MARX E HEGEL[1]

Lucio Colletti[2]

“Un grande uomo condanna gli altri a spiegarlo”

Hegel

Vi è un nodo decisivo che la nostra analisi non ha finora toccato esplicitamente e che sotto ogni punto di vista, invece, rappresenta la chiave di volta per intendere l’opera di Marx, in tutte le sue implicazioni sia di metodo che di contenuto, — questo nodo: in che rapporto stanno la Logica hegeliana e, più precisamente, i suoi processi viziosi e mistificatori, con la realtà? In altri termini: questa mistificazione è da intendere ancora una volta semplicemente come il prodotto di un’elucubrazione del filosofo e, quindi, la critica di essa solo come una critica da filosofo a filosofo, dunque di nuovo solo come una filosofia, come una logica, e magari anche come una logica scientifica, oppure, per esser questo, dev’essere anche qualcos’altro più che questo?

Riprendiamo in mano la prima opera giovanile di Marx: La critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Essa ci presenta uno svolgimento assai singolare: non solo comincia come critica della filosofia dello Stato e, insensibilmente, si trasforma poi in una critica dello Stato; non solo ha un approccio logico e una conclusione sociologica; ma presenta una complessità ancora più imbarazzante. Innanzitutto, infatti, inizia come critica della filosofia; poi trapassa — abbiamo detto — a critica dell’oggetto di quella filosofia: è cioè non più discorso sul discorso fatto da Hegel a proposito della società, ma direttamente discorso sulla società. Infine, non è neppure più, a rigore, discorso sulla società, ma discorso da dentro la società, cioè programma e azione politica: non più solo teoria ma pratica, non più solo scienza ma vita, non più solo riflessione sulla storia ma storia. Perché? Il marxista risponde: struttura e sovrastruttura. D’accordo. Ma perché? Questa è una conclusione non un punto di partenza. In ogni caso, è una conclusione che accenna a due piani sovrapposti e paralleli. Dove cade la loro unità, la loro giuntura?

Che mi si dica: il misticismo logico di Hegel, — posso capirlo; che si aggiunga che la sua dialettica sta testa all’ingiù, — anche. Ma quando apro il Capitale e leggo che il tavolo, quando si presenta come merce, “non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare”[3]; e leggo poi: “il carattere mistico della merce,” oppure: “tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci”; o, infine, che “il mistico velo di nebbia” non è un’aggiunta degli interpreti borghesi “del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione”, ma appartiene proprio a questo processo; il quale anzi appare alla metafisica, all’economia politica, per quello che è. Quando insomma, trovo che non si dice più solo della filosofia ma direttamente della realtà, delle cose, che sono “sensibilmente sovrasensibili,” cioè mistiche, ossia testa all’ingiù; o, inversamente, vedo affermato, contro Hegel, che l’astrazione è determinata, che l’astratto è concreto, cioè tanto astrazione che esistenza, tanto idea che fatto: questo, ammettiamolo, non è facile a capire. Contro questo, anzi, insorge e fa ostacolo una tradizione spiritualistica millenaria, tenace ancora in ciascuno di noi. E non a caso anche un borghese con la testa di Schumpeter non si orienta, e scrive (senza arrossire) che vi è un “Marx profeta” e un “Marx scienziato.” Qui se vogliamo comprendere, si tratta veramente di una radicale emendatio intellectus!

Partiamo, come al solito, dal processo di ipostatizzazione hegeliano e dalla conseguente assunzione surrettizia dell’empiria. “L’universale come tale, dice Marx, è fatto per sé sussistente, esso è immediatamente confuso con [sostituito al] l’empirica esistenza”; viceversa, il particolare, “il limitato è immantinente preso, in guisa acritica, per l’espressione dell’idea” (OFG., 62). Hegel, per esempio, in un primo momento “concepisce gli affari e le attività statali astrattamente per sé,” ipostatizza la sovranità, l’essenza dello Stato, considerandola “come un’essenza indipendente,” come un’essenza obiettivata fuori e al di sopra dei reali individui; non vede, cioè, che gli affari e le attività dello Stato sono organicamente legati agli individui, anche se, s’intende, “non all’individuo fisico, bensì all’individuo politico, alla qualità di membro dello Stato dell’individuo.” Poi, in un secondo momento, quando l’oggettivo deve ridiventare, dice Marx, soggetto, Hegel non può fare altro che prendere un individuo empirico, ma questa volta proprio in quanto individuo fisico, e presentarlo come “un’autoincarnazione della sovranità,” come “la personalità dello Stato, la sua certezza di se stesso.” Il monarca è, allora, la “sovranità personificata” la “sovranità divenuta uomo,” “la corposa coscienza statale, per cui tutti gli altri sono esclusi da questa sovranità e dalla personalità e dalla coscienza dello Stato.” Con la conclusione che Hegel non può dare poi “a questa Souveraineté Personne alcun altro contenuto che l’”io voglio” cioè il momento dell’arbitrio nella volontà. La ‘ragione politica,’ la ‘coscienza di Stato’ è un’empirica ‘unica’ persona, a esclusione di tutte le altre, ma questa ragione personificata non ha altro contenuto che l’astrazione dell’‘io voglio.’ L’Etat c’est moi” (ivi, p. 41). In altre parole, “Hegel cade ovunque dal suo spiritualismo politico nel più crasso materialismo. La natura si vendica su lui del disprezzo dimostratole. Se la materia non deve essere più niente per se stessa di fronte all’umana volontà, l’umana volontà non con serva più niente per sé all’infuori della materia.”

Idealismo politico, dunque, da una parte, e crasso materialismo dall’altra; ancora una volta il costante rilievo di cui s’intesse il discorso critico di Marx a proposito di Hegel è sempre questo: rovesciamento dell’empiria in speculazione e insieme, però, ribaltamento di questa su quella. Senonché — nota Marx — “l’acrisia, il misticismo è sia il mistero della filosofia hegeliana che l’enigma delle moderne costituzioni.” (p. 115) “Astratta è certo questa veduta, egli scrive sempre a commento di Hegel, ma è l’‘astrazione’ propria dello Stato politico, quale Hegel stesso lo deduce. Atomistica essa è anche, ma è l’atomismo della società stessa. La ‘veduta’ non può essere concreta quanto l’‘oggetto’ di essa è ‘astratto’” (p. 110). Quindi, “non è da biasimare Hegel perché egli descrive l’essere dello Stato moderno tale qual è,” ma semmai “perché spaccia ciò che è come l’essenza dello Stato” (p. 90).

Per quanto possa sembrare strano, dunque, dobbiamo prepararci a entrare in quest’ordine di idee: l’ipostasi, il porsi per sé dell’universale e, poi, la conseguente restaurazione viziosa dell’empiria, lo stravolgimento del fatto ad assioma metafisico, cioè a ricettacolo dell’Assoluto, — tutto questo, prima che un’operazione della filosofia hegeliana, è una operazione oggettiva e reale che compie la società stessa. La concezione di Hegel ‘non mantiene separate la vita civile e la vita politica: essa è semplicemente — dice Marx — la rappresentazione di una separazione realmente esistente.” Questa “concezione non pone la vita politica in aria, bensì la vita politica è la vita aerea, l’eterea regione della società civile” (p. 111). E, se per la filosofia speculativa “l’empiria volgare ha come legge non il suo proprio spirito ma uno estraneo,” gli è perché nel regime borghese, prima ancora che in essa, la società reale, la società civile può acquistare significato politico e costituirsi come Stato, solo a patto di darsi uno spirito “altro da sé,” solo a condizione ossia di compiere un atto politico che rappresenta “una completa transustanziazione.” Non diversamente da come nell’idealismo la “mistica sostanza” si sostituisce al soggetto reale, così nella società borghese il citoyen — “l’uomo astratto, artificiale, l’uomo come persona allegorica, morale” — si sostituisce al bourgeois, cioè all’uomo reale. Inversamente, poi, “Io Stato politico si comporta nei confronti della società civile in modo altrettanto spiritualistico come il cielo nei confronti della terra. Rispetto ad essa si trova nel medesimo contrasto e la vince nel medesimo modo in cui la religione [l’idealismo] vince la limitatezza del mondo profano, cioè dovendo insieme riconoscerla, restaurarla (herstellen) e lasciarsi da essa dominare.”[4] Proprio perché “la Costituzione politica è stata fino ad ora nient’altro che un al di là, la sfera religiosa, la religione della vita del popolo, il cielo della sua universalità rispetto all’esistenza terrestre della sua realtà,” e proprio perché, d’altra parte, “questo cielo era troppo nobile, troppo spiritualistico per rimuovere la grossolanità del bisogno pratico in altro modo che mediante l’elevazione nel puro aere,” — quest’idealismo politico, quest’ipostasi che è lo Stato, è servito solo a restaurare, a ribadire e garantire le differenze e le divisioni reali, cioè il crasso materialismo della società civile.

Economia e politica, società e Stato, bourgeois e citoyen, uomo privato e uomo pubblico, dunque, stanno tra loro proprio nello stesso rapporto che materia e ragione, particolare e universale, sensibilità e concetto nella filosofia di Hegel. Ricordate infatti il discorso a proposito della certezza sensibile? Essa ha la sua “verità” solo nell’universale, che però è indifferente verso tutte le determinazioni reali che gli giuocano dappresso; ebbene, “nella sua realtà più immediata, nella società civile, l’uomo è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa nello Stato, dove l’uomo vale come genere, egli è il membro immaginario di una sovranità fantastica, è spogliato della sua reale vita individuale e riempito di una universalità irreale (mit eine unwirklichen Allgemeinheit erfüllt).”[5]

Lasciamo parlare del resto quest’ipostasi che è l’uomo politico, il citoyen, per bocca di chi l’ha descritta fedelmente: Rousseau. “Celui qui ose entreprendre d’instituer un peuple — ci dice il Contratto sociale — doit se sentir en état de changer pour ainsi dire la nature humaine, de transformer chaque individu (...) en partie d’un plus grand tout dont cet individu reçoive en quelque sorte sa vie et son étre, de substituer une existence morale à l’existence physique. Il faut qu’il ôte à l’homme ses forces propres pour lui en donner qui lui soient étrangères.” La società civile, quindi, può attingere significato e valore politico, solo in quanto compia un atto di “completa transustanziazione,” un atto, cioè, con cui essa “si deve staccare da se stessa in quanto società civile, in quanto stato privato, per far valere una parte del suo essere che non solo non ha niente di comune con l’esistenza civile reale, ma che le è direttamente opposta” (OFG., p. 108). La rivoluzione politica borghese, dice Marx, “spezzò la società civile nelle sue parti costitutive semplici (...), svincolò lo spirito politico, che era parimenti diviso, disgiunto, disperso nei vincoli ciechi della società feudale; lo raccolse da tale smembramento, lo liberò dalla sua mescolanza con la vita civile e lo costituì come la sfera della comunità, dell’universale attività del popolo, in una ideale indipendenza da quegli elementi particolari della vita civile. La determinata attività e le determinate condizioni di vita decaddero a significato solo individuale.”[6]

