VALORI E PREZZI: UN “NON PROBLEMA”
O UNA CONTRADDIZIONE?
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Luigi Cavallaro

1. Nel presentare i tre contributi dedicati al “non problema della trasformazione dei valori in prezzi” recentemente apparsi su questa rivista[2], la “Premessa” redazionale ricordava opportunamente che il pensiero economico marxiano si connota per la teoria del valore-lavoro, la teoria delle classi e la dialettica. Delle tre, l’ultima è quella veramente indispensabile: Marx senza dialettica è come Cartesio senza cogito.

Disgraziatamente, la dialettica è difficile, perché urta con il buon senso. Dire che A è identico ad A e contemporaneamente ne è diverso suona come una stupidaggine. Eppure, di simili “stupidaggini” facciamo quotidianamente esperienza, financo sul nostro corpo: sempre uguale, perché è il nostro e non quello di un altro, e sempre diverso, perché la nascita e la morte di migliaia di cellule epiteliali, nervose ecc. lo modificano di continuo, determinandone il passaggio (la trasformazione) da uno stato all’altro (infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia, morte).

Il fatto è che da quando gli uomini si volsero a conoscere il mondo che li circondava - un mondo perennemente in movimento, in cui tutto trapassa da uno stato all’altro (e difatti panta rei, tutto scorre, diceva il vecchio Eraclito) - si resero conto che, per mettere un po’ d’ordine nella loro esperienza, dovevano trattare una cosa per volta, separandola dal contesto entro cui si trovava e analizzandola per se stessa. Le cose e le loro immagini riflesse nel pensiero divennero così oggetti isolati d’indagine, da studiarsi separatamente l’uno dall’altro e, proprio per ciò, il discorso della scienza moderna divenne - come soleva dire Engels - “sì, sì; no, no”. Una cosa, si disse, esiste o non esiste; positivo e negativo si escludono a vicenda, causa ed effetto pure. Il mondo esterno fu così indagato attraverso una miriade di discipline specialistiche, ciascuna delle quali ritagliava un pezzetto del “reale” e lo sezionava, scomponeva e analizzava fino a formulare “leggi” in grado di prevedere quale sarebbe stato il comportamento delle variabili osservate entro certe condizioni e ceteris paribus; contemporaneamente, i principi logici comuni ai diversi campi di analisi - principio d’identitità, di non contraddizione e del terzo escluso - vennero innalzati al rango di “leggi del pensiero” e, insieme alla matematica, si costituirono in campo del sapere autonomo rispetto alla fisica e alle altre scienze naturali, ma con la pretesa di indicarne il “metodo”.

La reazione ad un siffatto stato di cose si manifestò nella Germania del XIX secolo ed ebbe la sua espressione filosofica più compiuta nella dottrina hegeliana. Se si vuole sintetizzare in poche battute la “rivoluzione filosofica” di Hegel, si può dire che essa indicò che il mondo naturale, storico e spirituale erano da considerare come un processo, in cui le cose e le loro immagini concettuali andavano considerate non di per se stesse, ma nel loro concatenamento, nel loro movimento, nel loro sorgere e tramontare. Attraverso la rifondazione della dialettica, Hegel chiarì che i due poli di ciascuna opposizione, il positivo e il negativo, erano tanto contrapposti quanto inseparabili l’uno dall’altro, come del resto causa ed effetto - concetti validi se riferiti al caso singolo ma dissolventisi nella visione generale dell’azione e reazione reciproca che si manifesta allorché si considera la connessione di quel fatto con la totalità del mondo -, e cercò di spiegare quale fosse il “nesso intimo” di questo continuo avvicendarsi di cambiamenti quantitativi che diventano qualitativi. Il fatto che - per dirla ancora con Engels - il suo tentativo si sia rivelato come “un colossale aborto” nulla toglie al merito di aver posto il problema di aprire la conoscenza a quella “considerazione dialettica della totalità” in cui Lukács avrebbe identificato l’essenza del marxismo.

