RIVOLUZIONE TEORICA
E RIFORMISMO PRATICO IN POPPER

Fausto Boni

IV. RAZIONALISMO CRITICO, DIALETTICA SPECULATIVA E MATERIALISMO STORICO A CONFRONTO

“Per chi nega la causalità ogni legge naturale è una ipotesi…Quale squallore di pensiero, starsene fermi a ciò!”

F. Engels, Dialettica della natura, Roma, Edizioni Rinascita, 1955, p. 225.

IV.0.
INTRODUZIONE

La riflessione popperiana fin qui analizzata evidenzia, abbastanza chiaramente a nostro parere, l’agitarsi al suo interno di un sostanziale dualismo tra corpo e prodotti della mente. Questo sottolinea le antinomie, distinguendole senza risolverle. Le forme che assumono le antinomie nella Weltanschauung di Popper sono molteplici.

La principale divide quello che Popper chiama il problema dell’induzione, ovvero la questione ontologica risolta grazie alla fondazione metafisica del reale, dal problema della demarcazione, ovvero la questione logica risolta tramite una metodologia critica.

Dalla antinomia principale ne discendono altre: l’universale logico opposto al particolare ontologico, la natura dissociata dalla società, l’oggetto distinto dal soggetto, i fatti contro le decisioni, la storia in antitesi alla scienza, lo Stato separato dall’individuo ecc.

Popper mutua questa concezione dualistica dalla riflessione di Kant e Hume opponendo allo scetticismo humiano la soluzione metafisica kantiana, che ammette l’esistenza della cosa in sé anche se dichiara l’impossibilità di conoscerla, e all’apriorismo kantiano la metodologia critica, che tramite decisione interpersonale della comunità scientifica sceglie gli asserti alla base della conoscenza e li eleva alla condizione di fatti.

Se questa analisi del lavoro di Popper corrisponde a realtà, allora risulta assolutamente ovvio il motivo per cui il filosofo viennese si scaglia contro la teoria marxiana. Marx infatti lega la propria teoria ad un monismo materialistico che rifiuta qualsiasi tipo di dualismo (le idee non hanno un’esistenza separata dal corpo, esse non sono che funzioni del cervello, le immagini di un mondo esterno) ed il cui fondamento ontologico è la concezione di tutto ciò che esiste come esistente nel tempo. Egli rintraccia nelle cose una storicizzazione radicale della conoscenza e dei suoi oggetti che impedisce al suo materialismo di cristallizzarsi in una metafisica dell’oggetto. Questa storicizzazione non si risolve nello scacco di ogni conoscenza dissolvendosi nel relativismo assoluto corollario di un pragmatismo della volontà (vedi Popper) solamente perché si lega a costanti categorie di relazione (identità/non identità, universalità/individualità ecc.) che costruiscono la storicità radicale come espressione di una dialettica universale, ontologicamente fondata[1].

L’eclettismo popperiano, come congrua rappresentazione ideologica del pressante interventismo degli Stati sull’economia dopo la crisi del ’29, per affermare il proprio diritto alla sopravvivenza non può che scontrarsi con il monismo marxiano.

Popper in questo scontro agisce nella stessa maniera in cui, come abbiamo visto, ha agito nei confronti dello storicismo: costruisce un tipo ideale di marxismo, totalmente privo di contenuti reali, e facilmente lo confuta. Questa ultima parte del nostro lavoro vuole essere un tentativo il più possibile sistematico di rimettere sui piedi il marxismo e la dialettica speculativa hegeliana messi sulla testa da Popper.

IV.1.
IL PECCATO ORIGINALE: L’ESSENZIALISMO

Popper, come abbiamo già avuto modo di rilevare nella prima parte di questa tesi, ne: “La società aperta e i suoi nemici” accusa Marx di aver mutuato da Platone, tramite Hegel, una gnoseologia essenzialista secondo la quale, per cogliere appieno la profondità del reale senza fermarsi al mero fenomeno, occorrerebbe scoprire la vera natura delle cose o essenza con l’ausilio di qualche forma di intuizione mistica che sappia discernere tra realtà ed apparenza, tra mondo materiale e mondo ideale. A questo essenzialismo metodologico Popper oppone in quel lavoro il nominalismo metodologico.

“Invece di proporsi di scoprire che cosa una cosa realmente è e di definirne la vera natura, il nominalismo metodologico si propone di descrivere come una cosa si comporta in varie circostanze e, soprattutto, se ci sono regolarità nel suo comportamento.”[2]

In seguito Popper, resosi conto probabilmente che il nominalismo, sulla base “dell’esse est percipi” di Berkeley, fonda un monismo idealista che elimina il dualismo spirito/corpo e pone un soggettivismo gnoseologico puro sfociante nel solipsismo della negazione della cosa in sé, modifica la propria concezione. Egli infatti arriva a consentire una forma limitata di essenzialismo: “essenzialismo modificato”, che in alternativa alla conoscenza soggettiva dello strumentalismo neopositivista mantiene una tensione rilevante verso l’ideale regolativo di una descrizione vera del mondo per mezzo di severi controlli critici atti ad eliminare le teorie falsificate[3].

Questo cambiamento di prospettiva non modifica tuttavia l’opinione di Popper riguardo il presunto essenzialismo neoplatonico di Marx. Il filosofo viennese è convinto che Marx, come tutti i materialisti, ammetta l’esistenza di una mistica verità ultima materiale al di là del processo teorico autonomo che definisce l’oggettività razionale del mondo3 dei prodotti di pensiero umani. I materialisti, per lui, credono che alle spalle dei fenomeni razionali ci sia la cosa in sé che, lungi dall’essere inconoscibile, come vorrebbe Popper sulle orme di Kant, diviene un feticcio, un idolo, un assoluto, un doppio della religione. Popper esorta i materialisti in ultima analisi, a rinunciare a cercare la causa della conoscenza al di là degli uomini e della loro capacità razionale, unico fondamento delle scienze naturali e umane.

Engels, nella sua opera dedicata a Feuerbach, a proposito delle relazioni tra pensiero ed essere afferma che i filosofi possono essere schierati schematicamente in due campi contrapposti. Da una parte vi sono coloro che asseriscono la primazia dello spirito sulla natura: gli idealisti, e dall’altra vi sono i materialisti, coloro che sono convinti dell’esatto opposto[4]. Sicuramente se Engels avesse potuto analizzare il retaggio logicista dell’opera di Popper non avrebbe esitato ad associarlo all’idealismo di Duhring.

“In lui si tratta, quindi, di principi, di principi formali, dedotti dal pensiero e non dal mondo esterno, i quali devono essere applicati alla natura e al regno dell’uomo, e ai quali quindi, devono conformarsi la natura e l’uomo.”[5]

Ma da dove prende il pensiero questi principi? Avrebbe domandato Engels a Popper. Il filosofo viennese, confermando l’idealismo di fondo della sua filosofia, candidamente avrebbe risposto: dall’uomo inizialmente, ma da se stesso in ultima istanza!

Vediamo allora come Popper, pur non giungendo al solipsismo empirista, non considera che i principi, le idee, sono solo:

“…forme dell’essere, del mondo esterno, e queste forme il pensiero non può mai crearle né dedurle da se stesso, ma precisamente solo dal mondo esterno. Ma con ciò tutto il rapporto si inverte: i principi non sono il punto di partenza dell’indagine, ma invece il suo risultato finale; non vengono applicati alla natura e alla storia dell’uomo, ma invece vengono astratti da esse; non già la natura e il regno dell’uomo si conformano ai principi, ma i principi, in tanto sono giusti, in quanto si accordano con la natura e con la storia.”[6]

Porre il mondo reale come preesistente alle nostre rappresentazioni tuttavia non risolve il problema ontologico. Se non si vuole cadere nella trappola metafisica in cui cade Popper occorre che le nostre rappresentazioni ci restituiscano un’immagine esatta della realtà, che ci consentano di conoscerla effettivamente, di conoscerne il contenuto, l’essenza. Ma come è possibile arrivare a questo? Attraverso la pratica rispondono i marxisti.

È la scienza normale kuhniana ad esempio, attraverso la soluzione dei suoi rompicapo tecnico-teorici, che ci consente di conoscere effettivamente la realtà. Possiamo provare l’esattezza della nostra concezione di un fenomeno solo riproducendolo, rendendolo utile per i nostri fini. La cosa in sé cessa di essere inafferrabile ed inconoscibile, cessa di essere la mistica essenza popperiana solamente quando essa, attraverso la pratica, diviene una cosa per noi.

Popper separa la “base empirica” e le cose rappresentate dalla “base empirica”, la cosa per noi e la cosa in sé. Egli ammettendo l’esistenza di quest’ultima ma ponendola solo come ideale regolativo del progresso della conoscenza, la dichiara conoscibile unicamente idealmente. In prospettiva questo permette di istillare una variabile storico-progressiva nella staticità logicista del neopositivismo ma non consente di avere un possesso cognitivo sicuro e certo.

Il materialismo storico è invece in grado di raggiungere questo possesso attraverso tre conclusioni gnoseologiche importanti.

1.        Le cose esistono al di fuori di noi indipendentemente dalla nostra coscienza e dalle nostre sensazioni.

2.        Non esiste e non può esistere alcuna differenza di principio tra il fenomeno e la cosa in sé (l’essenza). Non vi è alcuna differenza se non quella che passa tra il conosciuto e ciò che non lo è ancora.

3.        Non bisogna mai supporre che la nostra conoscenza sia invariabile ma occorre analizzare dialetticamente il processo grazie al quale la conoscenza nasce dall’ignoranza o grazie al quale la conoscenza vaga e incompleta diventa conoscenza più adeguata e più precisa. È la storia della scienza e della tecnica, come la nostra vita quotidiana, che ci mostra la trasformazione delle cose in sé (essenze), in cose per noi.[7]

Le essenze di cui parla la teoria di Marx non sono dunque, come crede Popper, quelle della metafisica classica:

“non si tratta di qualcosa di separato dal fenomeno, così come capita all’essenza o eidos platonici; sì piuttosto abbiamo a che fare con un universale, che si manifesta nel concreto e nel particolare, rispetto al quale l’astrazione intellettuale è, solo, una tappa del processo di mediazione; universale che, preso di per sé solo, non sarebbe altro che un mero prodotto mentale privo di realtà.”[8]

La stessa critica che Marx nella sua sesta tesi rivolge a Feuerbach, potrebbe benissimo essere rivolta a Popper: “l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali”[9]. Questa critica, contraddicendo la separazione tra universale classificatorio ed esistenza particolare, va contro la tendenza a svuotare di contenuto l’universale stesso rimandando al mittente l’accusa di essenzialismo.

“Privato di ogni contenuto l’universale ovvero il ‘realmente esistente’ si riduce all’astratto individuo, reciso da tutto ciò che lo media con il mondo: quell’individuo, insomma, che appare – ideologizzato – sotto forma di persona o di soggetto borghese.”[10]

Quell’individuo da cui Popper parte, astrattamente, per fondare la propria metodologia gnoseologica.

IV.2.
PREESISTENZA DELLA NATURA O DELLA RAGIONE?

Popper è nel giusto quando afferma, contrariamente ai neopositivisti, che l’esperienza è più del semplice cogliere il dato e che la conoscenza umana progredisce attraverso generalizzazioni astratte formalizzate in leggi naturali. Ma sbaglia, a nostro avviso, quando ritiene che queste generalizzazioni finiscano col suffragare il “nominalismo” riducendo l’universale a semplice apparenza mancante di un correlato ontico[11]. È la correlazione di rappresentazione ed essenza che consente il sapere scientifico.

