale”; c) l’aumento dei bisogni appartenenti a un gruppo ben determinato, e l’orientamento del singolo a soddisfarli, a scapito dello sviluppo di bisogni che, per quanto non servano alla valorizzazione del capitale o perfino la ostacolino, sono determinanti per la personalità umana, avviene in accordo al meccanismo della produzione capitalistica. (Così l’espansione dei beni di consumo individuali, causa la continua introduzione di nuovi prodotti, sviluppa i bisogni corrispondenti in modo tale da diventare un freno al bisogno di tempo libero e da impedirne lo sviluppo); d) la libertà individuale è quindi solo apparente: il singolo sceglie gli oggetti dei suoi bisogni e plasma i bisogni individuali non conformemente alla sua personalità, ma soprattutto al posto da lui occupato nella divisione del lavoro; e) sotto un certo aspetto l’individuo diventa effettivamente più ricco (avrà più bisogni ed oggetti di bisogni); ma questo arricchimento è unilaterale e non limitato da altri bisogni. Poiché il fine non è lo sviluppo molteplice dell’individuo, il singolo diventa schiavo di quel ristretto gruppo di bisogni. Dal tempo di Marx la situazione è cambiata (e questo è significativo, ma non agli effetti del nostro problema): i bisogni manipolati oggi non sono più peculiari solo delle classi dominanti, ma della maggioranza della popolazione, almeno nei paesi capitalistici sviluppati[24].

2. I bisogni diretti al possesso di beni possono aumentare all’infinito: nessun altro bisogno pone limiti alla loro crescita. Poiché il possesso è distinto dall’uso e dal godimento immediato (il ruolo del godimento è svolto dal possesso stesso) l’aumento dei bisogni è di carattere quantitativo. Non posso possedere tanto da non voler possedere ancora di più; voglio “avere” di più anche quando le qualità concrete degli oggetti non soddisfano immediatamente alcun genere di bisogno — divento indifferente verso queste qualità concrete. Ciò che possiedo non “sviluppa” in me bisogni nuovi, eterogenei, ma anzi li mutila. Chi tratta diamanti, come scrive Marx, non ha alcuna attenzione per la bellezza estetica del diamante perché vede in esso solo un’incarnazione del valore di scambio. Vera ricchezza è lo sviluppo di bisogni qualitativamente diversi.

Il denaro o il rapporto di denaro determina l’” inversione”del rapporto “normale” qualità-quantità, è incarnazione della quantificazione dei bisogni e ne diviene il portatore. Esso è il rappresentante puramente quantitativo della ricchezza sociale. “La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza: come il denaro ha ridotto ogni essere alla propria astrazione, cosi esso si riduce nel suo proprio movimento a mera quantità. La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato.[25]

La “smisuratezza” che si realizza nel rapporto di denaro è descritta nel passo qui citato dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 con un accento di valore inequivocabilmente negativo. Abbiamo già accennato che l’atteggiamento di Marx verso il capitalismo è cambiato dai Manoscritti ai Grundrisse. Nei Grundrisse sta in primo piano la scoperta del carattere antieconomico del capitalismo e, per questa ragione, la quantificazione dei bisogni è analizzata con differenti accenti di valore, conformemente ai due opposti momenti costitutivi dell’antinomia. Questo fatto si esprime in Marx con un cambiamento molto significativo di termine. Nei Manoscritti domina l’espressione “astratta” relativa alla descrizione della funzione del denaro (ricordiamo che “il denaro ha ridotto ogni essere alla propria astrazione! “); a partire dai Grundrisse invece questa funzione è indicata nella maggior parte dei casi con il termine “generale.” La riduzione all’astrazione” contiene sempre in Marx un accento di valore negativo, mentre il termine “generale” ne ha sempre uno positivo. Si ricordi che la riduzione del lavoro a lavoro astratto (l’indifferenza dell’operaio per la qualità concreta del suo lavoro riguardo sia ai prodotti del lavoro che alla attività) rappresenta il culmine dell’estraniazione del lavoro, mentre il lavoro generale,” la “produzione generale,” l”industriosità generale” producono ed esprimono la ricchezza generale. Naturalmente qui si tratta di un semplice spostamento di accento e non di un radicale cambiamento di concezione. L’idea della “generalità” del denaro compare, sia pure con parole diverse, anche nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (“È il potere alienato dell’ umanità[26]“ mentre l’argomentazione che i rapporti di denaro producono il bisogno “astratto” di godimento, appare sì nei Grundrisse, ma solo una volta e come caso eccezionale. (“La sensualità astratta il denaro la realizza nella sua determinazione di rappresentante materiale della ricchezza.[27]”). Lo spostamento di accento è però inequivocabile.

