RIVOLUZIONE
TEORICA
E RIFORMISMO PRATICO IN POPPER
Fausto Boni
IV.
RAZIONALISMO CRITICO, DIALETTICA SPECULATIVA E MATERIALISMO STORICO
A CONFRONTO
“Per chi nega la causalità ogni legge naturale è una
ipotesi…Quale squallore di pensiero, starsene fermi a ciò!”
F. Engels, Dialettica della natura, Roma, Edizioni
Rinascita, 1955, p. 225.
IV.0.
INTRODUZIONE
La riflessione popperiana
fin qui analizzata evidenzia, abbastanza chiaramente a nostro parere,
l’agitarsi al suo interno di un sostanziale dualismo tra corpo e prodotti
della mente. Questo sottolinea le antinomie, distinguendole senza
risolverle. Le forme che assumono le antinomie nella Weltanschauung di
Popper sono molteplici.
La principale divide quello che Popper chiama il
problema dell’induzione, ovvero la questione ontologica risolta grazie
alla fondazione metafisica del reale, dal problema della demarcazione,
ovvero la questione logica risolta tramite una metodologia critica.
Dalla antinomia principale ne discendono altre:
l’universale logico opposto al particolare ontologico, la natura
dissociata dalla società, l’oggetto distinto dal soggetto, i fatti contro
le decisioni, la storia in antitesi alla scienza, lo Stato separato
dall’individuo ecc.
Popper mutua questa concezione dualistica dalla
riflessione di Kant e Hume opponendo allo scetticismo humiano la soluzione
metafisica kantiana, che ammette l’esistenza della cosa in sé anche se
dichiara l’impossibilità di conoscerla, e all’apriorismo kantiano la
metodologia critica, che tramite decisione interpersonale della comunità
scientifica sceglie gli asserti alla base della conoscenza e li eleva alla
condizione di fatti.
Se questa analisi del lavoro di Popper corrisponde a
realtà, allora risulta assolutamente ovvio il motivo per cui il filosofo
viennese si scaglia contro la teoria marxiana. Marx infatti lega la
propria teoria ad un monismo materialistico che rifiuta qualsiasi tipo di
dualismo (le idee non hanno un’esistenza separata dal corpo, esse non sono
che funzioni del cervello, le immagini di un mondo esterno) ed il cui
fondamento ontologico è la concezione di tutto ciò che esiste come
esistente nel tempo. Egli rintraccia nelle cose una storicizzazione
radicale della conoscenza e dei suoi oggetti che impedisce al suo
materialismo di cristallizzarsi in una metafisica dell’oggetto. Questa
storicizzazione non si risolve nello scacco di ogni conoscenza
dissolvendosi nel relativismo assoluto corollario di un pragmatismo della
volontà (vedi Popper) solamente perché si lega a costanti categorie di
relazione (identità/non identità, universalità/individualità ecc.) che
costruiscono la storicità radicale come espressione di una dialettica
universale, ontologicamente fondata[1].
L’eclettismo popperiano, come congrua rappresentazione
ideologica del pressante interventismo degli Stati sull’economia dopo la
crisi del ’29, per affermare il proprio diritto alla sopravvivenza non può
che scontrarsi con il monismo marxiano.
Popper in questo scontro agisce nella stessa maniera
in cui, come abbiamo visto, ha agito nei confronti dello storicismo:
costruisce un tipo ideale di marxismo, totalmente privo di contenuti
reali, e facilmente lo confuta. Questa ultima parte del nostro lavoro
vuole essere un tentativo il più possibile sistematico di rimettere sui
piedi il marxismo e la dialettica speculativa hegeliana messi sulla testa
da Popper.
IV.1.
IL PECCATO ORIGINALE: L’ESSENZIALISMO
Popper, come abbiamo già
avuto modo di rilevare nella prima parte di questa tesi, ne: “La società
aperta e i suoi nemici” accusa Marx di aver mutuato da Platone, tramite
Hegel, una gnoseologia essenzialista secondo la quale, per cogliere
appieno la profondità del reale senza fermarsi al mero fenomeno,
occorrerebbe scoprire la vera natura delle cose o essenza con l’ausilio di
qualche forma di intuizione mistica che sappia discernere tra realtà ed
apparenza, tra mondo materiale e mondo ideale. A questo essenzialismo
metodologico Popper oppone in quel lavoro il nominalismo metodologico.
“Invece di proporsi di scoprire che cosa una cosa
realmente è e di definirne la vera natura, il nominalismo metodologico si
propone di descrivere come una cosa si comporta in varie circostanze e,
soprattutto, se ci sono regolarità nel suo comportamento.”[2]
In seguito Popper, resosi conto probabilmente che il
nominalismo, sulla base “dell’esse est percipi” di Berkeley, fonda un
monismo idealista che elimina il dualismo spirito/corpo e pone un
soggettivismo gnoseologico puro sfociante nel solipsismo della negazione
della cosa in sé, modifica la propria concezione. Egli infatti arriva a
consentire una forma limitata di essenzialismo: “essenzialismo
modificato”, che in alternativa alla conoscenza soggettiva dello
strumentalismo neopositivista mantiene una tensione rilevante verso
l’ideale regolativo di una descrizione vera del mondo per mezzo di severi
controlli critici atti ad eliminare le teorie falsificate[3].
Questo cambiamento di prospettiva non modifica
tuttavia l’opinione di Popper riguardo il presunto essenzialismo
neoplatonico di Marx. Il filosofo viennese è convinto che Marx, come tutti
i materialisti, ammetta l’esistenza di una mistica verità ultima materiale
al di là del processo teorico autonomo che definisce l’oggettività
razionale del mondo3 dei prodotti di pensiero umani. I materialisti, per
lui, credono che alle spalle dei fenomeni razionali ci sia la cosa in sé
che, lungi dall’essere inconoscibile, come vorrebbe Popper sulle orme di
Kant, diviene un feticcio, un idolo, un assoluto, un doppio della
religione. Popper esorta i materialisti in ultima analisi, a rinunciare a
cercare la causa della conoscenza al di là degli uomini e della loro
capacità razionale, unico fondamento delle scienze naturali e umane.
Engels, nella sua opera dedicata a Feuerbach, a
proposito delle relazioni tra pensiero ed essere afferma che i filosofi
possono essere schierati schematicamente in due campi contrapposti. Da una
parte vi sono coloro che asseriscono la primazia dello spirito sulla
natura: gli idealisti, e dall’altra vi sono i materialisti, coloro che
sono convinti dell’esatto opposto[4].
Sicuramente se Engels avesse potuto analizzare il retaggio logicista
dell’opera di Popper non avrebbe esitato ad associarlo all’idealismo di
Duhring.
“In lui si tratta, quindi, di principi, di
principi formali, dedotti dal pensiero e non dal mondo esterno, i quali
devono essere applicati alla natura e al regno dell’uomo, e ai quali
quindi, devono conformarsi la natura e l’uomo.”[5]
Ma da dove prende il
pensiero questi principi? Avrebbe domandato Engels a Popper. Il filosofo
viennese, confermando l’idealismo di fondo della sua filosofia,
candidamente avrebbe risposto: dall’uomo inizialmente, ma da se stesso in
ultima istanza!
Vediamo allora come
Popper, pur non giungendo al solipsismo empirista, non considera che i
principi, le idee, sono solo:
“…forme dell’essere, del mondo esterno, e
queste forme il pensiero non può mai crearle né dedurle da se stesso, ma
precisamente solo dal mondo esterno. Ma con ciò tutto il rapporto si
inverte: i principi non sono il punto di partenza dell’indagine, ma invece
il suo risultato finale; non vengono applicati alla natura e alla storia
dell’uomo, ma invece vengono astratti da esse; non già la natura e il
regno dell’uomo si conformano ai principi, ma i principi, in tanto sono
giusti, in quanto si accordano con la natura e con la storia.”[6]
Porre il mondo reale come
preesistente alle nostre rappresentazioni tuttavia non risolve il problema
ontologico. Se non si vuole cadere nella trappola metafisica in cui cade
Popper occorre che le nostre rappresentazioni ci restituiscano un’immagine
esatta della realtà, che ci consentano di conoscerla effettivamente, di
conoscerne il contenuto, l’essenza. Ma come è possibile arrivare a questo?
Attraverso la pratica rispondono i marxisti.
È la scienza normale kuhniana ad esempio, attraverso
la soluzione dei suoi rompicapo tecnico-teorici, che ci consente di
conoscere effettivamente la realtà. Possiamo provare l’esattezza della
nostra concezione di un fenomeno solo riproducendolo, rendendolo utile per
i nostri fini. La cosa in sé cessa di essere inafferrabile ed
inconoscibile, cessa di essere la mistica essenza popperiana solamente
quando essa, attraverso la pratica, diviene una cosa per noi.
Popper separa la “base empirica” e le cose
rappresentate dalla “base empirica”, la cosa per noi e la cosa in sé. Egli
ammettendo l’esistenza di quest’ultima ma ponendola solo come ideale
regolativo del progresso della conoscenza, la dichiara conoscibile
unicamente idealmente. In prospettiva questo permette di istillare una
variabile storico-progressiva nella staticità logicista del neopositivismo
ma non consente di avere un possesso cognitivo sicuro e certo.
Il materialismo storico è
invece in grado di raggiungere questo possesso attraverso tre conclusioni
gnoseologiche importanti.
1.
Le cose
esistono al di fuori di noi indipendentemente dalla nostra coscienza e
dalle nostre sensazioni.
2.
Non esiste
e non può esistere alcuna differenza di principio tra il fenomeno e la
cosa in sé (l’essenza). Non vi è alcuna differenza se non quella che passa
tra il conosciuto e ciò che non lo è ancora.
3.
Non bisogna
mai supporre che la nostra conoscenza sia invariabile ma occorre
analizzare dialetticamente il processo grazie al quale la conoscenza nasce
dall’ignoranza o grazie al quale la conoscenza vaga e incompleta diventa
conoscenza più adeguata e più precisa. È la storia della scienza e della
tecnica, come la nostra vita quotidiana, che ci mostra la trasformazione
delle cose in sé (essenze), in cose per noi.[7]
Le essenze di cui parla
la teoria di Marx non sono dunque, come crede Popper, quelle della
metafisica classica:
“non si tratta di qualcosa di separato dal fenomeno,
così come capita all’essenza o eidos platonici; sì piuttosto abbiamo a che
fare con un universale, che si manifesta nel concreto e nel particolare,
rispetto al quale l’astrazione intellettuale è, solo, una tappa del
processo di mediazione; universale che, preso di per sé solo, non sarebbe
altro che un mero prodotto mentale privo di realtà.”[8]
La stessa critica che Marx nella sua sesta tesi
rivolge a Feuerbach, potrebbe benissimo essere rivolta a Popper:
“l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente
all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti
sociali”[9].
Questa
critica, contraddicendo la separazione tra universale classificatorio ed
esistenza particolare, va contro la tendenza a svuotare di contenuto
l’universale stesso rimandando al mittente l’accusa di essenzialismo.
“Privato di ogni contenuto l’universale ovvero il
‘realmente esistente’ si riduce all’astratto individuo, reciso da tutto
ciò che lo media con il mondo: quell’individuo, insomma, che appare –
ideologizzato – sotto forma di persona o di soggetto borghese.”[10]
Quell’individuo da cui
Popper parte, astrattamente, per fondare la propria metodologia
gnoseologica.
IV.2.
PREESISTENZA DELLA NATURA O DELLA RAGIONE?
Popper è nel giusto
quando afferma, contrariamente ai neopositivisti, che l’esperienza è più
del semplice cogliere il dato e che la conoscenza umana progredisce
attraverso generalizzazioni astratte formalizzate in leggi naturali. Ma
sbaglia, a nostro avviso, quando ritiene che queste generalizzazioni
finiscano col suffragare il “nominalismo” riducendo l’universale a
semplice apparenza mancante di un correlato ontico[11].
È la correlazione di rappresentazione ed essenza che consente il sapere
scientifico.
“La conoscenza
scientifica oggettiva…ricerca le cause non nella fede o nella speculazione
ma nella esperienza, nell’induzione, non a priori ma a
posteriori. Le scienze naturali ricercano le cause non al di fuori dei
fenomeni, non dietro ai fenomeni ma in loro e grazie a loro.”[12]
Chi pensa, come Popper,
che il pensiero costituisca il fattore primordiale e la natura il fattore
secondario ritiene, ribaltando il rapporto, che la natura sia parte della
ragione e non che quest’ultima sia in realtà uno dei prodotti ultimi,
l’immagine del suo processo. La conoscenza umana, per costruire delle
generalizzazioni o leggi che le consentano di comprendere il reale, non si
affida ad intuizioni ardite, ma ad un processo che va dal concreto
all’astratto per poi tornare al concreto. Attraverso questo processo essa
si appropria di quei nessi, rapporti e regolarità, non immediatamente
fruibili. Certo questi nessi sono “oggetti del pensiero”[13],
ma sono anche reali sia essenzialmente sia empiricamente. È la pratica
umana vivente che fa irruzione nella teoria stessa della conoscenza
fornendo un criterio oggettivo della verità. Infatti fino a quando
ignoriamo una legge naturale quella “agendo al di fuori della nostra
conoscenza fa di noi gli schiavi della cieca necessità”, ma nel momento in
cui la conosciamo “quella legge agendo pur sempre indipendentemente dalla
nostra volontà e coscienza ci rende signori della natura”[14].
“La dominazione della
natura, realizzata attraverso la pratica umana, è il risultato della
rappresentazione oggettivamente esatta, nella testa dell’uomo, dei
fenomeni e dei processi naturali e costituisce la migliore prova che
quella rappresentazione (nei limiti che ci assegna la pratica) è una
verità oggettiva, assoluta, eterna.”[15]
Popper ha capito grazie a
Hume, che l’osservazione empirica non può da sola dimostrare in modo
soddisfacente la necessità, ovvero le generalizzazioni causali che
definiamo leggi naturali. Dalla rivoluzione della terra attorno al sole
testimoniata dall’osservazione empirica – il sole sorge e tramonta
quotidianamente – non consegue che essa debba perpetuarsi all’infinito; in
effetti sappiamo che un giorno cesserà. Post hoc non implica
propter hoc. Tuttavia il filosofo viennese non ha compreso, a nostro
parere, che la dimostrazione della necessità non sta in una razionalità
astratta e intuitiva progressivamente sviluppantesi, bensì nell’attività
umana, nel lavoro: “se io posso fare il post hoc, allora
esso si identifica con il propter hoc”[16].
Invece di far cozzare violentemente intuizione e deduzione per idolatrare,
a seconda dell’interpretazione, l’una o l’altra di queste forme della
coscienza umana, occorre comprendere la loro necessaria implicazione ed il
loro mutuo completarsi.
Chi si limita ad opporre
induzione e deduzione riduce ogni procedimento logico ai due termini di
questa opposizione senza considerare che, in tal modo, svuota di ogni
significato queste due forme stesse. Il polarizzarsi di induzione e
deduzione nella riflessione non coglie la loro sostanziale unità
nell’attività umana.
È dalla propria attività,
e solo da essa, che l’uomo trae il fondamento dell’idea di causalità.
“Tanto la scienza quanto
la filosofia hanno finora del tutto trascurato l’influsso dell’attività
dell’uomo sul suo pensiero: esse conoscono solo la natura da un lato, il
pensiero dall’altro. Ma il fondamento più essenziale e più immediato del
pensiero umano è proprio la modificazione della natura ad opera
dell’uomo non la natura come tale di per sé sola, e l’intelligenza
dell’uomo crebbe nella stessa misura in cui l’uomo apprese a modificare la
natura.”[17]
Ciò che si presenta al
punto di vista della scienza naturale, che considera la materia nel suo
movimento, è “azione reciproca”. Solo considerando la mutualità di questa
azione universale, attraverso l’analisi dei singoli fenomeni, si può
pervenire al “reale nesso causale”, altrimenti “i movimenti che si
avvicendano appaiono l’uno come causa l’altro come effetto”[18]
nel loro artificiale isolamento. Un isolamento che può ingenerare nel
soggetto conoscente la credenza per cui parlare di “reali nessi causali” è
una contraddizione logica in quanto ogni legge naturale non è altro che
pura ipotesi o congettura tratta dall’immaginazione del soggetto. Ma
questo è un argomento che non riguarda il marxismo. Per Marx “la natura
resta intera nella sua autonomia, preordinata all’uomo sia nel rapporto
della prassi che in quello della conoscenza”[19].
Logicamente e ontologicamente il lavoro, che è il mondo dell’uomo, è
“sussunto nella natura”. Essa prescrive le proprie leggi all’uomo che solo
in un secondo momento le concettualizza attraverso la propria attività per
indirizzare finalisticamente i “reali nessi causali” preesistenti.
Un esempio di tale
movimento dialettico è ricavabile proprio dall’evoluzione umana. Se noi ci
domandiamo cos’è che caratterizza l’uomo nei confronti degli animali
vedremo che la risposta idealista ha prevalso. Per giustificare
l’influenza determinante del pensiero sull’essere materiale gli idealisti
si sono affannati in ogni epoca ad affermare che ciò che distingue l’uomo
dalle bestie è la sua intelligenza superiore. Popper stesso, iscrivendosi
a pieno diritto in questo filone, sottolinea che la distinzione tra
Einstein e l’ameba è relativa al fatto che il primo elimina il proprio
errore attraverso una discussione critica (evoluzione esosomatica), mentre
la seconda, se non è adatta, non potendo proiettare fuori di sé il proprio
errore, viene eliminata fisicamente.
Queste teorie, se fossero
oggettivamente dimostrabili, implicherebbero nel corso dell’evoluzione un
aumento significativo molto precoce delle dimensioni cerebrali umane.
Invece la paleontologia contemporanea, attraverso lo studio dei reperti
fossili, ha dimostrato che l’uomo non ha subito questo incremento se non
molto tardi.
“Solo con la comparsa
dell’Homo Sapiens, circa 100.000 anni fa, le dimensioni del cervello
raggiunsero i livelli attuali: 1350 centimetri cubici. Dunque i primi
ominidi non possedevano cervelli sviluppati. L’evoluzione umana non è
iniziata dal cervello. Al contrario l’aumento delle dimensioni cerebrali è
stato il prodotto dell’evoluzione umana, in particolar modo della
produzione di strumenti.”[20]
Questo significa che la
nostra evoluzione non è conseguenza di una fantastica propensione al
ragionamento autocosciente svincolato da ogni necessità naturale, quasi
come se fossimo piovuti su questa terra e non prodotti da essa, bensì il
frutto di un faticoso sviluppo condizionato dalla disponibilità naturale
di alimenti. Solo quando iniziammo a produrre i nostri alimenti, i nostri
mezzi di sussistenza, solo allora ci distinguemmo concretamente dal mondo
animale.
Il lavoro, come attività
teleologicamente orientata alla produzione di mezzi di sussistenza,
consentì a sua volta lo sviluppo del corpo nel suo complesso.