Ma anche riletta attraverso le categorie del Capitale, la dialettica rimase un osso troppo duro: se si eccettuano Lenin, Lukács e qualcun altro (come, qui da noi, Labriola e Gramsci), ben pochi dopo Marx e Engels ebbero l’ardire di cimentarsi con Hegel, che pure Marx aveva diffidato dal trattare come un “cane morto”. E così - come osservò Gramsci - la “filosofia della praxis” si trovò presto scissa in due tronconi: una teoria unitaria della storia, della politica e dell’economia, a mo’ di sociologia generale costruita col metodo delle scienze naturali (“sì sì, no no”), e una nuova ‘filosofia’, che prese il nome di materialismo dialettico. Il fatto che Marx avesse chiaramente indicato nella dialettica la forma d’esposizione della critica dell’economia politica, vale a dire della dottrina delle contraddizioni della società capitalistico-borghese, fu rapidamente dimenticato.

La secolare discussione sulla trasformazione dei valori in prezzi illustra l’accaduto come meglio non si potrebbe. Il significato del carattere dialettico del nesso valori-prezzi è stato pressoché ignorato dalla stragrande maggioranza degli economisti che vi si sono cimentati, sicché a Marx sono state rivolte le critiche più improbabili e infondate. D’altra parte, anche coloro che hanno fatto mostra di riconoscere l’importanza di Hegel non sono andati al di là di un omaggio formale al metodo dialettico, rimanendo per ciò stesso prigionieri di quella separazione tra economia e filosofia aspramente censurata da Gramsci. E così, lasciata alle cure di economisti senza dialettica (e, bisognerebbe aggiungere, di filosofi senza cognizioni di economia), la teoria marxiana del valore ha finito col non poter essere difesa dagli attacchi d’incoerenza che dal campo avversario le venivano mossi con asprezza talvolta irritante.

Sarebbe quindi auspicabile che la discussione recentemente riapertasi nella sinistra italiana a partire dalla rilettura che della teoria marxiana del valore è stata recentemente presentata da Bertinotti e Gianni (2000), sulla scorta di vari lavori di Riccardo Bellofiore, tenga presenti i vincoli (e le potenzialità) di un approccio dialettico al problema della trasformazione. Non mi sembra, però, che sia questa la direzione in cui si muovono i contributi che ricordavo in apertura, la cui deliberata scelta di negare che un problema sussista sembra discendere proprio da quell’orrore per la ‘contraddizione’ che - sia detto senza polemica - appartiene a quel (sorpassato) metodo delle scienze naturali contro cui Hegel e Marx polemizzarono duramente un secolo e mezzo fa.

2. Provo allora a ricostruire i termini della questione, almeno per come io li vedo. Obiettivo del Capitale è quello di esporre il “mutamento formale” che il processo di ricambio organico tra uomo e natura subisce quando domina il modo di produzione capitalistico. Marx, com’è noto, ne individua l’essenza nella circostanza per cui “il loro proprio [degli uomini] movimento sociale assume la forma d’un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo” (Marx 1989, I, p. 107), e tutta la sua analisi è volta a concettualizzare questa “trasformazione” ai vari livelli in cui opera (segnalo i principali: trasformazione del lavoro in valore; del valore in valore di scambio; del valore di scambio in denaro; del denaro in capitale; dei valori delle merci in prezzi di produzione; del pluslavoro in plusvalore e di quest’ultimo in profitto, interesse e rendita fondiaria; dei rapporti di produzione in rapporti di distribuzione).