Nei Grundrisse la quantificazione dei bisogni (contrapposta al sistema di bisogni delle comunità naturali) è rappresentata unicamente come sviluppo estraniato, più precisamente come una forma estraniata, ma necessaria dello sviluppo. Tanto l’estraniazione quanto lo sviluppo sono messi in rilievo nei Manoscritti economico-filosofici dove appaiono come rappresentanti della fichtiana compiuta peccaminosità; il tema principale è l’estraniazione e non lo sviluppo. Nei Grundrisse la quantificazione della qualità è il superamento della limitatezza: vi appaiono tutti i temi dei Manoscritti economico-filosofici, organizzati però in modo diverso. La quantificazione della qualità è una forma di estraniazione che, in un dato contesto storico, prepara le condizioni per la creazione della ricchezza generale, né d’altronde è in grado di superare tale stadio. Quella certa “ingegnosità” nel produrre gli oggetti dei bisogni vecchi e nuovi e l’aumento dei bisogni di un tipo ben determinato sono rappresentati come sviluppo e come condizione necessaria dello sviluppo (anche in questo caso solo relativamente ad un determinato periodo storico). “Poiché lo scopo del lavoro non è un prodotto particolare che sta in un particolare rapporto con i bisogni particolari dell’individuo, ma è il denaro, ossia la ricchezza nella sua forma generale, la laboriosità dell’individuo non ha anzitutto alcun limite, è indifferente ad una sua particolarità, e assume qualsiasi forma che serva allo scopo; è ricca di inventiva nella crea di nuovi oggetti destinati al bisogno sociale, ecc. […] Un’industriosità generale è possibile soltanto là dove ciascun lavoro produce la ricchezza generale, non una sua forma determinata[28].

Però anche qui Marx giudica il capitalismo come una società che pone limiti quantitativi alla qualità e ciò con due diversi approcci: “...la trasformazione in denaro, il valore di scambio in generale come limite alla produzione […. e equivale a una….. ] limitazione della produzione di valori d‘uso mediante il valore di scambio; oppure che la ricchezza reale, per diventare in generale oggetto della produzione, deve assumere una forma determinata, distinta da essa medesima.....[29]

Esplicitiamo i punti menzionati: 1) i rapporti di valore limitano i nuovi oggetti del bisogno e la creazione di bisogni nuovi entro un gruppo di bisogni. Siamo qui di fronte all’adattamento alla problematica del bisogno della concezione che nella società capitalistica la produttività cresce (i nuovi valori d’uso crescono in numero e in qualità) solo finché cresce il plusvalore. Marx ipotizza talvolta un “punto” della produzione capitalistica in cui cessa la “produzione” di nuovi oggetti di bisogni e di nuovi bisogni (contraddizione tra rapporti di produzione e forze produttive). Abbiamo accennato al fatto che, almeno finora, la previsione di Marx non si è verificata: la “quantificazione” dei bisogni — in questa prospettiva — non riduce la qualità. Ma l’ultima citazione afferma qualcosa d’altro ed anche di più: 2) i valori d’uso, che non rappresentano valore di scambio, cessano di essere oggetto di produzione. Il capitalismo “quantifica” tutte le oggettivazioni e le produce (come pure i bisogni ad esse diretti) solo se ciò è “redditizio.” In questo senso Marx parla spesso, ad esempio, del fatto che il capitalismo è ostile all’arte. Il capitalismo produce soprattutto oggetti d’arte portatori di valore di scambio, che diano profitto. Perciò, considerando la media della società, i bisogni di un’arte elevata sono trascurati in favore di quelli di un’arte scadente che si espandono sempre più. Parimenti il capitalismo quantifica il mondo, complessivamente qualitativo, dei bisogni umani, ne fa uno pseudo-valore di scambio e lo rende “acquistabile”; vecchi bisogni qualitativi, che non possono essere nè quantificati, nè acquistati, vengono inibiti. Per questo, proprio nell’analisi del denaro (della quantità pura) nei Grundrisse appare il motivo dell’Apocalisse. La quantificazione dei bisogni qualitativi — qualunque siano lo sviluppo e la ricchezza “generale” rappresentati da questo processo — realizza un mondo apocalittico: “Illì unum consilium habent et virtutem et potestatem suam bestiae tradent... et ne quis posset emere aut vendere, nisi qui habet characterem aut nomen bestiae, aut numerum nominis eius.”[30]

Però il denaro non solo può “limitare” la qualità, quantificare i bisogni qualitativi e atrofizzare il non-quantificabile, ma può anche quantificare il non-quantificabile e trasformare i bisogni qualitativi nel loro contrario. “Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. […..] Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario? “[31] Nella società futura, nella società conforme al genere per sé, l’essenza del genere non si potrà estraniare dall’uomo e quindi non potrà nemmeno assumere una forma quantitativa. I bisogni e le capacità umane saranno di natura qualitativa e il qualitativo può essere “scambiato” solo con il qualitativo — e cioè esclusivamente con qualità della stessa specie[32]. I bisogni dell’uomo stanno allora in un rapporto diretto e qualitativo con gli oggetti corrispondenti. È questo il significato del superamento positivo della proprietà privata e del realizzarsi del mondo della proprietà individuale. (Per proprietà individuale si in tende il rapporto immediato tra i bisogni qualitativi.) “Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia, ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà[33].