“…Lo sviluppo del lavoro
ebbe come necessaria conseguenza quella di avvicinare di più tra loro i
membri della società, aumentando le occasioni in cui era necessario
l’aiuto reciproco, la collaborazione, rendendo chiara a ogni singolo
membro l’utilità di una tale collaborazione. Insomma: gli uomini in
divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi…In
primo luogo il lavoro, dopo di esso e con esso il linguaggio: ecco i due
stimoli più essenziali sotto la cui influenza il cervello di una scimmia
si è trasformato gradualmente in un cervello umano…Lo sviluppo del
cervello e dei sensi al suo servizio, della coscienza che si andava
facendo vieppiù chiara, della capacità di astrarre e di ragionare,
esercitò di rimando la sua influenza sul lavoro e sul linguaggio, dando ad
entrambi un nuovo impulso per un ulteriore sviluppo.”[21]
La materia in movimento
che chiamiamo natura detta i tempi e i nessi causali di sviluppo di ogni
essere materiale ma solo l’uomo, attraverso il proprio lavoro, è in grado
di indirizzare la natura e di conseguenza la propria stessa esistenza.
Marx ha descritto questo
processo come posto dalla natura stessa. Con un’argomentazione
prettamente ontologica egli afferma:
“Ma se l’uomo
reale, corporeo, che sta sulla ferma e solida terra, espirando e aspirando
tutte le forze naturali, pone, nel suo alienarsi, le sue reali,
oggettive forze sostanziali come oggetti estranei, questo porre
non è Soggetto: è la soggettività di oggettive forze sostanziali,
la cui azione perciò dev’essere anche un’azione oggettiva. L’ente
oggettivo agisce oggettivamente, e non potrebbe agire oggettivamente se
l’oggettivo non fosse sua determinazione sostanziale.”[22]
Marx intende dunque la
vicenda umana come “momento del rapporto della natura a se stessa”[23];
è per questo che il comunismo per lui è “in quanto compiuto naturalismo,
umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo”[24].
Popper invece intende i
nessi causali naturali non come oggettive manifestazioni di una materia
reale, ma come soggettive congetture di un essere umano astratto su una
realtà metafisicamente fondata. Da ciò dipende il suo eclettismo
oscillante tra idealismo soggettivo (l’autonomia della ragione) e
materialismo volgare (il realismo metafisico).
IV.3.
HEGEL
Marx inizia a regolare i
conti sia col materialismo volgare che con l’idealismo con le undici tesi
su Feuerbach del 1845. È in questa sede che comincia a rompere con la
concezione puramente passiva del materialismo per affermare la
contemporaneità e la compenetrazione di attività e passività, di
soggettività e oggettività. Questa concezione gli deriva da un profondo
studio della filosofia classica, Aristotele soprattutto, e dell’opera di
Hegel.
Popper, che sottolinea
giustamente il debito del marxismo nei confronti della dialettica
hegeliana, costruisce una immagine di Hegel e del suo pensiero se
possibile ancora più faziosa e ideologicamente orientata di quella che ha
escogitato a proposito di Marx.
L’epistemologo viennese,
confrontandosi con i filosofi del passato, non ha nessuna intenzione di
dialogare e di comprendere. Egli non applica “quell’atteggiamento
razionalista”, più volte sbandierato nelle sue opere, secondo il quale una
discussione consiste nell’assumere modestamente che:
“…forse io ho torto e tu hai ragione, in ogni caso entrambi
possiamo sperare dopo la nostra discussione, di vedere le cose un po’ più
chiaramente di prima, e in ogni caso possiamo entrambi imparare l’uno
dall’altro, solo a condizione che non dimentichiamo che quel che conta non
è tanto chi abbia ragione, quanto piuttosto che si giunga il più vicino
possibile alla verità.”[25]
Popper intende piuttosto attuare una sorta di imperialismo
filosofico. Egli, per verificare l’efficacia critica del suo metodo, lo
applica alle altre filosofie distorcendole e rendendole irriconoscibili.
Non è un caso che l’obiettivo polemico popperiano si appunti sul sistema
hegeliano. Alterando il pensiero di Hegel, Popper attribuisce di riflesso
a Marx lo stesso carattere mistico, e in un’ultima analisi reazionario,
che a suo giudizio pervade l’opera di Hegel.
Vediamo così come Hegel divenga nelle pagine popperiane: “il
filosofo ufficiale del prussianesimo”[26],
e come la sua filosofia sia “la religione e la teologia degli
intellettuali”[27].
Non solo, egli nel 1815 come “ideologo della reazione” riscopre, secondo
Popper, le “idee platoniche” di “perenne rivolta” contro i principi di
libertà, uguaglianza e fraternità della rivoluzione francese. “Scrittore
indigeribile” e privo di talento, Hegel ha un solo scopo per Popper:
“combattere contro la società aperta e così servire il suo datore di
lavoro, Federico Guglielmo di Prussia”[28].
Se Popper volesse veramente confrontarsi con Hegel ed il suo
tempo e non con simulacri, probabilmente scoprirebbe cose parecchio
interessanti ed assolutamente in controtendenza con ciò che ha scritto di
lui. Scoprirebbe ad esempio un Hegel entusiasta della rivoluzione
francese, convinto che essa, assieme alla rivoluzione filosofica kantiana,
avrebbe condotto in Germania ad una rivoluzione politica migliore di
quella francese. Scoprirebbe che l’intenzione profonda di Hegel è quella
di attribuire dignità eguale a tutti gli uomini riconoscendo il loro
eguale valore morale[29]
in un periodo in cui proporre ciò è altamente rivoluzionario. Scoprirebbe
che in tutta la sua vita Hegel intrattiene rapporti strettissimi con la
massoneria illuminista e liberale, ed è costretto per questo a dissimulare
sistematicamente aspetti della sua esistenza, della sua attività, e del
suo pensiero intimo[30].
Scoprirebbe che la pretesa “oscurità” di Hegel non è suo patrimonio
individuale ma corrisponde ad “un mondo lacerato e alienato, un mondo
oscuro a se stesso che possiamo decifrare a malapena”[31],
un mondo in questo simile a quello attuale. Un mondo trattato da Popper
viceversa, in maniera apparentemente chiara allo scopo di occultare ed
oscurare.
IV.4.
LA DIALETTICA SPECULATIVA
Il completo travisamento dell’opera di Hegel da parte di
Popper è funzionale al tentativo di annichilimento di quelli che
l’epistemologo viennese, come abbiamo visto, giudica i due “dogmi”
fondamentali, mutuati da Eraclito, del pensiero hegeliano: la
inevitabilità e fecondità delle contraddizioni intese come opposti in
guerra, e la loro finale unità o identità. Questi due “dogmi”, all’interno
della dottrina hegeliana, sono causa di positivismo etico e giuridico
(identità di ragione e realtà, la forza è diritto), e di teleologismo
storico (storia come manifestazione dello Spirito nel mondo).
Marx, a giudizio di Popper, ritiene di capovolgere
materialisticamente i “dogmi” della dialettica hegeliana, ma assumendo
questa dottrina come base teorica, come metodo del “marxismo scientifico”,
egli non si rende conto di trasformare ineluttabilmente il proprio
pensiero in un sistema dogmatico incapace di qualsiasi sviluppo
scientifico.
IV.4.1. La
contraddizione oggettiva
Per Popper parlare di contraddizioni reali è un controsenso.
La realtà, a suo parere, si sviluppa attraverso la confutazione degli
errori, la loro negazione semplice. Il metodo per “prova ed errore”, che
comprende lo sviluppo del progresso scientifico, può servire per capire
altrettanto bene, senza alcun bisogno di contraddizioni, sia l’evoluzione
naturale che l’evoluzione umana.
Hegel, che riduce idealisticamente l’essere a pensiero,
introduce la categoria di contraddizione in quanto, secondo Popper,
confonde “errore” reale e contraddizione logica. Su questa strada, al di
là delle affermazioni di materialismo, anche la teoria di Marx,
prescindendo dal principio di non contraddizione, rivelerebbe il proprio
vizio idealistico.
Le cose però, contraddittoriamente, non stanno così.
Innanzitutto, storicamente:
“…la categoria di contraddizione oggettiva comincia a
emergere man mano che si avverte la necessità di analizzare criticamente
l’ancien regime, alla vigilia del suo tramonto, o del suo
abbattimento, e man mano che si sviluppano i conflitti propri della
società borghese.”[32]
L’esigenza di strumenti concettuali nuovi per conoscere
meglio la realtà sociale e naturale costringe, se si vuole cogliere le
opposizioni reali, a ridurre l’ambito di influenza del principio
logico-formale di non-contraddizione.
È Kant ad introdurre la categoria di grandezza negativa nella
filosofia e nell’analisi della società. Egli giunge a coniare per la
società civile un ossimoro come quello di “insocievole socievolezza” come
efficace mediazione linguistica di una contraddizione reale.
Hegel, che dunque non inaugura ma approfondisce questo ambito
del discorso scientifico, enfatizza la categoria di contraddizione senza
rifiutare la logica. Egli parla infatti del principio di identità come di
una “determinazione elevata” del pensiero. Dire che (A) è identico a sé, e
negativamente che (A) non può essere allo stesso tempo sé stesso e
qualcos’altro, è importante per Hegel in quanto:
“…è proprio attraverso l’identità, come coscienza di sé
stesso, che l’uomo si distingue dalla natura in generale e, più
precisamente, dall’animale, che non arriva a cogliere sé stesso come Io
cioè come pura identità in sé stesso.”[33]
Tuttavia non si può elevare questo principio a una “vera
legge del pensiero”, ma occorre considerarlo come “semplicemente la vera
legge dell’intelletto astratto”. Seguendo la terminologia hegeliana
infatti, se il “pensiero” rimanesse a questa “immediatezza” potrebbe
venire a ragione accusato sia di “formalismo” che di “dogmatismo”.
Il “formalismo” consisterebbe nell’astratta identità espressa
da proposizioni quali: “un cane è un cane” oppure, Popper docet, “la
democrazia è la democrazia”. Un’attività di pensiero che si attardasse
dietro questi contenuti non solo sarebbe “l’attività più superflua e più
noiosa”, ma esprimerebbe, in funzione apologetica, “tenerezza per le cose
di questo mondo”.
Il “dogmatismo” consisterebbe nel fissare le “determinazioni
unilaterali dell’intelletto escludendo quelle opposte” nella forma di un
rigoroso o-o in base al quale si potrebbe dire ad esempio: “l’uomo
o è una scimmia o non lo è” oppure, Popper docet, “il marxismo o è una
scienza o non lo è”.
“Il vero, lo speculativo, è invece proprio ciò che non ha
queste determinazioni naturali in sé e non ne viene esaurito, ma, come
totalità, contiene in sé unificate quelle determinazioni che per il
dogmatismo sono qualcosa di fisso e di vero nella loro separazione.”[34]
La “verità formale” per Hegel è una verità, ma è anche
“astratta, incompleta”. Non-(A) è sicuramente il contrario di (A), ma solo
se, in un atto di strema formalizzazione, si prescinde da ogni suo
determinato contenuto.
“Nella logica formale, quindi, ogni negazione determinata si
risolve in una negazione indeterminata, e quest’ultima è allora la
negazione determinata di quella posizione indeterminata che si dà
quando nella formalizzazione si prescinde dalle determinazioni sostanziali
di ciò che viene posto. In senso non formale, invece, il contrario di ogni
cosa determinata (la sua determinata negazione) può essere ricavato
soltanto dalla situazione concreta, a partire dalla quale il determinato
si determina.”[35]
Hegel ritiene sbagliato assumere per vere forme astratte come
“identità” e “non identità”, sostituire l’ontologia con la filosofia
trascendentale. Egli pensa che la verità non appartenga a queste forme
fisse ma piuttosto al loro movimento, e che la realtà di questo movimento
possieda una struttura logico-ontologica basata sul comprendere/superare.
Ecco allora che la contraddizione è “una determinazione altrettanto
essenziale ed immanente quanto l’identità” perché permette di spiegare la
realtà sociale che altrimenti, affidandosi esclusivamente al principio di
non-contraddizione, non potrebbe essere analizzata.
Il fenomeno della rivoluzione ad esempio, spiegato fino
all’epoca di Hegel o come il risultato di una cospirazione, vale a dire in
termini soggettivi, o come uno sconvolgimento naturale, vale a dire in
termini oggettivi, per mezzo della categoria di contraddizione oggettiva
assume una dimensione unitaria di soggettivo ed oggettivo. La
contraddizione, da puramente oggettiva, possibilità concreta, diviene
opposizione cosciente mutandosi in realtà effettiva, possibilità reale.
“Come identità in generale la realtà effettiva è dapprima la
possibilità…Siccome la possibilità dapprima è la semplice forma
dell’identità-con-sé rispetto al concreto come effettivamente
reale, ha come regola soltanto che qualcosa non si contraddica in se
stesso, e così tutto è possibile…Ma tutto è altrettanto
impossibile, perché in ogni contenuto, siccome è un concreto, la
determinatezza può essere colta come opposizione determinata e quindi come
contraddizione…Se qualcosa è possibile o impossibile dipende dal
contenuto, cioè dalla totalità dei momenti della realtà effettiva che nel
suo dispiegarsi [contraddittorio] si mostra come necessità.”[36]
Con Marx i termini della contraddizione oggettiva mutano.
Mentre Hegel fa confliggere “leggi” e “costumi”, Marx sostituisce alla
organizzazione giuridica i rapporti sociali di produzione, e ai “costumi”,
le idee nuove che hanno sopravanzato la staticità delle leggi, lo sviluppo
delle forze produttive che li sottendono.
“A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive
materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di
produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono
soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi
s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze
produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di
rivoluzione sociale.”[37]
Anche per Marx tuttavia il rilievo attribuito alla categoria
di contraddizione oggettiva non implica l’esclusione del principio formale
di non-contraddizione anzi, nel “Capitale”, egli rimprovera all’economia
politica di avvolgersi in banali contraddizioni logiche non cogliendo o
mistificando le contraddizioni oggettivamente esistenti.
Popper, negando ogni consistenza alla categoria di
contraddizione oggettiva, è costretto ad attribuire la priorità, nel
processo della conoscenza, all’intelletto astraente. Questo, come
conseguenza, lo costringe a separare lo sviluppo ipotetico e problematico
della conoscenza come metodo dal contingente svolgersi dei contenuti di
questo sviluppo, considerati semplici deiezioni storico-fenomeniche, e ad
elevare a motore immobile le leggi formali della “conoscenza pura”. La
necessità di Popper in questa prospettiva è allora quella di indagare a
fondo “la facoltà conoscitiva” (metodologia). Il problema è, come avverte
Hegel, che:
“l’esame della conoscenza non può farsi se non conoscendo…voler
conoscere prima di conoscere è altrettanto assurdo quanto il saggio
proposito di quello scolastico che voleva imparare a nuotare prima di
arrischiarsi in acqua.”[38]
IV.4.2. La totalità
reale
La “filosofia dell’identità” o “panlogismo”, secondo la
definizione di Popper, è il secondo “dogma” fondamentale del pensiero di
Hegel.
In base a questo “dogma”, incentrato sull’identità degli
opposti, Hegel ricava l’identità di “Ideale” e “Reale” nella “Totalità”
concependo una dottrina sostanzialmente reazionaria tesa al pervertimento
delle idee del 1789. Conseguenza di questa dottrina è il positivismo etico
e giuridico che Popper sintetizza così: “ciò che è bene”, “la forza è
diritto”.
Marx, a causa del suo “profondo umanitarismo” che, secondo il
viennese, non gli consente di accettare le inumane condizioni dei
lavoratori dei suoi tempi, pur mutuando da Hegel questo “dogma”, lo
proietta nel futuro trasformandolo in “futurismo morale”: “la forza futura
del proletariato è diritto”.
Come abbiamo appena visto nella concezione popperiana il
problema di cosa sia la conoscenza si muta nel problema di quale sia il
metodo per giungervi. Il filosofo viennese tende a scindere metodo e
contenuto della conoscenza per mettere in evidenza che il fondamento della
verità riposa non nel suo contenuto ma nella validità del suo metodo. È
comprensibile dunque il fatto che Popper consideri la dialettica
semplicemente un altro metodo da applicare dall’esterno ai contenuti. Se
la dialettica fosse, come crede Popper, una struttura imposta alla realtà
fenomenica dall’intelletto analitico egli avrebbe ragione a condannarla in
quanto attraverso questo presunto “metodo” si presupporrebbe ciò che
invece dovrebbe essere colto come risultato. Ma la dialettica hegeliana
non è questo “metodo”, bensì l’unità di metodo e contenuto concepiti nel
loro divenire.
“…il metodo non è forma esterna, ma l’anima e il concetto del
contenuto, dal quale è soltanto distinto in quanto i momenti del
concetto anche in loro stessi nella loro determinatezza
giungono a manifestarsi come la totalità del concetto.”[39]
A Popper appartiene una concezione “idealistico-obiettiva”
del “tutto”. Egli lo considera come oltrepassamento di momenti diversi e
non riducibili presupposti dal concetto; considera il “tutto” come “reale
razionale”. Il problema sorge quando si tratta di pensare il “tutto” come
la serie infinita delle sue parti. Proprio perché il nostro intelletto è
finito, afferma Popper, non esiste alcuna possibilità per noi di esperire
il mondo come “tutto”. Certo, l’intelletto per la realizzazione della sua
attività necessita del concetto di mondo come un “tutto, ma sulla scorta
di Kant, per Popper, questo concetto costituisce unicamente un ideale
regolativo.
Hegel accetta la limitazione per cui il concetto del “tutto”
si dà solo come “idea della ragione”, tuttavia afferma che questa idea è
risultato e non presupposto “della determinazione universale del concetto,
il quale si rappresenta come concetto di una cosa, come espressione di una
‘reale effettualità’, in ognuna delle sue determinazioni finite”[40].
Se teniamo presente questo, vediamo che anche la celebre
frase tratta dalla prefazione della “Filosofia del Diritto” di Hegel che
tanto ha scandalizzato Popper cioè: “ciò che è razionale è reale, ciò che
è reale è razionale”, non assume il significato di sostegno o di avallo a
qualsivoglia regime dispotico esistente, bensì sottolinea, come si può
evincere dalla “Scienza della Logica”, che “realtà” ed “esistenza” non
sono la stessa cosa.
La “realtà” per Hegel infatti, è composta sia dalla
“esistenza” che dalla “apparenza”; sia dalla necessità di pensare il mondo
dell’unità e dell’identità, sia dal mondo fenomenico, molteplice e in
continuo movimento; sia dal metodo che dal contenuto. La “realtà” è
l’unità e l’identità di queste contraddizioni.
Questo significa che per Hegel la ragione non consente solo
di cogliere la comprensione progressiva dei fenomeni, ma anche di
analizzare l’azione umana nella storia anzi, le leggi umane sono
eminentemente razionali perché:
“in esse la ragione non soltanto si realizza (essa si
realizza altresì in ogni luogo) ma finisce inoltre per sapere che si
realizza. La teoria dello Stato, dello Stato che è, non di uno
Stato ideale e sognato, è la teoria della ragione realizzata nell’uomo,
realizzata per se stessa e da se stessa.”[41]
Popper non accetta questa teoria dello Stato come totalità
reale perché pensa che essa implichi una ipostatizzazione del dispotismo
collettivo sull’individuo. Egli non si avvede che nella concezione
hegeliana la storia è “riconciliazione dell’individuo con l’universale” e
non riduzione in servitù.