Ora, limitando il discorso al nesso valori-prezzi, il nocciolo dell’analisi marxiana è costituito dal principio per cui il “prezzo” delle merci, vale a dire l’espressione monetaria del loro valore di scambio, è diverso dal loro “valore”, espresso in termini di lavoro contenuto. Questa diversità, per Marx, è frutto di un rapporto contraddittorio, ascrivibile al fatto che nel mercato capitalistico coesistono principî diversi: quello secondo cui le merci si scambiano secondo il tempo di lavoro socialmente necessario alla loro produzione e l’altro, con esso confliggente, dell’unicità del saggio di profitto in un mercato concorrenziale. È questo il motivo per cui Marx - criticando Ricardo - nega che, sulla base del modo di produzione capitalistico, la “legge del valore” si affermi nella sua forma “semplice”, in base alla quale il valore di una merce dipenderebbe solo dal tempo di lavoro in essa contenuto: “Se avesse approfondito di più la cosa, - si legge nelle Teorie sul plusvalore -, Ricardo avrebbe trovato che la semplice esistenza di un saggio generale di profitto [...] conduce a prezzi di costo differenti dai valori, anche se si presuppone che il salario resti costante, quindi una differenza del tutto indipendente dall’aumento o dalla diminuzione del salario e una nuova determinazione formale” (Marx 1993, II, pp. 179-180).

La necessità dell’esposizione dialettica, dunque, sorge in dipendenza della scoperta che le aporie della teoria ricardiana del valore non sono il frutto di errori logici (come invece riterrà la teoria neoclassica), ma espressione di contraddizioni reali, che - pur non implicando (secondo Marx) una “falsificazione” della legge del valore - costringono il teorico a riformulare il nesso che lega reciprocamente valore e prezzo, tenendo presente che il prezzo è sempre diverso ed è sempre inferiore o superiore al valore, livellandosi ad esso “attraverso le sue oscillazioni costanti”, ossia “attraverso una continua differenziazione (Hegel direbbe: non mediante un’identità astratta, ma mediante una costante negazione della negazione, ossia di se stesso come negazione del valore reale)” (Marx 1978, I, p. 71).

Culmine di quest’analisi è la teoria dei prezzi di produzione. Data una pluralità di produttori indipendenti, osserva Marx, la determinazione del tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di ciascuna merce avviene sulla base della loro reciproca concorrenza. Più in particolare, posto che il capitale esiste sempre come “molteplicità di capitali, e perciò la sua autodeterminazione si presenta come loro azione e reazione reciproca” (Marx 1978, II, p. 17), tale azione e reazione reciproca nell’ambito della medesima sfera di produzione determina il valore della merce mediante il tempo di lavoro richiestovi in media, e quindi la creazione del valore di mercato; nell’ambito delle diverse sfere di produzione, invece, essa crea lo stesso saggio generale di profitto mediante una perequazione dei diversi valori di mercato a prezzi di produzione diversi dai valori reali di mercato (Marx 1993, II, pp. 211 sgg; Marx 1989, III, Sezioni I e II).

In questo senso, l’esposizione dialettica della genesi del prezzo di produzione (rinvio sul punto a Cavallaro 2000, pp. 32 sgg.) si giustifica in relazione al processo reale in base al quale si perviene alla determinazione del tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione (capitalistica) delle merci; detto altrimenti, concettualizza la “trasformazione” che la legge del valore subisce quando il processo produttivo assume forma capitalistica: il valore di scambio si nega nel valore e quest’ultimo, nella sua semplice determinazione di tempo di lavoro socialmente necessario, si nega nel prezzo di produzione. Ma se ciò è vero, ne discende che, sulla base del modo di produzione capitalistico, il tempo di lavoro sociale si esprime solo per mezzo dei prezzi: ed è quanto Marx puntualmente annota quando scrive che “il prezzo delle merci è costantemente superiore o inferiore al loro valore, e lo stesso valore delle merci esiste soltanto negli alti e bassi prezzi delle merci” (Marx 1978, I, p. 72).