Ripetiamo ancora una volta: nei Grundrisse riemergono tutti i temi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, ma con un accento di valore leggermente diverso. La “quantificazione del non-quantificabile” non è in questo contesto meno opprimente, però rispetto ai Manoscritti economico-filosofici, nei Grundrisse viene sottolineato lo sviluppo estraniato che si esprime nella quantificazione dei bisogni qualitativamente limitati. “Se il denaro è l’equivalente generale, il potere di acquisto generale, tutto si può comprare, tutto si può trasformare in denaro. Ma può essere trasformato in denaro solo in quanto viene alienato. [....] I cosiddetti possessi inalienabili, eterni, [….] crollano quando compare il denaro. [….] Tutto si può avere per ‘denaro contante.’ […] Giacché, come tutto si può alienare per denaro, tutto si può però anche acquistare col denaro. [.....] Dunque tutto può essere appropriato da parte di tutti, e dipende dal caso che cosa l’individuo può appropriarsi oppure no, dal momento che ciò dipende dal denaro che è in suo possesso. Con ciò l’individuo in sé è posto come signore di tutte le cose [….] Non esiste nulla di superiore, di sacro ecc., dal momento che tutto può essere appropriato col denaro.[34]” L’estraniazione dell’essenza del genere e la quantificazione di tutte le qualità erano necessarie perché si realizzasse, almeno come possibilità, il “puro” bisogno qualitativo — vale a dire non il bisogno “assegnato dalla divisione naturale del lavoro,” bensì il bisogno realmente individuale.

3. La forma di espressione più significativa dell’impoverimento dei bisogni (e delle capacità) è la riduzione od omogeneizzazione. Entrambe caratterizzano tanto le classi dominanti quanto la classe operaia, ma non in egual modo.

Il bisogno di avere è quello cui si riducono tutti i bisogni e che li rende omogenei. Per le classi dominanti questo avere è possesso effettivo, è il bisogno diretto al possesso di proprietà privata e di denaro in misura sempre crescente. Il bisogno di avere del lavoratore riguarda invece la sua mera sopravvivenza: egli vive per potersi sostenere. “Al posto di tutti i sensi fisici e spirituali è quindi subentrata la semplice, alienazione di tutti questi sensi, il senso dell’avere[35].“ “Così tutte le passioni e tutte le attività devono andare a finire nell’avidità di denaro. L’operaio può avere soltanto quanto basta per voler vivere; e può voler vivere soltanto per avere.[36]” Marx riassume nel modo seguente la riduzione e l’omogeneizzazione dei bisogni nel capitalismo: “Quanto meno tu sei, […]  tanto più hai.[37]” Allorchè osserva che il lavoratore è “un essere senza bisogni,[38]” Marx allude a questa riduzione. Il lavoratore deve privarsi di ogni bisogno per poterne soddisfare uno solo, cioè per mantenersi in vita. “E tu devi non solo privarti dei tuoi sensi immediati, come il mangiare, ecc., ma devi risparmiarti anche ogni partecipazione ad interessi di carattere generale, la compassione, la fiducia…. [39] Di una sola cosa il lavoratore non può privarsi: della sua forza-lavoro. Però l’applicazione di forza-lavoro (il lavoro) in condizioni capitalistiche è anch’essa un “processo di riduzione.” La stessa esecuzione del lavoro non rappresenta un bisogno del lavoratore. In seguito alla divisione del lavoro la “forza produttiva per eccellenza [40]” è limitata. Così si conclude il processo di riduzione ed omogeneizzazione dei bisogni.