Senonché l’ipostasi — sappiamo — ha il suo rovescio: “il compimento dell’idealismo dello Stato fu contemporaneamente il compimento del materialismo della società. L’emancipazione politica fu contemporaneamente l’emancipazione della società civile dalla politica, dall’apparenza stessa di un contenuto universale” (Cart., pp. 74-5). Come le determinazioni reali si volatilizzano in determinazioni pure o razionali, come la cosa si volatilizza in ragione, ma la ragione esiste poi solo come una cosa; allo stesso modo le differenze economiche trovano la loro apparente conciliazione nel cielo dello Stato, nell’eguaglianza politica, ma questo Stato, poi, non serve ad altro che a ribadire e sanzionare lo stato di cose reale. Prima l’uomo si è risolto nel genere astratto, il bourgeois nel citoyen; poi la vita generica, “la vita politica si dimostra come puro mezzo, il cui scopo è la vita della società civile.” la vita privata (ivi, p. 72). Lo stato privato trova la sua compensazione nella Costituzione politica, ma la Costituzione politica è la costituzione della proprietà privata. “L’indipendenza politica non procede ex proprio sinu dallo Stato politico; essa non è affatto un dono dello Stato politico ai suoi membri; non è lo spirito che anima questo; bensì i membri dello Stato politico ricevono questa loro indipendenza da un ente che non è lo Stato politico, da un ente di diritto privato astratto, dall’astratta proprietà privata. L’indipendenza politica è un accidente proprietà privata” (OFG. p. 44). Il significato dell’uomo diventa una proprietà della sua proprietà: “soggetto la cosa, predicato l’uomo.” “Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa — nota Marx — l’uomo egoistico, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall’essere l’uomo inteso in essi come genere, la stessa vita del genere, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica” (Cart., p. 71).

L’idealismo, dunque, è una coscienza capovolta del mondo perché capovolti sono lo Stato e la società che lo producono. Esso è la teoria generale di questo mondo, il suo coronamento, la sua logica in forma raffinata, il suo point d’honneur spiritualistico e la sua sanzione morale. Misuriamo qui ancora una volta tutta la distanza tra il pensiero di Marx e le posizioni della sinistra hegeliana. Da una parte stanno, infatti, Bauer e consorti che spiegano tutti i limiti, tutte le “contraddizioni” e le “incoerenze” del pensiero di Hegel e, in particolare, della sua filosofia del diritto e della religione, con l’intrusione di pregiudizi personali o con “concessioni” fatte da Hegel allo Stato prussiano: Bauer e “il partito politico teorico,” insomma, che criticano lo Hegel minore, lo Hegel prodotto dello Stato semifeudale prussiano, per comportarsi invece dogmaticamente verso le premesse stesse di questa filosofia. E, dall’altra, Marx che critica Hegel dove egli è veramente grande, che sa vederne la capacità di elevarsi (quasi sempre) oltre il limitato orizzonte della Prussia del tempo, ma non per attingere la sfera di principi “puri” bensì per cogliere i processi di fondo della società borghese.

“Noi tedeschi abbiamo vissuta la nostra storia futura nel pensiero, nella filosofia. Noi siamo i contemporanei filosofici del presente senza esserne i contemporanei storici. La filosofia tedesca è il prolungamento ideale della storia tedesca. Se dunque noi critichiamo anzichè le oeuvres incomplètes della nostra storia reale le oeuvres postumes della nostra storia ideale, la filosofia, la nostra critica si ritrova invero in mezzo ai problemi dei quali il presente dice: that is the question. Ciò che presso i popoli progrediti è rottura pratica colle moderne condizioni dello Stato, in Germania, dove tali condizioni ancora non esistono neppure, è innanzi tutto rottura critica con il riflesso filosofico di tali condizioni. La filosofia tedesca del diritto e dello Stato è l’unica storia tedesca che stia al pari col moderno presente ufficiale.”[7] Perciò “la critica della filosofia dello Stato e del diritto, che con Hegel ha ricevuto la sua ultima forma più conseguente e più ricca, è l’una e l’altra cosa, sia l’analisi critica dello Stato moderno e della realtà ad esso connessa, sia la decisa negazione di tutto il modo precedente della coscienza politica e giuridica tedesca, la cui espressione più eminente, più universale, elevata a scienza, è appunto la filosofia speculativa del diritto” (ivi, p. 98).

I problemi che qui fanno nodo sono molti e seri, ma consideriamone, innanzitutto, due che paiono marginali e che ci introducono, invece, alle questioni di fondo. Particolarmente diffusa nel marxismo di oggi, e ad opera soprattutto di Lukács che l’ha ampiamente sviluppata nella sua monumentale opera su Il giovane Hegel, è una tesi che rappresenta il perfetto capovolgimento del discorso di Marx. Mentre per questi, infatti, la filosofia classica tedesca e, in particolare, quella di Hegel è il “riflesso” o l’analisi filosofica della società borghese moderna, non ancora esistente in Germania, e il carattere tedesco di questa analisi si esprime appunto nella forma che essa assume, nel fatto cioè che si tratta ancora solo di una filosofia e non di un’economia e di una politica: onde Marx spiega che la sua “esposizione si rifà inizialmente non già all’originale, ma ad una copia, alla filosofia tedesca del diritto e dello Stato, per nessun’altra ragione se non quella che essa si rifà alla Germania” (ivi, p. 91). Per Lukács al contrario, tedesco è il contenuto, le “insufficienze” e le “contraddizioni” della filosofia di Hegel (che andrebbero, quindi, fondamentalmente spiegate con l’arretratezza sociale della Germania), mentre valida, al di là di queste condizioni e al di là della società borghese stessa, è invece la forma della sua filosofia: il metodo dialettico. È evidente la preoccupazione che è al fondo di questa tesi. Dal punto di vista di Marx, infatti, si ha che, in quanto “la filosofia avutasi finora appartiene a questo mondo [la Germania] e ne è il completamento sia pure ideale,” il futuro della Germania “non può limitarsi né all’immediata negazione delle sue reali condizioni giuridico-statali né all’immediato compimento di quelle ideali”: poiché la immediata negazione delle prime essa la possiede già nelle sue condizioni ideali, e il compimento immediato di queste, a sua volta, essa “lo ha già quasi sopravanzato contemplando i popoli suoi vicini.” Dunque, un reale progresso si può “ottenere soltanto attraverso la negazione della filosofia avutasi finora, della filosofia in quanto filosofia” (pp. 97-8). Dal punto di vista di Lukács invece, si salva la forma della filosofia hegeliana, cioè, in una parola, la filosofia in quanto filosofia deve sopravvivere ancora. In tal modo la tesi delle “tre fonti” storiche del marxismo subisce una importante “reinterpretazione,” nel senso che, mentre nel significato originario queste fonti stanno solo a indicare momenti o prodotti sovrastrutturali tipici della società borghese, per cui, attraverso il riferimento ad essi, il marxismo si rapporta al suo vero antecedente storico reale, vale a dire alla società capitalistica moderna; per Lukács, una almeno di queste tre fonti, cioè la dialettica hegeliana, tende a configurarsi, invece, come un antecedente ideale al quale il marxismo deve ricollegarsi immediatamente.[8]

Si coglie già qui — ed è questo il secondo tema cui intendevamo accennare — la profonda differenza tra lo storicismo di Marx e lo “storicismo” che oggi va sotto il suo nome; differenza che le pagine seguenti chiariranno meglio, ma che fin d’ora si profila come una vera e propria diversità di metodi e di indirizzi di pensiero. Da una parte, infatti, abbiamo uno storicismo che per molti versi possiamo ancora chiamare idealista e che si riduce, in pratica, a riportare una filosofia all’ambiente storico immediato che l’ha vista nascere: dove la puntualità del giudizio storico si identifica proprio con il rilievo dei tratti singolari e irripetibili che caratterizzano quel dato ambiente. E, dall’altra, lo storicismo di Marx che è storia-scienza, cioè sociologia, ovvero storia di una formazione economico-sociale, di una specie o fenomeno-tipo, quindi di processi reiterabili; concezione, che spiega bene come egli possa interpretare, per es., Hegel non già alla luce delle particolari condizioni della società tedesca bensì come “riflesso” di quelle leggi di sviluppo fondamentali che egli compendia nell’astrazione o “modello” di Società capitalistica moderna.

Torneremo tra breve sull’argomento; per ora è tuttavia interessante notare che proprio in virtù di questo concetto di formazioni economico-sociali, come sono ad es. la società schiavistica antica, quella feudale o quella borghese moderna, Marx può avviare una analisi storica di tipo nuovo; può cioè individuare-comparare, per es., i diversi rapporti esistenti tra economia e politica: sia nella società antica, dove la società civile è schiava dello Stato; sia nel Medioevo, dove gli stati privati, le classi hanno invece significato immediatamente politico e, quindi, gli stati, come tali, sono nello stesso tempo legislativi: per cui, dice Marx, poiché la distinzione di pubblico e privato coincide qui direttamente con le differenze private, il dualismo di economia e politica si presenta nel Medioevo come un dualismo reale. Sia, infine, nella società borghese moderna dove lo Stato è al contrario l’astrazione dalla vita privata e, quindi, il dualismo non è più immediatamente reale ma astratto (OFG., p. 40). Analisi, alla cui luce non solo è comprensibile, per es., la differenza tra il dualismo platonico o quello scolastico o quello hegeliano moderno, ma anche quel tanto di continuità che vi è tra di essi; e alla cui luce in genere si spiega come fenomeni, specie se sovrastrutturali, possano perpetuarsi e rivivere anche nel mondo moderno (pur se inseriti in un diverso contesto e, quindi, modificati), proprio in quanto legati agli elementi basilari della divisione in classi (si pensi, ad es., al diritto romano o, più in generale, alla separazione di teoria e pratica ecc.).

Ma veniamo al punto essenziale: che nesso vi è tra la critica di Marx alla logica di Hegel e la scoperta che questa logica, questa filosofia, è il “riflesso” ideale della società borghese e non solo un riflesso ma anche un suo momento costitutivo, onde il superamento del regime borghese non può non comportare anche la fine della filosofia avutasi finora, della filosofia in quanto filosofia?