“La conoscenza scientifica oggettiva…ricerca le cause non nella fede o nella speculazione ma nella esperienza, nell’induzione, non  a priori ma a posteriori. Le scienze naturali ricercano le cause non al di fuori dei fenomeni, non dietro ai fenomeni ma in loro e grazie a loro.”[12]

Chi pensa, come Popper, che il pensiero costituisca il fattore primordiale e la natura il fattore secondario ritiene, ribaltando il rapporto, che la natura sia parte della ragione e non che quest’ultima sia in realtà uno dei prodotti ultimi, l’immagine del suo processo. La conoscenza umana, per costruire delle generalizzazioni o leggi che le consentano di comprendere il reale, non si affida ad intuizioni ardite, ma ad un processo che va dal concreto all’astratto per poi tornare al concreto. Attraverso questo processo essa si appropria di quei nessi, rapporti e regolarità, non immediatamente fruibili. Certo questi nessi sono “oggetti del pensiero”[13], ma sono anche reali sia essenzialmente sia empiricamente. È la pratica umana vivente che fa irruzione nella teoria stessa della conoscenza fornendo un criterio oggettivo della verità. Infatti fino a quando ignoriamo una legge naturale quella “agendo al di fuori della nostra conoscenza fa di noi gli schiavi della cieca necessità”, ma nel momento in cui la conosciamo “quella legge agendo pur sempre indipendentemente dalla nostra volontà e coscienza ci rende signori della natura”[14].

“La dominazione della natura, realizzata attraverso la pratica umana, è il risultato della rappresentazione oggettivamente esatta, nella testa dell’uomo, dei fenomeni e dei processi naturali e costituisce la migliore prova che quella rappresentazione (nei limiti che ci assegna la pratica) è una verità oggettiva, assoluta, eterna.”[15]

Popper ha capito grazie a Hume, che l’osservazione empirica non può da sola dimostrare in modo soddisfacente la necessità, ovvero le generalizzazioni causali che definiamo leggi naturali. Dalla rivoluzione della terra attorno al sole testimoniata dall’osservazione empirica – il sole sorge e tramonta quotidianamente – non consegue che essa debba perpetuarsi all’infinito; in effetti sappiamo che un giorno cesserà. Post hoc non implica propter hoc. Tuttavia il filosofo viennese non ha compreso, a nostro parere, che la dimostrazione della necessità non sta in una razionalità astratta e intuitiva progressivamente sviluppantesi, bensì nell’attività umana, nel lavoro: “se io posso fare il post hoc, allora esso si identifica con il propter hoc[16]. Invece di far cozzare violentemente intuizione e deduzione per idolatrare, a seconda dell’interpretazione, l’una o l’altra di queste forme della coscienza umana, occorre comprendere la loro necessaria implicazione ed il loro mutuo completarsi.

Chi si limita ad opporre induzione e deduzione riduce ogni procedimento logico ai due termini di questa opposizione senza considerare che, in tal modo, svuota di ogni significato queste due forme stesse. Il polarizzarsi di induzione e deduzione nella riflessione non coglie la loro sostanziale unità nell’attività umana.

È dalla propria attività, e solo da essa, che l’uomo trae il fondamento dell’idea di causalità.

“Tanto la scienza quanto la filosofia hanno finora del tutto trascurato l’influsso dell’attività dell’uomo sul suo pensiero: esse conoscono solo la natura da un lato, il pensiero dall’altro. Ma il fondamento più essenziale e più immediato del pensiero umano è proprio la modificazione della natura ad opera dell’uomo non la natura come tale di per sé sola, e l’intelligenza dell’uomo crebbe nella stessa misura in cui l’uomo apprese a modificare la natura.”[17]

Ciò che si presenta al punto di vista della scienza naturale, che considera la materia nel suo movimento, è “azione reciproca”. Solo considerando la mutualità di questa azione universale, attraverso l’analisi dei singoli fenomeni, si può pervenire al “reale nesso causale”, altrimenti “i movimenti che si avvicendano appaiono l’uno come causa l’altro come effetto”[18] nel loro artificiale isolamento. Un isolamento che può ingenerare nel soggetto conoscente la credenza per cui parlare di “reali nessi causali” è una contraddizione logica in quanto ogni legge naturale non è altro che pura ipotesi o congettura tratta dall’immaginazione del soggetto. Ma questo è un argomento che non riguarda il marxismo. Per Marx “la natura resta intera nella sua autonomia, preordinata all’uomo sia nel rapporto della prassi che in quello della conoscenza”[19]. Logicamente e ontologicamente il lavoro, che è il mondo dell’uomo, è “sussunto nella natura”. Essa prescrive le proprie leggi all’uomo che solo in un secondo momento le concettualizza attraverso la propria attività per indirizzare finalisticamente i “reali nessi causali” preesistenti.

Un esempio di tale movimento dialettico è ricavabile proprio dall’evoluzione umana. Se noi ci domandiamo cos’è che caratterizza l’uomo nei confronti degli animali vedremo che la risposta idealista ha prevalso. Per giustificare l’influenza determinante del pensiero sull’essere materiale gli idealisti si sono affannati in ogni epoca ad affermare che ciò che distingue l’uomo dalle bestie è la sua intelligenza superiore. Popper stesso, iscrivendosi a pieno diritto in questo filone, sottolinea che la distinzione tra Einstein e l’ameba è relativa al fatto che il primo elimina il proprio errore attraverso una discussione critica (evoluzione esosomatica), mentre la seconda, se non è adatta, non potendo proiettare fuori di sé il proprio errore, viene eliminata fisicamente.

Queste teorie, se fossero oggettivamente dimostrabili, implicherebbero nel corso dell’evoluzione un aumento significativo molto precoce delle dimensioni cerebrali umane. Invece la paleontologia contemporanea, attraverso lo studio dei reperti fossili, ha dimostrato che l’uomo non ha subito questo incremento se non molto tardi.

“Solo con la comparsa dell’Homo Sapiens, circa 100.000 anni fa, le dimensioni del cervello raggiunsero i livelli attuali: 1350 centimetri cubici. Dunque i primi ominidi non possedevano cervelli sviluppati. L’evoluzione umana non è iniziata dal cervello. Al contrario l’aumento delle dimensioni cerebrali è stato il prodotto dell’evoluzione umana, in particolar modo della produzione di strumenti.”[20]

Questo significa che la nostra evoluzione non è conseguenza di una fantastica propensione al ragionamento autocosciente svincolato da ogni necessità naturale, quasi come se fossimo piovuti su questa terra e non prodotti da essa, bensì il frutto di un faticoso sviluppo condizionato dalla disponibilità naturale di alimenti. Solo quando iniziammo a produrre i nostri alimenti, i nostri mezzi di sussistenza, solo allora ci distinguemmo concretamente dal mondo animale.

Il lavoro, come attività teleologicamente orientata alla produzione di mezzi di sussistenza, consentì a sua volta lo sviluppo del corpo nel suo complesso.

“…Lo sviluppo del lavoro ebbe come necessaria conseguenza quella di avvicinare di più tra loro i membri della società, aumentando le occasioni in cui era necessario l’aiuto reciproco, la collaborazione, rendendo chiara a ogni singolo membro l’utilità di una tale collaborazione. Insomma: gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi…In primo luogo il lavoro, dopo di esso e con esso il linguaggio: ecco i due stimoli più essenziali sotto la cui influenza il cervello di una scimmia si è trasformato gradualmente in un cervello umano…Lo sviluppo del cervello e dei sensi al suo servizio, della coscienza che si andava facendo vieppiù chiara, della capacità di astrarre e di ragionare, esercitò di rimando la sua influenza sul lavoro e sul linguaggio, dando ad entrambi un nuovo impulso per un ulteriore sviluppo.”[21]

La materia in movimento che chiamiamo natura detta i tempi e i nessi causali di sviluppo di ogni essere materiale ma solo l’uomo, attraverso il proprio lavoro, è in grado di indirizzare la natura e di conseguenza la propria stessa esistenza.

Marx ha descritto questo processo come posto dalla natura stessa. Con un’argomentazione prettamente ontologica egli afferma:

“Ma se l’uomo reale, corporeo, che sta sulla ferma e solida terra, espirando e aspirando tutte le forze naturali, pone, nel suo alienarsi, le sue reali, oggettive forze sostanziali come oggetti estranei, questo porre non è Soggetto: è la soggettività di oggettive forze sostanziali, la cui azione perciò dev’essere anche un’azione oggettiva. L’ente oggettivo agisce oggettivamente, e non potrebbe agire oggettivamente se l’oggettivo non fosse sua determinazione sostanziale.”[22]

Marx intende dunque la vicenda umana come “momento del rapporto della natura a se stessa”[23]; è per questo che il comunismo per lui è “in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo”[24].

Popper invece intende i nessi causali naturali non come oggettive manifestazioni di una materia reale, ma come soggettive congetture di un essere umano astratto su una realtà metafisicamente fondata. Da ciò dipende il suo eclettismo oscillante tra idealismo soggettivo (l’autonomia della ragione) e materialismo volgare (il realismo metafisico).

IV.3.
HEGEL

Marx inizia a regolare i conti sia col materialismo volgare che con l’idealismo con le undici tesi su Feuerbach del 1845. È in questa sede che comincia a rompere con la concezione puramente passiva del materialismo per affermare la contemporaneità e la compenetrazione di attività e passività, di soggettività e oggettività. Questa concezione gli deriva da un profondo studio della filosofia classica, Aristotele soprattutto, e dell’opera di Hegel.

Popper, che sottolinea giustamente il debito del marxismo nei confronti della dialettica hegeliana, costruisce una immagine di Hegel e del suo pensiero se possibile ancora più faziosa e ideologicamente orientata di quella che ha escogitato a proposito di Marx.

L’epistemologo viennese, confrontandosi con i filosofi del passato, non ha nessuna intenzione di dialogare e di comprendere. Egli non applica “quell’atteggiamento razionalista”, più volte sbandierato nelle sue opere, secondo il quale una discussione consiste nell’assumere modestamente che:

“…forse io ho torto e tu hai ragione, in ogni caso entrambi possiamo sperare dopo la nostra discussione, di vedere le cose un po’ più chiaramente di prima, e in ogni caso possiamo entrambi imparare l’uno dall’altro, solo a condizione che non dimentichiamo che quel che conta non è tanto chi abbia ragione, quanto piuttosto che si giunga il più vicino possibile alla verità.”[25]

Popper intende piuttosto attuare una sorta di imperialismo filosofico. Egli, per verificare l’efficacia critica del suo metodo, lo applica alle altre filosofie distorcendole e rendendole irriconoscibili. Non è un caso che l’obiettivo polemico popperiano si appunti sul sistema hegeliano. Alterando il pensiero di Hegel, Popper attribuisce di riflesso a Marx lo stesso carattere mistico, e in un’ultima analisi reazionario, che a suo giudizio pervade l’opera di Hegel.

Vediamo così come Hegel divenga nelle pagine popperiane: “il filosofo ufficiale del prussianesimo”[26], e come la sua filosofia sia “la religione e la teologia degli intellettuali”[27]. Non solo, egli nel 1815 come “ideologo della reazione” riscopre,  secondo Popper, le “idee platoniche” di “perenne rivolta” contro i principi di libertà, uguaglianza e fraternità della rivoluzione francese. “Scrittore indigeribile” e privo di talento, Hegel ha un solo scopo per Popper: “combattere contro la società aperta e così servire il suo datore di lavoro, Federico Guglielmo di Prussia”[28].