Ma è davvero concluso? Abbiamo già citato uno dei più importanti paradossi della teoria marxiana e ci torneremo: da una parte la società capitalistica riduce ad “avere” e rende omogeneo nella “avidità di denaro” il sistema dei bisogni tanto della classe dominante quanto della classe operaia (anche se in modo diverso); dall’altra essa genera “bisogni radicali” che, contrapponendosi al sistema di quelli preesistenti, la trascendono. I “portatori” dei bisogni radicali” sono chiamati ad abbattere il capitalismo. Secondo la formulazione di Marx nei Manoscritti: “L’essere umano doveva essere ridotto a questa assoluta povertà, affinché potesse estrarre da sé la sua ricchezza interiore.[41]

4. L”interesse” non è per Marx una categoria filosofico - sociale di carattere generale. L’interesse come motivo dell’azione individuale non è altro che espressione della riduzione dei bisogni ad avidità: nella generalizzazione filosofica del concetto di interesse si rispecchia “la posizione della società borghese.” Momento organico e tratto essenziale del superamento dell’estraniazione è proprio la scomparsa dell’”interesse” come motivo. Già nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 si legge: “Il bisogno o il godimento hanno perciò perduto la loro natura egoistica, e la natura ha perduto la sua mera utilità, dal momento che l’utile è diventato l’utile umano[42].

Qui è comunque necessaria un’osservazione. Diversamente dal Marx dei Manoscritti, il Marx della maturità distingue rigorosamente le categorie dell’utile e dell’interesse[43].

Ricordiamo ancora che Marx descrive e spiega il concetto di valore d’uso con quello di “utile.” Dai Grundrisse al Capitale fino alle Glosse a Wagner[44] (1881) il concetto di utile compare sempre con un’accentuazione positiva. Nelle opere della maturità utile e utilità non sono altro che proprietà dei “beni” (finché si attiene alla concezione naturalistica) oppure categorie d’orientamento di valore riguardo agli oggetti dell’attività e del godimento umani (nella versione non-naturalistica). Riguardo al nostro problema consideriamo rilevante solo la distinzione del Marx maturo. Poiché in questa sede non possiamo addentrarci nell’analisi accenniamo solo allo sviluppo avuto da questo concetto nella storia della filosofia.[45]

Il concetto di utilità ebbe presso gli antichi un ruolo di primo piano (ad esempio in Aristotele: è bene ciò che è utile all’uomo) che mantenne anche nel pensiero medievale. Né la filosofia antica, né quella medievale conoscevano la categoria dell’interesse[46]. Solo la filosofia borghese ha attribuito alle categorie di interesse (interesse individuale, interesse generale) un rilievo tanto maggiore quanto più “sviluppata” era la società borghese stessa. La “teoria dell’interesse” trova la sua massima espressione nell’illuminismo francese e in Hegel. La “teoria dell’utilità” della filosofia borghese è in verità una “teoria dell’interesse”: le categorie di utile e di interesse diventano sinonimi. I critici del capitalismo non avrebbero certo potuto sbarazzarsene ponendo unicamente a confronto una teoria del valore del “citoyen” con quella “bourgeois.” Marx dimostra invece la sua straordinaria genialità rimuovendo con un’unica mossa non solo la soluzione, ma anche l’intera formulazione del problema. Rispondendo ad una lettera di Engels, che sosteneva l’esistenza di un “nucleo razionale” nella teoria dell’egoismo di Stirner, Marx esprime inequivocabilmente il suo rifiuto di una simile posizione, rifiuto che ritroviamo anche nella critica a Stirner e più tardi nei Grundrisse.[47]

Insieme all’uso ontologico-generale del concetto di interesse, Marx rifiuta sia il cosiddetto interesse “individuale,” sia le categorie dell’interesse generale o complessivamente sociale, e tutte quelle usate in senso analogo. Se a volte nell’Ideologia tedesca ed anche nei Grundrisse la polemica è ancora aperta, più tardi Marx esprime il suo rifiuto usando solo raramente questa categoria. In particolare bisogna notare che egli applica molto raramente anche la categoria dell’interesse di classe. Invano si cercherebbe il concetto di ”interesse di classe” in lavori quali i Grundrisse, il Capitale, Salario, prezzo e profitto, o le Teorie sul plusvalore: esso non appare neanche una volta, anzi non è usato nemmeno in riferimento alla lotta di classe. E ciò non perché non esista per Marx interesse di classe, ma perché a suo parere si tratta di un elemento interpretabile solo nel quadro della realtà feticistica del capitalismo, o meglio esso stesso ha carattere feticistico. Perciò l” interesse di classe” non può essere il motivo della lotta di classe, che trascende la società capitalistica: il motivo vero non feticizzato è rappresentato dai bisogni radicali della classe operaia. È stato Engels (nell’Antidϋhring) ad indicare l’interesse di classe come uno dei fattori determinanti la lotta di classe: per correttezza dobbiamo però notare che ciò non avviene nei termini esclusivi ed inequivocabili che sono invece divenuti di uso comune in analisi marxiste posteriori (fin dal tempo della seconda Internazionale, soprattutto in Kautsky).

infatti la dualità tra interesse individuale e “generale,” o anche “di classe,” non è in Marx nient’altro che l’espressione e la motivazione del fatto che l’uomo della società borghese è scomposto in “bourgeois” e “citoyen.” L’interesse individuale è il motivo — apertamente riconosciuto — del bourgeois, mentre l’interesse generale motiva il citoyen. Entrambe sono motivazioni estraniate, anzi nell”interesse generale” l’estraniazione è duplice poiché in esso si estranea dall’individuo anche l’“interesse individuale.”