Chi legga attentamente l’opera di Marx, si imbatte spesso in osservazioni di questo genere: “Se Hegel avesse preso (egli dice) come punto di partenza, i soggetti reali come basi dello Stato, non avrebbe trovato necessario di soggettivare in guisa mistica lo Stato” (corsivo mio); invece, “Hegel dà un’esistenza indipendente ai predicati (...); dopo, il reale soggetto appare come risultato loro, mentre, invece, bisogna partire dal reale soggetto e considerare il suo obiettivarsi” (OFG., p. 37). La novità di questa critica (che noi abbiamo già ampiamente sviluppato) può essere apprezzata appieno se teniamo presente che, mentre un interprete di Hegel pur così acuto come Feuerbach non riesce in genere ad andare oltre la constatazione che nella logica hegeliana “l’oggetto viene ridotto a determinazioni del tutto astratte in cui non lo si può più riconoscere,, (op. cit., p. 134), e in tal modo rimane nell’atteggiamento, insufficiente e del tutto parziale, di chi accusa ancora oggi la filosofia di Hegel di astrattezza e di vuoto formalismo; Marx, invece, coglie una implicazione assai più profonda, vede ossia che quell’astrattezza o apriorismo non è tutto ma ha il suo pendant in un positivismo acritico e, quindi, che il formalismo hegeliano non è vuoto ma pieno di un contenuto empirico vizioso, cioè surrettizio, e tale, appunto, perché restaurato acriticamente e sotto mano. Ne deriva che, mentre la critica tradizionale, movendo all’idealismo l’accusa di non tener conto del concreto, del mondo, finisce in qualche modo per convalidarne il principio, proprio in quanto ammette la possibilità che una filosofia si possa costituire prescindendo dalla materia; il discorso di Marx, invece, porta alla constatazione ben diversa che chi tenta di trascendere il concreto non mette capo a una filosofia semplicemente astratta, bensì a una filosofia che non solo è piena essa stessa di un contenuto reale ma che, anzi, sconta la pretesa iniziale di volerne prescindere, proprio con la necessità in cui si trova alla fine di doverlo riprodurre “così com’è.” Che è appunto ciò che sostiene Marx quando osserva che la filosofia speculativa, “proprio in quanto vuole negare con sofismi la razionale e naturale dipendenza dall’oggetto, cade poi nella più irrazionale e innaturale servitù di fronte ad esso, di cui è costretta a ricostruire come necessarie e universali anche le caratteristiche più accidentali e individue.”

La cosa, quindi, non sta nei termini in cui la vede per es. Henri Lefebvre, i! quale, proprio perché crede che materialismo e idealismo siano due postulati, due principi opposti ma equivalenti, è costretto a sostenere poi che l’idealismo “on ne le détruit pas, on ne le réfute pas”: infatti, “comment détruire, comment réfuter un postulat?” Per concludere, infine, che: “c’est parce que le problème fondamenta! de la philosophie prend la forme d’un ‘ou bien... ou bien’ qu’il a toujours entrainé et enveloppé une prise de parti” (La Pensée, cit., p. 30). Scelte esistenziali di questo genere, per quanto rispettabili, sono solo espressione di una mentalità subalterna. In realtà idealismo e materialismo non costituiscono un’alternativa di equivalenti, come se noi dovessimo scegliere, con un atto di fede, tra una filosofia che fa a meno della materia e un’altra che l’ammette. Estremi reali, dice Marx, non costituiscono un’opposizione dialettica. “La posizione non è uguale. Ad esempio. cristianesimo o religione in generale e filosofia sono estremi. Ma in verità la religione non costituisce alcun vero opposto della filosofia: giacché la filosofia comprende la religione nella sua illusoria realtà” (OFG., p. 122). Ecco il punto. Il risultato a cui Marx perviene, infatti, con la sua critica ad Hegel è che proprio l’idealismo con l’interpolazione dei contenuti empirici a cui è inevitabilmente costretto, prova, sia pure per via indiretta, l’impossibilità di prescindere dalla materia, dall’esperienza. Per questo, egli dice: se Hegel fosse partito dal soggetto reale, non avrebbe avuto bisogno di soggettivare la mistica sostanza. Perché, avendo verificato con la sua critica come l’assunto della negatività o irrealtà del finito (in cui consiste l’idealismo), implichi non solo un sapere infecondo ma un sapere che, appunto in quanto tale, è costretto poi ad assolutizzare il dato d’esperienza, cioè a configurarsi come una consacrazione o una apologia dello stato di fatto, — avendo, dicevamo, verificato questo, egli ne trae finalmente l’ipotesi che solo assumendo come punto di partenza i dati materiali (quei dati o “presupposti reali” di cui parla l’inizio dell’Ideologia tedesca), sia possibile istituire un processo d’indagine critica o scientifica. Hegel, in altre parole, pro va a rovescio — ecco il senso del discorso di Marx — che per fare scienza debbo ipotizzare l’esistenza della materia fuori di noi e, quindi, debbo ipotizzare che il pensiero, pur comprendendo la realtà, non la riduca o assorba intieramente entro di sé; che il predicato, pur riflettendo il soggetto, non lo esaurisca, non si sostituisca ad esso, ma rimanga appunto predicato, cioè suo attributo, sua qualità, sua parte.

Si faccia allora attenzione: alla sinistra hegeliana che non si è mai liberata dalla soggezione a Hegel, cioè dalla soggezione al principio idealista che le idee come tali sono le cose stesse, “non è mai venuto in mente,” dice la Deutsche Ideologie, di ricercare il legame organico tra questa filosofia e la società; e ben si capisce, dato che il pensiero, la teoria, era per lei tutta la realtà. Per Marx, al contrario, il quale ipotizza che la teoria non sia tutto ma che esista altro fuori di essa, la filosofia di Hegel si configura naturalmente sia come la comprensione, come il riflesso di questa realtà, sia come una sua parte e un suo momento costitutivo[9].

Come riflesso: il che vuol dire che la realtà, l’essere sociale, la società è contenuto della teoria, cioè che l’essere è pensabile, che esso entra a far parte del pensiero; e, quindi, che, proprio per la funzionalità della materia, quest’ultimo si costituisce a sua volta come pensiero effettivo o reale: la filosofia di Hegel, per esempio, come del resto ogni altro prodotto dello scibile, è essa stessa un dato oggettivo, un istituto storico-reale, con una sua effettualità, con una filologia ben definita ecc. Come parte o momento costitutivo: il che vuoi dire che questa unità, questa sintesi di forma e contenuto, di pensiero ed essere, che è la conoscenza, cade a sua volta all’interno dell’essere stesso, cioè è in funzione della materia. In altre parole, come la realtà è per un verso contenuto,co-elemento, parte di quel “riflesso” che è la teoria, e per un altro, invece, è quella totalità in cui si iscrive, tra le altre cose, la stessa teoria; cosi questa ultima, a sua volta, è da un lato forma di un contenuto, cioè pensiero che abbraccia entro di sé l’essere, e, dall’altro, parte e momento dell’essere. Discorso che possiamo riassumere in queste due proposizioni fondamentali della gnoseologia materialistica.:

1) il pensiero può conoscere tutta la realtà, non esistono cose inconoscibili;

2) il pensiero non esaurisce mai, concretamente, la realtà.

Ovvero, per ripetere la stessa cosa con altre parole: 1) il pensiero è se stesso e l’altro, è forma e contenuto, medesimezza e alterità, tale-non tale: quindi opposizione-relazione, opposizione razionale: 2) il pensiero può in concreto esser questo solo in riferimento a un oggetto esteriore e determinato, e, quindi, solo se quell’opposizione-inclusione (tale-non tale) che è la ragione, vien presa in funzione dell’opposizione-esclusione (tale-non tale), ovvero in funzione dell’istanza dirimente della materia.

Il pensiero, insomma, è sia riflessione sull’essere, sia un modo d’essere; sia conoscenza della vita, sia atto di vita esso stesso; sia teoria che pratica. Nel primo caso l’oggettività è suo contenuto, cioè l’esteriorità, il mondo sensibile (qui il linguaggio, ma nel lavoro l’oggetto stesso) è tramite, medium, delle manifestazioni vitali dell’uomo: il mondo, la natura, sono quindi un mio modo d’essere, la mia esistenza per l’altro uomo, così come l’esistenza di questo per me; il rapporto dell’uomo alla natura, cioè, è immediatamente il suo rapporto all’altro uomo. Nel secondo caso, invece, la teoria è un momento, un’articolazione dell’oggettività, cioè la comunicazione tra gli uomini si realizza in quanto l’uno, accogliendo la manifestazione (qui il pensiero) dell’altro, verifica, esplicitamente o meno, questa manifestazione; e la verifica sperimentandone appunto, in pratica, la congruenza con l’oggettività. Cioè i rapporti tra gli uomini, i rapporti sociali, sono in funzione di quel mondo del lavoro e della produzione, che è ricambio organico tra l’ente naturale uomo e la natura, ossia ricambio entro la natura.

Riferito al rapporto Hegel-Marx, questo discorso significa: primo, che quando Marx critica la filosofia, la logica di Hegel, egli lavora anche in questo caso su un oggetto determinato, su un istituto storico concreto. Quindi, che l’opera filosofica di Marx non è più una filosofia tradizionale, un rapporto da filosofo a filosofo, da pensiero a pensiero, ma, anche al suo culmine, è sempre relazione di pensiero e realtà; cioè il discorso sul discorso di Hegel è anch’esso discorso su un oggetto specifico o determinato. La metodologia della scienza, insomma, non è conoscenza della conoscenza, concetto del concetto, cioè metascienza, metafisica; ma intanto è l’una cosa, vale a dire logica, riflessione sulla scienza, proprio in quanto è essa stessa scienza, sapere positivo, cioè risposta a problemi storicamente determinati quali sono i problemi stessi della teoria del conoscere, così come li troviamo oggettivati e istituzionalizzati in organismi filologici del tipo della Metafisica di AristoteIe della Critica della ragion pura, della Logica di Hegel ecc.

Secondo — e questa è la conseguenza più importante — quando Marx critica la logica hegeliana, egli non fa solo opera di logica ma già opera di sociologia, opera cioè che investe, nella e attraverso la filosofia di Hegel, un momento costitutivo, una manifestazione della società borghese. In quanto, infatti, la sua critica accerta nella filosofia di Hegel un rapporto vizioso, incongruo, tra pensiero ed essere, tra teoria e realtà, e d’altro canto, però, questa teoria hegeliana è parte essa stessa del reale, ne consegue che quando Marx coglie il falso rapporto che viene istituito nella filosofia speculativa tra coscienza e mondo, egli coglie al tempo stesso anche il falso rapporto che esiste fra questa filosofia e il mondo, ovvero il falso rapporto che esiste tra le parti costitutive della società borghese.