Se Popper volesse veramente confrontarsi con Hegel ed il suo tempo e non con simulacri, probabilmente scoprirebbe cose parecchio interessanti ed assolutamente in controtendenza con ciò che ha scritto di lui. Scoprirebbe ad esempio un Hegel entusiasta della rivoluzione francese, convinto che essa, assieme alla rivoluzione filosofica kantiana, avrebbe condotto in Germania ad una rivoluzione politica migliore di quella francese. Scoprirebbe che l’intenzione profonda di Hegel è quella di attribuire dignità eguale a tutti gli uomini riconoscendo il loro eguale valore morale[29] in un periodo in cui proporre ciò è altamente rivoluzionario. Scoprirebbe che in tutta la sua vita Hegel intrattiene rapporti strettissimi con la massoneria illuminista e liberale, ed è costretto per questo a dissimulare sistematicamente aspetti della sua esistenza, della sua attività, e del suo pensiero intimo[30]. Scoprirebbe che la pretesa “oscurità” di Hegel non è suo patrimonio individuale ma corrisponde ad “un mondo lacerato e alienato, un mondo oscuro a se stesso che possiamo decifrare a malapena”[31], un mondo in questo simile a quello attuale. Un mondo trattato da Popper viceversa, in maniera apparentemente chiara allo scopo di occultare ed oscurare.

IV.4.
LA DIALETTICA SPECULATIVA

Il completo travisamento dell’opera di Hegel da parte di Popper è funzionale al tentativo di annichilimento di quelli che l’epistemologo viennese, come abbiamo visto, giudica i due “dogmi” fondamentali, mutuati da Eraclito, del pensiero hegeliano: la inevitabilità e fecondità delle contraddizioni intese come opposti in guerra, e la loro finale unità o identità. Questi due “dogmi”, all’interno della dottrina hegeliana, sono causa di positivismo etico e giuridico (identità di ragione e realtà, la forza è diritto), e di teleologismo storico (storia come manifestazione dello Spirito nel mondo).

Marx, a giudizio di Popper, ritiene di capovolgere materialisticamente i “dogmi” della dialettica hegeliana, ma assumendo questa dottrina come base teorica, come metodo del “marxismo scientifico”, egli non si rende conto di trasformare ineluttabilmente il proprio pensiero in un sistema dogmatico incapace di qualsiasi sviluppo scientifico.

IV.4.1. La contraddizione oggettiva

Per Popper parlare di contraddizioni reali è un controsenso. La realtà, a suo parere, si sviluppa attraverso la confutazione degli errori, la loro negazione semplice. Il metodo per “prova ed errore”, che comprende lo sviluppo del progresso scientifico, può servire per capire altrettanto bene, senza alcun bisogno di contraddizioni, sia l’evoluzione naturale che l’evoluzione umana.

Hegel, che riduce idealisticamente l’essere a pensiero, introduce la categoria di contraddizione in quanto, secondo Popper, confonde “errore” reale e contraddizione logica. Su questa strada, al di là delle affermazioni di materialismo, anche la teoria di Marx, prescindendo dal principio di non contraddizione, rivelerebbe il proprio vizio idealistico.

Le cose però, contraddittoriamente, non stanno così. Innanzitutto, storicamente:

“…la categoria di contraddizione oggettiva comincia a emergere man mano che si avverte la necessità di analizzare criticamente l’ancien regime, alla vigilia del suo tramonto, o del suo abbattimento, e man mano che si sviluppano i conflitti propri della società borghese.”[32]

L’esigenza di strumenti concettuali nuovi per conoscere meglio la realtà sociale e naturale costringe, se si vuole cogliere le opposizioni reali, a ridurre l’ambito di influenza del principio logico-formale di non-contraddizione.

È Kant ad introdurre la categoria di grandezza negativa nella filosofia e nell’analisi della società. Egli giunge a coniare per la società civile un ossimoro come quello di “insocievole socievolezza” come efficace mediazione linguistica di una contraddizione reale.

Hegel, che dunque non inaugura ma approfondisce questo ambito del discorso scientifico, enfatizza la categoria di contraddizione senza rifiutare la logica. Egli parla infatti del principio di identità come di una “determinazione elevata” del pensiero. Dire che (A) è identico a sé, e negativamente che (A) non può essere allo stesso tempo sé stesso e qualcos’altro, è importante per Hegel in quanto:

“…è proprio attraverso l’identità, come coscienza di sé stesso, che l’uomo si distingue dalla natura in generale e, più precisamente, dall’animale, che non arriva a cogliere sé stesso come Io cioè come pura identità in sé stesso.”[33]

Tuttavia non si può elevare questo principio a una “vera legge del pensiero”, ma occorre considerarlo come “semplicemente la vera legge dell’intelletto astratto”. Seguendo la terminologia hegeliana infatti, se il “pensiero” rimanesse a questa “immediatezza” potrebbe venire a ragione accusato sia di “formalismo” che di “dogmatismo”.

Il “formalismo” consisterebbe nell’astratta identità espressa da proposizioni quali: “un cane è un cane” oppure, Popper docet, “la democrazia è la democrazia”. Un’attività di pensiero che si attardasse dietro questi contenuti non solo sarebbe “l’attività più superflua e più noiosa”, ma esprimerebbe, in funzione apologetica, “tenerezza per le cose di questo mondo”.

Il “dogmatismo” consisterebbe nel fissare le “determinazioni unilaterali dell’intelletto escludendo quelle opposte” nella forma di un rigoroso o-o in base al quale si potrebbe dire ad esempio: “l’uomo o è una scimmia o non lo è” oppure, Popper docet, “il marxismo o è una scienza o non lo è”.

“Il vero, lo speculativo, è invece proprio ciò che non ha queste determinazioni naturali in sé e non ne viene esaurito, ma, come totalità, contiene in sé unificate quelle determinazioni che per il dogmatismo sono qualcosa di fisso e di vero nella loro separazione.”[34]

La “verità formale” per Hegel è una verità, ma è anche “astratta, incompleta”. Non-(A) è sicuramente il contrario di (A), ma solo se, in un atto di strema formalizzazione, si prescinde da ogni suo determinato contenuto.

“Nella logica formale, quindi, ogni negazione determinata si risolve in una negazione indeterminata, e quest’ultima è allora la negazione determinata di quella posizione indeterminata che si dà quando nella formalizzazione si prescinde dalle determinazioni sostanziali di ciò che viene posto. In senso non formale, invece, il contrario di ogni cosa determinata (la sua determinata negazione) può essere ricavato soltanto dalla situazione concreta, a partire dalla quale il determinato si determina.”[35]

Hegel ritiene sbagliato assumere per vere forme astratte come “identità” e “non identità”, sostituire l’ontologia con la filosofia trascendentale. Egli pensa che la verità non appartenga a queste forme fisse ma piuttosto al loro movimento, e che la realtà di questo movimento possieda una struttura logico-ontologica basata sul comprendere/superare. Ecco allora che la contraddizione è “una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l’identità” perché permette di spiegare la realtà sociale che altrimenti, affidandosi esclusivamente al principio di non-contraddizione, non potrebbe essere analizzata.

Il fenomeno della rivoluzione ad esempio, spiegato fino all’epoca di Hegel o come il risultato di una cospirazione, vale a dire in termini soggettivi, o come uno sconvolgimento naturale, vale a dire in termini oggettivi, per mezzo della categoria di contraddizione oggettiva assume una dimensione unitaria di soggettivo ed oggettivo. La contraddizione, da puramente oggettiva, possibilità concreta, diviene opposizione cosciente mutandosi in realtà effettiva, possibilità reale.

“Come identità in generale la realtà effettiva è dapprima la possibilità…Siccome la possibilità dapprima è la semplice forma dell’identità-con-sé rispetto al concreto come effettivamente reale, ha come regola soltanto che qualcosa non si contraddica in se stesso, e così tutto è possibile…Ma tutto è altrettanto impossibile, perché in ogni contenuto, siccome è un concreto, la determinatezza può essere colta come opposizione determinata e quindi come contraddizione…Se qualcosa è possibile o impossibile dipende dal contenuto, cioè dalla totalità dei momenti della realtà effettiva che nel suo dispiegarsi [contraddittorio] si mostra come necessità.”[36]

Con Marx i termini della contraddizione oggettiva mutano. Mentre Hegel fa confliggere “leggi” e “costumi”, Marx sostituisce alla organizzazione giuridica i rapporti sociali di produzione, e ai “costumi”, le idee nuove che hanno sopravanzato la staticità delle leggi, lo sviluppo delle forze produttive che li sottendono.

“A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.”[37]

Anche per Marx tuttavia il rilievo attribuito alla categoria di contraddizione oggettiva non implica l’esclusione del principio formale di non-contraddizione anzi, nel “Capitale”, egli rimprovera all’economia politica di avvolgersi in banali contraddizioni logiche non cogliendo o mistificando le contraddizioni oggettivamente esistenti.

Popper, negando ogni consistenza alla categoria di contraddizione oggettiva, è costretto ad attribuire la priorità, nel processo della conoscenza, all’intelletto astraente. Questo, come conseguenza, lo costringe a separare lo sviluppo ipotetico e problematico della conoscenza come metodo dal contingente svolgersi dei contenuti di questo sviluppo, considerati semplici deiezioni storico-fenomeniche, e ad elevare a motore immobile le leggi formali della “conoscenza pura”. La necessità di Popper in questa prospettiva è allora quella di indagare a fondo “la facoltà conoscitiva” (metodologia). Il problema è, come avverte Hegel, che:

“l’esame della conoscenza non può farsi se non conoscendo…voler conoscere prima di conoscere è altrettanto assurdo quanto il saggio proposito di quello scolastico che voleva imparare a nuotare prima di arrischiarsi in acqua.”[38]

IV.4.2. La totalità reale

La “filosofia dell’identità” o “panlogismo”, secondo la definizione di Popper, è il secondo “dogma” fondamentale del pensiero di Hegel.

In base a questo “dogma”, incentrato sull’identità degli opposti, Hegel ricava l’identità di “Ideale” e “Reale” nella “Totalità” concependo una dottrina sostanzialmente reazionaria tesa al pervertimento delle idee del 1789. Conseguenza di questa dottrina è il positivismo etico e giuridico che Popper sintetizza così: “ciò che è bene”, “la forza è diritto”.

Marx, a causa del suo “profondo umanitarismo” che, secondo il viennese, non gli consente di accettare le inumane condizioni dei lavoratori dei suoi tempi, pur mutuando da Hegel questo “dogma”, lo proietta nel futuro trasformandolo in “futurismo morale”: “la forza futura del proletariato è diritto”.

Come abbiamo appena visto nella concezione popperiana il problema di cosa sia la conoscenza si muta nel problema di quale sia il metodo per giungervi. Il filosofo viennese tende a scindere metodo e contenuto della conoscenza per mettere in evidenza che il fondamento della verità riposa non nel suo contenuto ma nella validità del suo metodo. È comprensibile dunque il fatto che Popper consideri la dialettica semplicemente un altro metodo da applicare dall’esterno ai contenuti. Se la dialettica fosse, come crede Popper, una struttura imposta alla realtà fenomenica dall’intelletto analitico egli avrebbe ragione a condannarla in quanto attraverso questo presunto “metodo” si presupporrebbe ciò che invece dovrebbe essere colto come risultato. Ma la dialettica hegeliana non è questo “metodo”, bensì l’unità di metodo e contenuto concepiti nel loro divenire.