Consideriamo ora i passi più importanti in cui sono trattate queste categorie.

Nella Sacra famiglia in relazione alla “proclamazione dei diritti dell’uomo” Marx scrive quanto segue: “.... come lo Stato antico aveva come base naturale la schiavitù, così lo Stato moderno ha come base naturale la società civile, l’uomo della società civile, cioè l’uomo indipendente, unito all’altro uomo solo con il legame dell’interesse privato e della necessità naturale incosciente, lo schiavo del lavoro per il guadagno, lo schiavo sia del bisogno egoistico proprio sia del bisogno egoistico altrui. Nei diritti universali dell’uomo, lo Stato moderno riconosce che questa è la sua base naturale.[48]” In questa citazione riappare un pensiero dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, questa volta con un riferimento concreto. L”interesse privato” non è altro che la cosiddetta avidità, cioè una conseguenza della “riduzione” dei bisogni. Espressioni come necessità naturale, base naturale, schiavo non hanno solo per caso un ruolo decisivo, non sono semplici residui di una sorta di” feuerbachismo”; la questione nel suo complesso è e rimane centrale nel pensiero di Marx. La società borghese, la prima “società pura,” funge infatti nei rapporti sociali puri da «pseudo-natura,” perché vi regna la necessità come vincolo economico. L’uomo diventato “schiavo” dei suoi interessi privati, dell’egoismo suo e degli altri, è un essere pseudo-naturale, perché il suo egoismo è di carattere impulsivo e funziona come pseudo-istinto: l’uomo deve seguirlo oppure va in rovina. Sono quindi la necessità naturale, le proprietà umane essenziali, per quanto alienate possano apparire, l’interesse, che tengo uniti i membri della società civile; il loro legame reale è la vita civile, e non la vita politica.[49]

Nell’Ideologia tedesca (nella polemica con Stirner) Marx tratta in modo estremamente coerente la doppia estraniazione dell’”interesse generale” (e dell’”interesse di classe”). Citeremo quasi per intero i passi di maggior rilievo. “Come avviene che, a dispetto delle persone, gli interessi personali si evolvono sempre fino a diventare interessi di classe, interessi collettivi, i quali si rendono indipendenti di fronte alle persone singole, nel rendersi indipendenti assumono la forma di interessi generali, come tali entrano in opposizione con gli individui reali, e in questa opposizione, per cui sono determinati come interessi generali, possono essere rappresentati dalla coscienza come interessi ideali, persino religiosi, santi? Come avviene che nell’ambito di questa trasformazione degli interessi personali in interessi indipendenti di classe la condotta personale dell’individuo deve oggettivarsi, estraniarsi, e in pari tempo esiste senza di lui, come potenza da lui indipendente, prodotta dalle relazioni, si trasforma in rapporti sociali, in una serie di potenze che lo determinano, lo subordinano e quindi appaiono nella rappresentazione come potenze sante? Se Sancio avesse capito una buona volta il fatto che nell’ambito di certi modi di produzione, i quali naturalmente non dipendono dalla volontà, si pongono al di sopra dell’uomo delle potenze pratiche sempre estranee, indipendenti non solo dall’individuo isolato ma dalla stessa totalità degli uomini, [ … ] Non sarebbe [Stirner] arrivato all’assurdità, degna di lui, di spiegare il dissidio tra interessi personali e interessi generali col dire che gli uomini si rappresentano questo dissidio anche sotto forma religiosa e che appaiono a se stessi a questo o a quel modo, che è soltanto un’altra parola per indicare la rappresentazione.[50]

Le principali osservazioni che possiamo ricavare da questo e da altri[51] passi sono: a) l’interesse “generale” e quello “di classe” non esistono solo come rappresentazione degli uomini quale ideale polo opposto dei loro interessi personali. Sono categorie di strutture sociali governate da forze sociali indipendenti dagli uomini che si confermano contro la volontà del singolo. Nell’esistenza di “interessi generali” si rispecchia quindi la feticizzazione dei rapporti sociali (questo processo culmina nella società puramente “produttrice di merci,” cioè nel capitalismo); b) l’interesse personale e quello generale, o di classe, sono correlati; c) qualunque “interesse” si scelga — sia esso teorico o pratico — si rimane sempre entro la società produttrice di merci (capitalistica), cioè si accetta il suo carattere feticistico.