3. È precisamente questo, a mio avviso, il problema (rectius, la contraddizione) che i citati studi di Carchedi, Freeman e Kliman eludono. Nonostante si conceda (Freeman 2001, p. 91) che il problema della trasformazione si origina dal fatto che, a causa della diversità di composizione organica del capitale nei diversi settori della produzione, si deve determinare il saggio del profitto come rapporto tra il plusvalore totale e la somma di capitale costante e capitale variabile e, una volta dato quest’ultimo, provvedere a rettificare i prezzi dell’output (che diventano prezzi di produzione), essi ritengono errato il procedimento di trasformare in prezzi di produzione anche il valore degli input (nonostante Marx abbia dato ripetuti suggerimenti in tal senso: cfr. ad es. Marx 1989, III, pp. 200, 205 sg., 253) e giustificano la divergenza tra i due rapporti di scambio con la considerazione per cui il valore di scambio dei mezzi di produzione acquistati dal capitalista al tempo t1 non sarebbe lo stesso di quello dei mezzi di produzione venduti al tempo t2, a causa dell’aumento della produttività del lavoro (cfr. Carchedi 2001, p. 99; Kliman 2001, p. 103).

Ora, diamo pure per scontata la possibilità che il valore di scambio della merce a possa essere diverso al tempo t1 e al tempo t2. La questione centrale, in effetti, è un’altra: può questo valore di scambio esprimersi - com’è implicito nello schema proposto da Carchedi (2001, pp. 96-97) - in valori, cioè in ore di lavoro? Data una produzione capitalistica, possono cioè supporsi “valori” al tempo t1 e ‘prezzi’ al tempo t2?

La risposta a questa domanda riporta alla polemica che, tra il 1847 ed il 1859, Marx conduce con i socialisti francesi e inglesi e della quale nel Capitale non vi è che una lontana eco. Com’è noto, costoro sostenevano che tutti i mali della produzione capitalistica nascevano dal “privilegio” di cui l’oro e l’argento, in quanto materializzazioni del denaro, godevano nella circolazione delle merci e, pur non proponendo un ritorno al baratto, ritenevano possibile una “detronizzazione” dei metalli nobili dal loro ruolo di equivalente generale, da compiersi o in modo che essi rappresentassero direttamente il tempo di lavoro in essi incorporato (ad es., un’oncia d’oro = x ore di tempo di lavoro) ovvero sostituendo al denaro aureo una cedola cartacea rappresentativa di una data quantità di tempo di lavoro, immediatamente scambiabile con le altre merci in ragione del tempo di lavoro in esse contenuto.

A queste tesi, Marx obietta che il lavoro umano, sulla base della produzione privata e indipendente, non ha un carattere immediatamente sociale, non è cioè idoneo a soddisfare i bisogni di chi lo pone in essere e quelli di chi ne riceve l’effetto utile in cui si esso concreta: esso acquista tale carattere soltanto mediante lo scambio del suo prodotto con un prodotto che valga come equivalente generale, vale a dire con un prodotto tale che il lavoro in esso contenuto possieda il significato di lavoro generalmente sociale. In altre parole, il (prodotto del) lavoro del singolo non possiede di per sé la caratteristica di essere (prodotto del) lavoro sociale, ma deve porsi come tale mediante il confronto e la comparazione con altri (prodotti di) lavori singoli, comparazione che, in ultima analisi, viene realizzata mediante il confronto tra il prodotto del lavoro singolo e un equivalente generale che rappresenta lavoro umano in genere. Questo prodotto è il denaro e se i metalli nobili hanno nel tempo assunto la funzione di rappresentare tale prodotto lo si deve ad alcune loro peculiarità fisiche (frazionabilità, durevolezza ecc.), che li hanno fatti preferire al bestiame o alle conchiglie.