Riassumiamo per maggior chiarezza la nostra analisi. Il pensiero si compie, dunque, solo per la funzionalità della materia, solo perché la materia entra a costituirlo, entra cioè a farne parte come contenuto. D’altro canto, compiendosi, il pensiero si realizza, si fa reale, cioè trova nell’oggettività, e precisamente in quell’elemento di natura sensibile che è il linguaggio, il tramite e il mezzo con cui si esprime, si oggettiva, cioè si riferisce all’altro uomo. Infine, questa espressione con cui riferisco agli altri il mio pensiero è, a sua volta, il mezzo con cui riferisco agli altri gli oggetti reali, indicati e significati appunto dal mio pensiero. In altre parole, il riferirsi del pensiero all’oggetto è immediatamente il riferirsi dell’uomo all’uomo: quindi rapporto sociale (“l’attività e lo spirito — dice Marx — come sono sociali per il loro contenuto, lo sono anche per il loro modo d’origine: attività sociale e spirito sociale” [OFG p. 259]). Poi, questi rapporti sociali ideologici sono a loro volta rapporti che si instaurano per e in funzione della produzione, cioè del rapporto dell’uomo agli oggetti reali, che io gli ho indicato e significato esprimendo il mio pensiero. Quest’ultimo, d’altra parte, trova nei rapporti sociali di produzione una duplice verifica: una formale o interna, in quanto, perché io possa aprirmi alla comunicazione con l’altro uomo e perché questi possa comprendermi, occorre che i predicati con cui designo l’oggetto siano tali da manifestare l’oggetto stesso; cioè debbo comportarmi umanamente verso l’oggetto, quindi non come l’animale che “forma le cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene” ma, appunto, come uomo, che, invece, “sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all’oggetto la misura inerente” (OFG., p. 231). In altre parole, il comportamento è tanto più umano quanto meno è antropomorfico, quanto più cioè rispetta e riproduce la peculiarità e la specificità di tutti gli altri aspetti o livelli del mondo della natura. E una seconda verifica del contenuto o esterna, in quanto, accogliendo il mio pensiero, l’altro lo accoglie per riferirsi praticamente all’oggetto da me indicatogli e, quindi, sperimenta in concreto la congruenza di idea e fatto. Dove si vede bene come solo l’oggettività dei contenuti del mio pensiero possa conferire ad esso vera universalità, cioè possa pormi in relazione con l’altro; e, inversamente, poi, come questa universalità, questa relazione, sia a sua volta in funzione dell’analisi pratica, del lavoro, cioè della mediazione entro l’oggettività.

L’astrazione determinata o scientifica, dunque, si produce. insieme, come rapporto sociale umano; il rapporto sociale umano come rapporto di società e natura. “Il rapporto sociale ‘dell’uomo con l’uomo’ — dice Marx — è il principio fondamentale della teoria” (OFG., p. 293). La logica si costituisce a un tempo con la sociologia, in quel medesimo rapporto di unità-distinzione in cui sono tra loro coscienza e essere sociale: la logica cade, quindi, entro la scienza della storia, ma la scienza della storia cade a sua volta entro la storia. Cioè, la sociologia passa ad alimentare la tecnica del politico, diviene lotta per la trasformazione del mondo. La pratica è funzionale al prodursi della teoria, ma la teoria poi è una funzione della pratica. La scienza si verifica nella e come società, ma la vita associata, a sua volta, è un esperimento in atto nel laboratorio del mondo. Scienza dunque la storia, in quanto historia rerum gestarum, pratica-teoria; ma scienza anche le res gestae stesse, teoria-pratica; ovvero, come suona un grande pensiero di Engels, “la storia esperimento e industria.” E si comprende allora la struttura dell’opera di Marx, il nesso profondo tra il “profeta” cioè il politico, e lo scienziato. Si comprende, perché l’opera giovanile muove dalla critica della dialettica di Hegel, passa alla critica della costituzione politica borghese, da questa alla critica delle prime categorie dell’economia borghese (salario, capitale, rendita fondiaria, ecc.) e mette capo, infine, al Manifesto; o, a rovescio, perché nel Capitale troviamo sia l’analisi della struttura economica capitalistica, cioè la storia del modo di produzione della società borghese, sia l’analisi dell’economia politica borghese (Le Teorie sul plusvalore), cioè la storia del pensiero economico; e, infine, insieme e accanto al Capitale, l’Indirizzo alla prima Internazionale operaia, la Critica del programma di Gotha, la teoria del metodo (l’Introduzione del ‘57, Le glosse a Wagner, ecc.).

Scienza-storia, dunque; cioè una storia che procede con ipotesi di lavoro, una vita che costantemente anticipa sulla vita e si verifica in essa. Ben altro, quindi, che l’astuzia della ragione o il provvidenzialismo di Hegel, ben altro che la santificazione del fatto compiuto, che la filosofia post festum ecc.; e ben altro anche, s’intende, da quell’ultimo spurgo basso-hegeliano che si copre ancora oggi sotto il nome di marxismo e nel quale la “Storia” è solo più la mezzana del compromesso politico e intellettuale, l’appello ad essa solo un alibi dello scetticismo, l’adattamento al fatto.

Relazione di pensiero ed essere nella filosofia, relazione tra filosofia e mondo, relazione tra le parti costitutive del mondo: questa la struttura dell’astrazione determinata o scientifica. Cioè passaggio dal pensiero, dalla filosofia, al concreto: quindi deduzione; ma deduzione che implica ed ha a fondamento un passaggio dal mondo alla filosofia, cioè dal concreto all’astratto. Perciò analisi-sintesi, induzione-deduzione, circolo dal concreto all’astratto e dall’astratto al concreto, che cade e si risolve, infine, nel passaggio dal concreto al concreto.

Ma vediamo finalmente in pratica la struttura dell’astrazione determinata, così come ci si configura, per es., alla luce delle prime due sezioni del Capitale. Il prodotto del lavoro nelle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico ci si presenta, dice Marx, come merce. Mentre nei regimi economici non capitalistici il modo di produzione determinante, fondamentale, è rappresentato dalla produzione per il consumo e, quindi, il prodotto è essenzialmente valore d’uso e solo in seconda istanza viene destinato allo scambio; nella società borghese, invece, la cui legge determinante è non già che la produzione si rinnovi “nella stessa forma e con le stesse dimensioni di prima” ma che cessi piuttosto di “seguire passo passo il consumo” per “precederlo” e darsi a un’ “illimitata espansione” e a un “eterno movimento in avanti,”[10] il prodotto non è prodotto per il consumo ma per assorbire altro lavoro, cioè prodotto per la produzione. Ciò che differenzia, quindi la merce dai valori d’uso è che essa ha valore, ossia che è un cristallo di lavoro astratto, una concrezione di lavoro umano indistinto, un dispendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma del suo dispendio. Proprio questa sua qualità, questo suo carattere reale, fa sì che la merce sia se stessa e non altro. Se- nonché, in forza di questa sua qualità, il prodotto del modo di produzione capitalistico non si distacca soltanto da questo o da quell’altro prodotto ma da tutti i prodotti degli altri regimi sociali e non solo da questi ma dall’intiero universo. Una volta, cioè, che la qualità, il tratto reale sia fatto valere in tutta la sua determinatezza, vale a dire in tutta la sua forza dirimente e esclusiva, esso dà luogo a una differenza essenziale che è un’opposizione tra sé, da una parte, e la generalità di tutte le altre cose dall’altra; opposizione in cui la qualità figura a un tempo — si badi — sia come equivalente alla “generalità” di tutte le altre cose (non vi è opposizione, infatti, se non tra termini equipollenti) e, quindi, come generalità o idea essa stessa, sia come esclusione o negazione di tutto ciò che è raccolto nell’idea e, perciò, come determinazione particolare o reale. In altri termini, la differenza essenziale è, insieme, sia una differenza, cioè opposizione-esclusione sia una relazione; sia opposizione reale che razionale; nel senso che, come l’ottusa molteplicità del diverso si acuisce (si ricordi Hegel) tramite la ragione pensante che anima e avviva le parti fino a ridurle o semplificarle a parti di una sola differenza, cosi, inversamente, è da tener presente (e questa volta contro Hegel) che in tanto quella relazione che è l’idea, si costituisce e ha un significato, in quanto è una sintesi che ha a fondamento un’analisi, e, quindi, in quanto riflette non-contraddittoriamente la qualità o determinazione reale che è alla sua base.

E, infatti, vero è che al culmine dell’opposizione la qualità “valore” mi appare null’altro che come l’astratto contrario del valore d’uso, come astrazione dalle differenze tra i valori d’uso e, quindi, come l’elemento generale e comune a tutti i valori d’uso, a tutti i. prodotti del lavoro quale che sia il modo della loro produzione. E vero è anche che, mediante questa relazione, il prodotto della produzione capitalistica viene riferito non solo ai prodotti di tutti gli altri regimi sociali, ma letteralmente all’intiero universo: valore d’uso, infatti, è non solo il prodotto di chi soddisfa con il lavoro il proprio bisogno ma anche tutto ciò la cui utilità non è ottenuta mediante il lavoro: quindi, “aria, terreno vergine, praterie naturali, legno di boschi incolti ecc.”[11]. Solo che, se a questo modo il concetto di valore sembra null’altro che la generalità, l’astrazione del valore d’uso e, quindi, un’espressione semplice o astratta che, riassumendo il tratto comune a tutti i valori d’uso, è valida anche per il più semplice e antico prodotto del lavoro umano indipendentemente dalle forme concrete della società; è da considerare, poi, che quest’astrazione, in tanto è scientifica ed è qualcosa di più che un semplice nome, in quanto esprime non già un elemento “semplice” qualsiasi, cioè generico, ma l’elemento più semplice di un concreto, in quanto ossia riflette ed ha per base un tratto, una determinazione analitica reale, la quale è proprio l’astrazione dal valore d’uso, o meglio è un oggetto — il denaro come forma d’esistenza generale del capitale — il cui valore d’uso è precisamente quello d’esser valore, e la cui stessa forma naturale costituisce appunto l’esistenza reale e per sé stante del valore[12].

Va da sé che per l’aspetto in cui l’astrazione “valore” è appunto solo un’astrazione, una generalità che ricomprende e accomuna il prodotto del lavoro nel regime capitalistico ai prodotti del lavoro di tutte le epoche, il corso logico astratto perverrà a comprendere quest’ultimo al termine di un processo dall’andamento deduttivo. Ed è chiaro che in questo caso il cammino del pensiero riflette e riepiloga il corso storico generale. Il Capitale nella sua prima sezione riassume, ad es., quel processo per cui, a partire dalle forme di produzione precapitalistiche più semplici, comincia a operarsi la differenziazione tra prodotti destinati immediatamente al consumo e prodotti che giungono al consumo attraverso lo scambio. Riassume, quindi, la divisione di valore d’uso e valore di scambio con cui ha storicamente inizio la circolazione delle merci e — con la circolazione — le varie forme particolari del denaro: il denaro puro e semplice equivalente della merce, o mezzo di circolazione, o mezzo di pagamento, o denaro tesaurizzato o moneta universale; tutte forme, avverte Marx, che indicano di volta in volta, a seconda della diversa estensione e della relativa preponderanza dell’una o dell’altra, gradi diversissimi del processo sociale di produzione, ma che anche una circolazione delle merci relativamente poco sviluppata è sufficiente a creare.