“... i comunisti non propugnano né l’egoismo contro l’abnegazione né l’abnegazione contro l’egoismo [...]. I comunisti teorici, i soli che hanno il tempo di occuparsi della storia, si distinguono proprio in questo, che essi soli hanno scoperto in tutta la storia che l’interesse generale è creato dagli individui determinati in quanto “uomini privati.” Essi sanno che questa antitesi è solo apparente, perché uno dei lati, quello cosiddetto “generale,” è continuamente generato dall’altro, l’interesse privato, e non si oppone affatto ad esso come potenza autonoma, che dunque nella pratica questa antitesi viene continuamente distrutta e generata.[52]

La citazione testimonia che i comunisti non si richiamano a nessuna specie di “interesse generale,” e neanche all’interesse di classe. Non possono considerarlo un motivo della lotta di classe che trascende il capitalismo, perché riferirvisi significa eo ipso rimanere dentro il mondo capitalistico. Il riferimento agli interessi della classe operaia è quindi possibile solo in lotte, di classe che non trascendono il capitalismo: infatti in tal caso esso è realistico, perché ci si richiama ad una categoria dell’essere (la correlazione feticistica dell’interesse personale). Non deve quindi stupire che al tempo della seconda Internazionale fosse così diffuso il riferimento all’interesse di classe, per nulla corrispondente allo spirito di Marx. Ogni movimento che si limita a dare un programma adeguato agli interessi egoistici del singolo lavoratore (soprattutto la lotta per il salario che apre in ogni lavoratore la prospettiva di una maggiore ricchezza materiale strictu sensu) si richiama realisticamente, e a ragione, all’”interesse di classe.”

É dubbio se Marx abbia o meno mutato questa posizione nelle sue ultime opere. Come accennato, nei lavori scientifici si fa raramente ricorso sia alla categoria dell’interesse “generale,” cioè “comune,” sia al concetto di “interesse di classe.” Vediamo i passi in questione e analizziamone il senso.

Nei Grundrisse (nell’analisi dello scambio delle merci) si dice[53]: “... che la reciprocità, per la quale ciascuno è nello stesso tempo mezzo e scopo, e cioè raggiunge il suo scopo solo in quanto diventa mezzo, e diventa mezzo solo in quanto si pone come scopo a se stesso, sicché ciascuno si pone come essere per un altro in quanto è essere per sé e l’altro si pone come essere per lui, in quanto è essere per sé — che questa reciprocità, dicevamo, è un fatto necessario, presupposto come condizione naturale dello scambio, ma che in quanto tale essa è indifferente a ciascuno dei due soggetti dello scambio, e per ciascuno di essi ha interesse solo in quanto soddisfa il suo interesse ad esclusione di quello dell’altro, senza rapporto con esso. Il che vuoI dire che l’interesse comune, che figura come motivo dell’intero atto, è, sì, riconosciuto come fatto da entrambi i lati, ma come tale non è motivo, bensì procede per così dire alle spalle degli interessi particolari riflessi in se stessi, alle spalle del singolo interesse dell’uno in antitesi a quello dell’altro.[54]” E. riassumendo il problema Marx conclude: “L’interesse generale è appunto la generalità degli interessi egoistici[55].”

La differenza che vi può essere tra le argomentazioni dell’Ideologia tedesca e questo passo dei Grundrisse non concerne l’essenza del problema qui discusso. Essa consiste nella maggior ampiezza con cui il problema è sollevato nell’Ideologia tedesca, dove sono analizzate diverse forme dell”interesse generale,” anche quelle in cui esso può fungere da motivo, sia pure estraniato (proprio questo moriva ad esempio il citoyen). Quest’opera non tratta quindi solo di interessi economici (come interessi generali) ma anche di interessi “generalizzati” di ogni tipo (interessi politici, di stato, ecc.). Poiché nei passi citati dei Grundrisse è analizzato lo scambio delle merci, l’analisi dell’”interesse generale” si deve ovviamente limitare all’interesse economico.

Però si può facilmente comprendere che dal nostro punto di vista tale distinzione è del tutto irrilevante. Anche nei Grundrisse l”interesse generale” è rappresentato come interesse doppiamente estraniato. Il mondo dello scambio delle merci è il mondo della universalità dell’egoismo: dell’interesse personale. I soggetti dello scambio sono reciprocamente indifferenti, sono in relazione l’un l’altro solo per quanto riguarda la realizzazione dei loro interessi personali: per quanto riguarda il “bisogno dell’altro uomo” (che, come sappiamo, è considerato da Marx il bisogno più elevato e “più umano”) la riduzione è totale. Gli” interessi generali” si fanno valere dietro le spalle degli uomini già ridotti all’egoismo. In questo senso quindi l’interesse generale non è niente altro che la limitazione degli interessi di un uomo tramite quelli di un altro uomo: una struttura che già Hegel nella sua Fenomenologia dello spirito definisce come “il regno animale dello spirito”; in tale senso l”interesse generale” è una potenza estraniata che si realizza come effetto della lotta di interessi privati, che intralcia fini e propositi dei singoli uomini. Proprio riferendosi ad essa nell’Ideologia tedesca Marx la descrive come la potenza determinante di tutti gli “interessi generali” estraniati, chiave quindi di quelli che motivano gli uomini.