La teoria dello Stato di Hegel è platealmente in contrasto
con l’immagine che se ne fa Popper per due motivi.
Prima di tutto se è vero che nella sfera prestatuale è la
lotta a decidere del riconoscimento fra due autocoscienze, è vero altresì
che alla fine il progresso dello spirito si realizza grazie al vinto e non
grazie al vincitore[42].
Secondariamente benché sia la guerra tra Stati a fare la
storia, tuttavia nella concezione hegeliana la violenza assume valore
positivo solamente quando consente un avanzamento nella realizzazione
della libertà o, per dirla con Hegel, della ragione. La libertà a questo
livello è positiva, cioè è libertà di fare, solamente se è concreta,
ossia non è arbitrio individuale. La coscienza arbitraria dell’individuo
non solo è impossibile a realizzarsi, ma è anche impossibile a pensarsi:
“l’uomo è libero in quanto vuole la libertà dell’uomo in una
comunità libera”[43].
L’uomo astratto, l’individuo libero, il “Robinson”, è
un’invenzione. Ci si può rendere conto di questo riflettendo un attimo sul
fatto che ciò che è reale non è l’uomo, l’individuo, bensì
questo uomo, questo individuo, con un sesso, un’età
determinati (determinazioni naturali), e una posizione sociale, un
mestiere determinati (determinazioni sociali). Questi uomini, determinati
naturalmente e socialmente, nascono e vivono in una comunità, determinata
naturalmente e socialmente, che contribuiscono a determinare naturalmente
e socialmente.
Quello che Hegel sostiene è che la libertà non potrebbe
essere reale se non in un mondo preesistente, quello che A. Mazzone
chiama: “Corpus Collectivum hominum et rerum”[44],
storicamente organizzato in forme esperibili quali la famiglia, la società
e lo Stato, che vanno indagate e conosciute per poter praticare la
libertà.
Hegel non ha alcuna intenzione, attraverso il suo lavoro, di
indicare una direzione, di costringere il mondo nella camicia di forza di
un “dover essere”. Egli ritiene al contrario che la filosofia, essendo il
pensiero del mondo, appare solo quando la realtà ha terminato il suo
processo di formazione e si è compiuta, del resto “la nottola di Minerva
inizia il suo volo sul far del crepuscolo”[45].
L’errore di Popper nell’interpretazione di Hegel, se di
errore si può parlare e non di, come crediamo meglio, volontaria
mistificazione, deriva direttamente dal complesso della sua opera nella
quale prevale la costante separazione di metodo e contenuto. Questa
separazione si riflette, quando egli si occupa di individuo e comunità,
nella contingente opposizione di agente e agito che anima la sua
riflessione sociale e che determina il suo travisamento della totalità
hegeliana come totalitarismo. Il modello popperiano impone così
l’alternativa individuo-comunità implicando un’idea di libertà individuale
totalmente avulsa dall’esistente (libertà negativa), ed opposta a quella
hegeliana.
Popper non si sofferma nemmeno per un istante a pensare che
tale libertà, concepita in sé, astrattamente ed astoricamente, possa
rappresentare al contrario una forma storicamente determinata di libertà:
quella dell’individuo proprietario e scambista; e che la richiesta di
preservare e perpetuare questa forma di libertà costituisca il miglior
pretesto per tutelare gli interessi di una parte della società, quella che
detiene il potere, ai danni della grande maggioranza.
Ci si domanda allora se l’accusa di “positivismo etico e
giuridico” che il filosofo viennese rivolge a Hegel, come quella di
“futurismo morale” rivolta a Marx, non si possa rispedire al mittente, con
l’aggravante, nella concezione di Popper, che non solo la legge del più
forte governa le cose degli uomini, ma deve governarle affinché
continuino ad andare per il meglio.
Hegel e Marx, come suo erede, in alternativa a Popper
propongono:
“teorie dell’interesse generale contro teorie
dell’interesse particolare: teorie volte alla costituzione di forme
della politica adeguate al riconoscimento dei diritti di ogni singolo
individuo…e su questa base soltanto ritengono possibile dare forma
all’idea di libertà; contro teorie che non accettano di procedere sul
piano costruttivo assumendo un’idea effettivamente universale di
individuo, priva di determinazioni storiche e di classe, davvero
metastoricamente valida.”[46]
IV.5.
LA DIALETTICA SPECULATIVA E IL MATERIALISMO DIALETTICO
Non si comprende bene cosa intenda Popper quando, nel suo
saggio “Che cos’è la dialettica?”[47]
riferendosi alla dialettica marxiana come erede di quella hegeliana, dice
che quest’ultima “può essere capovolta sì da trasformarla in una forma di
materialismo”, e successivamente afferma, allo stesso tempo, che la
“combinazione di dialettica e materialismo mi sembra anche peggiore
dell’idealismo dialettico”.
Se volessimo dare un significato dialettico al termine
“capovolto” dovremmo presupporre che ciò che capovolge sia già contenuto
in ciò che è capovolto e viceversa. Se intendessimo invece ciò che
capovolge come negazione semplice di ciò che è capovolto allora saremmo in
presenza di un’alternativa non commensurabile.
Si vede bene come le due interpretazioni cozzino
violentemente l’una contro l’altra.
Ritenendo, con ragionevole sicurezza, che la seconda
interpretazione possa rispecchiare più fedelmente gli intendimenti
dell’epistemologo ci troviamo di fronte a un nuovo fraintendimento sia
dell’opera di Hegel che di quella di Marx.
Se può avere un senso preciso affermare che Hegel propone una
dottrina della storia e dell’azione storica definibile idealismo storico
poiché si basa sull’onnipotenza dell’idea mentre Marx oppone a questa una
teoria definibile materialismo storico in quanto vede nei bisogni concreti
degli uomini la causa di ogni mutamento, in termini filosofici tuttavia
questa contrapposizione si rivela priva di significato.
“Sia per la metafisica tradizionale che distingue il realismo
dall’idealismo e lo spiritualismo dal materialismo sia, e a maggior
ragione, per una filosofia dialettica.”[48]
Paradossalmente, se volessimo rimanere sul “piano astrale”
popperiano “delle idee come prodotti autonomi del pensiero”, vedremmo come
Hegel e Marx non siano stati né idealisti né materialisti ed allo stesso
tempo siano stati insieme l’una e l’altra cosa.
Volendo, ad esempio, si potrebbe attribuire un carattere
materialistico all’opera di Hegel mettendo a fuoco come egli abbia
indicato nel lavoro, prima di Marx, l’essenza della vita dell’uomo nella
società: l’uomo come individuo non è isolato né isolabile, ma è ciò
che fa nella società.
È stato detto che Hegel ha rilevato solamente il concetto
astratto del lavoro senza averne considerato le forme concrete, ma questo
non è del tutto esatto. Nella “Filosofia del Diritto” a proposito della
moderna divisione del lavoro egli scrive:
“Il lavoro del singolo diviene più semplice mediante la
divisione e, quindi, più grande l’abilità nel proprio lavoro astratto,
come la quantità delle proprie produzioni. Nello stesso tempo, quest’astrazione
dell’abilità e del mezzo rende compiuta, facendola necessità totale, la
dipendenza e il rapporto di scambio degli uomini, per l’appagamento degli
altri bisogni. L’astrazione del produrre rende, inoltre, il lavoro sempre
più meccanico e, quindi, alla fine, atto a che l’uomo ne sia rimosso e
possa essere introdotta, al suo posto, la macchina.”[49]
Allo stesso modo potremmo
vedere come Marx “idealisticamente”, con una terminologia hegeliana, nei
suoi “Manoscritti Economico-Filosofici” sottolinei il valore della
“Fenomenologia dello Spirito”:
“L’importante nella Fenomenologia hegeliana e
nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio
motore e generatore – è dunque che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo
come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e come
soppressione di questa alienazione; che egli dunque coglie l’essenza del
lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace perché uomo
reale, come risultato del suo proprio lavoro.”[50]
Tutto questo per dimostrare come si possa, volendo, tirare
per la manica entrambi gli autori tedeschi da una parte o dall’altra senza
per questo continuare a comprendere nulla del loro effettivo lavoro.
Marx ed assieme a lui Engels, quando hanno individuato il
“nucleo dell’hegelismo” nel “movimento e automovimento” come “opposti al
morto essere” e l’hanno applicato, non si sono riferiti alla dialettica
speculativa come a qualcosa di radicalmente alternativo rispetto alla loro
teoria, bensì l’hanno integrata sviluppandola oltre.
Come osserva Lenin la logica hegeliana è la premessa
teoretica del “Capitale”, mentre le effettive condizioni di produzione
costituiscono le premesse pratiche della logica di Hegel.
Il punto in cui i percorsi di Hegel e Marx assumono toni
sensibilmente distinti è nella trattazione dell’azione politica.
Hegel pensa che la mediazione messa in atto
dall’amministrazione dello Stato esistente possa prevenire e dunque
risolvere la rottura immanente tra realtà sociale e forma dello Stato.
Marx crede invece che una società veramente umana in uno
Stato veramente umano possa essere realizzata solo tramite l’azione
rivoluzionaria.
Contrariamente a quanto dice Popper, Marx non afferma
“l’impotenza di ogni politica” ma piuttosto, non credendo nella buona fede
degli apparati dello Stato borghese in quanto parti coinvolte nel
conflitto sociale, si affida all’azione delle masse piuttosto che a quella
del governo.
Egli, elaborando il concetto di prodotto sociale radicato
nella situazione storica corrispondente, fa derivare da questo ogni
sovrastruttura politica storicamente determinata.
“Hegel…vuole che lo ‘universale in sé e per sé’, lo Stato
politico, non sia determinato dalla società civile, ma, all’inverso, la
determini…La nascita dà all’uomo soltanto l’esistenza individuale e
lo pone dapprima soltanto come individuo naturale, e tuttavia le
determinazioni politiche, come il potere legislativo, ecc., sono
prodotti sociali, generati dalla società e non dall’individuo
naturale…Il sorprendente è di considerare come prodotto immediato della
specie fisica ciò ch’è soltanto prodotto della specie cosciente di sé.”[51]
Astraendo per un momento dal periodo storico rispettivo che
caratterizza il loro pensiero in modi profondamente differenti, Hegel in
senso progressivo e Popper in senso conservatore, possiamo vedere che
entrambi fanno affidamento sul cambiamento politico come unica possibilità
reale di trasformazione. Questo li spinge a non comprendere che:
“La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle
sue parti costitutive senza rivoluzionare queste parti stesse né
sottoporle a critica. Essa si comporta verso la società civile, verso il
mondo dei bisogni, del lavoro, degli interessi privati, come verso il
fondamento della propria esistenza, come verso un presupposto non
ulteriormente fondato, perciò, come verso la sua legge
naturale…L’emancipazione politica è la riduzione dell’uomo, da un lato, a
membro della società civile, all’individuo egoista indipendente,
dall’altro al cittadino, alla persona morale. Solo quando il reale uomo,
individuale riassume in sé il cittadino astratto e come uomo individuale
nella vita empirica, nel suo lavoro individuale nei suoi rapporti
individuali è diventato ente generico, soltanto quando l’uomo ha
riconosciuto e organizzato le sue forze proprie come forze sociali, e
perciò non separa più da sé la forza sociale nella figura della forza
politica, soltanto allora l’emancipazione umana è compiuta.”[52]
Perché questo accada per Marx deve realizzarsi la rivolta di
coloro che nell’attività, un’attività che comprenda la propria oggettività
determinata come alienazione, invece di vivere la loro piena soggettività
vivono viceversa la loro alienazione.
Si può dire a nostro avviso per concludere che “tutti gli
elementi del pensiero-azione di Marx sono presenti in Hegel”. Questi
elementi acquistano scientificità e portata rivoluzionaria quando “Marx
applica il concetto della negatività, sviluppato dalla ‘Fenomenologia’, ai
dati strutturali elaborati nella ‘Filosofia del Diritto’”[53].
IV.6.
IL MATERIALISMO STORICO
Abbiamo visto che per Marx l’uomo nella situazione moderna è
costretto a condurre una doppia vita:
“La vita nella comunità politica nella quale egli si
considera come ente comunitario, e la vita nella società civile
nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri
uomini come mezzo, degrada sé stesso a mezzo e diviene trastullo di forze
estranee.”[54]
Ma come accade che l’uomo si scinde in due parti dividendosi
in sé stesso e per sé stesso?
Per vedere la genesi di questa scissione Marx ed Engels
partono dall’esperienza del dato empirico di una produzione basata su un
elevato livello di divisione del lavoro. Proseguono successivamente sul
terreno dell’astrazione teorica pensando l’essenza dell’uomo in generale
per ricondurre le sue forme fenomeniche storiche alla singolarità di
un’unica forma senza abbandonarle alla dispersione del molteplice. Infine
risalgono alla concretezza dei lavori storici esistiti ed esistenti.
Al secondo livello di astrazione per Marx l’uomo è
immediatamente “ente naturale”.
“Come ente naturale, è ente naturale vivente, è da una parte fornito di
forze naturali, di forze vitali, è un attivo ente
naturale, e queste forze esistono in lui come disposizioni e
capacità, come impulsi; e d’altra parte, in quanto ente naturale,
corporeo, sensibile, oggettivo, è un ente passivo condizionato e
limitato, come è anche l’animale, e la pianta: e cioè gli oggetti
dei suoi impulsi esistono fuori di lui come oggetti da lui indipendenti,
e tuttavia questi oggetti sono oggetti del suo bisogno,
oggetti indispensabili, essenziali alla manifestazione e conferma
delle sue forze essenziali.”[55]
Una caratteristica specifica dell’uomo tuttavia è quella di
non essere solo “ente naturale” ma “ente naturale umano”.
“Cioè ente che esiste a sé stesso, perciò ente generico,
e come tale deve attuarsi e confermarsi tanto nel suo essere che nel suo
sapere. Dunque, né gli oggetti umani sono gli oggetti naturali
quali si presentano immediatamente, né la sensibilità umana, quale
è immediatamente ed è oggettivamente, è umana sensibilità, umana
oggettività. Né la natura obiettiva, né la natura subiettiva, è
immediatamente presente come adeguata all’ente umano. E come tutto
ciò ch’è naturale deve nascere, così anche l’uomo ha il suo
atto di nascita, la storia, ch’è tuttavia da lui consaputa, e però,
in quanto atto di nascita con coscienza, è atto di nascita che supera sé
stesso. La storia è la vera storia naturale dell’uomo.”[56]
Questa doppia essenzialità umana, da una parte naturale e
dall’altra storica, è capace di trasformarsi e di trasformare la natura
stessa secondo finalità poste. Essa trova la propria mediazione nel
concetto generale di “lavoro”. Ciò che distingue gli uomini dagli animali,
lo abbiamo già visto precedentemente, è la produzione dei mezzi di
sussistenza e quindi, in ultima analisi, la produzione della stessa vita
generica.
L’esistenza degli individui umani viventi, presupposto di
tutta la storia umana, “coincide con la loro produzione, tanto con ciò
che producono quanto col modo come producono”[57].
Questa produzione presuppone rapporti tra gli individui la cui forma è
condizionata dal modo in cui si produce.
“…individui determinati che svolgono un’attività produttiva
secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali
e politici. In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare
empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame tra
l’organizzazione sociale e politica e la produzione.”[58]
L’ipotesi assolutamente generale e quindi astratta che guida
lo scienziato marxista nella ricerca consiste dunque nel considerare i
rapporti sociali umani come determinati dal modo in cui gli individui
associati producono la propria esistenza. Questa ipotesi, contrariamente a
quanto pensa Popper, non dice allo scienziato cosa troverà esattamente
prima di indagare, ma intende mettere in luce nessi e regolarità. Nessi
che emergono nel tragitto che dalla superficie empirica, riflessione del
concreto percepito e non pura apparenza, attraverso il piano teoretico,
ritorna al particolare accresciuto.
Il grado di sviluppo del rapporto tra forze produttive e
relazioni di produzione è indicato dal livello cui giunge la divisione del
lavoro.
La divisione del lavoro, originariamente “divisione del
lavoro nell’atto sessuale” e successivamente “divisione del lavoro…in
virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica)”, diviene
“reale” quando “interviene una divisione tra il lavoro manuale e il lavoro
mentale”[59].
Con la “divisione del lavoro reale” si sviluppano due ordini
di contraddizioni. Prima di tutto “l’attività spirituale e l’attività
materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo”, spettano
a individui distinti. Questo comporta non solo il distacco del pensiero
dalla vita, dell’esistente dal reale, ma addirittura l’idea che il
pensiero, l’esistente, determini la vita, il reale (vedi il mondo3
popperiano). Ribaltando questa prospettiva l’antropologia storica assume
per Marx ed Engels carattere ontologico.
“I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo
isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale
ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non appena
viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di
essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi che sono
anch’essi astratti, o un’azione immaginaria di soggetti immaginari, come
negli idealisti.”[60]
Il secondo ordine di contraddizioni perpetrato dalla
“divisione del lavoro reale” scaturisce dall’antagonismo tra l’interesse
del singolo individuo e l’interesse collettivo di tutti gli individui.
Questo interesse comunitario, come afferma Marx, non è una pura
astrazione, bensì esiste “come dipendenza reciproca degli individui fra i
quali il lavoro è diviso”, e si realizza come appartenenza degli individui
ad una classe determinata.
Allo stesso modo in cui i singoli individui sono sussunti ad
un particolare grado di divisione del lavoro che hanno contribuito a
creare come genere nel corso delle generazioni, essi vengono sussunti alle
classi sociali. Classi che acquisiscono autonomia nei confronti degli
individui e determinano non solo il loro sviluppo personale, ma persino le
loro idee.
“Questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi
del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che
cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre
aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei
momenti principali dello sviluppo storico.”[61]
I “risultati inintenzionali delle nostre azioni
intenzionali”, come chiama Popper gli effetti degli atti individuali, non
sono testimonianza della assoluta mancanza di senso della storia umana
bensì, esattamente al contrario, costituiscono lo straniamento della reale
cooperazione umana sedimentata nel corso dei secoli.
Questa attività umana passata, oggettivata, si oppone come
altro all’attività umana presente costituendosi come necessità naturale ed
impedendo il fatuo “dover essere” umano.
L’estraniazione, l’alienazione dell’uomo da sé stesso causata
dalla divisione del lavoro e dall’appropriazione privata del lavoro
collettivo, consiste proprio nel non riconoscere questa oggettività come
la propria oggettivazione, come oggettivazione del genere. In tal modo:
“…il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua
produzione, è la sua vita generica che gli sottrae la sua reale
oggettività di specie, e così trasforma il suo vantaggio sull’animale
nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inorganico della natura.”[62]
Per ritornare al tema iniziale di questo capitolo abbiamo
visto così come l’uomo si scinda in due parti: da una parte l’interesse
collettivo straniato nell’autonomia della comunità politica, e dall’altra
l’interesse individuale reale mediato dalla classe e quindi alienato.