È evidente che, dal punto di vista del corso logico-deduttivo, il punto di arrivo e i momenti intermedi appaiono come sviluppi e differenze che dipendono dal generale-comune da cui si parte. E si comprende, quindi, come l’economista borghese, il quale ipostatizza l’astrazione e scambia processo logico e processo reale, possa considerare essenziali proprio i tratti comuni a tutte le epoche, e accidentali, invece, quelli particolari o specifici.

Wagner, ad es., dopo aver risolto il valore in ciò che comunemente si chiama “valore d’uso” e aver designato questo col puro e semplice nome di “valore in generale,” di “concetto del valore,” non può mancare di ricordarsi — dice Marx — che il valore così (!) dedotto è il valore d’uso[13]. Allo stesso modo, altri economisti spiegano che “nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione — questo strumento non fosse altro che la mano”; o “senza lavoro passato e accumulato, — questo lavoro non fosse altro che l’abilità riunita e concentrata per reiterato esercizio nella mano di un selvaggio”; per concludere poi con l’affermazione che il moderno capitale (che è anche uno strumento di produzione nonché lavoro passato e oggettivato) è un fattore senza il quale nessuna produzione è concepibile, un elemento che contrassegna tutte le epoche storiche, una “legge di natura” universale e eterna. Tralasciando il carattere specifico che fa di uno strumento di produzione un “capitale” propriamente detto, e ignorando tutti i connotati particolari e storici, quegli economisti si immaginano di avvicinarsi agli oggetti nella misura in cui si staccano sempre più da essi, di fare dell’analisi quanto più rendono esangui e generiche le loro astrazioni. Cosi, alla maniera, per es., di J. Stuart Mill, essi mettono in testa ai loro trattati una parte, intitolata appunto “Produzione,” che, in quanto contiene soltanto le caratteristiche generali senza le quali nessuna produzione è concepibile, né un’attività è un’attività produttiva, non può fornire ovviamente altro che una semplice ripetizione di ciò che è contenuto nel titolo, cioè una “grossolana tautologia.” Ad esempio, se “ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell’individuo entro e mediante una determinata forma di società,” è evidente — dice Marx — che “è una tautologia dire che la proprietà (l’appropriazione) è una condizione della produzione,” perché questo è come dire che la produzione è condizione di se stessa. Ed è appena il caso di ricordare, dopo tutto ciò che abbiamo detto sulla scambio di ragione e materia, che, alla riduzione e volatilizzazione del capitalismo in quei tratti generalissimi che gli economisti presentano come “leggi naturali e eterne,” tien dietro poi il tentativo di dedurre proprio da questi tratti la produzione borghese stessa. Essi cercano di ricavare, così, dalla appropriazione in generale, non meglio specificata, la proprietà privata e di spacciare quest’ultima, anzi ché come un istituto storico, come uno stato di cose necessario ed eterno, dettato e ricavato dalle “leggi” stesse della natura. Lo scambio di ragione e materia comporta infatti, come sappiamo, che mentre il particolare acquista il carattere di astoricità e di apriorismo del genere, quest’ultimo, inversamente, ha poi per sua realtà o incarnazione solo un particolare. L’esposizione positiva dell’assoluto è il pane quotidiano dell’apologetica borghese. Non deve sorprendere, quindi, se — per ridicolo che possa sembrare il “salto” dall’appropriazione come sinonimo della produzione in generale a quella determinata forma storica di appropriazione che è la proprietà privata — proprio questo è il procedimento tipico dell’economia politica borghese: cogliere, cioè, la produzione nei suoi tratti più generici, spacciare questi tratti come leggi eterne indipendenti dalla storia, e interpolare (unterschieben) infine, in essi, del tutto sottomano (ganz unter der Hand), i rapporti di produzione borghesi “quali principi immutabili della società in abstracto.”

Senonché, se non sostantifichiamo l’astrazione ma la prendiamo insieme a ciò che essa ha di determinato, la situazione si capovolge; e il processo di deduzione si scopre, in realtà, funzione di un processo induttivo. In questo caso, infatti, ciò che nella deduzione appare come un prodotto e un risultato e, quindi, come qualcosa che è condizionato dai momenti attraverso cui passa il processo logico-astratto, si rivela in effetti come la condizione di queste sue condizioni, come causa di ciò da cui risulta. Il processo per il quale — guardando dall’idea — il particolare appariva come un’estrema articolazione del generale-comune, si rovescia; e, come per es. le lingue più sviluppate hanno leggi e caratteri comuni con quelle meno sviluppate ma ciò che costituisce il loro sviluppo è precisamente — dice Marx — ciò in cui divergono e si allontanano dall’elemento generale e comune: onde, mentre proprio questa particolarità diviene la loro essenza generale, il tratto cioè che le qualifica e specifica, la loro generalità generica invece è solo più un momento o una differenza che cade all’interno di quella; così avviene anche per il valore come prodotto del lavoro nel regime capitalistico. Come ci mostra appunto il Capitale. Qui infatti ci troviamo, sì, di fronte a un corso deduttivo per cui Marx svolge il valore dal valore di scambio e questo dal valore d’uso, o, più brevemente, il denaro dalla merce; ed è pur vero, come si è già accennato, che quest’andamento riepiloga i precedenti storici del regime capitalistico, nei quali, proprio perché “manca ancora molto a che il processo sociale della produzione sia dominato in tutta la sua estensione e in tutta la sua profondità dal valore di scambio,” quest’ultimo, nella sua esistenza come denaro, non compare ancora come un fine ma solo come un mezzo o un tramite per la circolazione semplice dei valori d’uso; come un mezzo, cioè, “per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, per l’appropriazione di valori d’uso, per la soddisfazione di bisogni.” Quindi come un’articolazione del valore d’uso. Donde la ben nota formula generale M-D-M.

Solo che la generalità iniziale non viene qui presa per sé ma come la generalità di un concreto, come quell’elemento semplice che rappresenta il limite della scomposizione specifica di un oggetto e, quindi, come quella condizione necessaria più semplice di esistenza del concreto, che è in pari tempo la base e il prodotto dell’interazione di tutti gli altri aspetti di esso. Il “valore” non è considerato solo come l’elemento comune alle varie forme che assume il valore d’uso, ma anche e innanzitutto come espressione di un tratto analitico oggettivo che, proprio nella sua esistenza reale come astrazione dal valore d’uso, costituisce il lato fondamentale di un oggetto concreto. Ne deriva che ciò che dal punto di vista logico-astratto si presenta come una disgiunzione di valore d’uso e valore di scambio, cioè come una deduzione dall’universale al particolare, dal punto di visto logico concreto appare invece come un’induzione dall’inessenziale all’essenziale, in cui proprio l‘elemento che più si dilunga e si distacca dal genere rappresenta il principio di sviluppo del concreto e, quindi, quel tratto generale specifico donde si articolano le progressive differenze particolari, dalle quali, nella deduzione, esso sembrava invece scaturire e risultare. La deduzione con cui dal valore d’uso discendo al valore di scambio e da questo al valore, è funzione, insomma, di un’induzione mediante la quale risalgo, nell’analisi, dagli aspetti accidentali a quelli essenziali del concreto in esame, cioè dal valore d’uso al valore di scambio di cui esso è portatore, e dal valore di scambio al valore che ne sta a fondamento. “De prime abord, scrive Marx, o non parto da ‘concetti,’ neppure quindi dal ‘concetto di valore’ e non ho perciò in alcun modo da ‘tagliare in due’ questo concetto astratto,” come fanno invece Rodbertus, Wagner e, ben prima di loro, Hegel, per il quale — sappiamo — “nella maniera filosofica di dividere è il concetto stesso quello che si deve mostrare come fonte delle sue determinazioni.” “Ciò da cui parto, continua Marx, è la forma più semplice in cui si presenta nella società attuale il prodotto del lavoro, e questa è la merce. Io analizzo la merce prima di tutto nella forma in cui essa appare. Qui trovo che essa è da una parte, nella sua forma naturale, un oggetto d’uso, alias un valore d’uso, dall’altra portatore di valore di scambio... Un’ulteriore analisi del valore di scambio mi mostra che esso è solo una ‘forma fenomenica,’ un modo di rappresentarsi indipendente del valore che è contenuto nella merce, e passo allora all’analisi di quest’ultimo... Io non divido dunque il valore in valore d’uso e valore dì scambio come opposti in cui si scinda il concetto astratto, ‘il valore’; divido, bensì, la concreta figura sociale del prodotto del lavoro e cioè la ‘merce,’ che è appunto da una parte valore d’uso e dall’altra ‘valore’... Il mio metodo analitico, che non parte dall’uomo ‘in generale,’ ma da un dato periodo economico della società, non ha nulla in comune con il metodo dei professori tedeschi consistente nel combinare tra di loro dei concetti (Begriflsanknüpfungs-Methode).” Infatti, essi, procedendo “dal concetto di ‘valore,’ e non dalla ‘cosa sociale,’ dalla ‘merce,’ lasciano che questo concetto si scinda duplicandosi in se stesso, salvo poi a contendere tra loro per decidere quale di questi due fantasmi sia il vero Giacobbe!” (ivi, pp. 846-7).

Ragione funzionale per l’analisi, dunque; e, infatti, è proprio in forza del nesso razionale di valore d’uso e valore che l’analisi può svilupparsi, cioè procedere mediante anticipazioni e ipotesi[14] onde, avendo per es. individuato il lato più generico e superficiale del prodotto del lavoro nel regime capitalistico, il fatto cioè ch’esso è anche un valore d’uso, passo poi a ricercare quel valore di scambio di cui tramite l’idea anticipo e illaziono l’esistenza; per muovere, infine, dopo aver accertato la presenza di questo e quindi dopo aver verificato la prima ipotesi, all’individuazione del valore. Come è stato acutamente osservato,[15] “ogni singola generalizzazione viene qui elaborata su un fondamento rigorosamente oggettivo. Ogni astrazione che precede crea la base per una nuova astrazione” in quanto “le definizioni dell’oggetto sono qui elaborate in modo che il metodo stesso dell’elaborazione è in pari tempo un metodo di chiarificazione del nesso che le congiunge. Analisi e sintesi, deduzione e induzione coincidono qui organicamente, per la sostanza della questione. E il pensiero non deve connettere a posteriori, collegare, ridurre a sintesi logica definizioni astratte elaborate in modo puramente analitico, delle quali dovette occuparsi, per esempio, la scuola ricardiana che fallì proprio perché le astrazioni ottenute con metodo analitico unilaterale non potevano essere collegate, unite tra loro da nessuna logica.”