Quel che è rilevante ai nostri fini è che, in tal modo, il tempo di lavoro socialmente necessario, che del valore è misura, non può che porsi come media dei tempi di lavoro dei singoli produttori e, per di più, media casuale e accidentale, in quanto frutto della molteplicità degli scambi privati intersecantisi l’un l’altro. Per contro, obietta Marx a Proudhon, “se si suppone che tutti i membri della società siano lavoratori immediati, lo scambio di quantità eguali di tempo di lavoro è possibile solo alla condizione che sia stato convenuto in anticipo il numero delle ore che sarà necessario impiegare nella produzione materiale. Ma una simile convenzione esclude lo scambio individuale” (Marx 1986, p. 42).

Il valore della merce, insomma, non soltanto non può manifestarsi se non nella forma del valore di scambio, ma per giunta anche in questa sua forma non può mai essere eguale ad un determinato “quantum” di ore di lavoro. Per potersi avere un’identità immediata, occorrerebbe presupporre in anticipo il numero delle ore da impiegare nella produzione materiale, ma ciò equivarrebbe a presupporre una produzione non più privata, bensì sociale, o - se si preferisce - non più una divisione del lavoro, ma un’organizzazione del lavoro, che avrebbe come conseguenza l’immediata partecipazione del singolo al consumo (cfr. Marx 1978, I, p. 117; Marx 1990, pp. 14 sg.).

4. Sta qui, a ben vedere, la ragione profonda dell’insistenza con cui Marx raccomanda di procedere alla rettifica dei valori di scambio degli input, sostituendo anche lì prezzi a valori. E sta qui il motivo per cui, dopo aver spiegato come il valore di scambio si neghi nel valore e quest’ultimo si neghi nel prezzo di produzione, Marx dialetticamente conclude che questa “negazione della negazione” farebbe comunque salva la “legge del valore”, dal momento che metterebbe capo all’unità del termine iniziale e dell’opposto suo contraddittorio nell’identità per cui “nella società la somma dei prezzi di produzione delle merci prodotte è pari alla somma dei valori di esse” (Marx 1989, III, p. 200): se le cose stessero effettivamente in questi termini, potrebbe dirsi, in effetti, che l’identità tra la somma dei valori e la somma dei prezzi è una vera e propria “identità dialettica”, giacché non sarebbe un’identità semplice ed immediata, ma si porrebbe - hegelianamente - come “unità dell’identità colla diversità” (Hegel 1996, p. 460).

Sennonché, la cosa non è così facile. Un secolo di discussioni ha mostrato che, una volta che si sia proceduto alla rettifica dei valori di scambio degli input, equiparandoli ai prezzi di produzione, il saggio del profitto non può essere determinato se non nella forma di un rapporto tra i prezzi. E siccome per conoscere questi ultimi occorrerebbe già aver determinato il saggio del profitto, l’unico modo di procedere sembra quello di calcolare contemporaneamente prezzi e saggio del profitto mediante un sistema di equazioni simultanee (come in Sraffa 1960, cap. II). Ma una volta che si siano così calcolati i prezzi di produzione, tutte le identità ipotizzate da Marx non reggono più: in particolare, non valgono né l’identità prezzi totali-valori totali, né quella profitti totali-plusvalore totale (cfr., ad es., Steedman 1980, capp. III e IV). E se l’identità dialettica tra somma dei valori e somma dei prezzi non può essere dimostrata, ne viene, ovviamente, l’impossibilità di considerare “posta” dal movimento delle categorie (cioè dal processo complessivo della produzione capitalistica) l’identità valore = lavoro, “presupposta” da Marx all’inizio dell’analisi, e non si può più ricondurre l’origine del sovrappiù ad un pluslavoro, dunque ad uno sfruttamento.