Nella società borghese capovolta ciò che è reale (l’interesse
individuale) diviene irragionevole (lotta di classe) mentre ciò che è
irragionevole (il dominio di una classe sulle altre) diviene reale (lo
Stato come forma di questo dominio).
Per uscire da questa situazione non basta “togliersi dalla
testa l’idea generale”, ma occorre percorrere fino in fondo il cammino di
questa alienazione per giungere alla sussunzione da parte degli individui
sociali di quelle forze oggettive che stanno di fronte a loro come potenze
estranee.
È la lotta di una classe sociale per il dominio che consente
all’umanità intera di riappropriarsi la propria esistenza oggettiva.
Questa classe, il proletariato, è in grado di farlo poiché è del tutto
particolare. I suoi membri infatti, essendo proprietari solamente della
loro forza-lavoro, per affermare la propria vita individuale devono
abolire la loro condizione di esistenza come classe, che è allo stesso
tempo la condizione di esistenza di tutta la società: il lavoro diviso.
Così facendo essi si pongono in antagonismo diretto anche con la forma
che gli individui associati riconoscono come espressione collettiva: lo
Stato. Essi “devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità”[63].
Perché tutto ciò accada Marx ed Engels tuttavia non pensano
che basti l’iniziativa volontaria di classe. Prima, e assieme a questa,
deve verificarsi un grande sviluppo delle forze produttive che consenta
relazioni “universali” tra gli uomini. Relazioni in grado di far giungere
all’estremo la contraddizione tra forze produttive, sempre più globali, e
rapporti di produzione, sempre più unilaterali. In questa chiave pensiamo
vada letta la famosa affermazione della “Critica dell’ideologia tedesca”:
“il comunismo per noi non è uno stato di cose che
debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà
conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo
stato di cose presente.”[64]
A questo proposito si vede come sia del tutto erroneo
attribuire a Marx, come fa Popper, la patente di “dualista pratico”
intenzionato a mettere in contrapposizione “regno della libertà” e “regno
della necessità” preferendo la libertà spirituale alla necessità
materiale. Marx, lungi dall’accontentarsi della ben magra consolazione di
una libertà solo pensata e voluta, di una metafisica della libertà, vuole
indicare la strada per una libertà reale. Per questo, come Hegel, si rende
conto che la libertà non è puro “dover essere” avulso dalla condizione
storica e sociale, bensì è libertà in situazione. Questo significa che per
Marx solo attraverso lo sviluppo delle forze produttive può determinarsi
la possibilità per i “produttori associati” di istituire il “regno della
libertà” e di riappropriarsi “del controllo del ricambio organico con la
natura” come della propria natura, come di una finalità interna. E
sviluppo delle forze produttive nella situazione storica attuale non
significa altro che necessità dello sviluppo del modo di produzione
capitalistico e delle sue contraddizioni immanenti. Un modo di produzione
unilaterale, alienante, avvilente, opprimente, ma tuttavia potentemente
progressivo. Il vero “regno della libertà” può determinarsi sulle basi del
“regno della necessità” attraverso la prassi del proletariato come
soggetto rivoluzionario.
IV.7.
INDIVIDUI E CLASSI
Popper contesta al marxismo di subordinare gli individui, le
loro azioni e le loro idee, alle relazioni complesse di classi sociali
particolari che, a suo giudizio, sono pure costruzioni di pensiero. Dal
punto di vista dell’individualismo metodologico professato
dall’epistemologo viennese l’esistente rappresenta adeguatamente la realtà
effettiva senza bisogno di andare a cercare contenuti ulteriori. A parere
di Popper l’approccio “olistico” di Marx attribuisce invece lo status di
oggettività a modellizzazioni teoriche improprie. Questa critica che
contrappone concetti insoliti quali: “individualismo metodologico” e
“collettivismo metodologico”, “individualismo” e “olismo”, non costituisce
tuttavia nulla di originale dal punto di vista dei contenuti. Del resto
come scrive lo stesso Marx:
“La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un
incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a
trasformare sé stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito,
proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia
gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio: ne prendono a
prestito i nomi le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per
rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste
prese a prestito la nuova scena della storia.”[65]
Già Stirner prima di Popper ne: “L’Unico e la sua proprietà”,
ha rimproverato al comunismo di affermare la potenza del sistema sociale,
della collettività, sull’individuo.
Marx, rispondendo alle critiche di Stirner, gli rivolge un
rimprovero che potrebbe essere rivolto inalterato a Popper, ossia il
carattere ideologico della sua critica. Infatti ad una interpretazione che
lascia il mondo inalterato, quella di Popper-Stirner, Marx oppone la dura
realtà storica della divisione del lavoro, la quale fa si che “i rapporti
personali si sviluppino e si fissino necessariamente e inevitabilmente in
rapporti di classe”.
Popper-Stirner fanno dell’individuo un ente astratto,
semplice rappresentazione di un genere umano altrettanto astratto. A
questa rappresentazione Marx contrappone il processo storico di formazione
delle classi che arrivano, come abbiamo visto nel capitolo precedente, a
sussumere gli individui a loro stesse. Non basta negare questa sussunzione
perché essa scompaia.
Popper stesso che afferma l’originarietà dell’individuo e del
suo agire negando la sussunzione, si rende conto tuttavia che l’azione
individuale raramente ottiene gli scopi che si prefigge. Egli però,
anziché indagare i motivi di questa scarsa incisività, li accetta
dogmaticamente come dati di fatto non altrimenti scomponibili, occultando
in tal modo la realtà dei rapporti di produzione sottesi. Non si rende
conto che:
“Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo
arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze
che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e
dalla tradizione.”[66]
Anche per Marx la società non è che il prodotto dell’azione
reciproca degli individui.
Questo prodotto però, a differenza di quanto pensa Popper,
non è statico ma dinamico, in perenne movimento. Accade così che sotto
determinate condizioni comportamenti reciproci determinati si
autonomizzino e si pietrifichino in formazioni sociali autonome.
Questo non significa che i rapporti sociali siano “tout
court” alienanti. Non significa che i rapporti sociali in generale
comportino necessariamente l’alienazione di sé dell’individuo, bensì che
sotto determinate condizioni di produzione possono farlo e lo fanno. Lo
scopo del marxismo è quello di comprendere queste condizioni e di agire,
all’interno delle condizioni date, per trasformarle.
“…le circostanze non limitano solo ciò che gli uomini
possono fare, ma anche ciò che in pratica vogliono fare; i
desideri, gli scopi e gli ideali umani sono condizionati dalle circostanze
nelle quali il desiderio nasce…È ovvio perciò che mentre gli uomini
possono scegliere e decidere cosa fare in circostanze date, non possono
decidere o scegliere quali effetti avranno le loro azioni…Gli
uomini possono agire con l’intenzione di realizzare certi effetti; se
questi effetti si realizzano, o se accade qualcosa di differente, non
dipende dall’intenzione dell’azione ma dall’azione stessa e dalle
circostanze nella quale è effettuata.”[67]
Quando Marx parla di formazioni sociali quali le classi
dunque, fa riferimento alla maniera in cui gli individui, avendo
socialmente acquisito certe forze produttive, sviluppano determinate
relazioni di produzione che, nella circostanza specifica del modo di
produzione capitalistico, sottraggono loro l’oggetto della produzione.
Questi rapporti, autonomizzatisi, sottraggono all’individuo la sua “vita
generica”, “la sua reale oggettività di specie”, trasformando la sua
attività vitale, la sua “essenza”, in “un mezzo per la sua
esistenza”[68].
Popper, fermandosi all’apparenza dell’individuo libero di
scambiare merci, non indaga i rapporti sociali essenziali sviluppantisi
nell’ambito della produzione dove l’individuo è “liberato” dalla proprietà
dei mezzi di produzione. Questi rapporti sociali tuttavia sussistono, e in
questa circostanza storica sono meccanismi ciechi di sfruttamento
individuale e collettivo. Negarne l’esistenza equivale a rifugiarsi in un
mondo iperuranio la cui levigatezza nasconde la legittimazione
dell’esistente.
Marx così scrive di Proudhon il cui pensiero è, a nostro
giudizio, assimilabile nella forma a quello di Popper:
“Poiché il signor Proudhon pone le idee eterne, le categorie
della ragion pura da una parte, e gli esseri umani e la loro vita pratica,
che secondo lui è l’applicazione di queste categorie, dall’altra, ci si
imbatte sin dall’inizio in un dualismo tra la vita e le idee, tra
l’anima e il corpo, un dualismo che ricorre in molteplici forme. Voi
potete vedere ora che questo antagonismo non è altro che l’incapacità del
signor Proudhon a comprendere l’origine profana e la storia profana delle
categorie che egli divinizza.”[69]
La “storia profana” cui fa riferimento Marx è la storia
dell’adattamento continuo dei rapporti sociali di produzione allo sviluppo
incessante dei mezzi di produzione compiuto dall’umanità.
“Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale,
e il mulino a vapore la società col capitalista industriale.”[70]
Questa legge di sviluppo storico, del tutto generale, non è
solo descrittiva-giustificativa, quindi rivolta al passato, ma è anche
prescrittiva, rivolta al futuro, e consente a Marx la previsione
dell’avvento del socialismo.
“I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato
il mondo; si tratta di trasformarlo.”[71]
Marx individua la necessità storica del socialismo, la sua
possibilità reale, come superamento degli ostacoli di natura sociale allo
sviluppo delle forze produttive. Popper vede in questo una tendenza
marcata al determinismo storico, al profetismo sociale, che inficia la
pretesa scientifica della opera di Marx.
IV.8.
LA STORIA COME UNITA’ DIALETTICA DI FATTI E INTERPRETAZIONI
La teoria di Marx per Popper è irrefutabile, e quindi
metafisica, poiché è basata su leggi storiche. A giudizio
dell’epistemologo viennese la stessa locuzione “leggi storiche” è una
contraddizione logica in quanto la storia è fatta di avvenimenti singolari
che non servono per l’elaborazione di leggi generali (“storia priva di
senso”).
La storia, secondo Popper, non ha valore teoretico, può
consentire tutt’al più di estrapolare tendenze ma non leggi universali.
Una scienza sociale che si affidi alla storia quale quella di Marx dunque,
può solamente interpretare alla luce di griglie d’analisi determinate i
fatti del passato ma sicuramente non è in grado di predire il futuro.
La concezione della storia di Popper è oscillante quanto la
sua epistemologia. Da una parte il retaggio positivista gli fa suddividere
rigidamente oggetto e soggetto, avvenimenti storici e giudizi generali, in
maniera tale da impedire qualsiasi teoria storica. Dall’altra il rifiuto
dell’induzione lo spinge ad affermare l’esistenza di fatti storici solo in
quanto riflessi nella mente di chi li registra così da costruire una
teoria degli infiniti significati della storia.
A ben vedere entrambe le concezioni forniscono più o meno lo
stesso risultato: una svalutazione del potere euristico della storia, ora
ridotta ad una mera congerie di fatti slegati, ora divenuta un prodotto
soggettivo della mente dello storico. In realtà:
“Lo storico e i fatti storici sono legati da un rapporto di
mutua dipendenza. Lo storico senza i fatti è inutile e senza radici; i
fatti senza lo storico sono morti e privi di significato…[La storia]
perciò…è un continuo processo di interazione tra lo storico e i fatti
storici, un dialogo senza fine tra il presente e il passato.”[72]
In ossequio all’idea della storia come accozzaglia di fatti
singolari Popper ritiene che l’oggetto della ricerca dello storico siano
gli individui piuttosto che le forze sociali. Ma considerare l’uomo come
individuo è deformante quanto il considerarlo membro di un gruppo se si
stabilisce una linea netta di demarcazione tra i due punti di vista.
L’individuo infatti è per definizione il membro di una società o, ancora
meglio, di più società, e la storia concerne il passato dell’uomo vivente
in società.
“…la storia…è un processo di carattere sociale a cui gli
individui partecipano in quanto esseri sociali.”[73]
Popper paradossalmente rifiuta lo status di scientificità
alla ricerca storica dopo che ha ipotizzato, contribuendo alla
liberalizzazione del neopositivismo, lo sviluppo evolutivo e quindi
storico delle teorie scientifiche. Egli basa questa convinzione
sostanzialmente su due argomentazioni.
La prima è che la storia, avendo a che fare esclusivamente
con l’individuale, contrariamente alla scienza che si occupa del generale,
non solo non insegna nulla, ma è anche incapace di fare previsioni.
La seconda è che la storia, dal momento che riguarda l’autoempiria
umana, è soggettiva, e a differenza della scienza implica problemi morali.
Per quanto riguarda il primo dogma popperiano occorre tener
presente che se è vero che gli eventi storici non sono identici, è
altrettanto vero che anche due atomi o due animali della stessa specie non
sono uguali tra loro.
“…lo storico non ha a che fare con ciò che è irripetibile, ma
con ciò che, nell’irripetibile ha un carattere generale.”[74]
Per questo lo storico, come lo scienziato di altre
discipline, per considerare i fatti disponibili si serve di
generalizzazioni. Queste generalizzazioni non hanno nulla a che spartire
con costruzioni arbitrarie imposte surrettiziamente ai singoli eventi[75].
Scrive Marx a questo proposito smentendo esplicitamente l’accusa di
“storicismo” rivoltagli da Popper:
“Degli eventi sorprendentemente analoghi, che tuttavia si
verificano in contesti storici diversi, hanno effetti completamente
diversi. Studiando separatamente ognuno di questi processi evolutivi e
confrontandoli, troviamo facilmente la chiave per comprendere il fenomeno
in questione; ma in nessun caso è possibile arrivare a tale comprensione
servendosi come di un passe-partout di certe teorie storico-filosofiche
che hanno la gran virtù di porsi al di sopra della storia.”[76]
È il genere umano che introduce la storia nella natura, il
mutamento cosciente di sé, e su questa base Marx adotta un’unica
generalizzazione storica: la dialettica tra forze produttive e rapporti di
produzione. Attraverso questa generalizzazione egli intende il passato
alla luce del presente e il presente alla luce del passato gettando uno
sguardo al futuro.
Il significato della storia, tramite la mediazione
dell’attività umana, diviene così quello di stabilire un rapporto coerente
tra passato e futuro tale per cui fatti e valori non rimangano
astrattamente divisi, ma si compenetrino indissolubilmente. La dicotomia
tra fatti e valori, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, che Popper
istituisce è inconsistente. Nella prospettiva marxista i fatti sono il
futuro dei valori mentre i valori sono il passato dei fatti e la loro
dinamica astratta si concretizza nello sviluppo materiale umano.
La generalizzazione storica è in grado di fornire all’azione
futura indicazioni del tutto generali appunto, che non hanno alcuna
pretesa, come del resto non l’hanno le leggi fisiche, di prevedere ciò che
accadrà nei casi concreti.
“La gente non si aspetta che lo storico preveda che
una rivoluzione scoppierà in Ruritania il mese prossimo. Il tipo di
conclusione che la gente cercherà di trarre, in parte da una conoscenza
particolareggiata della Ruritania, e in parte dallo studio della sua
storia è questo: la situazione della Ruritania è tale che è probabile che
nell’immediato futuro vi scoppi una rivoluzione, a meno che qualcuno non
riesca a risolvere la situazione o che il governo non faccia qualcosa per
arrestare la rivoluzione stessa.”[77]
La previsione storica può realizzarsi soltanto se si
verificano determinati eventi particolari che per il loro carattere sono
imprevedibili. Essa perciò non è profezia bensì previsione condizionale il
cui scopo è quello di interpretare la realtà e di trovare chiavi per
l’azione possibile.
Il secondo dogma popperiano che ci rimane da affrontare,
affermando sostanzialmente la natura identica del soggetto e dell’oggetto
della ricerca, attribuisce, come abbiamo visto, un relativismo assoluto
alla ricerca storica. Popper vuole così implicare una reciprocità
dell’azione che impedirebbe qualsiasi osservazione oggettiva. Questo
argomento reintroduce, a nostro parere, un forte pregiudizio
induttivistico proprio da parte di colui che si è affannato, giustamente,
ad estirparlo dal neopositivismo.
La storia, e le scienze sociali in genere, sono, a nostro
avviso, incompatibili con qualsiasi teoria gnoseologica che implichi una
rigida separazione tra soggetto e oggetto così come sono incompatibili con
un criterio sovrastorico che giudichi il significato e l’importanza degli
avvenimenti. Due indirizzi che sembrano alternativi ma che in realtà sono
strettamente interconnessi. Relativizzare il mondo storico infatti
significa tentare di spiegarlo unicamente attraverso due strade.
La prima strada è quella della mancanza di senso, spiegare
che è inspiegabile.
La seconda strada è accettarlo in virtù di una “Ragione”
statica ed eterna.
Popper ha percorso entrambe queste strade arrivando alla fine
a santificare l’esistente ideologizzandolo.
IV.9.
NON DETERMINISMO STORICO MA POSSIBILITA’ REALE
Il pensiero marxiano della necessità storica è allo stesso
tempo un pensiero della possibilità storica.
Popper ritiene, a nostro parere erroneamente, che per Marx il
corso della storia sia deterministicamente diretto da una sorta di
fatalismo economico. Quello di Marx per noi invece, è pensiero dell’azione
rivoluzionaria piuttosto che fatalismo ottuso. Marx infatti afferma a più
riprese nelle sue opere che sono gli uomini che fanno la storia. Il
problema è che fino ad ora essi l’hanno fatta inconsciamente in quanto
sottomessi a forze economiche e sociali che non comprendono, ma d’ora in
poi la potranno fare consciamente.
Il materialismo storico non ha nulla a che vedere con il
determinismo. Né con la forma che possiamo definire determinismo religioso
o fatalismo, né con il determinismo filosofico o necessitarismo, e nemmeno
con il determinismo scientifico o meccanicismo. Ed allo stesso tempo, pur
discostandosene chiaramente, tuttavia Marx ed Engels intrattengono un
rapporto determinato con tutte e tre queste forme.
Essi, della prima forma di materialismo o fatalismo, pur
rigettando il provvidenzialismo e la predestinazione connessi, sfruttano
alcuni vocaboli in diverse occasioni. Parlano di avvenimenti che si
produrranno “fatalmente”, la rivoluzione ad esempio, di classi sociali
“destinate” a svilupparsi secondo un percorso disegnato precedentemente, e
così via. Questo linguaggio fatalista viene usato dai due essenzialmente
in maniera retorica per parlare dell’inadeguatezza tra il vecchio e il
nuovo e del loro necessario riequilibrio.
Della seconda forma di determinismo o necessitarismo, che
sostiene l’esistenza di una legge d’evoluzione universale che orienta
tutta la storia verso un determinato scopo, Marx sfrutta il concetto in
sé. Egli, assieme ad Engels, riprende l’idea di una evoluzione storica che
procede per tappe progressive che si succedono secondo un certo ordine
necessario, la famosa “legge economica del movimento della società
moderna”[78],
ma tuttavia rifiuta il concetto, associato normalmente a questa
metafisica, di una finalità esterna distinta da ciò che gli individui
possono volere. Il fine sotteso allo sviluppo storico, per Marx ed Engels,
non si realizza senza la partecipazione cosciente e volontaria degli
individui i quali, solo se prenderanno il loro destino in mano
collettivamente, potranno allo stesso tempo soddisfare i loro scopi
individuali.