“…il metodo non è forma esterna, ma l’anima e il concetto del contenuto, dal quale è soltanto distinto in quanto i momenti del concetto anche in loro stessi nella loro determinatezza giungono a manifestarsi come la totalità del concetto.”[39]

A Popper appartiene una concezione “idealistico-obiettiva” del “tutto”. Egli lo considera come oltrepassamento di momenti diversi e non riducibili presupposti dal concetto; considera il “tutto” come “reale razionale”. Il problema sorge quando si tratta di pensare il “tutto” come la serie infinita delle sue parti. Proprio perché il nostro intelletto è finito, afferma Popper, non esiste alcuna possibilità per noi di esperire il mondo come “tutto”. Certo, l’intelletto per la realizzazione della sua attività necessita del concetto di mondo come un “tutto, ma sulla scorta di Kant, per Popper, questo concetto costituisce unicamente un ideale regolativo.

Hegel accetta la limitazione per cui il concetto del “tutto” si dà solo come “idea della ragione”, tuttavia afferma che questa idea è risultato e non presupposto “della determinazione universale del concetto, il quale si rappresenta come concetto di una cosa, come espressione di una ‘reale effettualità’, in ognuna delle sue determinazioni finite”[40].

Se teniamo presente questo, vediamo che anche la celebre frase tratta dalla prefazione della “Filosofia del Diritto” di Hegel che tanto ha scandalizzato Popper cioè: “ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”, non assume il significato di sostegno o di avallo a qualsivoglia regime dispotico esistente, bensì sottolinea, come si può evincere dalla “Scienza della Logica”, che “realtà” ed “esistenza” non sono la stessa cosa.

La “realtà” per Hegel infatti, è composta sia dalla “esistenza” che dalla “apparenza”; sia dalla necessità di pensare il mondo dell’unità e dell’identità, sia dal mondo fenomenico, molteplice e in continuo movimento; sia dal metodo che dal contenuto. La “realtà” è l’unità e l’identità di queste contraddizioni.

Questo significa che per Hegel la ragione non consente solo di cogliere la comprensione progressiva dei fenomeni, ma anche di analizzare l’azione umana nella storia anzi, le leggi umane sono eminentemente razionali perché:

“in esse la ragione non soltanto si realizza (essa si realizza altresì in ogni luogo) ma finisce inoltre per sapere che si realizza. La teoria dello Stato, dello Stato che è, non di uno Stato ideale e sognato, è la teoria della ragione realizzata nell’uomo, realizzata per se stessa e da se stessa.”[41]

Popper non accetta questa teoria dello Stato come totalità reale perché pensa che essa implichi una ipostatizzazione del dispotismo collettivo sull’individuo. Egli non si avvede che nella concezione hegeliana la storia è “riconciliazione dell’individuo con l’universale” e non riduzione in servitù.

La teoria dello Stato di Hegel è platealmente in contrasto con l’immagine che se ne fa Popper per due motivi.

Prima di tutto se è vero che nella sfera prestatuale è la lotta a decidere del riconoscimento fra due autocoscienze, è vero altresì che alla fine il progresso dello spirito si realizza grazie al vinto e non grazie al vincitore[42].

Secondariamente benché sia la guerra tra Stati a fare la storia, tuttavia nella concezione hegeliana la violenza assume valore positivo solamente quando consente un avanzamento nella realizzazione della libertà o, per dirla con Hegel, della ragione. La libertà a questo livello è positiva, cioè  è libertà di fare, solamente se è concreta, ossia non è arbitrio individuale. La coscienza arbitraria dell’individuo non solo è impossibile a realizzarsi, ma è anche impossibile a pensarsi: “l’uomo è libero in quanto vuole la libertà dell’uomo in una comunità libera”[43].

L’uomo astratto, l’individuo libero, il “Robinson”, è un’invenzione. Ci si può rendere conto di questo riflettendo un attimo sul fatto che ciò che è reale non è l’uomo, l’individuo, bensì questo uomo, questo individuo, con un sesso, un’età determinati (determinazioni naturali), e una posizione sociale, un mestiere determinati (determinazioni sociali). Questi uomini, determinati naturalmente e socialmente, nascono e vivono in una comunità, determinata naturalmente e socialmente, che contribuiscono a determinare naturalmente e socialmente.

Quello che Hegel sostiene è che la libertà non potrebbe essere reale se non in un mondo preesistente, quello che A. Mazzone chiama: “Corpus Collectivum hominum et rerum”[44], storicamente organizzato in forme esperibili quali la famiglia, la società e lo Stato, che vanno indagate e conosciute per poter praticare la libertà.

Hegel non ha alcuna intenzione, attraverso il suo lavoro, di indicare una direzione, di costringere il mondo nella camicia di forza di un “dover essere”. Egli ritiene al contrario che la filosofia, essendo il pensiero del mondo, appare solo quando la realtà ha terminato il suo processo di formazione e si è compiuta, del resto “la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”[45].

L’errore di Popper nell’interpretazione di Hegel, se di errore si può parlare e non di, come crediamo meglio, volontaria mistificazione, deriva direttamente dal complesso della sua opera nella quale prevale la costante separazione di metodo e contenuto. Questa separazione si riflette, quando egli si occupa di individuo e comunità, nella contingente opposizione di agente e agito che anima la sua riflessione sociale e che determina il suo travisamento della totalità hegeliana come totalitarismo. Il modello popperiano impone così l’alternativa individuo-comunità implicando un’idea di libertà individuale totalmente avulsa dall’esistente (libertà negativa), ed opposta a quella hegeliana.

Popper non si sofferma nemmeno per un istante a pensare che tale libertà, concepita in sé, astrattamente ed astoricamente, possa rappresentare al contrario una forma storicamente determinata di libertà: quella dell’individuo proprietario e scambista; e che la richiesta di preservare e perpetuare questa forma di libertà costituisca il miglior pretesto per tutelare gli interessi di una parte della società, quella che detiene il potere, ai danni della grande maggioranza.

Ci si domanda allora se l’accusa di “positivismo etico e giuridico” che il filosofo viennese rivolge a Hegel, come quella di “futurismo morale” rivolta a Marx, non si possa rispedire al mittente, con l’aggravante, nella concezione di Popper, che non solo la legge del più forte governa le cose degli uomini, ma deve governarle affinché continuino ad andare per il meglio.

Hegel e Marx, come suo erede, in alternativa a Popper propongono:

teorie dell’interesse generale contro teorie dell’interesse particolare: teorie volte alla costituzione di forme della politica adeguate al riconoscimento dei diritti di ogni singolo individuo…e su questa base soltanto ritengono possibile dare forma all’idea di libertà; contro teorie che non accettano di procedere sul piano costruttivo assumendo un’idea effettivamente universale di individuo, priva di determinazioni storiche e di classe, davvero metastoricamente valida.”[46]

IV.5.
LA DIALETTICA SPECULATIVA E IL MATERIALISMO DIALETTICO

Non si comprende bene cosa intenda Popper quando, nel suo saggio “Che cos’è la dialettica?”[47] riferendosi alla dialettica marxiana come erede di quella hegeliana, dice che quest’ultima “può essere capovolta sì da trasformarla in una forma di materialismo”, e successivamente afferma, allo stesso tempo, che la “combinazione di dialettica e materialismo mi sembra anche peggiore dell’idealismo dialettico”.

Se volessimo dare un significato dialettico al termine “capovolto” dovremmo presupporre che ciò che capovolge sia già contenuto in ciò che è capovolto e viceversa. Se intendessimo invece ciò che capovolge come negazione semplice di ciò che è capovolto allora saremmo in presenza di un’alternativa non commensurabile.

Si vede bene come le due interpretazioni cozzino violentemente l’una contro l’altra.

Ritenendo, con ragionevole sicurezza, che la seconda interpretazione possa rispecchiare più fedelmente gli intendimenti dell’epistemologo ci troviamo di fronte a un nuovo fraintendimento sia dell’opera di Hegel che di quella di Marx.

Se può avere un senso preciso affermare che Hegel propone una dottrina della storia e dell’azione storica definibile idealismo storico poiché si basa sull’onnipotenza dell’idea mentre Marx oppone a questa una teoria definibile materialismo storico in quanto vede nei bisogni concreti degli uomini la causa di ogni mutamento, in termini filosofici tuttavia questa contrapposizione si rivela priva di significato.

“Sia per la metafisica tradizionale che distingue il realismo dall’idealismo e lo spiritualismo dal materialismo sia, e a maggior ragione, per una filosofia dialettica.”[48]

Paradossalmente, se volessimo rimanere sul “piano astrale” popperiano “delle idee come prodotti autonomi del pensiero”, vedremmo come Hegel e Marx non siano stati né idealisti né materialisti ed allo stesso tempo siano stati insieme l’una e l’altra cosa.

Volendo, ad esempio, si potrebbe attribuire un carattere materialistico all’opera di Hegel mettendo a fuoco come egli abbia indicato nel lavoro, prima di Marx, l’essenza della vita dell’uomo nella società: l’uomo come individuo non è isolato né isolabile, ma è ciò che fa nella società.

È stato detto che Hegel ha rilevato solamente il concetto astratto del lavoro senza averne considerato le forme concrete, ma questo non è del tutto esatto. Nella “Filosofia del Diritto” a proposito della moderna divisione del lavoro egli scrive:

“Il lavoro del singolo diviene più semplice mediante la divisione e, quindi, più grande l’abilità nel proprio lavoro astratto, come la quantità delle proprie produzioni. Nello stesso tempo, quest’astrazione dell’abilità e del mezzo rende compiuta, facendola necessità totale, la dipendenza e il rapporto di scambio degli uomini, per l’appagamento degli altri bisogni. L’astrazione del produrre rende, inoltre, il lavoro sempre più meccanico e, quindi, alla fine, atto a che l’uomo ne sia  rimosso e possa essere introdotta, al suo posto, la macchina.”[49]

Allo stesso modo potremmo vedere come Marx “idealisticamente”, con una terminologia hegeliana, nei suoi “Manoscritti Economico-Filosofici” sottolinei il valore della “Fenomenologia dello Spirito”:

“L’importante nella Fenomenologia hegeliana e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore e generatore – è dunque che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e come soppressione di questa alienazione; che egli dunque coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro.”[50]

Tutto questo per dimostrare come si possa, volendo, tirare per la manica entrambi gli autori tedeschi da una parte o dall’altra senza per questo continuare a comprendere nulla del loro effettivo lavoro.

Marx ed assieme a lui Engels, quando hanno individuato il “nucleo dell’hegelismo” nel “movimento e automovimento” come “opposti al morto essere” e l’hanno applicato, non si sono riferiti alla dialettica speculativa come a qualcosa di radicalmente alternativo rispetto alla loro teoria, bensì l’hanno integrata sviluppandola oltre.

Come osserva Lenin la logica hegeliana è la premessa teoretica del “Capitale”, mentre le effettive condizioni di produzione costituiscono le premesse pratiche della logica di Hegel.

Il punto in cui i percorsi di Hegel e Marx assumono toni sensibilmente distinti è nella trattazione dell’azione politica.

Hegel pensa che la mediazione messa in atto dall’amministrazione dello Stato esistente possa prevenire e dunque risolvere la rottura immanente tra realtà sociale e forma dello Stato.

Marx crede invece che una società veramente umana in uno Stato veramente umano possa essere realizzata solo tramite l’azione rivoluzionaria.

Contrariamente a quanto dice Popper, Marx non afferma “l’impotenza di ogni politica” ma piuttosto, non credendo nella buona fede degli apparati dello Stato borghese in quanto parti coinvolte nel conflitto sociale, si affida all’azione delle masse piuttosto che a quella del governo.

Egli, elaborando il concetto di prodotto sociale radicato nella situazione storica corrispondente, fa derivare da questo ogni sovrastruttura politica storicamente determinata.