Questa essendo al momento la situazione, mi suscitano non poche perplessità le polemiche di Kliman (2001, pp. 102 sgg.) contro il “simultaneismo”, vale a dire contro il procedimento di determinazione simultanea dei prezzi e del saggio del profitto: quel procedimento è figlio della constatazione banale di cui si diceva più sopra e, se si vuole criticarlo, bisogna farlo tenendo presenti entrambi i poli della contraddizione cui mena la teoria marxiana del valore. Viceversa, spiegando la differenza tra valori e prezzi con la variazione della produttività del lavoro tra il tempo t1 e il tempo t2 si dimentica che, sulla base del modo di produzione capitalistico, il valore delle merci “esiste soltanto negli alti e bassi prezzi delle merci”; la variazione della produttività del lavoro potrebbe, se del caso, spiegare la variazione del prezzo di produzione tra il tempo t1 e il tempo t2, non già la trasformazione della forma del valore di scambio da valore in prezzo.

Ragioni di spazio mi impediscono di affrontare convenientemente il tema del rapporto fra Marx e l’equilibrio economico. Mi limito solo a rilevare che, nell’impostazione di Carchedi-Freeman-Kliman, un equilibrio è ovviamente impossibile (si tratta, anzi, di un punto che essi rivendicano con forza) e non capisco come un simile risultato possa conciliarsi con la trattazione marxiana della riproduzione del capitale (cfr. Marx 1989, II, capp. XX-XXI). Il che, naturalmente, non equivale a negare che le condizioni dell’equilibrio sono così complesse e complessamente influenzantisi che l’equilibrio capitalistico non può che essere “un caso”, quanto piuttosto a riconoscere che è precisamente questa “possibilità”, questo “caso”, a fare del capitalismo un modo di produzione che segna un’intera epoca storica e non un capriccio della storia. Anche criticandolo, dovremmo sempre ricordarcene.

BIBLIOGRAFIA

Bertinotti F., Gianni A. 2000, Le idee che non muoiono, Milano, Ponte alle Grazie.

Carchedi G. 2001, Il problema inesistente: la trasformazione dei valori in prezzi in parole semplici, “Proteo”, n. 2, pp. 96-99.

Cavallaro L. 2000, Napoleoni e la trasformazione dei valori in prezzi, “Critica marxista”, n. 5, pp. 27-40.

Freeman A. 2001, Valore e Marx: perché sono importanti, “Proteo”, n. 2, pp. 90-95.

Hegel G.W.F. 1996, Scienza della logica, 2 voll., Roma-Bari, Laterza.

Kliman A. 2001, Se è corretto, non correggetelo, “Proteo”, n. 2, pp. 100-107.

Marx K. 1978, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia.

- 1986, Miseria della filosofia, Roma, Editori Riuniti.

- 1989, Il capitale. Critica dell’economia politica, 3 voll., Roma, Editori Riuniti.

- 1990, Critica al programma di Gotha, Roma, Editori Riuniti.

- 1993, Storia dell’economia politica. Teorie sul plusvalore, 3 voll., Roma, Editori Riuniti.

Sraffa P. 1960, Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica, Torino, Einaudi.

Steedman I. 1980, Marx dopo Sraffa, Roma, Editori Riuniti.

NOTE


[1] Estratto dalla rivista PROTEO n 3 anno 2001 versione on line.

Rivista quadrimestrale a carattere scientifico di analisi delle dinamiche economico-produttive e di politiche del lavoro, curata dal Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES-PROTEO) e dalla Federazione Nazionale delle Rappresentanze Sindacali di Base (RdB).

Il Direttore Scientifico della rivista è il prof. L. Vasapollo; il Comitato Editoriale e di Programmazione Scientifica di PROTEO è composto da molti professori universitari di rilevanza internazionale (italiani, spagnoli, messicani, brasiliani, statunitensi, ecc.) tra i quali A. Mazzone, R. Antunes, J. Arriola, A. Bianchi, R. Braga, G. Carchedi, M. Costa Lima, V. Giacchè, D. Guerrero, J. Halevi, H. Jaffe, R. Marquez, R. Martufi, J. Milios, J.Petras, A. Valle.

PROTEO è distribuito da Jaca Book nelle migliori librerie Italiane.

[2] PROTEO n° 2 2001: cfr. Freeman; Carchedi; Kliman.