La nozione di sviluppo storico per Marx è ambigua. Egli,
rigettando “la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano”[79],
mette in guardia contro la rappresentazione della storia come un progresso
continuo, lineare, e essenzialmente cumulativo dei filosofi illuministi.
Infatti, se si può parlare di evoluzione, per lui questa consiste nello
sviluppo delle forze produttive materiali e non in un “progresso dello
spirito”. È per questo che la storia è un “processo aperto nel quale
appaiono possibilità divergenti, svolte, vicoli ciechi, fallimenti,
risorgenze, ecc.”[80].
Sotto questo aspetto ciò che Marx intende per “necessità storica” è molto
diverso sia da un automatismo meccanico che da un finalismo
provvidenziale.
Per Marx ed Engels la prima condizione perché vi sia una
storia è data dall’esistenza e dalla riproduzione di esseri umani che per
natura hanno determinati bisogni.
“La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per
soddisfare questi bisogni [mangiare, bere, ecc.] la produzione della vita
materiale stessa.”[81]
A seguito di questa prima azione storica, che deriva da una
necessità naturale vitale, appaiono nuovi bisogni. Questi vengono
soddisfatti tramite la messa a punto di nuovi mezzi di produzione che a
loro volta fanno nascere nuovi bisogni e così via.
La dialettica tra mezzi di produzione e loro scopi, i bisogni
da soddisfare, è la storia.
I bisogni sociali, gli interessi materiali di classe, come
primo motore della storia passata e presente[82]
costituiscono il fine immanente della storia.
I bisogni finalizzano l’attività.
“Se la prima azione storica è la creazione di nuovi bisogni
mediante la creazione di mezzi di produzione, allora il processo storico è
essenzialmente apertura alle possibilità. Sarà dunque un errore credere
che, allorché Marx parla di necessità storica, questo vada a detrimento
della possibilità storica. L’una avviluppa l’altra. La necessità storica
si rovescia nel suo contrario; essa crea la possibilità storica. Il
pluslavoro salariato accresciuto ogni giorno, necessario alla produzione
capitalista, incrementa le forze produttive, e così sfocia in una
possibilità storica, quella del superamento di questo modo di produzione.”[83]
La locuzione “necessità storica” viene usata da Marx in
maniera sostanzialmente differente da come la intende Popper. Il termine
“necessità”, associato all’aggettivo “storica”, assume un significato
opposto rispetto a quello di una necessità immutabile dovuta ad una legge
eterna che si tratterebbe solo di vaticinare. Quella locuzione esprime
piuttosto la necessità transitoria di “uno stato di cose esistenti” che
porta con sé la possibilità di una sua abolizione futura.
Come conseguenza di ciò, a nostro giudizio, è falso
affermare, come fa Popper, che Marx esprima “l’impotenza di ogni
politica”. La possibilità per divenire realtà deve essere mediata
dall’azione umana cosciente (lotta di classe) la quale, come tutte le
azioni storiche, sottende una relativa incertezza. È l’azione stessa che
per Marx mostra la possibilità di riuscita o di fallimento, non un
improbabile legge storica.
La terza forma di determinismo, o meccanicismo scientifico, è
prossima alla concezione di Marx ed Engels, ma tuttavia ne differisce
sostanzialmente. Il meccanicismo fa appello solamente a cause efficienti
ed a condizioni date induttivamente esperite escludendo tutte le necessità
trascendenti e qualsiasi finalismo causale. Per Popper, nel “Capitale”,
Marx, facendo riferimento a “leggi naturali della produzione
capitalistica…che operano e si fanno valere con bronzea necessità”[84],
accomuna leggi economiche e leggi naturali attribuendo alle prime la
necessità assoluta che il meccanicismo attribuisce alle seconde
reintroducendo surrettiziamente proprio quel finalismo che il determinismo
scientifico si propone di eliminare. Popper definisce questa concezione di
Marx “economismo”.
IV.10.
LEGGI ECONOMICHE, LEGGI NATURALI ED “ECONOMISMO”
Gli economisti moderni, prima di Marx, hanno ritenuto di aver
scoperto leggi universali e necessarie nell’economia politica del tutto
simili a quelle della natura. Marx afferma invece che le leggi economiche
cambiano a seconda del periodo storico, anche se questo non impedisce che
esse si impongano agli uomini loro malgrado.
Quando Marx assimila una legge economica ad una legge
naturale, lo fa riferendosi al modo in cui queste generalizzazioni operano
e al loro contenuto senza tuttavia stabilire una relazione identitaria. Se
andiamo ad analizzare una relazione di scambio semplice infatti, vedremo
che gli agenti economici elementari, vale a dire i venditori e i
compratori, non pongono lo scambio volontariamente attraverso una
convenzione, o un decreto deliberato, ma lo subiscono indipendentemente
dal suo effetto. Agli occhi di questi agenti economici le leggi che
presiedono lo scambio risultano inavvertibili, e il valore delle merci
sembra essere una proprietà oggettiva delle cose.
“Quel che interessa praticamente in primo luogo coloro che
scambiano prodotti, è il problema di quanti prodotti altrui riceveranno
per il proprio prodotto, quindi, in quale proporzione si scambiano i
prodotti. Appena queste proporzioni sono maturate fino a raggiungere una
certa stabilità abituale, sembrano sgorgare dalla natura dei prodotti del
lavoro, cosicché per esempio una tonnellata di ferro e due once d’oro sono
di egual valore, allo stesso modo che una libbra d’oro e una libbra di
ferro sono di egual peso nonostante le loro differenti qualità chimiche e
fisiche.”[85]
C’è tuttavia una differenza essenziale tra leggi economiche e
leggi naturali. Mentre le seconde esistono senza il concorso dell’azione
umana, non si può dire lo stesso delle generalizzazioni economiche. Questo
significa che per Marx il rapporto che intercorre tra i due tipi di
generalizzazione non è di carattere identitario, come abbiamo già
rilevato, ma analogico.
L’analogia da una parte consente a Marx di assimilare lo
sviluppo della società a quello della natura e, con una funzione euristica
positiva, il rapporto dell’uomo con la natura a quello dell’individuo con
la società, ma, d’altra parte, rischia di occultare i rapporti reali.
“Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica
di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che
esiste fra gli uomini stessi. Quindi per trovare un’analogia, dobbiamo
involarci nella regione nebulosa del mondo religioso…Questo io chiamo
feticismo…”[86].
È necessario perciò relativizzare le leggi economiche. La
legge del valore ad esempio, appare come legge naturale solamente in una
società di mercato, mentre non lo sarebbe in un’economia pianificata di
una società socialista. Con la proprietà privata e un mercato libero:
“le leggi economiche si impongono come leggi della natura.
Esse sono identiche perché sono rigide e agiscono ciecamente; ma allo
stesso tempo non lo sono poiché risultano da rapporti sociali che non sono
naturali.”[87]
Oltre al senso analogico, che abbiamo appena tentato di
mettere in evidenza, l’aggettivo “naturale” acquista per Marx anche il
significato di “essenziale”. Sotto questo aspetto Marx parla di “leggi
interne” o “immanenti” alla produzione capitalista. Vediamo così che la
locuzione “legge naturale” nell’opera marxiana può essere intesa sia come
“legge che si impone come una legge della natura”, che come “legge che
deriva dall’essenza di una formazione socio economica data”[88].
Quando Popper afferma che per Marx esistono “leggi
inesorabili della storia” da indagare allo scopo di “profetizzare il
futuro”, attribuisce un intento, al proprio bersaglio polemico,
assolutamente privo di fondamento. Per Marx le leggi di un modo di
produzione non sono né eterne né inesorabili. Se all’interno di certe
condizioni sociali la necessità economica si impone ciecamente, questo non
vuol dire che le condizioni non possano essere cambiate. Parlando di
inesorabilità Popper elimina dalla concezione di Marx l’idea che gli
uomini determinino i cambiamenti. Egli trasforma la “necessità relativa”
di un modo di produzione determinato in “necessità assoluta” e attribuisce
a Marx un fatalismo storico ingenuo che appartiene semmai all’economia
politica criticata nel “Capitale”. Per l’autore di Treviri:
“Quando si parla dunque di produzione, si parla sempre di
produzione di un determinato livello di sviluppo sociale, si parla della
produzione di individui sociali.”[89]
Questo significa allora, ribaltando la concezione di Popper,
che Marx mette in luce unicamente leggi economiche particolari e
storicamente determinate sviluppando un relativismo assoluto che impedisce
qualsiasi possibilità di sistematizzazione scientifica? Assolutamente no.
Esistono anche per Marx leggi generali dell’economia che attraversano
tutti i modi di produzione.
“…tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in
comune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale è
un’astrazione, ma un’astrazione che ha un senso, nella misura in cui mette
effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una
ripetizione.”[90]
Due esempi di queste leggi generali sono: “ogni produzione è
appropriazione della natura da parte dell’individuo entro e mediante una
determinata forma di società”[91];
“la produzione è dunque immediatamente consumo, il consumo è
immediatamente produzione”[92].
Queste “determinazioni comuni a tutti i livelli di produzione” sono
concetti astratti che rappresentano, senza determinarle, le forme generali
delle forme concrete e storiche della produzione. Come tutti gli
universali una legge generale non esiste che sotto delle forme
particolari.
“La ‘possibilità’ di cambiamento di ‘forma’ di una legge
generale…rinvia al cambiamento storico: si realizza nel processo del
divenire storico. La questione diventa: il cambiamento storico è
determinato da leggi? Le forme generali o le leggi non sono sufficienti
per rendere conto del cambiamento delle forme particolari. Noi non abbiamo
che l’idea astratta della possibilità, la possibilità del cambiamento
delle forme socio-economiche. Le leggi della produzione in generale sono
incapaci di consegnarci la chiave della possibilità storica reale.”[93]
Le leggi della produzione in generale di Marx dunque, oltre a
rappresentare la possibilità concettuale quindi astratta, sono categorie
che consentono di comprendere la realtà, in maniera molto generale
appunto, ma che in nessun caso la determinano fatalisticamente come se
fossero istituite dalla divina provvidenza. Questa categorizzazione
oltretutto, non costituisce una sopravvalutazione del fattore economico
rispetto agli altri, e non può indurre, come fa Popper, ad accusare di
“economismo” Marx, ma è il risultato di motivazioni epistemologiche
interne alla teoria.
Marx infatti indagando i contenuti della storia
materialisticamente, a partire dal modo di produzione, necessariamente
privilegia l’economia alla scienza storica. Questo non significa però che
egli, allo stesso modo dell’economia politica dei suoi tempi, tratti
l’economia come una scienza particolare. Marx piuttosto guarda
all’economia come a una scienza che inerisce la totalità della storia, e
quindi la stessa essenza generica dell’uomo.
Siccome secondo l’autore di Treviri: “l’economia politica
conosce il lavoratore solo in quanto bestia da soma, animale ridotto ai
più stretti bisogni corporali”[94],
e “per Ricardo gli uomini non sono niente, il prodotto è tutto”[95],
occorre sollevarsi “sopra il livello dell’economia politica”[96].
“L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata.
Non ce la spiega…L’economia politica non ci dà alcun chiarimento della
ragione della divisione di lavoro e capitale, di capitale e terra.”[97]
Il tragitto di Marx parte, come quello dell’economia
politica, dai fatti, ma non si ferma alla loro semplice descrizione per
santificarli, bensì intende giungere alla totalità delle connessioni
sostanziali passando attraverso generalizzazioni formali. Egli, con questo
percorso, vuole contrapporsi da un lato alla separazione effettuata da
Kant e dai suoi seguaci, tra cui anche Popper, tra ragione teoretica e
ragion pratica e, d’altro lato, vuole superare l’unità di teoretico e
pratico nell’idea assoluta hegeliana. Il principio materiale che consente
a Marx di fare questo sta nell’attività oggettiva. Essa è sintesi di
attività coscientemente finalizzata e comprende: la rappresentazione
teoretica della realtà insieme alla coscienza dell’alterità e della
concretezza degli oggetti su cui quell’attività si compie.
“È questa stessa attività oggettiva che definisce la
costituzione ontologica dell’uomo, ad un tempo, come essenza naturale e
storica. La forma storicamente determinata dell’attività oggettiva, il
modo di produzione che caratterizza un’epoca, si riflette nella disciplina
scientifica dell’economia politica. Dunque, il volgersi di Marx
all’economia come oggetto di ricerca, in nessun modo, significa un suo
allontanamento dalla filosofia a favore di una singola scienza
determinata, significa, piuttosto, l’elaborazione della filosofia come
‘scienza reale’ sul terreno del fondamento empirico della scienza della
storia e la concretizzazione del progetto storico-filosofico (materialismo
dell’uomo e umanismo della natura = regno della libertà) – progetto di cui
fa parte organica la strategia politica del rovesciamento e nuova
costruzione dei rapporti sociali.”[98]
In altri termini la teoria di Marx ed Engels compie la
riunificazione di storia, filosofia, economia, e politica, attraverso la
critica dell’obiettivo della “perfetta produzione” dell’economia politica.
IV.11.
LA DIFFERENZA TRA LEGGI E TENDENZE
A dispetto di ciò che scrive Popper a più riprese a proposito
della confusione che Marx farebbe tra leggi e tendenze, occorre dire che,
per il filosofo di Treviri, la nozione di tendenza, invece di essere
alternativa, completa quella di legge.
La legge, come abbiamo tentato di mettere in rilievo nel
precedente capitolo, fornisce la possibilità astratta, la tendenza offre
la possibilità storica concreta.
“Una tendenza esprime una necessità allo stato di
possibilità.”[99]
La necessità relativa espressa da una legge si esercita
all’interno di condizioni date e implica determinati rapporti di
produzione. Nel caso in cui la legge agisca in maniera tendenziale la
necessità diviene doppiamente relativa. Infatti il carattere tendenziale
di una legge comporta la possibilità concreta di una serie di cause che
agiscono in senso contrario e ritardano l’effetto della legge.
Consideriamo ad esempio la legge tendenziale, scoperta da
Marx, della caduta del tasso di profitto nel sistema capitalistico. Essa
come legge afferma la possibilità astratta di questa caduta in base
all’accrescimento del capitale costante rispetto al capitale variabile,
come tendenza sottolinea la possibilità concreta di innumerevoli ostacoli
che si oppongono a questa caduta, e come legge tendenziale esprime la
necessità contraddittoria di questo doppio movimento.
“La contraddizione, esposta in termini generali, consiste in
questo: la produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo
sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e
dal plusvalore in esso contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni
sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione
ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua
massima valorizzazione (vale a dire l’accrescimento accelerato di questo
valore).”[100]
Questa legge non presenta le caratteristiche abituali che
connotano le leggi scientifiche: costanza, semplicità, regolarità,
permanenza. Le circostanze in cui essa diventa percettibile sono singolari
e storiche, sono i periodi di crisi.
“…la legge si riduce ad una semplice tendenza, la cui
efficacia si manifesta in modo convincente solo in condizioni determinate
e nel corso di lunghi periodi di tempo.”[101]
Davanti alle diverse possibilità di contrasto l’azione della
legge, la sua necessità, sembra scomparire. Addirittura in tempi normali
essa appare come il suo contrario sotto l’aspetto di un rialzo del tasso
di profitto.
Marx afferma che questa legge esprime la “necessaria
relazione fra due fatti che sono apparentemente in contrasto”[102] essa
è la contraddizione essenziale del modo di produzione capitalistico. Una
contraddizione che si sviluppa attraverso molteplici contraddizioni
interne determinate dal fatto che la medesima causa, l’accrescimento del
capitale costante, ingenera effetti opposti. L’origine di queste
contraddizioni interne sono dovute alla sproporzione derivante dallo
sfruttamento capitalistico del lavoro tale per cui ad un aumento dei mezzi
materiali di produzione corrisponde un bisogno inferiore di lavoratori.
Questa sproporzione costringe il capitalista ad oscillare tra due tendenze
antagoniste:
“…da un lato a convertire in plusvalore la maggior possibile
quantità di una determinata massa di lavoro, dall’altro ad impiegare in
proporzione al capitale anticipato il meno possibile di lavoro; cosicché
le medesime cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento del
lavoro impediscono che – impiegando lo stesso capitale complessivo – venga
sfruttata la stessa quantità di lavoro di prima.”[103]
Dunque la causa del carattere tendenziale della legge è
dovuta alla contraddizione tra lo sviluppo della produttività, cui tende
il capitalista per difendere il suo capitale dalla concorrenza, e la
conferma delle condizioni capitalistiche di produzione. Il movimento
stesso della produzione impone una barriera al suo sviluppo. La legge
della caduta tendenziale del tasso di profitto esprime questa
contraddizione essenziale del modo di produzione capitalistico. Questa
legge nella tendenzialità trova un innalzamento, una conservazione ed un
superamento di sé stessa in quanto astrazione. Essa così è più concreta di
una normale generalizzazione e proprio per questo meno precisa.
L’incertezza non impedisce tuttavia di esprimere una necessità storica che
includa le diverse possibilità temporali.
“Questa ‘legge’ concerne tutti i fattori essenziali del tutto
sociale. Inversamente alle leggi più immediate e più semplici, essa è
globale e complessa: abbraccia l’insieme di un sistema socio-economico nel
suo divenire, e le tendenze antagoniste che la caratterizzano donano ai
diversi processi sociali l’aspetto di una ‘storia’.”[104]
Popper non può condividere la nozione marxiana di “legge
tendenziale”. I due concetti per lui, lungi dal completarsi, si escludono
vicendevolmente. Se la legge è una generalizzazione teorica allora la
tendenza è un fatto storico e per la logica scientifica popperiana tra
norme e fatti si manifesta un dualismo irriducibile.
Per Marx questo dualismo esiste solo dal punto di vista
fenomenico. Il “movimento reale” comprende il momento fenomenico e lo
supera nella tendenza storica. La legge della caduta tendenziale del tasso
di profitto allora non è nient’altro che la legge di evoluzione delle
società capitaliste. Essa consente di cogliere il limite interno del modo
di produzione capitalistico.
“Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro determinando
la caduta del saggio del profitto, genera una legge che, ad un dato
momento, si oppone inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e che deve
quindi di continuo essere superata per mezzo di crisi.”[105]
In base a questo limite:
“…dal punto di vista della produzione capitalistica stessa…quest’ultima
è limitata e relativa:…essa non costituisce un modo di produzione
assoluto, ma semplicemente storico, corrispondente ad una certa, limitata
epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione.”[106]
La mancata comprensione della natura delle “leggi
tendenziali” non consente a Popper di intravedere il limite specifico del
modo di produzione capitalistico. Questo rende l’epistemologo viennese
impermeabile alla dialettica materialistica di Marx e lo induce a
travisare il “Capitale”.
IV.12.