“Hegel…vuole che lo ‘universale in sé e per sé’, lo Stato politico, non sia determinato dalla società civile, ma, all’inverso, la determini…La nascita dà all’uomo soltanto l’esistenza individuale e lo pone dapprima soltanto come individuo naturale, e tuttavia le determinazioni politiche, come il potere legislativo, ecc., sono prodotti sociali, generati dalla società e non dall’individuo naturale…Il sorprendente è di considerare come prodotto immediato della specie fisica ciò ch’è soltanto prodotto della specie cosciente di sé.”[51]

Astraendo per un momento dal periodo storico rispettivo che caratterizza il loro pensiero in modi profondamente differenti, Hegel in senso progressivo e Popper in senso conservatore, possiamo vedere che entrambi fanno affidamento sul cambiamento politico come unica possibilità reale di trasformazione. Questo li spinge a non comprendere che:

“La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive senza rivoluzionare queste parti stesse né sottoporle a critica. Essa si comporta verso la società civile, verso il mondo dei bisogni, del lavoro, degli interessi privati, come verso il fondamento della propria esistenza, come verso un presupposto non ulteriormente fondato, perciò, come verso la sua legge naturale…L’emancipazione politica è la riduzione dell’uomo, da un lato, a membro della società civile, all’individuo egoista indipendente, dall’altro al cittadino, alla persona morale. Solo quando il reale uomo, individuale riassume in sé il cittadino astratto e come uomo individuale nella vita empirica, nel suo lavoro individuale nei suoi rapporti individuali è diventato ente generico, soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue forze proprie come forze sociali, e perciò non separa più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana è compiuta.”[52]

Perché questo accada per Marx deve realizzarsi la rivolta di coloro che nell’attività, un’attività che comprenda la propria oggettività determinata come alienazione, invece di vivere la loro piena soggettività vivono viceversa la loro alienazione.

Si può dire a nostro avviso per concludere che “tutti gli elementi del pensiero-azione di Marx sono presenti in Hegel”. Questi elementi acquistano scientificità e portata rivoluzionaria quando “Marx applica il concetto della negatività, sviluppato dalla ‘Fenomenologia’, ai dati strutturali elaborati nella ‘Filosofia del Diritto’”[53].

IV.6.
IL MATERIALISMO STORICO

Abbiamo visto che per Marx l’uomo nella situazione moderna è costretto a condurre una doppia vita:

“La vita nella comunità politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada sé stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee.”[54]

Ma come accade che l’uomo si scinde in due parti dividendosi in sé stesso e per sé stesso?

Per vedere la genesi di questa scissione Marx ed Engels partono dall’esperienza del dato empirico di una produzione basata su un elevato livello di divisione del lavoro. Proseguono successivamente sul terreno dell’astrazione teorica pensando l’essenza dell’uomo in generale per ricondurre le sue forme fenomeniche storiche alla singolarità di un’unica forma senza abbandonarle alla dispersione del molteplice. Infine risalgono alla concretezza dei lavori storici esistiti ed esistenti.

Al secondo livello di astrazione per Marx l’uomo è immediatamente “ente naturale.

“Come ente naturale, è ente naturale vivente, è da una parte fornito di forze naturali, di forze vitali, è un attivo ente naturale, e queste forze esistono in lui come disposizioni e capacità, come impulsi; e d’altra parte, in quanto ente naturale, corporeo, sensibile, oggettivo, è un ente passivo condizionato e limitato, come è anche l’animale, e la pianta: e cioè gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui come oggetti da lui indipendenti, e tuttavia questi oggetti sono oggetti del suo bisogno, oggetti indispensabili, essenziali alla manifestazione e conferma delle sue forze essenziali.”[55]

Una caratteristica specifica dell’uomo tuttavia è quella di non essere solo “ente naturale” ma “ente naturale umano”.

“Cioè ente che esiste a sé stesso, perciò ente generico, e come tale deve attuarsi e confermarsi tanto nel suo essere che nel suo sapere. Dunque, né gli oggetti umani sono gli oggetti naturali quali si presentano immediatamente, né la sensibilità umana, quale è immediatamente ed è oggettivamente, è umana sensibilità, umana oggettività. Né la natura obiettiva, né la natura subiettiva, è immediatamente presente come adeguata all’ente umano. E come tutto ciò ch’è naturale deve nascere, così anche l’uomo ha il suo atto di nascita, la storia, ch’è tuttavia da lui consaputa, e però, in quanto atto di nascita con coscienza, è atto di nascita che supera sé stesso. La storia è la vera storia naturale dell’uomo.”[56]

Questa doppia essenzialità umana, da una parte naturale e dall’altra storica, è capace di trasformarsi e di trasformare la natura stessa secondo finalità poste. Essa trova la propria mediazione nel concetto generale di “lavoro”. Ciò che distingue gli uomini dagli animali, lo abbiamo già visto precedentemente, è la produzione dei mezzi di sussistenza e quindi, in ultima analisi, la produzione della stessa vita generica.

L’esistenza degli individui umani viventi, presupposto di tutta la storia umana, “coincide con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono”[57]. Questa produzione presuppone rapporti tra gli individui la cui forma è condizionata dal modo in cui si produce.

“…individui determinati che svolgono un’attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame tra l’organizzazione sociale e politica e la produzione.”[58]

L’ipotesi assolutamente generale e quindi astratta che guida lo scienziato marxista nella ricerca consiste dunque nel considerare i rapporti sociali umani come determinati dal modo in cui gli individui associati producono la propria esistenza. Questa ipotesi, contrariamente a quanto pensa Popper, non dice allo scienziato cosa troverà esattamente prima di indagare, ma intende mettere in luce nessi e regolarità. Nessi che emergono nel tragitto che dalla superficie empirica, riflessione del concreto percepito e non pura apparenza, attraverso il piano teoretico, ritorna al particolare accresciuto.

Il grado di sviluppo del rapporto tra forze produttive e relazioni di produzione è indicato dal livello cui giunge la divisione del lavoro.

La divisione del lavoro, originariamente “divisione del lavoro nell’atto sessuale” e successivamente “divisione del lavoro…in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica)”, diviene “reale” quando “interviene una divisione tra il lavoro manuale e il lavoro mentale”[59].

Con la “divisione del lavoro reale” si sviluppano due ordini di contraddizioni. Prima di tutto “l’attività spirituale e l’attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo”, spettano a individui distinti. Questo comporta non solo il distacco del pensiero dalla vita, dell’esistente dal reale, ma addirittura l’idea che il pensiero, l’esistente, determini la vita, il reale (vedi il mondo3 popperiano). Ribaltando questa prospettiva l’antropologia storica assume per Marx ed Engels carattere ontologico.

“I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi che sono anch’essi astratti, o un’azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti.”[60]

Il secondo ordine di contraddizioni perpetrato dalla “divisione del lavoro reale” scaturisce dall’antagonismo tra l’interesse del singolo individuo e l’interesse collettivo di tutti gli individui. Questo interesse comunitario, come afferma Marx, non è una pura astrazione, bensì esiste “come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso”, e si realizza come appartenenza degli individui ad una classe determinata.

Allo stesso modo in cui i singoli individui sono sussunti ad un particolare grado di divisione del lavoro che hanno contribuito a creare come genere nel corso delle generazioni, essi vengono sussunti alle classi sociali. Classi che acquisiscono autonomia nei confronti degli individui e determinano non solo il loro sviluppo personale, ma persino le loro idee.

“Questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico.”[61]

I “risultati inintenzionali delle nostre azioni intenzionali”, come chiama Popper gli effetti degli atti individuali, non sono testimonianza della assoluta mancanza di senso della storia umana bensì, esattamente al contrario, costituiscono lo straniamento della reale cooperazione umana sedimentata nel corso dei secoli.

Questa attività umana passata, oggettivata, si oppone come altro all’attività umana presente costituendosi come necessità naturale ed impedendo il fatuo “dover essere” umano.

L’estraniazione, l’alienazione dell’uomo da sé stesso causata dalla divisione del lavoro e dall’appropriazione privata del lavoro collettivo, consiste proprio nel non riconoscere questa oggettività come la propria oggettivazione, come oggettivazione del genere. In tal modo:

“…il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua produzione, è la sua vita generica che gli sottrae la sua reale oggettività di specie, e così trasforma il suo vantaggio sull’animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inorganico della natura.”[62]

Per ritornare al tema iniziale di questo capitolo abbiamo visto così come l’uomo si scinda in due parti: da una parte l’interesse collettivo straniato nell’autonomia della comunità politica, e dall’altra l’interesse individuale reale mediato dalla classe e quindi alienato.

Nella società borghese capovolta ciò che è reale (l’interesse individuale) diviene irragionevole (lotta di classe) mentre ciò che è irragionevole (il dominio di una classe sulle altre) diviene reale (lo Stato come forma di questo dominio).

Per uscire da questa situazione non basta “togliersi dalla testa l’idea generale”, ma occorre percorrere fino in fondo il cammino di questa alienazione per giungere alla sussunzione da parte degli individui sociali di quelle forze oggettive che stanno di fronte a loro come potenze estranee.

È la lotta di una classe sociale per il dominio che consente all’umanità intera di riappropriarsi la propria esistenza oggettiva. Questa classe, il proletariato, è in grado di farlo poiché è del tutto particolare. I suoi membri infatti, essendo proprietari solamente della loro forza-lavoro, per affermare la propria vita individuale devono abolire la loro condizione di esistenza come classe, che è allo stesso tempo la condizione di esistenza di tutta la società: il lavoro diviso. Così facendo essi si pongono in antagonismo diretto anche con la forma che  gli individui associati riconoscono come espressione collettiva: lo Stato. Essi “devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità”[63].

Perché tutto ciò accada Marx ed Engels tuttavia non pensano che basti l’iniziativa volontaria di classe. Prima, e assieme a questa, deve verificarsi un grande sviluppo delle forze produttive che consenta relazioni “universali” tra gli uomini. Relazioni in grado di far giungere all’estremo la contraddizione tra forze produttive, sempre più globali, e rapporti di produzione, sempre più unilaterali. In questa chiave pensiamo vada letta la famosa affermazione della “Critica dell’ideologia tedesca”:

“il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.”[64]

A questo proposito si vede come sia del tutto erroneo attribuire a Marx, come fa Popper, la patente di “dualista pratico” intenzionato a mettere in contrapposizione “regno della libertà” e “regno della necessità” preferendo la libertà spirituale alla necessità materiale. Marx, lungi dall’accontentarsi della ben magra consolazione di una libertà solo pensata e voluta, di una metafisica della libertà, vuole indicare la strada per una libertà reale. Per questo, come Hegel, si rende conto che la libertà non è puro “dover essere” avulso dalla condizione storica e sociale, bensì è libertà in situazione. Questo significa che per Marx solo attraverso lo sviluppo delle forze produttive può determinarsi la possibilità per i “produttori associati” di istituire il “regno della libertà” e di riappropriarsi “del controllo del ricambio organico con la natura” come della propria natura, come di una finalità interna. E sviluppo delle forze produttive nella situazione storica attuale non significa altro che necessità dello sviluppo del modo di produzione capitalistico e delle sue contraddizioni immanenti. Un modo di produzione unilaterale, alienante, avvilente, opprimente, ma tuttavia potentemente progressivo. Il vero “regno della libertà” può determinarsi sulle basi del “regno della necessità” attraverso la prassi del proletariato come soggetto rivoluzionario.