L’importanza di questo nesso di analisi e sintesi può cogliersi appieno se consideriamo che, invece, “la trattazione delle forme particolari dell’economia classica che questa di continuo mette in un sol fascio con la forma generale, è, scrive Marx, una olla podrida.[16]  Generale e particolare, infatti, qui ribaltanò e si confondono l’uno con l’altro, senza riuscire mai a mediarsi. A Ricardo, per es.,da un lato si potrebbe rimproverare — egli dice — di non essere andato abbastanza avanti, di non aver completato l’astrazione, dal l’altro di aver concepito la forma fenomenica in maniera immediata, diretta, come conferma o rappresentazione delle leggi generali, di non averla in alcun modo sviluppata. Nel primo senso la sua astrazione è troppo incompleta, nel secondo è astrazione formale, in sé e per sé falsa.” Così “ciò che in Ricardo vi è di unilaterale è che egli vuoi dimostrare in generale che le differenti categorie o rapporti economici non sono in contraddizione con la teoria del valore, invece di svilupparle, insieme alle loro apparenti contraddizioni, partendo da questo fondamento, o di esporre lo sviluppo di questo fondamento stesso.”[17]

Comprendiamo a questo punto il particolare svolgimento delle prime due Sezioni del Capitale. Qui, infatti, troviamo, sì, un corso deduttivo per cui il valore (di scambio) viene sviluppato dal valore d’uso e il denaro appare come una merce particolare che è mezzo della circolazione, cioè della sfera intermedia tra produzione e consumo. Ma entro questo quadro deduttivo in cui sembra che si discorra sulla merce “in generale” e, quindi, su qualcosa che è comune a tutte le epoche storiche, ha luogo in realtà un’analisi, per la quale, mentre viene scartato quel tratto generale-generico che è il valore d’uso, progressivamente si induce e si generalizza, invece, il valore di scambio, cioè l’elemento che nella deduzione appare come “particolare.” “Quando si deve analizzare la ‘merce’ — il concreto economico più semplice [della produzione capitalistica] — si debbono tener lontane (hat man fernzuhalten), dice Marx, tutte le relazioni che non hanno nulla a che fare col presente oggetto dell’analisi. Quindi, ciò che va detto della merce, in quanto valore d’uso, io l’ho espresso in poche righe, sottolineando, altresì la forma caratteristica in cui qui compare il valore d’uso” (ivi, pp. 847-8). Nell’esame scientifico concreto, “le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono venir isolate (gesondert) in modo che per l’unità (...) non vada poi dimenticata la differenza essenziale. In questa dimenticanza consiste per es. tutta la saggezza degli economisti moderni che dimostrano l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti.”[18]

Inversamente, il denaro, come merce particolare, viene progressivamente sviluppato: cioè si passa dal denaro come misura al denaro come mezzo di scambio fino al denaro come denaro, dove il discorso che sembrava vertere sulla merce “in generale” si scopre, finalmente, come discorso su una merce generale in quanto forma più semplice di esistenza del valore; e dove la circolazione “in generale,” che finora appariva come un semplice risultato della nostra mente, come una semplice generalizzazione mentale dell’elemento comune a tutte le forme assunte nelle varie epoche dallo scambio, si manifesta in realtà come riflesso di un’epoca determinata, in cui lo scambio penetra per la prima volta fin dentro la produzione, è cioè realiter generale, e in cui la forma di merci dei prodotti del lavoro acquista tale validità generale da abbracciare la forza-lavoro stessa. La deduzione M-D, insomma, si rivela funzionale alla comprensione del rapporto capitalistico più semplice e fondamentale, alla comprensione cioè di D come relazione tra capitale e lavoro salariato, ovvero tra quella merce generale che è il denaro, in cui il valore, la qualità sociale, si presenta immediatamente come una qualità naturale, e quella merce particolarissima che è la forza-lavoro, in cui la qualità naturale è invece immediatamente sociale, il valore d’uso è fonte del valore.

In quanto il pensiero comprende passando dal semplice al complesso, il capitale è dedotto nella Il sezione dal denaro, che è a sua volta dedotto dalla merce. In quanto, però, il corso logico-astratto non è qui ipostatizzato, Marx non commette l’errore di ridurre il moderno capitale alle forme antidiluviane in cui esso compare nelle società precapitalistiche: quando, come capitale mercantile e usurario, è solo un fenomeno marginale che si annida nei pori della produzione per il consumo. Non commette l’errore di sfumare il discorso scientifico sulla società capitalistica in una filosofia della storia, salvo poi a mutare, come Proudhon, “le differenti membra della società in altrettante società a parte che si succedono le une dopo le altre.”[19] Bensì prende questo corso logico-astratto in riferimento all’oggetto reale, in occasione e per la comprensione del quale — del resto — esso si produce. Vede, cioè, che “le più astratte determinazioni, esaminate attentamente, sempre rimandano ad un’ulteriore base storica concreta: of course, perché ne sono state astratte in questa loro determinatezza.” Allora, la deduzione dalla merce al denaro che, presa di per sé, costituirebbe solo un discorso genericissimo valido per tutte le società precapitalistiche nelle quali la circolazione del denaro è mezzo all’appropriazione dei valori d’uso, diventa funzione di un’analisi in cui dalla merce, come modo d’esistenza particolare, si risale al denaro come modo di esistenza generale del valore[20], dalla circolazione alla produzione: dove ciò che logicamente appare come primo e, quindi, come condizione di ciò che segue, si rivela come condizionato in realtà da questo e, perciò, come un suo effetto, come una sua determinazione e un suo sviluppo. Nella circolazione semplice, le forme autonome, le forme di denaro, assunte dal valore delle merci, servono soltanto da intermediario allo scambio di queste in quanto valori d’uso. Invece, nella circolazione
D-M-D che ci dà la differenza essenziale tra la circolazione capitalistica da un lato e tutte le rimanenti dal l’altro, “merce e denaro funzionano soltanto come differenti modi d’esistere del valore stesso”; cioè non solo “la circolazione del denaro come capitale è fine a sé stessa,” ma, proprio in quanto tale, essa rimanda per la sua autoriproduzione a quello scambio specialissimo che è la compera e vendita della forza-lavoro, cioè alla produzione.

 Deduzione-induzione: il capitale è dedotto solo nella Il sezione, ma la I sezione “merce e denaro” è già parte di quel I Libro che tratta “il processo di produzione del capitale.” Cioè, l’oggetto dell’analisi logico-storica tanto nella sezione sulla merce che in quella sul denaro è il capitale, e non la merce e il denaro come tali. Il corso in apparenza puramente deduttivo del pensiero di Marx si rivela, cosi, come il mezzo per garantire lo sviluppo di una induzione realmente scientifica: induzione che non ha più nulla a che vedere, ovviamente, con tutti i primitivi metodi elaborati dal positivismo, a partire da Bacone fino alla Logica di Stuart Mill. Nel denaro — come dimostra lo sviluppo delle sue determinazioni posto il postulato del valore che entra nella circolazione e vi si conserva ponendo nello stesso tempo la circolazione stessa — c’è il capitale,” dice Marx. “Questo trapasso è nello stesso tempo storico. La forma antidiluviana del capitale è il capitale mercantile, che sviluppa sempre denaro. Nello stesso tempo nascita del vero e proprio capitale dal denaro o dal capitale mercantile che si impadronisce della produzione.” Allo stesso modo, “il passaggio dal capitale alla proprietà fondiaria è nello stesso tempo storico, perché la forma moderna della proprietà fondiaria è un prodotto dell’effetto del capitale sulla proprietà fondiaria feudale. Ugualmente, il passaggio dalla proprietà fondiaria al lavoro salariato è non soltanto dialettico, ma storico, perché l’ultimo prodotto della proprietà fondiaria moderna è il costituirsi ovunque del lavoro salariato, che appare quindi come la base di tutto.”[21]

Tocchiamo qui l’aspetto forse più rilevante dell’astrazione determinata o scientifica, vale a dire quel suo carattere intrinsecamente storico per cui il nesso di induzione-deduzione, di analisi-sintesi si rivela come una coniugazione di elementi storico-materiali e storico-razionali, come un passaggio cioè dalla storia alla ragione e viceversa. Come passaggio dalla storia alla ragione, in quanto, se è vero che nella sua generalità l’astrazione “valore” riassume i caratteri storici precedenti che ha il prodotto del lavoro nelle società precapitalistiche, è pur vero che questi caratteri si trovano nell’idea appunto solo come riassunti, cioè non con le particolarità che essi hanno rivestito nelle varie fasi dello sviluppo storico, ma riepilogati e sintetizzati in un concetto: quindi in forma di caratteri storico-razionali, di categorie. Come passaggio dalla ragione alla storia, in quanto, non venendo ipostatizzata, l’idea non serve qui da pretesto per confondere tutte le differenze storiche, come avviene negli economisti borghesi; non dà motivo a scambiare il “primo” logico per il “primo” reale al modo di Hegel, il quale, prendendo per mera parvenza quello “sviluppo naturale” in cui “l’intuizione o l’essere sono il primo, cioè la condizione per il concetto,” disperde l’induzione nella deduzione, l’analisi nella sintesi, col risultato di ottenere alla fine un universale nel quale sono annullate tutte le sue condizioni reali. Bensì è presa come una sintesi in funzione dell’analisi. Il che vuol dire che i precedenti storici, riassunti nell’idea, si convertono in condizioni logiche per comprendere il fatto (nel nostro caso: il prodotto del lavoro nella moderna società borghese), entrando a costituire così un ordine razionale inverso a quello storico-temporale[22]: dove merce e denaro, per es., non vengono compresi come tali, cioè così come sono per sé, ma come sono per il capitale, come articolazioni ossia del capitale; il quale costituisce, dunque, il vero punto di partenza dell’intiera trattazione.