“IL CAPITALE”: METACRITICA DELL’ECONOMIA
L’opera fondamentale di Marx può essere preliminarmente
collocata, a nostro parere, ad un diverso livello d’indagine rispetto al
livello “epistemico” del sapere immediatamente scientifico. Come recita
del resto lo stesso sottotitolo del “Capitale” in quest’opera Marx
affronta la “critica dell’economia politica”. Egli intende porsi al
livello metascientifico della teoria della scienza considerando
filosoficamente il sapere scientifico. Questo punto di vista, secondo noi,
è doppiamente originale: in quanto filosofico esprime, come abbiamo visto,
non solamente la comprensione bensì la trasformazione del mondo[107],
ed in quanto scientifico si oppone alla assolutizzazione scientistica del
sapere scientifico.
Se l’economia politica è la falsa coscienza dell’economia
borghese, la critica che Marx ne compie non ha per oggetto la sua
problematica immediata, ma la sua problematica immanente.
“Quando consideriamo un dato paese dal punto di vista
economico-politico, noi cominciamo con la sua popolazione…Sembra corretto
cominciare con il reale ed il concreto, con l’effettivo presupposto;
quindi, per es., nell’economia, con la popolazione, che è la base e il
soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma ad un più attento
esame, ciò si rivela falso. La popolazione è un’astrazione, se tralascio
ad esempio le classi di cui si compone…Se cominciassi quindi con la
popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell’insieme e, precisando
più da vicino, perverrei via via analiticamente a concetti più semplici;
dal concreto rappresentato, ad astrazioni sempre più sottili, fino a
giungere alle determinazioni più semplici. Da qui si tratterebbe poi di
intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare
finalmente di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come a una
caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca,
fatta di molte determinazioni e relazioni.”[108]
Quando Popper afferma che il capitalismo studiato da Marx non
esiste più, non si pone solo nella prospettiva, a nostro avviso errata, di
identificare “laissez faire” ottocentesco e capitalismo “tout court” ma,
cosa ben più grave, interpreta “Il Capitale” come un’opera di economia
politica teso alla confutazione dei precedenti lavori degli economisti
dell’epoca. Egli vede nel “Capitale” un trattato di economia politica del
“proletariato” che si oppone ai coevi trattati di economia politica della
“borghesia”. L’intenzione di Marx tuttavia non è quella che gli
attribuisce Popper ma l’esatto contrario. Egli infatti, a partire dalla
investigazione materialistica del modo di produzione determinato che
presuppone l’autoproduzione processuale umana, intende svelare le
relazioni sociali che l’economia politica come scienza particolare
occulta, ed esibire la formazione sociale capitalista come un tutto
vivente.
Questa ricognizione nel “Capitale” si compie in tre fasi.
La prima fase, tramite la intuizione e la rappresentazione
del concreto materiale, parte dall’insieme vivente percepito che nella
storia compiuta compare come prodotto storico.
La seconda fase trae analiticamente alcune relazioni
determinanti generali fissate socialmente nella storia in atto.
La terza fase svolge deduttivamente e sinteticamente le forme
generali precedenti in sistemi risalenti all’insieme vivente facendo
storia.
“Il concreto è concreto perché è sintesi di molte
determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso
si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di
partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche
il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. Per la
prima via, [quella dell’economia politica] la rappresentazione concreta si
è volatilizzata in una astratta determinazione; per la seconda, [quella di
Marx] le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto
nel cammino del pensiero.”[109]
Popper distingue tra il metodo marxiano, che chiama
“collettivismo metodologico” o “olismo”, ed il presunto “economismo”.
Mentre al materialismo dialettico il filosofo viennese contrappone, come
abbiamo visto, il metodo per “congetture e confutazioni” basato su
un’ontologia individualistica, alla “critica dell’economia politica” egli
non trova niente di meglio che contrapporre dogmaticamente…l’economia
politica! Una scienza puramente induttiva.
La critica popperiana al presunto “economismo” marxiano si
accentra prioritariamente su tre obiettivi: la teoria del valore e dello
sfruttamento della forza lavoro, la teoria del plusvalore, e la legge
generale dell’accumulazione capitalistica.
IV.12.1. La teoria
del valore
Secondo Popper, Marx mutua, inutilmente, la teoria del valore
lavoro da Ricardo e da Smith “al fine di spiegare i prezzi effettivi ai
quali sono scambiate tutte le merci”[110].
A parere dell’epistemologo viennese per spiegare ciò basta unicamente la
teoria classica della domanda e dell’offerta, mentre non serve a nulla
sapere che i prezzi delle merci sono determinati dalle ore necessarie alla
loro produzione.
La teoria del valore marxiana risulterebbe essere così
assolutamente “priva di importanza” e addirittura “ridondante”.
Ci domandiamo: è corretto ridurre Marx ad “un attento
negoziante che vuole sapere perché questo debba costare più di quello”[111]?
Noi pensiamo di no! Pensiamo che egli sia più interessato alla formazione,
allo sviluppo, e al cambiamento delle relazioni di produzione attraverso
la spiegazione concreta della legge puramente fenomenica della domanda e
dell’offerta.
Tenteremo di dimostrare questa tesi analizzando il lavoro di
Marx.
Prima di tutto occorre dire che Marx, contrariamente a quanto
pensa Popper, non parte dalla teoria del valore lavoro di Smith e Ricardo
per poi spiegare tutte le dinamiche sociali in essere, bensì arriva ad una
teoria del valore che conserva, nega, ed alla fine supera la teoria dei
classici partendo dalla società come presupposto. Per lui, ricordiamolo,
gli strumenti cognitivi del pensiero quali la teoria o la logica non
determinano la realtà effettiva ma ne sono determinati.
“La cosiddetta evoluzione storica si fonda in generale sul
fatto che l’ultima forma considera le precedenti come semplici gradini che
portano a sé stessa, e poiché è raramente e solo in certe determinate
condizioni capace di criticare sé stessa…le concepisce sempre
unilateralmente…Come in generale per ogni scienza storica e sociale,
nell’ordinare le categorie economiche si deve sempre tener fermo che, come
nella realtà così nella mente, il soggetto – qui la moderna società
borghese – è già dato, e che le categorie perciò esprimono modi d’essere,
determinazioni d’esistenza, spesso soltanto singoli lati di questa
determinata società, di questo soggetto e che pertanto anche dal punto
di vista scientifico essa non comincia affatto nel momento in cui se
ne comincia a parlare come tale.”[112]
Marx presuppone dunque la società come sistema sviluppato
della produzione capitalistica la cui esistenza storicamente determinata
viene prodotta e riprodotta, nella forma di un rapporto mercantile, dalle
relazioni reciproche degli individui. Questo sistema viene presupposto per
poter essere dimostrato al termine del processo di rappresentazione,
astrazione, e “risalimento al concreto”.
Gli individui, immediatamente, percepiscono il rapporto
sociale di produzione come oggetto esterno, come bene concreto. Perciò il
punto di partenza per l’analisi di questo rapporto è il suo prodotto
empiricamente percepito: la merce.
“La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di
produzione capitalistico si presenta come una ‘immane raccolta di merci’ e
la merce singola si presenta come sua forma elementare.”[113]
La merce si presenta come “oggetto esterno”, come natura, che
tuttavia possiede qualità del tutto particolari e per così dire
innaturali, quelle di soddisfare bisogni umani. Astraendo da questo
carattere immediato o utile della merce che andrà dimostrato alla fine in
quanto rapporto, Marx analizza la sua ambivalenza di contenuto materiale,
o qualità, e forma sociale, o quantità.
“Ogni cosa utile, come il ferro, la carta, ecc., dev’essere
considerata da un duplice punto di vista, secondo la qualità e
secondo la quantità. Ognuna di tali cose è un complesso di molte
qualità e quindi può essere utile da diversi lati. È opera della storia
scoprire questi diversi lati e quindi i molteplici modi di usare delle
cose. Così pure il ritrovamento di misure sociali per la
quantità delle cose utili.”[114]
I due caratteri di questa rappresentazione sono valori:
rapporti storico-sociali e quindi determinati di validità. La
determinazione qualitativa del corpo della merce è “valore d’uso”. Esso è
il “corpo della merce stesso”.
La “proporzione nella quale valori d’uso sono scambiati” è
“valore di scambio”. Esso è il “rapporto quantitativo” tra due o più
valori d’uso ma si presenta contraddittoriamente come “valeur intrinseque”.
Vediamo già in questo primo approccio come Marx faccia
emergere le relazioni interne complesse del fenomeno merce mentre Popper,
rifiutando i fatti come presupposti, paradossalmente, nel suo processo di
astrazione, li accetti dogmaticamente senza analizzarli. Ma proseguiamo.
Perché il valore d’uso, l’in sé della merce, possa
confrontarsi col valore di scambio, il per sé della merce, per comprendere
la totalità del fenomeno effettivo merce, occorre un elemento di
mediazione che comprenda e allo stesso tempo superi entrambe le
determinazioni semplici. A questo scopo occorre prescindere per un momento
dal valore d’uso semplice dei corpi delle merci a causa della non
confrontabilità di due corpi concreti (ferro e grano non sono
confrontabili in sé), compiendo una seconda astrazione che riduce i corpi
delle merci alla loro determinazione più generale elevandoli a prodotti
antropomorfi.
“…se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci,
rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro.”[115]
Sospendendo l’osservazione delle “diverse forme concrete” dei
lavori che producono merci rimane “lavoro umano in astratto”, la
rappresentazione di lavoro umano, e le merci, a loro volta, diventano
l’oggettivazione di “forza-lavoro umana”.
“Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune,
esse sono valori, valori di merci.”[116]
Il contenuto di valore delle merci, la loro sostanza, è
dunque l’oggettivazione di un rapporto sociale, il prodotto di “lavoro
astrattamente umano” il quale, a sua volta, è valore di scambio e viene
misurato in tempo di lavoro. Ma anche il tempo di lavoro è un rapporto
sociale, da una parte infatti il tempo è riconosciuta misura del lavoro, e
dall’altra, come “tempo di lavoro socialmente necessario”, riproduce
questo rapporto.
La merce diventa tale solo grazie alla sintesi di valore
d’uso e valore di scambio cioè oggettivazione di lavoro umano socialmente
determinato.
Questo processo analitico-sintetico del fatto merce,
attraverso la sua contraddittorietà oggettiva, permette a Marx di
dimostrare ciò che per Smith e Ricardo rimane indimostrato e che per
Popper è ininfluente, ossia l’originarietà dell’attività umana nel
processo di definizione del mondo.
Il rimprovero di meccanicismo storicista rivolto da Popper a
Marx può dunque essere ribaltato già a questo livello. Vediamo infatti
come, tra i due, chi accetta di determinare il concetto di merce
assumendola come dato di fatto naturale invece di mettere in rilievo la
sua natura di rapporto sociale collettivamente determinato, sia proprio
Popper.
Marx, scoprendo la natura sociale della determinazione di
merce, ne mette in luce anche la forma di valore. Questa, nella sua
rappresentazione più semplice, implica i prodromi dell’appropriazione
privata.
La merce, nel suo sviluppo necessario dalla forma semplice a
quella dispiegata a quella generale, giunge a trasformarsi in denaro.
Il denaro si converte necessariamente, a sua volta, in
capitale, il quale per valorizzarsi deve sfruttare il lavoro salariato.
In questo senso si può dire che, anche se nella merce in
quanto tale storicamente non è contenuto sfruttamento,
contraddittoriamente è “storicamente necessario” che il prodotto divenga
merce, poi denaro e poi capitale, e quindi che quest’ultimo contenga al
proprio interno le determinazioni precedenti. Questo significa che dalla
forma semplice della merce si giunge storicamente alla estrazione
predatoria di plusvalore, dalla merce forza-lavoro, del modo di produzione
capitalistico.
“Il nostro possessore di denaro, che ancora esiste soltanto
come bruco di capitalista, deve comperare le merci al loro valore, le deve
vendere al loro valore, eppure alla fine del processo deve trarne più
valore di quanto ve ne abbia immesso. Il suo evolversi in farfalla deve
avvenire entro la sfera della circolazione e non deve avvenire
entro la sfera della circolazione. Queste sono le condizioni del problema.
Hic Rhodus, hic salta!”[117]
Abbiamo visto che la merce diviene sé stessa quando è unità
di valore d’uso, corpo materiale di lavoro qualitativamente determinato, e
valore di scambio, quantità di lavoro umano astrattamente uguale. Tuttavia
non ogni oggettivazione di lavoro (valore d’uso), è valore (merce), per
esserlo deve diventare “valore d’uso per altri, valore d’uso sociale”. La
merce diviene questa unità, fenomeno immediato, nel rapporto di scambio.
Qui accade però una cosa del tutto sorprendente:
“Nel rapporto di scambio delle merci stesse il loro valore di
scambio ci è apparso come una cosa completamente indipendente dai loro
valori d’uso. Ma se si fa realmente astrazione del valore d’uso dei
prodotti del lavoro, si ottiene il loro valore…”[118].
Mediante l’analisi Marx mette a nudo la relazione generale
determinante delle merci. Nel rapporto di scambio le merci si manifestano
come “prodotti del lavoro”, “semplici concrezioni di lavoro umano
indistinto”, “dispendio di forza-lavoro”, ossia: valore.
“Dunque, un valore d’uso o bene ha valore soltanto
perché in esso viene oggettivato, o materializzato,
lavoro astrattamente umano.”
La sostanza di valore è “dispendio di lavoro umano in
generale”. Se andiamo però a scomporre e ad analizzare questa astrazione
ci accorgiamo che il valore è in realtà “dispendio di quella semplice
forza-lavoro che ogni uomo comune possiede in media nel suo organismo
fisico”, e che i differenti generi determinati di lavoro “sono ridotti a
lavoro semplice come unità di misura” da un processo sociale
“estraneo ai produttori” che appare loro come tradizionale o naturale.
Verifichiamo ancora come la astrazione, in questo caso il lavoro uguale,
se sottoposta ad analisi acquista la sua concretezza, in questo caso
l’unità di misura della forza-lavoro semplice, come contraddizione
oggettiva.
Popper a nostro avviso sbaglia quando riduce la teoria del
valore “forza-lavoro” marxiana alla teoria del valore lavoro di Smith e
Ricardo. Essa è quest’ultima, ma allo stesso tempo anche di più, e in
questo percorso mette in luce gli antagonismi reali occultati dalla falsa
coscienza dell’economia politica.
Ma andiamo avanti. Come per la merce nel processo di
astrazione si evidenzia l’ambivalenza tra valore d’uso e valore di
scambio, anche per il lavoro si ripete questa duplicità. Da una parte la
sostanza del valore, come abbiamo visto, è “lavoro umano in generale”,
dall’altra la forma di valore, come “grandezza di valore”, è il “tempo di
lavoro socialmente necessario per fornire un valore d’uso”. Il movimento
reciproco di questi due momenti produce la contraddizione tra ricchezza e
valore, tra concreto percepito e astratta relazione determinante.
“…lavoro identico rende sempre, in spazi di tempo identici,
grandezza identica di valore, qualunque possa essere la variazione
della forza produttiva. Ma esso fornisce nello stesso periodo di tempo
quantità differenti di valori d’uso: maggiori quando la forza
produttiva cresce, minori quando cala. Dunque quella stessa variazione
della forza produttiva che aumenta la fecondità del lavoro e quindi la
massa dei valori d’uso da esse fornita, diminuisce la grandezza
di valore di questa massa complessiva aumentata, quando
accorcia il totale del tempo di lavoro necessario alla produzione
di quella massa stessa. E viceversa.”[119]
Il valore fagocita completamente la natura ed il lavoro solo
quando questi dati vengono unilateralmente ricomposti nel mondo sociale
della produzione di merci; quando la merce da “presupposto della
formazione di capitale” appare “come il prodotto e il risultato specifico
del processo produttivo capitalistico”. Il mondo sociale delle merci
allora si nutre di valore d’uso, di prodotto storico e di prodotto
naturale, e lo fa appropriandosi in forma valore-merce della natura
(trasforma tutta la natura in merci), e in forma valore-merce del lavoro
(trasforma tutto l’uomo in merce). Valori d’uso, lavori, uomini, divengono
così prede assolutamente appetibili, e il valore opera per cacciarle,
divorarle, e metabolizzarle in merce-valore.
Già a questo livello ci si può rendere conto di come Marx,
partendo dal dato immediato delle merci, astraendone la relazione
di valore, ed arrivando al dato mediato (dal capitale) delle merci,
sia in grado di proporci un’immagine del mondo sociale che nega, con buona
pace di Popper, la pretesa di un mercato perennemente in grado di
riequilibrare domanda e offerta, ed implica la completa distruzione e
ricostruzione come valore-merce della totalità del reale. L’uomo e la
natura si riducono a semplici fattori inessenziali di una relazione che
hanno creato. Come può avvenire tutto ciò?
Nel terzo livello della dialettica materialistica,
consistente nel risalimento “dall’astratto al concreto”, questo movimento
di predazione, divoramento, e metabolizzazione viene illustrato da Marx
grazie al concetto di valore accresciuto o categoria concreta di valore di
scambio.
“Il progredire dell’indagine ci ricondurrà al valore di
scambio come modo di espressione o forma fenomenica del valore…”[120].
Il valore di scambio che come grandezza di valore è “tempo di
lavoro socialmente necessario”, ora diviene “forma fenomenica del valore”,
oggettività di valore. L’immediatezza di una merce è il suo valore di
scambio, ovvero il suo valore.
“Ognuno sa, anche se non sa nient’altro, che le merci
posseggono una forma di valore che contrasta in maniera spiccatissima con
le variopinte forme naturali dei loro valori d’uso, e comune a tutte: la
forma di denaro.”[121]
Anche Popper non sa nient’altro oltre al fatto che le merci
si scambiano sul mercato, in base al loro valore, secondo la legge della
domanda e dell’offerta. Il valore di scambio invece per Marx diviene
concretezza di una merce solo grazie al suo sviluppo promosso sin dalla
forma più semplice.
La base elementare del movimento di mercificazione
universale, che noi chiameremo strategia relativo-equivalente, si trova
proprio nella forma semplice di valore.
“x merce A = y merce B, oppure: x merce A vale y merce
B…L’arcano di ogni forma di valore sta in questa forma semplice
di valore.”[122]
“A” come merce presa a sé stante, ad esempio 20 braccia di
tela, è semplice cristallizzazione di lavoro umano e l’analisi che
possiamo farne la riduce all’astrazione di valore: lavoro umano astratto.
Questa analisi non le può attribuire alcuna forma di valore, alcuna
scambiabilità, differente dalla sua forma naturale: tela. La merce “A” ha
valore, ha senso sociale, solo nel rapporto con un’altra merce “B”, ad
esempio un abito, che conseguentemente assume la forma di equivalente.
Nell’incontro-scontro 20 braccia di tela = un abito, il solo
valore che si erge alla fine della contesa è quello della tela, mentre
l’abito giace come oggetto ai piedi del valore trionfante. “A”, in questo
rapporto, si attiva a spese del corpo materiale di “B” per trascinarlo in
catene nella spirale del valore. Il lavoro concreto della forma di
equivalente diviene forma fenomenica del suo contrario, di astratto lavoro
umano. Il carattere di valore di “A” si impossessa del corpo di “B”, lo
muta in oggetto di valore, e vi stabilisce la propria immagine riflessa.