IV.7.
INDIVIDUI E CLASSI

Popper contesta al marxismo di subordinare gli individui, le loro azioni e le loro idee, alle relazioni complesse di classi sociali particolari che, a suo giudizio, sono pure costruzioni di pensiero. Dal punto di vista dell’individualismo metodologico professato dall’epistemologo viennese l’esistente rappresenta adeguatamente la realtà effettiva senza bisogno di andare a cercare contenuti ulteriori. A parere di Popper l’approccio “olistico” di Marx attribuisce invece lo status di oggettività a modellizzazioni teoriche improprie. Questa critica che contrappone concetti insoliti quali: “individualismo metodologico” e “collettivismo metodologico”, “individualismo” e “olismo”, non costituisce tuttavia nulla di originale dal punto di vista dei contenuti. Del resto come scrive lo stesso Marx:

“La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare sé stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio: ne prendono a prestito i nomi le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste prese a prestito la nuova scena della storia.”[65]

Già Stirner prima di Popper ne: “L’Unico e la sua proprietà”, ha rimproverato al comunismo di affermare la potenza del sistema sociale, della collettività, sull’individuo.

Marx, rispondendo alle critiche di Stirner, gli rivolge un rimprovero che potrebbe essere rivolto inalterato a Popper, ossia il carattere ideologico della sua critica. Infatti ad una interpretazione che lascia il mondo inalterato, quella di Popper-Stirner, Marx oppone la dura realtà storica della divisione del lavoro, la quale fa si che “i rapporti personali si sviluppino e si fissino necessariamente e inevitabilmente in rapporti di classe”.

Popper-Stirner fanno dell’individuo un ente astratto, semplice rappresentazione di un genere umano altrettanto astratto. A questa rappresentazione Marx contrappone il processo storico di formazione delle classi che arrivano, come abbiamo visto nel capitolo precedente, a sussumere gli individui a loro stesse. Non basta negare questa sussunzione perché essa scompaia.

Popper stesso che afferma l’originarietà dell’individuo e del suo agire negando la sussunzione, si rende conto tuttavia che l’azione individuale raramente ottiene gli scopi che si prefigge. Egli però, anziché indagare i motivi di questa scarsa incisività, li accetta dogmaticamente come dati di fatto non altrimenti scomponibili, occultando in tal modo la realtà dei rapporti di produzione sottesi. Non si rende conto che:

“Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione.”[66]

Anche per Marx la società non è che il prodotto dell’azione reciproca degli individui.

Questo prodotto però, a differenza di quanto pensa Popper, non è statico ma dinamico, in perenne movimento. Accade così che sotto determinate condizioni comportamenti reciproci determinati si autonomizzino e si pietrifichino in formazioni sociali autonome.

Questo non significa che i rapporti sociali siano “tout court” alienanti. Non significa che i rapporti sociali in generale comportino necessariamente l’alienazione di sé dell’individuo, bensì che sotto determinate condizioni di produzione possono farlo e lo fanno. Lo scopo del marxismo è quello di comprendere queste condizioni e di agire, all’interno delle condizioni date, per trasformarle.

“…le circostanze non limitano solo ciò che gli uomini possono fare, ma anche ciò che in pratica vogliono fare; i desideri, gli scopi e gli ideali umani sono condizionati dalle circostanze nelle quali il desiderio nasce…È ovvio perciò che mentre gli uomini possono scegliere e decidere cosa fare in circostanze date, non possono decidere o scegliere quali effetti avranno le loro azioni…Gli uomini possono agire con l’intenzione di realizzare certi effetti; se questi effetti si realizzano, o se accade qualcosa di differente, non dipende dall’intenzione dell’azione ma dall’azione stessa e dalle circostanze nella quale è effettuata.”[67]

Quando Marx parla di formazioni sociali quali le classi dunque, fa riferimento alla maniera in cui gli individui, avendo socialmente acquisito certe forze produttive, sviluppano determinate relazioni di produzione che, nella circostanza specifica del modo di produzione capitalistico, sottraggono loro l’oggetto della produzione. Questi rapporti, autonomizzatisi, sottraggono all’individuo la sua “vita generica”, “la sua reale oggettività di specie”, trasformando la sua attività vitale, la sua “essenza”, in “un mezzo per la sua esistenza[68].

Popper, fermandosi all’apparenza dell’individuo libero di scambiare merci, non indaga i rapporti sociali essenziali sviluppantisi nell’ambito della produzione dove l’individuo è “liberato” dalla proprietà dei mezzi di produzione. Questi rapporti sociali tuttavia sussistono, e in questa circostanza storica sono meccanismi ciechi di sfruttamento individuale e collettivo. Negarne l’esistenza equivale a rifugiarsi in un mondo iperuranio la cui levigatezza nasconde la legittimazione dell’esistente.

Marx così scrive di Proudhon il cui pensiero è, a nostro giudizio, assimilabile nella forma a quello di Popper:

“Poiché il signor Proudhon pone le idee eterne, le categorie della ragion pura da una parte, e gli esseri umani e la loro vita pratica, che secondo lui è l’applicazione di queste categorie, dall’altra, ci si imbatte sin dall’inizio in un dualismo tra la vita e le idee, tra l’anima e il corpo, un dualismo che ricorre in molteplici forme. Voi potete vedere ora che questo antagonismo non è altro che l’incapacità del signor Proudhon a comprendere l’origine profana e la storia profana delle categorie che egli divinizza.”[69]

La “storia profana” cui fa riferimento Marx è la storia dell’adattamento continuo dei rapporti sociali di produzione allo sviluppo incessante dei mezzi di produzione compiuto dall’umanità.

“Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale.”[70]

Questa legge di sviluppo storico, del tutto generale, non è solo descrittiva-giustificativa, quindi rivolta al passato, ma è anche prescrittiva, rivolta al futuro, e consente a Marx la previsione dell’avvento del socialismo.

“I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo.”[71]

Marx individua la necessità storica del socialismo, la sua possibilità reale, come superamento degli ostacoli di natura sociale allo sviluppo delle forze produttive. Popper vede in questo una tendenza marcata al determinismo storico, al profetismo sociale, che inficia la pretesa scientifica della opera di Marx.

IV.8.
LA STORIA COME UNITA’ DIALETTICA DI FATTI E INTERPRETAZIONI

La teoria di Marx per Popper è irrefutabile, e quindi metafisica, poiché è basata su leggi storiche. A giudizio dell’epistemologo viennese la stessa locuzione “leggi storiche” è una contraddizione logica in quanto la storia è fatta di avvenimenti singolari che non servono per l’elaborazione di leggi generali (“storia priva di senso”).

La storia, secondo Popper, non ha valore teoretico, può consentire tutt’al più di estrapolare tendenze ma non leggi universali. Una scienza sociale che si affidi alla storia quale quella di Marx dunque, può solamente interpretare alla luce di griglie d’analisi determinate i fatti del passato ma sicuramente non è in grado di predire il futuro.

La concezione della storia di Popper è oscillante quanto la sua epistemologia. Da una parte il retaggio positivista gli fa suddividere rigidamente oggetto e soggetto, avvenimenti storici e giudizi generali, in maniera tale da impedire qualsiasi teoria storica. Dall’altra il rifiuto dell’induzione lo spinge ad affermare l’esistenza di fatti storici solo in quanto riflessi nella mente di chi li registra così da costruire una teoria degli infiniti significati della storia.

A ben vedere entrambe le concezioni forniscono più o meno lo stesso risultato: una svalutazione del potere euristico della storia, ora ridotta ad una mera congerie di fatti slegati, ora divenuta un prodotto soggettivo della mente dello storico. In realtà:

“Lo storico e i fatti storici sono legati da un rapporto di mutua dipendenza. Lo storico senza i fatti è inutile e senza radici; i fatti senza lo storico sono morti e privi di significato…[La storia] perciò…è un continuo processo di interazione tra lo storico e i fatti storici, un dialogo senza fine tra il presente e il passato.”[72]

In ossequio all’idea della storia come accozzaglia di fatti singolari Popper ritiene che l’oggetto della ricerca dello storico siano gli individui piuttosto che le forze sociali. Ma considerare l’uomo come individuo è deformante quanto il considerarlo membro di un gruppo se si stabilisce una linea netta di demarcazione tra i due punti di vista. L’individuo infatti è per definizione il membro di una società o, ancora meglio, di più società, e la storia concerne il passato dell’uomo vivente in società.

“…la storia…è un processo di carattere sociale a cui gli individui partecipano in quanto esseri sociali.”[73]

Popper paradossalmente rifiuta lo status di scientificità alla ricerca storica dopo che ha ipotizzato, contribuendo alla liberalizzazione del neopositivismo, lo sviluppo evolutivo e quindi storico delle teorie scientifiche. Egli basa questa convinzione sostanzialmente su due argomentazioni.

La prima è che la storia, avendo a che fare esclusivamente con l’individuale, contrariamente alla scienza che si occupa del generale, non solo non insegna nulla, ma è anche incapace di fare previsioni.

La seconda è che la storia, dal momento che riguarda l’autoempiria umana, è soggettiva, e a differenza della scienza implica problemi morali.

Per quanto riguarda il primo dogma popperiano occorre tener presente che se è vero che gli eventi storici non sono identici, è altrettanto vero che anche due atomi o due animali della stessa specie non sono uguali tra loro.

“…lo storico non ha a che fare con ciò che è irripetibile, ma con ciò che, nell’irripetibile ha un carattere generale.”[74]

Per questo lo storico, come lo scienziato di altre discipline, per considerare i fatti disponibili si serve di generalizzazioni. Queste generalizzazioni non hanno nulla a che spartire con costruzioni arbitrarie imposte surrettiziamente ai singoli eventi[75]. Scrive Marx a questo proposito smentendo esplicitamente l’accusa di “storicismo” rivoltagli da Popper:

“Degli eventi sorprendentemente analoghi, che tuttavia si verificano in contesti storici diversi, hanno effetti completamente diversi. Studiando separatamente ognuno di questi processi evolutivi e confrontandoli, troviamo facilmente la chiave per comprendere il fenomeno in questione; ma in nessun caso è possibile arrivare a tale comprensione servendosi come di un passe-partout di certe teorie storico-filosofiche che hanno la gran virtù di porsi al di sopra della storia.”[76]

È il genere umano che introduce la storia nella natura, il mutamento cosciente di sé, e su questa base Marx adotta un’unica generalizzazione storica: la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione. Attraverso questa generalizzazione egli intende il passato alla luce del presente e il presente alla luce del passato gettando uno sguardo al futuro.

Il significato della storia, tramite la mediazione dell’attività umana, diviene così quello di stabilire un rapporto coerente tra passato e futuro tale per cui fatti e valori non rimangano astrattamente divisi, ma si compenetrino indissolubilmente. La dicotomia tra fatti e valori, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, che Popper istituisce è inconsistente. Nella prospettiva marxista i fatti sono il futuro dei valori mentre i valori sono il passato dei fatti e la loro dinamica astratta si concretizza nello sviluppo materiale umano.

La generalizzazione storica è in grado di fornire all’azione futura indicazioni del tutto generali appunto, che non hanno alcuna pretesa, come del resto non l’hanno le leggi fisiche, di prevedere ciò che accadrà nei casi concreti.

“La gente non si aspetta che lo storico preveda che una rivoluzione scoppierà in Ruritania il mese prossimo. Il tipo di conclusione che la gente cercherà di trarre, in parte da una conoscenza particolareggiata della Ruritania, e in parte dallo studio della sua storia è questo: la situazione della Ruritania è tale che  è probabile che nell’immediato futuro vi scoppi una rivoluzione, a meno che qualcuno non riesca a risolvere la situazione o che il governo non faccia qualcosa per arrestare la rivoluzione stessa.”[77]

La previsione storica può realizzarsi soltanto se si verificano determinati eventi particolari che per il loro carattere sono imprevedibili. Essa perciò non è profezia bensì previsione condizionale il cui scopo è quello di interpretare la realtà e di trovare chiavi per l’azione possibile.