Quest’ordine razionale si configura come dialettico, perché l’analisi può svilupparsi e non procedere a caso solo in forza [23] di un’idea che, anticipando certe connessioni e rapporti nella ragione, mi permette poi di identificarli quando li osservo in concreto. È l’idea, la forma relazionale del pensiero, insomma, che mi suggerisce certe illazioni e mi fa ipotizzare un flesso tra il fatto in questione e un altro non ancora osservato: onde, per es., è solo in forza di un’idea che Marx può dire: “la semplice circolazione del denaro non ha in sé il principio dell’autoriproduzione e perciò accenna al di là di se stessa,” Come ordine storico, in quanto questa anticipazione si rivela come una spiegazione reale e non illusoria del fatto, solo quando evitiamo l’errore del post hoc propter hoc, solo quando cioè essa viene verificata nella sua congruenza col fatto e, quindi, liberata da quell’alone di generalità e di indeterminatezza che ha finché è una semplice idea. (Per es. “dallo sviluppo della legge sulla determinazione della massa circolante ad opera dei prezzi, ne consegue — dice Marx — che qui sono state fatte delle ipotesi che non si verificano affatto per tutte le situazioni sociali; quindi l’ingenuità, per es., di accostare tout bonnement l’afflusso di oro dall’Asia a Roma e il suo effetto sui prezzi di lì, alle condizioni commerciali moderne.”). In altre parole, la categoria “denaro” intanto mi permette di comprendere realmente il capitale, in quanto la prendo nella sua determinatezza e, quindi, in quanto arrivo a cogliere la differenza essenziale che vi è tra il denaro come agente della circolazione semplice e il denaro come agente della circolazione capitalistica; differenza che mi dà appunto quel movimento reale, quello scarto o passaggio storico che si compie allorché il denaro si impadronisce per la prima volta della produzione e si trasforma in moderno capitale, mutandosi così — da semplice mezzo o effetto che era — in causa della sua causa. Astrazione storica, dunque, nel senso più completo della parola, giacché proprio mentre il capitale viene capito e sviluppato nelle sue determinazioni più semplici (merce e denaro), proprio allora mi si illuminano anche le sue cause e, quindi, la sua formazione e la sua genesi storica.

La dialettica, che nella sua forma mistificata di dialettica di puri concetti contraeva i processi reali in una mobilità falsa e apparente, mi restituisce alla comprensione del divenire storico proprio nella sua forma scientifica, proprio cioè come dialettica di ragione e materia, di teoria e pratica, di ipotesi ed esperimento. “Vi è — scrive Schumpeter — una cosa di importanza fondamentale per la metodologia economica, che Marx ha fatto. Gli economisti o avevano svolto un’opera personale nel campo della storia economica, o si erano serviti dell’opera storica altrui. Ma i fatti della storia economica rimanevano confinati in una sezione a parte. Entravano nella teoria, se mai vi entravano, al solo titolo di esemplificazioni o, eventualmente, di conferme dei risultati, fondendosi solo meccanicamente con essa. In Marx la fusione è di natura chimica: in altre parole, qui i fatti sono introdotti nel cuore del ragionamento da cui i risultati sgorgano. Egli fu il primo grande economista che capi e insegnò in modo sistematico come la teoria economica possa trasformarsi in analisi storica, e il racconto storico in histoire raisonnée” (corsivo mio)[24].

Ancora una volta, dunque, analisi scientifica e storia a un parto, cioè scienza-storia e storia-scienza: ecco lo storicismo di Marx; che non è né quello di Vico, né quello di Hegel e tanto meno quello di Croce, come pur vorrebbero che fosse quei marxisti, i quali — non vedendo la storia nel Capitale — cinguettano solo sul 18 Brumaio!

Ma si osservi: analizzando il capitale nelle sue interne articolazioni, sviluppando dal capitale quel suo ramo che è, per es., la proprietà fondiaria moderna, noi comprendiamo al tempo stesso il passaggio storico dalla proprietà fondiaria feudale al capitalismo. Cioè: il passaggio dalla società feudale a quella borghese non lo colgo ragionando al di sopra di queste due società, bensì comprendo il nesso tra queste due specie solo analizzando i nessi interni alla specie più sviluppata. In altre parole, la mia analisi in tanto si apre alla comprensione della storia generale, in quanto sì interna nello studio della presente società, che è la società più sviluppata e complessa. Verifichiamo qui, in concreto, come il marxismo non sia prima una filosofia generale, una filosofia della storia, e, secondariamente, un’analisi del capitalismo; ma come esso sia, viceversa, una teoria che intanto si apre all’intelligenza del passato, in quanto — addentrandosi nell’analisi del capitalismo moderno — coglie quelle sue “differenze” estreme ed essenziali che illuminano di riflesso anche le altre società.

Non vi è una logica della stasi e un’altra del puro e indeterminato movimento, una logica della cosa e, poi, una logica delle relazioni tra le cose: come crede Engels quando scrive che nelle scienze naturali, per es., “prima di poter indagare i processi bisognava sottoporre a indagine le cose”; “prima che si potessero constatare i cambiamenti che si producono in una cosa qualunque bisognava incominciare a sapere che cosa era questa cosa” (Feuer., p. 53); onde — accertato “il nesso che esiste tra i processi della natura nei singoli campi” — si passerebbe poi a cogliere “il nesso che unisce i diversi campi tra di loro” cioè “il quadro sinottico” (p. 55), la panoramica generale. Bensì vi è una sola ed unica logica in virtù della quale unifichiamo razionalmente solo dividendo in pratica, e dividiamo in astratto solo unificando in concreto. Vale a dire: sintesi che ha a base un’analisi, deduzione in funzione dell’induzione.

Anche le astrazioni più “semplici” che stanno al vertice della moderna economia politica[25]  e che esprimono rapporti antichissimi e validi per tutte le forme di società, appaiono tuttavia praticamente vere — dice Marx — solo come categorie della più moderna società. Anche le categorie più astratte, pur essendo valide in virtù della loro astrattezza (generalità) per tutte le epoche, sono tuttavia astrazioni specifiche e determinate; astrazioni, cioè, che costituiscono il prodotto e il riflesso di determinate condizioni storiche[26] e che posseggono la loro piena validità solo per e all’interno di queste condizioni. Quindi, se le categorie più generali della società borghese hanno al tempo stesso valore anche per tutte le altre società, ciò non vuol dire che il loro aspetto specifico e quello generico siano da confondere. Infatti, vero è che la società borghese, essendo la più sviluppata e complessa organizzazione della produzione, esprime i suoi rapporti con categorie che consentono di capire anche la struttura e i rapporti di produzione di tutte le formazioni sociali passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita. Se non sorprende che l’anatomia dell’uomo sia la chiave per intendere l’anatomia delle scimmie, non può neppure sorprendere che l’economia borghese fornisca la chiave dell’economia passata. Ma ciò non va inteso — avverte ancora Marx — al modo degli economisti che cancellano tutte le differenze storiche e vedono in tutte le forme di società la società borghese. Perché, se si comprendono i tributi e le decime solo quando si conosce la rendita fondiaria, non è lecito identificare poi queste cose tra loro. La società borghese contiene certamente entro di sé il passato; ma, in quanto essa stessa è solo una forma dello sviluppo storico, nata in antitesi ad altre, i rapporti economici che hanno caratterizzato le società precedenti si rinvengono entro di lei solo in modo del tutto atrofizzato o anche travestito (come ad es. la proprietà comunale) e sempre, comunque, con un raggio d’azione limitato e circoscritto.

Quindi, anche se è vero che le categorie dell’economia borghese contengono una verità per tutte le altre società, ciò è da intendere, dice Marx, cum grano salis; tenendo, cioè, conto che esse possono contenere le caratteristiche di quelle società, ma sempre con una differenza essenziale. Giacché in tutte le società “vi è sempre una determinata produzione che decide del rango e della influenza di tutte le altre”; una produzione, che è come “una luce generale che si effonde su tutti gli altri colori modificandoli nella loro particolarità: come un’atmosfera che determina il peso specifico di tutto quanto essa avvolge.” Nel Medioevo, per es., se si eccettua quello in moneta, il capitale ha come tradizionale strumento produttivo il carattere di proprietà fondiaria. Nella società borghese, invece, accade il contrario: l’agricoltura diviene sempre più un puro e semplice ramo dell’industria ed è completamente dominata dal capitale. Lo stesso avviene anche per la rendita fondiaria. In tutte le società in cui domina la rendita fondiaria, è predominante ancora il rapporto con la natura; in quelle, invece, dove domina il capitale, prevale l’elemento creato dalla società, l’elemento storico.

Ora, in quanto noi comprendiamo il passato sempre alla luce delle categorie espresse dal presente e la rendita fondiaria, ad es., non può essere capita senza il capitale, mentre il capitale, al contrario, può essere compreso anche senza la rendita fondiaria — sarebbe cosa impratica ed erronea (untubar und falsch), dice Marx, che la scienza adoperasse le categorie nella successione in cui esse furono determinanti nel corso della storia; giacché il loro ordine di sequenza è deciso piuttosto dalla relazione che esse hanno l’una con l’altra nella moderna società borghese, e quest’ordine è esattamente l’inverso della loro successione naturale cosi come del loro sviluppo lungo il corso della storia. In questo caso, egli aggiunge, non si tratta del posto che i rapporti economici occupano storicamente nella successione delle diverse società e tanto meno della loro successione “nell’Idea,” come fantasticano Hegel e Proudhon, bensì della loro articolazione all’interno della moderna società borghese.

Ma, se il capitale che è la potenza economica dominante nella società borghese, deve costituire l’inizio e il termine della trattazione scientifica ed essere spiegato, quindi, prima della proprietà fondiaria, la scienza non deve poi dimenticare che il capitale è divenuto il “regolatore” della produzione solo nella moderna società borghese, e che nei sistemi economici precedenti esso esprimeva aspetti marginali e secondari della società. Applicare meccanicamente l’ordine e la connessione con cui le categorie si presentano nella società borghese alle altre società del passato, significa pertanto non solo avere una visione unilaterale e ingenuamente finalistica della storia, quasi che le fasi e le epoche precedenti rappresentino solo un gradino all’avvento dell’ultima formazione sociale; ma falsificare il passato, scorgendo in esso sempre e ovunque i tratti della società borghese. Una simile concezione del “cosiddetto sviluppo storico,” dice Marx, è stata finora comune a quasi tutte le epoche ad eccezione solo di quei rari periodi che, sotto il peso di determinate circostanze, sono stati capaci di criticare se stessi, cioè di avere coscienza della storicità dei propri ordinamenti e, quindi, del valore condizionato, non assoluto, delle categorie in cui quegli ordinamenti si sono espressi. Cosi la religione cristiana, per es., è stata in grado di fornire una obiettiva comprensione delle passate mitologie solo quando divenne in potenza (dynamei) capace di autocritica; e cosi l’economia borghese è giunta a capire il mondo feudale, quello antico e quello orientale solo quando è cominciata l’autocritica della società borghese.