“Dunque mediante il rapporto di valore la forma naturale
della merce B diventa forma di valore della merce A, ossia il corpo della
merce B diventa lo specchio di valore della merce A[123].
La merce A, riferendosi alla merce B come corpo di valore, come
materializzazione di lavoro umano, fa del valore d’uso B materiale della
sua propria espressione di valore. Il valore della merce A, così espresso
nel valore d’uso della merce B, ha la forma del valore relativo.”[124]
In questo modo “B” (valori d’uso, lavori utili, uomini) è
precipitato nella merce. Acquista esso stesso forma di valore che
“equivale” a quella di “A”. “B”, catturato da “A”, è venuto al mondo delle
merci come forma di esistenza di valore. Esso è una cosa che vale in
quanto è assunto nella natura sociale di “A” diventando identico ad “A”. A
sua volta l’autonomia di merce che caratterizza “A” emerge proprio
nell’azione di cattura di “B”.
“La tela esprime il proprio valore nell’abito, l’abito
serve da materiale di questa espressione di valore. La prima merce
rappresenta una parte attiva, la seconda merce una parte passiva. Il
valore della prima merce è rappresentato come valore relativo,
ossia quella merce si trova in forma relativa di valore. La seconda
merce funziona come equivalente, ossia essa si trova in forma di
equivalente. Forma relativa di valore e forma di equivalente sono
momenti pertinenti l’uno all’altra, l’uno dei quali è condizione
dell’altro, inseparabili, ma allo stesso tempo sono estremi che si
escludono l’un l’altro, ossia opposti, cioè poli della stessa
espressione di valore; essi si distribuiscono sempre sulle
differenti merci che l’espressione di valore riferisce l’una
all’altra.”[125]
Il mondo delle merci è generato/genera dalla/la strategia
relativo-equivalente. Esso è il luogo costitutivo delle categorie reali in
quanto tende a contenere-comprendere ogni dato esterno dotandolo di
validità-verità mediante la spiegazione sensata prodotta dal valore.
Risulta evidente perciò, sulla base di quanto detto, che è proprio nella
forma di valore più semplice che si assiste ai prodromi della deprivazione
di personalità degli individui che scambiano e conseguente attribuzione
inversa di cosalità.
Proseguendo nel percorso di risalimento dall’astratto al
concreto questa relazione feticista si può ritrovare anche nel rapporto
tra capitale e forza-lavoro. Quest’ultima infatti, in quanto equivalente,
viene trascinata nel processo di valorizzazione del valore, diventando
valore essa stessa, proprio perdendo le sue peculiari caratteristiche di
umanità.
Non serve dunque a Marx, per spiegare lo sfruttamento, come
pensa Popper, sostenere la teoria del valore con la teoria della
sovrappopolazione relativa. E non gli serve nemmeno, per spiegare il
valore, la legge della domanda e dell’offerta.
“Diventa manifesto che non è lo scambio a regolare la
grandezza di valore della merce, ma al contrario, è la grandezza di valore
della merce a regolare i rapporti di scambio di quest’ultima.”[126]
Popper, supponendo che la teoria del valore forza-lavoro sia
introdotta da Marx solo per spiegare a quali prezzi le merci vengono
scambiate, ha completamente frainteso, a nostro avviso, il problema che la
teoria vuole risolvere. Attraverso di essa Marx vuole spiegare le
relazioni sociali in una società produttrice di merci.
Dove Popper vede solo oggetti che vengono scambiati al loro
valore Marx vede rapporti sociali di prevaricazione e sfruttamento.
Dove Popper vede una legge ben bilanciata che regola gli
scambi liberi di individui liberi Marx vede l’anarchia della
appropriazione privata di un prodotto sociale.
Come può accadere che proprio Popper, il fustigatore
dell’empirismo positivista, colui che proclama di aver ucciso il
neopositivismo, possa ridursi a sostenere l’induttivismo dell’economia
politica? È Marx stesso a spiegarcelo nel famoso capitolo del primo volume
del “Capitale” dedicato al feticismo delle merci.
“A prima vista, una merce sembra una cosa triviale,
ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di
sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso
non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di
vista che essa soddisfa con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva
tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano…Ma appena si
presenta come merce, si trasforma in una cosa sensibilmente
sovrasensibile.”[127]
Il prodotto del lavoro, quando diviene forma di merce, assume
nel contempo un carattere enigmatico dovuto al fatto che tale forma
restituisce agli uomini, come uno specchio, l’immagine delle
caratteristiche sociali del loro proprio lavoro come proprietà sociali
naturali delle cose. Questo significa, in altri termini, che il rapporto
sociale tra produttori e lavoro complessivo viene restituito rovesciato,
dalla forma di merce, come un rapporto sociale tra oggetti esistente al di
fuori dei produttori. I prodotti del lavoro, “mediante questo quid pro
quo”, divengono merci, “cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose
sociali”. Questo accade perché generalmente, sostiene Marx criticando
l’empirismo dell’economia politica ma non solo, la analisi scientifica
delle forme della vita umana inizia “post festum” partendo dai risultati
del processo reale. In tal maniera attribuisce solidità naturale alla vita
sociale senza che gli uomini si rendano conto del suo contenuto.
Anche Popper, come abbiamo visto, parte induttivamente dal
rapporto di scambio considerandolo un fatto naturale immediato. Per lui
come per gli economisti volgari:
“La determinazione della grandezza di valore mediante il
tempo di lavoro è quindi un arcano celato sotto i movimenti appariscenti
dei valori relativi delle merci.”[128]
L’attributo arcano, enigmatico, mistificato, trascendente,
del mondo delle merci, che Marx chiama feticismo, è determinato “dal
carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci”. Gli oggetti
d’uso, frutto “di prodotti di lavori privati eseguiti indipendentemente
l’uno dall’altro”, divengono merci proprio per il modo in cui sono
prodotti, ma questa realtà effettiva viene occultata dal rapporto sociale
che lega i produttori privati. Essi infatti “entrano in contatto sociale
soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro”. Questo
significa che i caratteri sociali dei loro prodotti emergono solo
all’interno dello scambio dei prodotti stessi e non all’interno della
produzione. Per i produttori dunque:
“…le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono
come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali
fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti di cose
fra persone e rapporti sociali fra cose.”[129]
Popper, come l’economia politica, non solo non si chiede per
quale motivo il lavoro si rappresenti nel valore, ma non riconosce nemmeno
lo sforzo di analisi che ha portato alla luce il contenuto che si cela nel
valore. Egli per difendere a qualsiasi costo la rappresentazione
dominante, democratica, della società, non intende insinuarvi alcun dubbio
accettandola dogmaticamente così com’è e proponendosi come il cantore
delle sue magnifiche sorti e progressive.
IV.12.2. Il
plusvalore
Popper, come abbiamo visto, afferma che lo sfruttamento del
lavoro era frutto del vecchio sistema di “laissez faire” indagato da Marx
col nome di “capitalismo”. Oggi, a parere di Popper, quel sistema è
scomparso per essere rimpiazzato dal moderno interventismo politico
sull’economia che ha permesso di eliminare definitivamente lo sfruttamento
del lavoro. Lo sfruttamento, che consisteva nell’aumento dell’orario di
lavoro assieme all’abbassamento contemporaneo dei salari reali, sarebbe
stato debellato grazie alla contrattazione ed alla legislazione sociale
senza alcun bisogno della rivoluzione. Vediamo se tutto questo corrisponde
a verità.
Prima di tutto, come abbiamo tentato di illustrare nel
capitolo precedente, ricordiamo che per Marx lo sfruttamento, la
assimilazione predatoria, risiede nel codice genetico delle merci nella
misura in cui, nella loro forma valore semplice, si inaugura la
appropriazione privata che conduce storicamente e necessariamente,
attraverso le tappe che abbiamo sinteticamente considerato, allo
sfruttamento capitalistico della merce forza-lavoro. In base a questo
assunto qualsiasi società regolata dal modo di produzione capitalistico
riproduce naturalmente questo rapporto violento. Sulla base dell’analisi
che Marx svolge del capitalismo della propria epoca non ci sembra che si
possa dire vi sia stata una trasformazione sostanziale del modo di
produrre nel periodo che intercorre tra la sua morte e l’epoca presente.
Sicuramente vi è stata una evoluzione che ha portato a modificazioni
importanti soprattutto del processo lavorativo, ma possiamo verificare
ogni giorno come le forze produttive siano sempre più socializzate mentre
i rapporti sociali di produzione siano rimasti di tipo essenzialmente
privato confermando, ed anzi inasprendo, la contraddizione di fondo del
modo di produzione capitalistico così come l’ha descritta Marx 150 anni
fa.
Non è certo il pendolo tra accelerazioni liberistiche e
rallentamenti interventisti che può risolvere il rapporto di sfruttamento
insito nel modo di produzione capitalistico. Marx lo ha capito
investigando dettagliatamente la maniera in cui storicamente il
capitalismo sorge sulla base dell’espropriazione dei mezzi di produzione
ai lavoratori. Ciò che distingue il capitalismo dai modi di produzione
precedenti è infatti il lavoro salariato. I lavoratori sono costretti a
vendere la loro forza-lavoro ai capitalisti, detentori dei mezzi di
produzione, in cambio di un salario col quale devono acquistare le merci
di cui hanno bisogno per riprodursi in quanto venditori di forza-lavoro.
Allo stesso tempo i capitalisti, in cambio del salario, ottengono
interamente il prodotto del lavoro dei salariati.
Il profitto deriva ai capitalisti dalla differenza, chiamata
da Marx plusvalore, tra il valore totale prodotto in merci dai lavoratori
e requisito dai capitalisti, ed il valore della forza-lavoro restituito ai
lavoratori in forma di salario. Come Marx ha dimostrato, un saggio
crescente di plusvalore può essere ottenuto, ed è stato ottenuto,
contrariamente a quanto afferma Popper, anche riducendo le ore di lavoro
ed innalzando il salario reale. È sufficiente aumentare la produttività e
razionalizzare la produzione.
La diminuzione degli orari e l’aumento dei salari non intacca
minimamente la sostanza dello sfruttamento capitalista consistente
nell’appropriazione, da parte di una minoranza, dei prodotti del lavoro
della maggioranza salariata.
Per concludere rileviamo che Popper rimprovera a Marx
l’astrattezza della teoria del plusvalore accusandolo di aver escogitato
una nozione priva di importanza quanto la teoria del valore da cui deriva.
Per spiegare la realtà economica, ribadisce Popper, basta la legge della
domanda e dell’offerta. Ma il processo di astrazione, come sa bene il
filosofo viennese, è decisivo per la comprensione della realtà, tutto sta
a vedere se viene usato per occultare, allo scopo di mantenere invariati i
rapporti sociali, o se viene usato per rivelare le interne connessioni che
si agitano alle spalle dei fatti immediati al fine di mutare le relazioni
collettive.
“Di fatto è molto più facile trovare mediante l’analisi il nocciolo
terreno delle nebulose religiose che, viceversa, dedurre dai
rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme
incielate. Quest’ultimo è l’unico metodo materialistico e quindi
scientifico. I difetti del materialismo astrattamente modellato sulle
scienze naturali, che esclude il processo storico, si vedono già
nelle concezioni astratte e ideologiche dei suoi portavoce appena
s’arrischiano al di là della loro specialità.”[130]
IV.12.3. La legge
dell’accumulazione
A giudizio di Popper, Marx fonda la sua “profezia”
dell’inevitabile crollo del capitalismo sulla teoria secondo la quale, col
progredire dell’accumulazione capitalista, le condizioni di vita della
classe lavoratrice si deterioreranno progressivamente fino a quando
diverranno insopportabili provocando la rivoluzione sociale. Quel che
accade, secondo Popper, contrariamente a quanto afferma Marx, è che le
condizioni del proletariato non solo non peggiorano, ma migliorano
considerevolmente e continuano a migliorare. Questo, in ultima analisi,
confuta qualsiasi ipotesi di comunismo.
La mancata realizzazione della legge marxiana
dell’accumulazione oltretutto, come conseguenza accessoria, spingerebbe i
marxisti verso un dogmatismo assoluto, “ostile ad ogni argomento
ragionevole”, e chiuso ad ogni possibile scientificità.
Vediamo cosa afferma Marx in proposito.
“…nella misura in cui il capitale si accumula la situazione
dell’operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve
peggiorare…Questa legge determina un’accumulazione di miseria
proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di
ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di
miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e
degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che
produce il proprio prodotto come capitale. Questo [è il] carattere
antagonistico dell’accumulazione capitalistica.”[131]
“Questa legge assoluta, generale dell’accumulazione
capitalistica”, scrive Marx smentendo il profetismo attribuitogli da
Popper, “come tutte le altre leggi è modificata nel corso della propria
attuazione da molteplici circostanze”. In altri termini Marx, mediante
questa legge, non pone un fato ineluttabile, bensì la possibilità
astratta, ovvero la necessità categoriale, che per divenire possibilità
concreta, storica, deve fare i conti con le condizionalità tendenziali
contrastanti.
Nessuno può pensare, ed è strano che lo faccia un
epistemologo come Popper, che una “legge” possa essere accomunata ad una
predizione incondizionale; “le affermazioni delle leggi non sono
predizioni, ma strumenti da usare per fare predizioni”[132].
Questa legge, come del resto tutte le leggi marxiane, ha
dunque un carattere tendenziale che è determinato da diversi fattori.
Prima di tutto dalle condizioni della lotta di classe come fattore
sostanziale per determinare il livello di vita dei lavoratori e,
secondariamente, dallo sviluppo tecnologico come diffusore di merci di
massa che incrementano il valore della forza-lavoro.
Se è vero che il “lassez faire” ottocentesco ha lasciato
spazio al “protezionismo”, come afferma Popper, questo non significa che
il comunismo, ovvero la gestione pianificata dell’economia da parte dei
produttori associati per i produttori associati, venga espunto
dall’orizzonte delle possibilità concrete. La legislazione sociale, il
servizio sanitario e la scuola pubblica in quanto forme di salario sociale
non sono, come afferma Popper, frutto della benevolenza dello Stato
interventista e altrettante dimostrazioni della fallacia della cosiddetta
“predizione marxiana”, bensì, all’opposto, proprio la conferma del fatto
che, anche in presenza del capitalismo, i lavoratori possono ottenere un
miglioramento della loro condizioni reali solo attraverso la lotta di
classe.
Ma questo, ribadisce Popper, non implica l’abolizione del
capitalismo. Se attraverso la mobilitazione i lavoratori possono
migliorare la loro condizione anche all’interno del modo di produzione
capitalistico perché abolirlo, si domanda il filosofo viennese.
Marx per la verità, come abbiamo tentato di mettere in luce
precedentemente, non si propone di abolire il capitalismo, bensì intende
rilevare le contraddizioni oggettive che necessariamente porteranno alla
sua caduta. Le contraddizioni che possono promuovere questo processo, e lo
promuoveranno, sono sostanzialmente due.
La prima consegue dal fatto che l’accumulazione capitalista
si ottiene mediante l’estrazione di plusvalore. Questo significa che
l’accumulazione di capitale, che è essenziale per la riproduzione del
sistema complessivo, implica un’opposizione continua a qualsiasi richiesta
dei salariati tesa all’acquisizione di una quota maggiore del valore
prodotto.
La seconda comporta un antagonismo sempre più rilevante tra
l’interesse del capitale ad una continua razionalizzazione della
produzione per mezzo dell’automazione, ed il contemporaneo interesse
confliggente dei lavoratori a non farsi espellere dal processo produttivo.
“Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il
capitale in funzione, il volume e l’energia del suo aumento, quindi
anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo
lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. La
forza-lavoro disponibile è sviluppata dalle stesse cause che
sviluppano la forza d’espansione del capitale.”[133]
In sostanza, quanto più si sviluppa l’accumulazione
capitalista, tanto più si sviluppa un “esercito industriale di riserva” o
“forza-lavoro disponibile” che preme sui lavoratori occupati determinando
la riduzione progressiva delle condizioni di vita della classe[134].
Ciò che il capitale è costretto a fare per continuare ad
esistere dunque è valorizzare sé stesso attraverso l’estrazione di
plusvalore dalla classe lavoratrice. Se questo processo spiraliforme
riuscisse a realizzare nella circolazione tutto il valore che produce,
allora sarebbe vera la legge dell’economia politica che afferma
l’equilibrio tra merci prodotte e merci vendute e l’utopia del capitalismo
sarebbe realizzata. Purtroppo però questo equilibrio non sussiste e se ne
accorge anche Popper, riconoscendo l’esistenza delle crisi,
contraddicendosi (logicamente e non oggettivamente).
Le crisi che percorrono ciclicamente la produzione
capitalista sono concrete testimonianze dell’anarchia di un modo di
produzione che “pianifica per il profitto e non per il benessere”[135],
che crea ricchezza nel momento stesso in cui la distrugge, che provoca
guerre nel momento stesso in cui lavora per la pace.
“Il vero limite della produzione capitalistica è il
capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione
appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo
della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale,
e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per la
continua estensione del processo vitale per la società dei
produttori.”[136]
Questo limite sancirà
necessariamente la fine del modo di produzione capitalistico.
IV.13.
RIVOLUZIONE E VIOLENZA
La teoria marxiana culmina nell’idea che la possibilità reale
della tappa successiva della storia consista nell’emancipazione umana
attraverso la autoliberazione della classe lavoratrice.
Marx ha come obiettivo una libertà concreta, realizzata
nell’azione dall’intervento pratico degli uomini nella storia. Questa
libertà è da conquistare piuttosto che da riconoscere o da ritrovare, un
risultato, non un presupposto come crede Popper. Solo un’azione storica di
lotta contro l’alienazione che si radica nello sfruttamento del lavoro e
nell’esistenza delle classi la può realizzare. Questa azione, avendo come
scopo un cambiamento sostanziale delle relazioni ci produzione,
interferirebbe drasticamente col diritto individuale di proprietà e questo
costituirebbe una rivoluzione sociale.
Popper, come portavoce delle classi dominanti, ritiene
chiaramente che una simile eventualità sarebbe una tremenda iattura. Egli,
dimenticandosi che gli attuali rapporti di potere derivano sostanzialmente
dalla rivoluzione francese, si profonde in una lunga lamentazione sugli
effetti disastrosi che avrebbe una rivoluzione sul tessuto sociale. Essa
infatti, secondo il filosofo viennese, per mezzo di un inevitabile e
prolungato uso della violenza causerebbe la distruzione della civiltà
ricacciandoci ad un’esistenza ferina.
A Popper non interessa la violenza quotidiana compiuta a
danno dei salariati espropriati del prodotto del loro lavoro, della loro
umanità.
Gli unici, a suo avviso, che da una parte incitano alla
violenza, e dall’altra attendono fatalisticamente lo scoppio
rivoluzionario rigeneratore, obnubilati da un radicalismo morale che
sfocia nel futurismo etico, sono i marxisti.