Veniamo ora al punto cruciale, al concetto di “interesse di classe.” In Lavoro salariato e capitale si trovano due passi sottolineati dallo stesso Marx:: “Dire che gli interessi del capitale e gli interessi dell’operaio sono gli stessi, significa soltanto che il capitale e il lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto. L’uno condiziona l’altro, allo stesso modo che si condizionano a vicenda lo strozzino e il dissipatore.[56]” E: “Noi vediamo dunque che, anche se rimaniamo nel quadro dei rapporti fra capitale e lavoro salariato, gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro salariato sono diametralmente opposti.”[57]

Il problema viene qui sollevato soprattutto dal punto di vista della lotta per il salario, una forma di lotta di classe interpretabile solo entro la società capitalistica. (“Anche se rimaniamo nel quadro dei rapporti di capitale e lavoro salariato” è quindi una limitazione superflua, perché una lotta per il salario è pensabile — secondo Marx — solo nella relazione tra lavoro salariato e capitale.) I rapporti in base ai quali procede la lotta tra “lavoro salariato” e “capitale” sono rapporti feticistici, entro i quali l’uso della categoria di ”interesse” (che, come ‘sappiamo, è una categoria oggettiva) è interpretabile in modo completamente razionale in conformità al senso del concetto di ”interesse di classe” fissato nell’Ideologia tedesca. Aggiungiamo che il concetto è interpretabile razionalmente solo in questo senso. Inoltre Marx non ha parlato degli “interessi della classe operaia,” ma degli interessi del lavoro salariato: di interessi che derivano dalla realtà dello sfruttamento e ancor più dalla realtà di una forma concreta di sfruttamento. In tale relazione la classe operaia è ridotta al suo rapporto immediato con il capitale, in cui capitale e lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto.” Si tratta quindi di una determinazione di tipo riflessivo. Non si parla qui di quella classe operaia che trascende il capitalismo (né può trattarsi di essa) e tanto meno si parla dei bisogni radicali, che non sono riducibili a “interesse.”

Nemmeno questa interpretazione molto restrittiva del concetto di interesse trova posto in Salario, prezzo e profitto, opera molto più tarda in cui si toccano problemi analoghi. E non a caso: infatti al centro dell’analisi marxiana sta una critica della “riduzione” della lotta sindacale a lotta per il salario. La differenza non è di natura quantitativa, ma qualitativa. La lotta salariale che, come abbiamo visto, rimane nell’ambito del capitalismo, del “sistema di interessi,” è qualitativamente diversa dalla lotta per il superamento del sistema salariale nel suo complesso, missione storica della classe operaia, motivata non già dall’interesse, bensì dai bisogni radicali. “Le Trade-Unions compiono un buon lavoro come centro di resistenza contro gli attacchi del capitale; [….]. Esse mancano, in generale, al loro scopo, perché si limitano a una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo alla sua trasformazione e di servirsi della loro forza organizzata come di una leva per la liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l’abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato.”[58]

NOTE


[1] Estratto da “La teoria dei bisogni” di Ágnes Heller

[2] MARX, L’ideologia tedesca, in MARX, ENGELS, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. V, p. 67.

[3] MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, c p. 119.

[4] MARX, L’ideologia tedesca, cit., p. 27.

[5] ibidem, p. 28.

[6] In questo caso gli oggetti del bisogno (quindi i bisogni stessi) si estrinsecano socialmente o individualmente (se interiorizzati) tramite l’impulso biologico, che funge da universale (ad es. si tratta di driver sessuali o di autoconservazione).

[7] Ibidem p. 253.

[8] Ibidem, p. 254.

[9] ibidem

[10] Nel Capitale Marx sottolinea, riferendosi ora a Platone ora ad Aristotele, la superiorità dei pensatori antichi a questo riguardo, confrontati con gli ideologi della classe borghese. Osserva poi ironicamente come l’espropriazione che ha generato i poeti tragici e i filosofi greci, debba essere giudicata diversamente da quella che ha prodotto solo magnati tessili.

[11] ibidem p. 434.

[12] Marx, Manoscntti economico-filosofici del 1844, cit., p174.