NOTE


[1] Estratto da Il marxismo e Hegel di Lucio Colletti

[2] Seguendo le orme del maestro Galvano Della Volpe la riflessione filosofica di Colletti è fin dagli inizi impegnata alla costruzione di un materialismo su basi scientifiche e su una metodologia logica depurata da ogni contaminazione con la dialettica hegeliana. Ma non c'è soltanto la critica a Hegel, c'è anche la ripresa - a suo modo - di Lenin e del nesso fra politica, scienza e critica dell'ideologia a segnare la ricerca di Colletti. Il suo marxismo ruota attorno alla critica delle essenze metafisiche, delle costruzioni ideologiche, delle false categorie universali con cui si mascherano, nella società borghese, interessi parziali e storicamente determinati. A decidere della qualità teoretica del marxismo, in ultima istanza, è lo scontro tra scienza e ideologia. Per molti anni Colletti è convinto che tracciare un confine netto tra Marx e Hegel, tra il materialismo e la logica dialettica, sarebbe stato sufficiente a restituire un marxismo scientifico. Per riuscire in questa cernita meticolosa arriverà anche a distinguere la contraddizione logica - di matrice hegeliana - dall'opposizione reale, dai conflitti in carne e ossa tra le classi.

Cosa accadrà di tanto dirompente nel Colletti teorico tanto da cambiare la fisionomia del Colletti politico? «Si era troppo imbucato in questa direzione scientista: o il marxismo era una scienza esatta o non serviva a niente e andava gettato - risponde Mario Tronti - ma naturalmente il marxismo non corrisponde a questo quadro rigido. La teoria di Marx è, contemporaneamente, un'analisi della società capitalistica e una teoria della rivoluzione. Non si dà l'una senza l'altra, è una conoscenza delle condizioni che rendono possibile attaccare e rovesciare il capitalismo. Come volete che sia una scienza»?

Dopo tanti tentativi di conciliare l'inconciliabile, il marxismo con lo scientismo, spiega d’Arcais, «alla fine anche Marx dovette apparirgli come non scientifico, hegeliano, e la sua teoria una forma mascherata di finalismo che presuppone la riconciliazione futura tra individuo generico e individuo particolare. Anche in Marx, come in Hegel, ci sarebbe la fine della storia, soltanto spostata avanti nel tempo». A questo punto la svolta teorica e, a seguire, quella politica, è praticamente cosa fatta. L'antihegelismo atavico spingerà Colletti a rigettare il marxismo nel cestino delle teorie inutili. E se non è possibile la conoscenza delle leggi sociali, se non si dà scienza delle cose future, non resta che l'opzione del realismo politico, del pragmatismo, della spregiudicatezza, della Realpolitik e del dissolvimento di tutti i valori. Nel passaggio dal marxismo rivoluzionario al conservatorismo moderato ci sarebbe, quindi, una «continuità teoretica», per usare le parole di D'Arcais, «un pessimismo antropologico che lo portava ad essere un hobbesiano», un fautore dello Stato forte, del Leviatano capace di contenere e neutralizzare gli «spiriti animali» della società. L'uomo non doveva poi ispirare a Colletti grande fiducia se amava ripetere la frase: «Il mio gatto è migliore del migliore essere umano».

Tonino Bucci, Liberazione 6 ottobre 2004

[3]  Il Capitale, I, 1, Roma, 1951, p. 8

[4] K. M La questione ebraica, in Un Carteggio del 1843 e altri scritti giovanili, Roma, 1954, p. 56.

[5] Op. cit., pag. 57.

[6] Ivi, p. 74.

[7] K. MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Carteggio del ’43.... p. 96.

[8] Der junge Hegel, p. 715.

[9]OFG., pp. 260-1: “La mia Coscienza generale è soltanto l’aspetto teoretico di ciò di cui la reale comunità, l’essere sociale, è la vivente forma; mentre oggi giorno la coscienza generale è un’astrazione dalla vita reale e come tale le si contrappone nemica. Perciò anche l’attività della mia coscienza generale — come tale — è la esistenza teoretica di me come ente sociale (...). L’uomo, per quanto sia un individuo particolare — e propriamente la sua particolarità lo faccia individuo e reale ente comune individuale — è parimenti la totalità, l’ideale totalità, è. l’esistenza soggettiva della società pensata e sentita per sé, tanto che egli, in realtà, esiste sia in quanto intuizione e spirito reale dell’esistenza sociale, sia in quanto totalità di umane manifestazioni di vita. Pensare e essere sono, dunque, certamente distinti usa ad un tempo in unità l’un con l’altro,”

[10]  K. MARX -  Miseria della filosofia, cit., p. 56 e LENIN, Caratteristiche del romanticismo economico in Opere, II, p. 153

[11] Il Capitale, I, 1, pag 53

[12] Ivi, pp. 118—119.

[13]  K. M Randglossen zu A. Wagner, in Das Kapital, Berlin, 1951, vol. I, p. 846.

[14] ENGELS, Dialettica della natura, Roma, 1955, p. 233: “La forma di sviluppo della scienza, in quanto essa pensa, è l’ipotesi. Viene osservato un nuovo fatto, che rende impossibile l’interpretazione fino a quel momento data dei fatti appartenenti a quello stesso gruppo. Da questo momento in poi delle nuove interpretazioni — basate in un primo tempo solo su di un numero limitato di fatti e di osservazioni — diventano una necessità. Ulteriore materiale di osservazione epura queste ipotesi, scarta le une, corregge le altre, finché, all’ultimo, riesce a completare e a mettere a punto la legge.” E osservazioni assai acute sui limiti della sola induzione e sul nesso di induzione-deduzione a p. 220 sgg. “Induzione e deduzione sono necessariamente implicate l’una nell’altra proprio come sintesi e analisi. Invece di innalzare in cielo, unilateralmente l’una a danno dell’altra, bisogna cercare di usare ciascuna di esse al posto che le è proprio e ciò si può fare solo una volta che si abbia ben presente la loro reciproca applicazione, il loro mutuo completarsi.”

[15] E. ILENKOV, Dialettica di astratto e concreto nella conoscenza scientifica, trad. it. in “Critica economica,” giugno i955, p. 8

[16]Lettera di Marx a Engels del 24-8-’67 in Carteggio, V, p. 52.

[17] K. MARX, Storia delle teorie economiche, trad. di E. Conti, Torino, 1955, vol. II, p. 72 e 264.

[18] K. MARX, Introduzione critica economia politica, cit., p. 12.

[19] Miseria della filosofia, p. 90.

[20] Il Capitale, I, 1, p. 170

[21] Lettera di Marx a Engels del 2-4-1858 in Carteggio, III, p. 196 sgg.

[22] Cfr. DELLA VOLPE, op. cit,, p. alla nota 75 di grande importanza

[23] C. BERNARD Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Milano, 1955, I, p. 50: “Sperimentando senza idee preconcette si va a caso.” “Lo sperimentatore è colui che mediante una interpretazione più o meno probabile ma anticipata dei fenomeni osservati, impianta un esperimento in modo tale che, secondo la logica delle sue previsioni, dia un risultato che possa servire di controllo all’ipotesi o all’idea preconcetta (...). È necessario sperimentare con un’idea preconcetta. La mente dello sperimentatore deve essere attiva, deve cioè interrogare la natura e pone le domande in tutti i sensi, secondo le diverse ipotesi che si possono fare” (pp. 37-8). D’altra parte, “non appena appare il risultato dell’esperimento, lo sperimentatore si trova di fronte ad una vera e propria osservazione provocata che egli deve accertare come qualunque altra osservazione, senza più alcuna idea preconcetta. Lo sperimentatore deve allora scomparire o piuttosto deve trasformarsi istantaneamente in osservatore, e solo dopo aver accertato i risultati dell’esperimento proprio come in un’osservazione ordinaria, la sua mente interverrà di nuovo per ragionare, confrontare e giudicare se l’ipotesi è stata confermata o infirmata dai dati sperimentali.” “La mente dello scienziato si trova posta sempre fra due osservazioni: una da cui comincia il ragionamento, l’altra che lo conclude” (40). E si veda a p. 73 la polemica contro il positivismo e contro la repugnanza baconiana per le ipotesi.

BELA FOGARASI, Logik, Berlin, 1955. opera estremamente contraddittoria ma non priva anche di spunti interessanti, e che ha comunque il merito di essere uno dei pochissimi testi marxisti in cui si tocca il problema dell’ipotesi scientifica, Vedasi anche qui a pp. 309-13 la polemica contro la svalutazione positivistica dell’ipotesi (Newton, Comte, Ostwald ecc.) nonché l’osservazione che, in tutta la sua Logica, Hegel non dice parola circa l’ipotesi; il che, nota Fogarasi, è da spiegare col fatto che “sulla base dell’idealismo il significato logico-scientifico dell’ipotesi non può essere riconosciuto e, anzi, deve essere addirittura negato” (p 310).

[24] SCHUMPETER, Capitalismo socialismo e democrazia, Milano, 1955, p. 40. BELA FOGARASI, Logik, cit., p. 284: “... duplice analisi, una induttiva e una deduttiva, insieme e reciprocamente complementari — questo il metodo che Marx adopera nel Capitale.” E poco oltre: “Nel complesso il metodo di Marx poggia sulla connessione e sull’unità più stretta di deduzione e induzione. Esteriormente si ha l’impressione che si alternino capitoli a carattere deduttivo e capitoli che elaborano materiale empirico-induttivo (...). Nella ricerca tuttavia ogni singola proposizione è fondata con il pari concorso sia dell’elemento induttivo che di quello deduttivo.”

[25] Da qui in poi esponiamo il testo dell’introduzione alla critica dell’economia politica, cit., pp. 44-51.

[26] E si ricordi, per es., come Marx spiega il fatto che per Aristotele (il quale pure arrivò a decifrare la “forma di equivalente”) fosse impossibile salire al concetto scientifico di valore-lavoro. “Aristotele non poteva ricavare dalla forma di valore stessa il fatto che nella forma dei valori di merci tutti i lavori sono espressi come lavoro umano eguale e quindi come egualmente valevoli, perché la società greca poggiava sul lavoro servile e quindi aveva come base naturale la diseguaglianza degli uomini e delle loro forze-lavoro. L’arcano dell’espressione di valore, l’eguaglianza e la validità eguale di tutti i lavori, perché e in quanto sono lavoro umano in genere, può essere decifrato soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare. Ma ciò è possibile soltanto in una società nella quale la forma di merce sia la forma generale del prodotto del lavoro, e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini come possessori di merci sia il rapporto sociale dominante. Il genio di Aristotele risplende proprio nel fatto che egli scopre un rapporto d’eguaglianza nell’espressione di valore delle merci. Soltanto il limite storico della società entro la quale visse gli impedisce di scoprire in che cosa insomma consista ‘in verità questo rapporto di eguaglianza” (Capitale, I, 1, p. 73) Inversamente, l’astrazione “lavoro in generale” cessa di essere “soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori” e diviene per la prima volta un concetto scientifico, quando “l’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà il mezzo per creare in generale la ricchezza, ed esso ha cessato di concrescere con l’individuo come sua destinazione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, l’astrazione della categoria ‘lavoro,’ il ‘lavoro in generale,’ il lavoro sans phrase che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera” (Introduzione alla critica dell’economia politica, cit., p. 44).