Il secondo dogma popperiano che ci rimane da affrontare, affermando sostanzialmente la natura identica del soggetto e dell’oggetto della ricerca, attribuisce, come abbiamo visto, un relativismo assoluto alla ricerca storica. Popper vuole così implicare una reciprocità dell’azione che impedirebbe qualsiasi osservazione oggettiva. Questo argomento reintroduce, a nostro parere, un forte pregiudizio induttivistico proprio da parte di colui che si è affannato, giustamente, ad estirparlo dal neopositivismo.

La storia, e le scienze sociali in genere, sono, a nostro avviso, incompatibili con qualsiasi teoria gnoseologica che implichi una rigida separazione tra soggetto e oggetto così come sono incompatibili con un criterio sovrastorico che giudichi il significato e l’importanza degli avvenimenti. Due indirizzi che sembrano alternativi ma che in realtà sono strettamente interconnessi. Relativizzare il mondo storico infatti significa tentare di spiegarlo unicamente attraverso due strade.

La prima strada è quella della mancanza di senso, spiegare che è inspiegabile.

La seconda strada è accettarlo in virtù di una “Ragione” statica ed eterna.

Popper ha percorso entrambe queste strade arrivando alla fine a santificare l’esistente ideologizzandolo.

IV.9.
NON DETERMINISMO STORICO MA POSSIBILITA’ REALE

Il pensiero marxiano della necessità storica è allo stesso tempo un pensiero della possibilità storica.

Popper ritiene, a nostro parere erroneamente, che per Marx il corso della storia sia deterministicamente diretto da una sorta di fatalismo economico. Quello di Marx per noi invece, è pensiero dell’azione rivoluzionaria piuttosto che fatalismo ottuso. Marx infatti afferma a più riprese nelle sue opere che sono gli uomini che fanno la storia. Il problema è che fino ad ora essi l’hanno fatta inconsciamente in quanto sottomessi a forze economiche e sociali che non comprendono, ma d’ora in poi la potranno fare consciamente.

Il materialismo storico non ha nulla a che vedere con il determinismo. Né con la forma che possiamo definire determinismo religioso o fatalismo, né con il determinismo filosofico o necessitarismo, e nemmeno con il determinismo scientifico o meccanicismo. Ed allo stesso tempo, pur discostandosene chiaramente, tuttavia Marx ed Engels intrattengono un rapporto determinato con tutte e tre queste forme.

Essi, della prima forma di materialismo o fatalismo, pur rigettando il provvidenzialismo e la predestinazione connessi, sfruttano alcuni vocaboli in diverse occasioni. Parlano di avvenimenti che si produrranno “fatalmente”, la rivoluzione ad esempio, di classi sociali “destinate” a svilupparsi secondo un percorso disegnato precedentemente, e così via. Questo linguaggio fatalista viene usato dai due essenzialmente in maniera retorica per parlare dell’inadeguatezza tra il vecchio e il nuovo e del loro necessario riequilibrio.

Della seconda forma di determinismo o necessitarismo, che sostiene l’esistenza di una legge d’evoluzione universale che orienta tutta la storia verso un determinato scopo, Marx sfrutta il concetto in sé. Egli, assieme ad Engels, riprende l’idea di una evoluzione storica che procede per tappe progressive che si succedono secondo un certo ordine necessario, la famosa “legge economica del movimento della società moderna”[78], ma tuttavia rifiuta il concetto, associato normalmente a questa metafisica, di una finalità esterna distinta da ciò che gli individui possono volere. Il fine sotteso allo sviluppo storico, per Marx ed Engels, non si realizza senza la partecipazione cosciente e volontaria degli individui i quali, solo se prenderanno il loro destino in mano collettivamente, potranno allo stesso tempo soddisfare i loro scopi individuali.

La nozione di sviluppo storico per Marx è ambigua. Egli, rigettando “la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano”[79], mette in guardia contro la rappresentazione della storia come un progresso continuo, lineare, e essenzialmente cumulativo dei filosofi illuministi. Infatti, se si può parlare di evoluzione, per lui questa consiste nello sviluppo delle forze produttive materiali e non in un “progresso dello spirito”. È per questo che la storia è un “processo aperto nel quale appaiono possibilità divergenti, svolte, vicoli ciechi, fallimenti, risorgenze, ecc.”[80]. Sotto questo aspetto ciò che Marx intende per “necessità storica” è molto diverso sia da un automatismo meccanico che da un finalismo provvidenziale.

Per Marx ed Engels la prima condizione perché vi sia una storia è data dall’esistenza e dalla riproduzione di esseri umani che per natura hanno determinati bisogni.

“La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni [mangiare, bere, ecc.] la produzione della vita materiale stessa.”[81]

A seguito di questa prima azione storica, che deriva da una necessità naturale vitale, appaiono nuovi bisogni. Questi vengono soddisfatti tramite la messa a punto di nuovi mezzi di produzione che a loro volta fanno nascere nuovi bisogni e così via.

La dialettica tra mezzi di produzione e loro scopi, i bisogni da soddisfare, è la storia.

I bisogni sociali, gli interessi materiali di classe, come primo motore della storia passata e presente[82] costituiscono il fine immanente della storia.

I bisogni finalizzano l’attività.

“Se la prima azione storica è la creazione di nuovi bisogni mediante la creazione di mezzi di produzione, allora il processo storico è essenzialmente apertura alle possibilità. Sarà dunque un errore credere che, allorché Marx parla di necessità storica, questo vada a detrimento della possibilità storica. L’una avviluppa l’altra. La necessità storica si rovescia nel suo contrario; essa crea la possibilità storica. Il pluslavoro salariato accresciuto ogni giorno, necessario alla produzione capitalista, incrementa le forze produttive, e così sfocia in una possibilità storica, quella del superamento di questo modo di produzione.”[83]

La locuzione “necessità storica” viene usata da Marx in maniera sostanzialmente differente da come la intende Popper. Il termine “necessità”, associato all’aggettivo “storica”, assume un significato opposto rispetto a quello di una necessità immutabile dovuta ad una legge eterna che si tratterebbe solo di vaticinare. Quella locuzione esprime piuttosto la necessità transitoria di “uno stato di cose esistenti” che porta con sé la possibilità di una sua abolizione futura.

Come conseguenza di ciò, a nostro giudizio, è falso affermare, come fa Popper, che Marx esprima “l’impotenza di ogni politica”. La possibilità per divenire realtà deve essere mediata dall’azione umana cosciente (lotta di classe) la quale, come tutte le azioni storiche, sottende una relativa incertezza. È l’azione stessa che per Marx mostra la possibilità di riuscita o di fallimento, non un improbabile legge storica.

La terza forma di determinismo, o meccanicismo scientifico, è prossima alla concezione di Marx ed Engels, ma tuttavia ne differisce sostanzialmente. Il meccanicismo fa appello solamente a cause efficienti ed a condizioni date induttivamente esperite escludendo tutte le necessità trascendenti e qualsiasi finalismo causale. Per Popper, nel “Capitale”, Marx, facendo riferimento a “leggi naturali della produzione capitalistica…che operano e si fanno valere con bronzea necessità”[84], accomuna leggi economiche e leggi naturali attribuendo alle prime la necessità assoluta che il meccanicismo attribuisce alle seconde reintroducendo surrettiziamente proprio quel finalismo che il determinismo scientifico si propone di eliminare. Popper definisce questa concezione di Marx “economismo”.

IV.10.
LEGGI ECONOMICHE, LEGGI NATURALI ED “ECONOMISMO”

Gli economisti moderni, prima di Marx, hanno ritenuto di aver scoperto leggi universali e necessarie nell’economia politica del tutto simili a quelle della natura. Marx afferma invece che le leggi economiche cambiano a seconda del periodo storico, anche se questo non impedisce che esse si impongano agli uomini loro malgrado.

Quando Marx assimila una legge economica ad una legge naturale, lo fa riferendosi al modo in cui queste generalizzazioni operano e al loro contenuto senza tuttavia stabilire una relazione identitaria. Se andiamo ad analizzare una relazione di scambio semplice infatti, vedremo che gli agenti economici elementari, vale a dire i venditori e i compratori, non pongono lo scambio volontariamente attraverso una convenzione, o un decreto deliberato, ma lo subiscono indipendentemente dal suo effetto. Agli occhi di questi agenti economici le leggi che presiedono lo scambio risultano inavvertibili, e il valore delle merci sembra essere una proprietà oggettiva delle cose.

“Quel che interessa praticamente in primo luogo coloro che scambiano prodotti, è il problema di quanti prodotti altrui riceveranno per il proprio prodotto, quindi, in quale proporzione si scambiano i prodotti. Appena queste proporzioni sono maturate fino a raggiungere una certa stabilità abituale, sembrano sgorgare dalla natura dei prodotti del lavoro, cosicché per esempio una tonnellata di ferro e due once d’oro sono di egual valore, allo stesso modo che una libbra d’oro e una libbra di ferro sono di egual peso nonostante le loro differenti qualità chimiche e fisiche.”[85]

C’è tuttavia una differenza essenziale tra leggi economiche e leggi naturali. Mentre le seconde esistono senza il concorso dell’azione umana, non si può dire lo stesso delle generalizzazioni economiche. Questo significa che per Marx il rapporto che intercorre tra i due tipi di generalizzazione non è di carattere identitario, come abbiamo già rilevato, ma analogico.

L’analogia da una parte consente a Marx di assimilare lo sviluppo della società a quello della natura e, con una funzione euristica positiva, il rapporto dell’uomo con la natura a quello dell’individuo con la società, ma, d’altra parte, rischia di occultare i rapporti reali.

“Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso…Questo io chiamo feticismo…”[86].

È necessario perciò relativizzare le leggi economiche. La legge del valore ad esempio, appare come legge naturale solamente in una società di mercato, mentre non lo sarebbe in un’economia pianificata di una società socialista. Con la proprietà privata e un mercato libero:

“le leggi economiche si impongono come leggi della natura. Esse sono identiche perché sono rigide e agiscono ciecamente; ma allo stesso tempo non lo sono poiché risultano da rapporti sociali che non sono naturali.”[87]

Oltre al senso analogico, che abbiamo appena tentato di mettere in evidenza, l’aggettivo “naturale” acquista per Marx anche il significato di “essenziale”. Sotto questo aspetto Marx parla di “leggi interne” o “immanenti” alla produzione capitalista. Vediamo così che la locuzione “legge naturale” nell’opera marxiana può essere intesa sia come “legge che si impone come una legge della natura”, che come “legge che deriva dall’essenza di una formazione socio economica data”[88].

Quando Popper afferma che per Marx esistono “leggi inesorabili della storia” da indagare allo scopo di “profetizzare il futuro”, attribuisce un intento, al proprio bersaglio polemico, assolutamente privo di fondamento. Per Marx le leggi di un modo di produzione non sono né eterne né inesorabili. Se all’interno di certe condizioni sociali la necessità economica si impone ciecamente, questo non vuol dire che le condizioni non possano essere cambiate. Parlando di inesorabilità Popper elimina dalla concezione di Marx l’idea che gli uomini determinino i cambiamenti. Egli trasforma la “necessità relativa” di un modo di produzione determinato in “necessità assoluta” e attribuisce a Marx un fatalismo storico ingenuo che appartiene semmai all’economia politica criticata nel “Capitale”. Per l’autore di Treviri:

“Quando si parla dunque di produzione, si parla sempre di produzione di un determinato livello di sviluppo sociale, si parla della produzione di individui sociali.”[89]

Questo significa allora, ribaltando la concezione di Popper, che Marx mette in luce unicamente leggi economiche particolari e storicamente determinate sviluppando un relativismo assoluto che impedisce qualsiasi possibilità di sistematizzazione scientifica? Assolutamente no. Esistono anche per Marx leggi generali dell’economia che attraversano tutti i modi di produzione.