[13] La concezione marxiana dell’”essenza umana” è stata profondamente analizzata da György Markus nello studio Marxismo e “antropologia,” cui io stessa ho fatto trasferimento (vedi Hypothese zu einer marxistischen Werttheorie, Frankfurt 1969). Qui do solo brevi indicazioni del problema.

[14] MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. 1

[15] MARX, Il capitale, cit., libro 1(2), p. 129.

[16] Per un certo periodo il tempo di lavoro si era abbreviato in seguito alla crescente produttività: dalla metà alla fine del X secolo era diminuito di circa un terzo (nei paesi capitalistici sviluppati). Però bisogna notare che da quasi 100 anni l’effettiva tendenza alla diminuzione del tempo di lavoro è stagnante: in media esso non è sceso sotto le otto ore giornaliere. Oggi siamo perfino testimoni di una lenta crescita. Negli Stati Uniti il tempo di lavoro effettivo oscilla tra 8,5 e 9 ore!

[17] MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 114.

[18] MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I, p.5

[19] MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 137. ‘“ Ibid., p. 137.

[20]  Ibidem, p. 137.

[21] Ibidem, p. 127

[22] Ibidem, p. 128

[23] Per maggiori dettagli si veda il mio citato Ipotesi per una teoria marxista dei valori.

[24] Siamo oggi testimoni di un processo di ribellione contro la manipolazione dei bisogni, specialmente negli Stati Uniti. E estremamente importante che questo processo avanzi con il “rovesciamento” dell’estraniazione fine-mezzo anche riguardo alla comunità.

[25] Ibidem, p. 127.

[26] Ibidem, 154.

[27] MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I, p. 183.

[28] Ibidem, vol. I, p. 185

[29] Ibidem, vol. I pp. 19-20

[30] Ibidem, vol. I, p. 203.

[31] MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., pp. 153-154.

[32] Questa argomentazione è peculiare solo dei Manoscritti economico-filosofici del 1844

[33] Ibidem., pp. 156-157.

[34] MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., voI. Il pp. 585-586.

[35] MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 116.

[36] Ibidem, p. 131.

[37] Ibidem, p. 131, Questo pensiero non è una novità. Formulato nello stesso modo lo troviamo in Rousseau (Nuova Eloisa) e in Goethe (Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister). Poiché Marx conosceva molto bene queste opere, molto probabilmente non ha preso questo pensiero dall’opera di Hess, anche se si richiama a lui nell’applicazione della categoria.

[38] Ibidem., p. 130.

[39] Ibidem, p. 132.

[40] MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., voI. Il, p.29

[41] MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., pp. 116-117.

[42] Ibidem, p. 117.

[43] Nel Manifesto del partito comunista, non l’utile ma la riduzione a un rapporto di utilità è uguale al rapporto di interesse.

[44] MARX, Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner, trad. lt parziale in MARX, Scritti inediti di economia politica, a cura di M. Tronti, Editori Riuniti, Roma 1963.

[45] Per un’analisi approfondita della coppia di categorie utile-dannoso come categorie secondarie d’orientamento di valore, si veda il mio studio citato.

[46] Nel mio libro su Aristotele ho erroneamente attribuito questo fatto alla “limitatezza” della società amica.

[47] Notiamo per inciso che questa diversità di concezione tra Marx ed Engels si esprime anche nel successivo “destino” di tale categoria. Engels si accontentò di sostituire la categoria dell”interesse individuale” con quella generale dell’”interesse di classe”. Marx, come vedremo, andò ben oltre.

[48] MARX, ENGELS, La Sacra famiglia, 2 ed., Editori Riuniti, Roma 1972, p. 148.

[49] Ibid., p. 158

[50] MARX L’ideologia tedesca, cit., pp. 242-243.

[51] Cfr. ibidem, p. 245.

[52] Ibidem, p. 244.

[53] Il ragionamento mostra come le diverse forme dell’estraniazione dei bisogni siano solo momenti diversi di un identico processo, per quanto siano state qui trattate separatamente ai fini di una maggiore chiarezza. In questo passo Marx tratta l’estraniazione degli Interessi (il rapporto di interessi) come una forma del fenomeno dell’estraniazione scopo-mezzo.

[54] MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., voI. I pag. 213

[55] Ibidem. p 214. Lo stesso nel Frammento del testo primitivo di” Per la critica dell’economia politica,” in MARX, Scritti inediti di economia politica, cit., p. 85.

[56] MARX, .Lavoro salariato e capitale, tr. it. di P. Togliatti, 4 ed., Editori Riuniti, Roma 1971, p. 52.

[57] Ibidem, p. 59.

[58] MARX, Salario, prezzo e profitto, in MARX, ENGELS, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, 2 ed., Editori Riuniti, Roma 1971, p. 826