Si assiste così ad una strana quanto paradossale metamorfosi
che trasforma Popper, l’alfiere della libertà e della rivoluzione teorica
permanente, nel più fedele e dogmatico sostenitore di leggi di produzione
e di scambio se non eterne quantomeno molto antiche e conseguenti a
rapporti sociali liberal-democratici ingenerati da un ontologia
individualistica da rintracciare nell’imperialismo ateniese del quinto
secolo avanti cristo.
L’individuo popperiano, immerso in relazioni sociali e morali
eternamente vere, indagato più da vicino tuttavia si presenta per quello
che è: da un lato, autoritratto popperiano, lo scienziato platonico che,
attraverso il confronto coi suoi pari, è in grado di discernere il bene
comune e, dall’altro lato il burocrate oscuro e ottuso che non deve fare
altro che applicare, ed eventualmente tecnicamente migliorare attraverso
l’ingegneria istituzionale gradualista, le direttive del consesso degli
scienziati consapevoli. Al fondo della scala la forza-lavoro,
graziosamente miracolata da istituzioni sociali elargite benignamente
dall’alto che, se non sopporta questo stato di cose, se diventa
intollerante della propria subalternità, deve essere repressa duramente
perché la “tolleranza” va difesa intollerantemente e chi mette in
discussione la piramide sociale dev’esserne espulso.
Lo stato protezionista popperiano, “guardiano notturno” dei
rapporti mercantili di produzione, diviene così la rappresentazione
ideologica, e quindi rovesciata, dell’istituzione collettiva occidentale
storicamente determinata nata a cavallo della fine dell’ultima guerra
mondiale. Essa non si caratterizza tanto per il controllo politico
democratico delle dinamiche economiche come crede Popper, ma per
l’esigenza urgente di integrazione delle masse impoverite, spogliate prima
dalla crisi e in seguito dal grande calderone distruttivo della guerra, ed
influenzate dall’esempio sovietico. In questa chiave si comprende, a
nostro parere, come il rimprovero rivolto da Popper a Marx e ai marxisti
di essere mallevadori della violenza vada ribaltato. Egli infatti
attraverso l’immagine idilliaca della sua democrazia astorica ci offre, a
ben vedere, la rappresentazione di un’istituzione politica, quindi
sublimemente violenta, molto concreta, tesa alla conservazione con ogni
mezzo dei rapporti sociali in essere. Ma, come afferma Engels:
“Ogni operaio socialista, senza differenza, qualunque sia la
sua nazionalità, sa benissimo che la violenza non fa che proteggere lo
sfruttamento ma non lo causa; che la base del suo sfruttamento è il
rapporto tra capitale e lavoro salariato e che questo è sorto per via
puramente economica e niente affatto per via violenta.”[137]
L’alternativa secca tra “utopia sociale violenta” e
“ingegneria sociale democratica”, dipinta come una scelta tra la barbarie
e la civiltà che ci propone Popper dunque, è una falsa dicotomia.
Marx non parte tratteggiando uno Stato ideale al quale la
realtà debba adeguarsi, ma parte dall’analisi scientifica del modo di
produzione della società moderna, individua le sue contraddizioni
oggettive, e analizza la possibilità reale di rimuoverle per istituire
relazioni di produzione che permettano lo sfruttamento collettivo delle
forze produttive. La questione posta dal marxismo allora, non è quella di
scegliere, al posto di una razionale pratica riformista, una utopica
organizzazione politica da imporre con la forza sopprimendo violentemente
l’ordine costituito, bensì quella di accettare l’esistente modello di
sfruttamento violento come eterno oppure di esaminare la maniera in cui
poterlo rimuovere. Del resto “la violenza non è un semplice atto di
volontà”, ma pretende per concretizzarsi condizioni preesistenti molto
reali “soprattutto strumenti, di cui il più perfetto ha la meglio
sul meno perfetto”[138],
e chi detiene il possesso di questi strumenti, la classe dominante in
genere, di solito pratica effettivamente la violenza.
“…la vittoria della violenza poggia sulla produzione di armi,
e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, quindi sulla
‘potenza economica’, ‘sull’ordine economico’, sui mezzi materiali
che stanno a disposizione della violenza.”[139]
Certo la violenza, usando le parole di Marx, è anche “la
levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova”, ma questo accade
solamente quando il movimento della società infrange “forme politiche
irrigidite e morte”, quando cioè, come all’epoca della rivoluzione
sovietica ad esempio, la forza economica progressiva, in questo caso i
“soviet”, è negata dall’anacronismo feudale e aristocratico del potere
politico zarista. Allora diviene inevitabile uno scontro violento tra i
due poteri che si risolve, nel lungo periodo, a favore di quello che
prevede un ulteriore sviluppo economico. Anche in questo caso tuttavia
Marx non auspica una violenza cieca ed immotivata:
“Anche quando una società è riuscita a intravedere la
legge di natura del proprio movimento…non può né saltare né eliminare
per decreto le fasi naturali del suo svolgimento. Ma può abbreviare e
attenuare le doglie del parto.”[140]
IV.14.
CONCLUSIONI
Il dualismo di teoria e prassi che percorre tutta l’opera di
Popper si ricompone, a nostro avviso, nella sostanziale unità della sua
utopica rappresentazione sociale: la “società aperta”. Questa immagine
della società occidentale a cavallo della seconda guerra mondiale,
ideologizzata da Popper perché eternata, analizzata in termini
materialistici ripropone in un unico soggetto sociale le antinomie
irrisolte della filosofia popperiana.
Da una parte, nell’apparenza della circolazione del modo di
produzione capitalistico, egli fonda la sostanziale libertà assoluta
dell’individuo che scambia le proprie merci sul mercato e la sua
metodologia scientifica basata sulla rivoluzione teorica permanente.
Dall’altra parte, nella evidenza empirica accettata
acriticamente della produzione capitalistica, egli fonda la politica
democratica come eterno riaggiustamento riformatore di un equilibrio
astorico.
Queste due antinomie, il dover essere individuale e l’essere
sociale, giungono a compimento ed a risoluzione per Popper nello Stato
concreto statunitense successivo alla crisi del ’29, quello del “New Deal”
rooseveltiano e del “welfare” keynesiano che successivamente diviene “warfare”,
e nello Stato concreto statunitense degli anni ’50, quello della caccia
alle streghe maccartista e dei prodromi della guerra fredda. Questi sono i
due modelli storicamente determinati che, secondo noi, per Popper
rappresentano la formazione politico-sociale assoluta: la “società
aperta”. Nelle esigenze fondamentali della sua “società aperta”:
l’interventismo politico sull’economia e l’antimarxismo, ritroviamo
entrambi questi modelli rovesciati ed idealizzati.
Quello che Popper rimprovera al marxismo ovvero il suo
dogmatismo, testimonianza della mancanza di scientificità, paradossalmente
è proprio quello che, da un lato manca maggiormente al marxismo per
diventare “scienza normale” nei termini kuhniani, e d’altro lato abbonda
nella teoria sociale popperiana al fine di occultare i reali rapporti
sociali di sfruttamento.
Probabilmente chissà, ragionando per assurdo, se Popper
avesse completato la propria maturazione teorica nell’epoca attuale,
caratterizzata da un liberismo economico estremo frutto di circa un
trentennio di crisi economica strisciante e dalla scomparsa della
pianificazione economica del socialismo reale, avrebbe rinunciato ad
assolutizzare il riformismo politico per affermare al contrario la
necessità di liberare la forza economica da vincoli di natura politica che
ne impediscano il totale dispiegamento.
Quello che è certo, a nostro parere, è che se il filosofo
viennese avesse analizzato meglio e senza pregiudizi l’opera di Hegel e di
Marx, cioè se fosse stato maggiormente conseguente coi suoi stessi
principi teorici, ne avrebbe tratto un notevole giovamento evitando di
santificare un modo di produzione determinato e la sua manifestazione
politica necessaria. D’altra parte questo avrebbe comportato sicuramente,
come conseguenza, un minore successo accademico ed un ridimensionamento
della notorietà di Popper quale “maitre a penser” di diverse generazioni e
forse questo gioco non sarebbe valso la candela.
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NOTE
[1]
H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, Napoli, Laboratorio
Politico, 1996, p. 22.
[2]
Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, 1° vol., p. 57.
[3]
Karl Popper, “Tre punti di vista sulla conoscenza umana”, in
Scienza e filosofia, Torino, Einaudi, 1969.
[4]
M. Cornforth, The open philosophy and the open society, London,
1968, p. 42.
[5]
F. Engels, “Anti-Duhring”, in Opere XXV, Roma, Editori Riuniti,
1974, p. 34.
[7]
V. I. U. Lenin, Materialisme et empiriocriticisme, Paris,
Edition Sociales, 1948, p. 85-86.
[8]
H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, p. 26.
[9]
Karl Marx, “Tesi su Feuerbach 6”, in Karl Marx Friedrich Engels
Opere V, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 4.
[10]
H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, pp. 26-27.
[12]
V. I. U. Lenin, Materialisme et empiriocriticisme, p. 138.
[13]
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica 1857-1858, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1971.
[14]
V. I. U. Lenin, Materialisme et empiriocriticisme, p. 169.
[16]
F. Engels, Dialettica della natura, Roma, Edizioni Rinascita,
1955, p. 223.
[19]
H. H. Holz, “Natura e storia in Marx”, in Marx e i suoi critici,
a cura di G. M. Cazzaniga, D. Losurdo e L. Sichirollo, Urbino,
QuattroVenti, 1987, p. 200.
[20]
A Woods e T. Grant, La rivolta della ragione, Milano, A. C.
Editoriale, 1997, p. 300.
[21]
F. Engels, Dialettica della natura, p. 165-166.
[22]
Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere
filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 267.
[23]
H. H. Holz, “Natura e storia in Marx”, in Marx e i suoi critici,
p. 216.
[24]
Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere
filosofiche giovanili, p. 226.
[25]
Karl Popper, Tutta la vita è risolvere problemi, p. 150.
[26]
Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, 2° vol., p.
43.
[29]
Nella dialettica servo-padrone della “Fenomenologia dello Spirito”, il
servo non si pone il problema di abolire il rapporto stesso, ma di
ottenere che il padrone lo riconosca come uomo: “…sono poste (A)
un’autocoscienza pura e (B) una coscienza che non è puramente per sé,
ma è per un altro, una coscienza, cioè, meramente essente, che ha la
figura della cosalità. Entrambi i momenti sono essenziali.
Inizialmente essi sono diseguali e opposti, e non si è ancora
determinata la loro riflessione nell’unità. I momenti si presentano
dunque come due figure opposte della coscienza: l’una è la coscienza
autonoma, che ha per essenza l’essere-per-sé, l’altra è la coscienza
non autonoma la cui essenza è la vita, l’essere per un altro. Uno è il
signore, l’altro è il servo…Nel signore, l’essere-per-sé
appare alla coscienza servile come qualcosa d’altro, è cioè
solo per esso; nella paura, l’essere-per-sé è nella
coscienza stessa; nell’attività formatrice, infine, esso diviene
l’essere-per-sé proprio della e per la coscienza, la quale
giunge così alla consapevolezza di essere in sé e per sé. Nel lavoro,
dunque, in cui essa sembrava essere solo un senso estraneo, la
coscienza ritrova sé mediante se stessa e diviene senso proprio.”
G. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Milano, Rusconi,
1999, pp. 283-290-291.
[30]
Afferma D’Hondt nella sua biografia di Hegel: “Marx si spiace che
Hegel abbia giustificato ‘speculativamente’ l’istituzione carceraria
nella sua ‘Filosofia del diritto’. Ma egli ignora che Hegel, la notte,
col rischio di ricevere un colpo di fucile, va a parlare ad uno dei
suoi discepoli e amici attraverso la finestra di una cella. Una
critica esplicita del maggiorascato e del sistema carcerario prussiano
avrebbe reso impossibile, hic et nunc, la pubblicazione della
filosofia del diritto. Noi non tratteremo Hegel, in ultima istanza,
come filosofo della restaurazione.” J. D’Hondt, Hegel. Biographie,
Paris, 1998, p. 217.
[32]
D. Losurdo, “Contraddizione oggettiva e analisi della società da Kant
a Marx”, in Marx e i suoi critici, p. 8.
[33]
F. W. Hegel, “Scienza della logica”, in Enciclopedia delle scienze
filosofiche in compendio, Torino, Unione Tipografico-Editrice,
1981, p. 313.
[35]
H. H. Holz, Riflessioni sulla filosofia di Hegel, Napoli, La
Città del Sole, 1997, p. 173.
[36]
F. W. Hegel, “Scienza della logica”, in Enciclopedia delle scienze
filosofiche, pp. 354-355-356.
[37]
Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori
Riuniti, 1971, p. 5.
[38]
F. W. Hegel, “Scienza della logica”, in Enciclopedia delle scienze
filosofiche, p. 135.
[40]
H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, p. 56.
[41]
E. Weil, Hegel e lo Stato, a cura di A. Burgio, Milano, Guerini
e Associati, 1988, p. 59.
[42]
F. W. Hegel, Fenomenologia dello Spirito.
[43]
E. Weil, Hegel e lo Stato, p. 68.
[44]
A. Mazzone, “Autocoscienza e tirannide”, in La Contraddizione,
n° 73, lug.-ago. 1999, p. 73.
[45]
F. W. Hegel, “Prefazione”, in Lineamenti di Filosofia del Diritto,
Bari, Laterza, 1913, p. 16.
[46]
A. Burgio, “Introduzione”, in Hegel e lo Stato, di E. Weil, pp.
22-23.
[47]
Karl Popper, “Che cos’è la dialettica?”, in Congetture e
confutazioni, pp. 531-570.
[48]
E. Weil, Hegel e lo Stato, p. 142.
[49]
F. W. Hegel, Filosofia del Diritto, § 198, pp. 174-175.
[50]
Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere
filosofiche giovanili, p. 263.
[51]
Karl Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico,
Roma Editori Riuniti, 1983, pp. 115-131-132.
[52]
Karl Marx, “Sulla questione ebraica”, in Karl Marx Friedrich Engels
Opere III, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 181-182.
[53]
E. Weil, Hegel e lo Stato, p. 145.
[54]
Karl Marx, “Sulla questione ebraica”, in Karl Marx Friedrich Engels
Opere III, p. 166.
[55]
Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere
filosofiche giovanili, p. 267.
[56]
Op. cit.
p. 268-269.
[57]
Karl Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori
Riuniti, 1975, p. 9.
[62]
Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere
filosofiche giovanili, p. 200.
[63]
Karl Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, p. 57.
[65]
Karl Marx, “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, in K. Marx F. Engels
Opere XI, Roma, Editori Riuniti, 1982, p. 107.
[67]
M. Cornforth, The open philosophy and the open society, pp.
133-134.
[68]
Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in
Opere filosofiche giovanili.
[69]
Karl Marx, “Lettera a Annenkov”, in Miseria della filosofia,
Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 161.
[70]
Karl Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla
Filosofia della Miseria del signor Proudhon, Roma, Editori
Riuniti, 1973, p. 94.
[71]
Karl Marx, “Tesi su Feuerbach 11”, in Karl Marx Friedrich Engels
Opere V, p. 5.
[72]
E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966, p.
35.
[75]
Ricordiamo la pretesa popperiana di rintracciare la nascita
dell’individualismo moderno negli scambi commerciali amministrati
dell’antichità.
[76]
E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, p.71, lettera di Marx
apparsa sul giornale russo “Otecestvennye Zapiski” nel 1877.
[77]
E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, p. 77.
[78]
Karl Marx, “Prefazione”, in Il Capitale, 1° vol., Roma, Editori
Riuniti, 1989, p. 33.
[79]
Karl Marx, “Prefazione”, in Per la critica dell’economia politica,
p. 4.
[80]
M. Vadee, Marx Penseur du Possible, Paris, 1992, p. 225.
[81]
Karl Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, p. 18.
[82]
Karl Marx e F. Engels, dal Manifesto del Partito Comunista,
Torino, Einaudi, 1998: “La storia di ogni società esistita fino a
questo momento, è storia di lotte di classi.” p. 7.
[83]
M. Vadee, Marx penseur du possible, p. 230.
[84]
Karl Marx, “Prefazione”, in Il Capitale, 1° vol., p. 32.
[85]
Karl Marx, Il Capitale, 1° vol., p. 107.
[86]
Op. cit.
pp. 104-105.
[87]
M. Vadee, Marx Penseur du Possible, p. 91.
[89]
Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 172 e
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858,
p. 6.
[90]
Op. cit.
p. 173 e p. 6.
[91]
Op. cit.
p. 175 e p. 10.
[92]
Op. cit.
p. 179 e p. 14-15.
[93]
M. Vadee, Marx Penseur du Possible, p. 99.
[94]
Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere
filosofiche giovanili, p. 161.
[95]
Op. cit.
pp. 176-177.
[98]
H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, pp. 36-37.
[99]
M. Vadee, Marx penseur du possible, p. 205.
[100]
Karl Marx, Il Capitale, 3° vol., p. 302.
[101]
Op. cit.
pp. 290-291.
[104]
M. Vadee, Marx Penseur du Possible, p. 211.
[105]
Karl Marx, Il Capitale, 3° vol., p. 312.
[107]
Karl Marx, “Tesi su Feuerbach n°11”, in Karl Marx Friedrich Engels
Opere V, p. 5.
[108]
Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 188 e
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, pp.
26-27.
[109]
Op. cit.
p. 189 e p. 27.
[110]
Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, 2° vol., p.
224.
[111]
M. Cornforth, The open philosophy and the open society, p. 193.
[112]
Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 194 e
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, pp.
33-34.
[113]
Karl Marx, Il Capitale, 1°vol., p. 67.
[123]
Si può dedurre che Marx, attraverso questo excursus, avesse intenzione
di riferirsi anche agli uomini dalla nota che nel “Capitale” viene
agganciata a questo passaggio. In questa nota la strategia
relativo-equivalente viene associata anche agli esseri umani: “In
certo modo all’uomo succede come alla merce. Dal momento che l’uomo
non viene al mondo con uno specchio, né da filosofo fichtiano (Io
sono Io), egli, in un primo momento, si rispecchia in un altro uomo.
L’uomo Pietro si riferisce a sé stesso come a uomo soltanto mediante
la relazione all’uomo Paolo come proprio simile. Ma così anche Paolo
in carne ed ossa, nella sua corporeità paolina, conta per lui come
forma fenomenica del genus uomo.” Op. cit. p. 85.
[124]
Op. cit.
pp. 84-85.
[125]
Op. cit.
pp. 80-81.
[130]
Op. cit.
pp. 414-415, n. 89.
[131]
Op. cit.
pp. 706-707.
[132]
M. Cornforth, The open society and the open philosophy, p. 205.
[133]
Karl Marx, Il Capitale, 1° vol., p. 705.
[134]
Quello che sta accadendo oggidì attraverso la flessibilizzazione e
conseguente precarizzazione del rapporto di lavoro.
[135]
M. Cornforth, The open philosophy and the open society, p. 211.
[136]
Karl Marx, Il Capitale, 3° vol., p. 303.
[137]
F. Engels, “Anti-Duhring”, p. 146.
[140]
Karl Marx, “Prefazione”, in Il Capitale, 1° vol., p. 33.
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