“…tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale è un’astrazione, ma un’astrazione che ha un senso, nella misura in cui mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione.”[90]

Due esempi di queste leggi generali sono: “ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell’individuo entro e mediante una determinata forma di società”[91]; “la produzione è dunque immediatamente consumo, il consumo è immediatamente produzione”[92]. Queste “determinazioni comuni a tutti i livelli di produzione” sono concetti astratti che rappresentano, senza determinarle, le forme generali delle forme concrete e storiche della produzione. Come tutti gli universali una legge generale non esiste che sotto delle forme particolari.

“La ‘possibilità’ di cambiamento di ‘forma’ di una legge generale…rinvia al cambiamento storico: si realizza nel processo del divenire storico. La questione diventa: il cambiamento storico è determinato da leggi? Le forme generali o le leggi non sono sufficienti per rendere conto del cambiamento delle forme particolari. Noi non abbiamo che l’idea astratta della possibilità, la possibilità del cambiamento delle forme socio-economiche. Le leggi della produzione in generale sono incapaci di consegnarci la chiave della possibilità storica reale.”[93]

Le leggi della produzione in generale di Marx dunque, oltre a rappresentare la possibilità concettuale quindi astratta, sono categorie che consentono di comprendere la realtà, in maniera molto generale appunto, ma che in nessun caso la determinano fatalisticamente come se fossero istituite dalla divina provvidenza. Questa categorizzazione oltretutto, non costituisce una sopravvalutazione del fattore economico rispetto agli altri, e non può indurre, come fa Popper, ad accusare di “economismo” Marx, ma è il risultato di motivazioni epistemologiche interne alla teoria.

Marx infatti indagando i contenuti della storia materialisticamente, a partire dal modo di produzione, necessariamente privilegia l’economia alla scienza storica. Questo non significa però che egli, allo stesso modo dell’economia politica dei suoi tempi, tratti l’economia come una scienza particolare. Marx piuttosto guarda all’economia come a una scienza che inerisce la totalità della storia, e quindi la stessa essenza generica dell’uomo.

Siccome secondo l’autore di Treviri: “l’economia politica conosce il lavoratore solo in quanto bestia da soma, animale ridotto ai più stretti bisogni corporali”[94], e “per Ricardo gli uomini non sono niente, il prodotto è tutto”[95], occorre sollevarsi “sopra il livello dell’economia politica”[96].

“L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Non ce la spiega…L’economia politica non ci dà alcun chiarimento della ragione della divisione di lavoro e capitale, di capitale e terra.”[97]

Il tragitto di Marx parte, come quello dell’economia politica, dai fatti, ma non si ferma alla loro semplice descrizione per santificarli, bensì intende giungere alla totalità delle connessioni sostanziali passando attraverso generalizzazioni formali. Egli, con questo percorso, vuole contrapporsi da un lato alla separazione effettuata da Kant e dai suoi seguaci, tra cui anche Popper, tra ragione teoretica e ragion pratica e, d’altro lato, vuole superare l’unità di teoretico e pratico nell’idea assoluta hegeliana. Il principio materiale che consente a Marx di fare questo sta nell’attività oggettiva. Essa è sintesi di attività coscientemente finalizzata e comprende: la rappresentazione teoretica della realtà insieme alla coscienza dell’alterità e della concretezza degli oggetti su cui quell’attività si compie.

“È questa stessa attività oggettiva che definisce la costituzione ontologica dell’uomo, ad un tempo, come essenza naturale e storica. La forma storicamente determinata dell’attività oggettiva, il modo di produzione che caratterizza un’epoca, si riflette nella disciplina scientifica dell’economia politica. Dunque, il volgersi di Marx all’economia come oggetto di ricerca, in nessun modo, significa un suo allontanamento dalla filosofia a favore di una singola scienza determinata, significa, piuttosto, l’elaborazione della filosofia come ‘scienza reale’ sul terreno del fondamento empirico della scienza della storia e la concretizzazione del progetto storico-filosofico (materialismo dell’uomo e umanismo della natura = regno della libertà) – progetto di cui fa parte organica la strategia politica del rovesciamento e nuova costruzione dei rapporti sociali.”[98]

In altri termini la teoria di Marx ed Engels compie la riunificazione di storia, filosofia, economia, e politica, attraverso la critica dell’obiettivo della “perfetta produzione” dell’economia politica.

IV.11.
LA DIFFERENZA TRA LEGGI E TENDENZE

A dispetto di ciò che scrive Popper a più riprese a proposito della confusione che Marx farebbe tra leggi e tendenze, occorre dire che, per il filosofo di Treviri, la nozione di tendenza, invece di essere alternativa, completa quella di legge.

La legge, come abbiamo tentato di mettere in rilievo nel precedente capitolo, fornisce la possibilità astratta, la tendenza offre la possibilità storica concreta.

“Una tendenza esprime una necessità allo stato di possibilità.”[99]

La necessità relativa espressa da una legge si esercita all’interno di condizioni date e implica determinati rapporti di produzione. Nel caso in cui la legge agisca in maniera tendenziale la necessità diviene doppiamente relativa. Infatti il carattere tendenziale di una legge comporta la possibilità concreta di una serie di cause che agiscono in senso contrario e ritardano l’effetto della legge.

Consideriamo ad esempio la legge tendenziale, scoperta da Marx, della caduta del tasso di profitto nel sistema capitalistico. Essa come legge afferma la possibilità astratta di questa caduta in base all’accrescimento del capitale costante rispetto al capitale variabile, come tendenza sottolinea la possibilità concreta di innumerevoli ostacoli che si oppongono a questa caduta, e come legge tendenziale esprime la necessità contraddittoria di questo doppio movimento.

“La contraddizione, esposta in termini generali, consiste in questo: la produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione (vale a dire l’accrescimento accelerato di questo valore).”[100]

Questa legge non presenta le caratteristiche abituali che connotano le leggi scientifiche: costanza, semplicità, regolarità, permanenza. Le circostanze in cui essa diventa percettibile sono singolari e storiche, sono i periodi di crisi.

“…la legge si riduce ad una semplice tendenza, la cui efficacia si manifesta in modo convincente solo in condizioni determinate e nel corso di lunghi periodi di tempo.”[101]

Davanti alle diverse possibilità di contrasto l’azione della legge, la sua necessità, sembra scomparire. Addirittura in tempi normali essa appare come il suo contrario sotto l’aspetto di un rialzo del tasso di profitto.

Marx afferma che questa legge esprime la “necessaria relazione fra due fatti che sono apparentemente in contrasto”[102] essa è la contraddizione essenziale del modo di produzione capitalistico. Una contraddizione che si sviluppa attraverso molteplici contraddizioni interne determinate dal fatto che la medesima causa, l’accrescimento del capitale costante, ingenera effetti opposti. L’origine di queste contraddizioni interne sono dovute alla sproporzione derivante dallo sfruttamento capitalistico del lavoro tale per cui ad un aumento dei mezzi materiali di produzione corrisponde un bisogno inferiore di lavoratori. Questa sproporzione costringe il capitalista ad oscillare tra due tendenze antagoniste:

“…da un lato a convertire in plusvalore la maggior possibile quantità di una determinata massa  di lavoro, dall’altro ad impiegare in proporzione al capitale anticipato il meno possibile di lavoro; cosicché le medesime cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento del lavoro impediscono che – impiegando lo stesso capitale complessivo – venga sfruttata la stessa quantità di lavoro di prima.”[103]

Dunque la causa del carattere tendenziale della legge è dovuta alla contraddizione tra lo sviluppo della produttività, cui tende il capitalista per difendere il suo capitale dalla concorrenza, e la conferma delle condizioni capitalistiche di produzione. Il movimento stesso della produzione impone una barriera al suo sviluppo. La legge della caduta tendenziale del tasso di profitto esprime questa contraddizione essenziale del modo di produzione capitalistico. Questa legge nella tendenzialità trova un innalzamento, una conservazione ed un superamento di sé stessa in quanto astrazione. Essa così è più concreta di una normale generalizzazione e proprio per questo meno precisa. L’incertezza non impedisce tuttavia di esprimere una necessità storica che includa le diverse possibilità temporali.

“Questa ‘legge’ concerne tutti i fattori essenziali del tutto sociale. Inversamente alle leggi più immediate e più semplici, essa è globale e complessa: abbraccia l’insieme di un sistema socio-economico nel suo divenire, e le tendenze antagoniste che la caratterizzano donano ai diversi processi sociali l’aspetto di una ‘storia’.”[104]

Popper non può condividere la nozione marxiana di “legge tendenziale”. I due concetti per lui, lungi dal completarsi, si escludono vicendevolmente. Se la legge è una generalizzazione teorica allora la tendenza è un fatto storico e per la logica scientifica popperiana tra norme e fatti si manifesta un dualismo irriducibile.

Per Marx questo dualismo esiste solo dal punto di vista fenomenico. Il “movimento reale” comprende il momento fenomenico e lo supera nella tendenza storica. La legge della caduta tendenziale del tasso di profitto allora non è nient’altro che la legge di evoluzione delle società capitaliste. Essa consente di cogliere il limite interno del modo di produzione capitalistico.

“Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro determinando la caduta del saggio del profitto, genera una legge che, ad un dato momento, si oppone inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e che deve quindi di continuo essere superata per mezzo di crisi.”[105]

In base a questo limite:

“…dal punto di vista della produzione capitalistica stessa…quest’ultima è limitata e relativa:…essa non costituisce un modo di produzione assoluto, ma semplicemente storico, corrispondente ad una certa, limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione.”[106]

La mancata comprensione della natura delle “leggi tendenziali” non consente a Popper di intravedere il limite specifico del modo di produzione capitalistico. Questo rende l’epistemologo viennese impermeabile alla dialettica materialistica di Marx e lo induce a travisare il “Capitale”.

IV.12.
“IL CAPITALE”: METACRITICA DELL’ECONOMIA

L’opera fondamentale di Marx può essere preliminarmente collocata, a nostro parere, ad un diverso livello d’indagine rispetto al livello “epistemico” del sapere immediatamente scientifico. Come recita del resto lo stesso sottotitolo del “Capitale” in quest’opera Marx affronta la “critica dell’economia politica”. Egli intende porsi al livello metascientifico della teoria della scienza considerando filosoficamente il sapere scientifico. Questo punto di vista, secondo noi, è doppiamente originale: in quanto filosofico esprime, come abbiamo visto, non solamente la comprensione bensì la trasformazione del mondo[107], ed in quanto scientifico si oppone alla assolutizzazione scientistica del sapere scientifico.

Se l’economia politica è la falsa coscienza dell’economia borghese, la critica che Marx ne compie non ha per oggetto la sua problematica immediata, ma la sua problematica immanente.

“Quando consideriamo un dato paese dal punto di vista economico-politico, noi cominciamo con la sua popolazione…Sembra corretto cominciare con il reale ed il concreto, con l’effettivo presupposto; quindi, per es., nell’economia, con la popolazione, che è la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma ad un più attento esame, ciò si rivela falso. La popolazione è un’astrazione, se tralascio ad esempio le classi di cui si compone…Se cominciassi quindi con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell’insieme e, precisando più da vicino, perverrei via via analiticamente a concetti più semplici; dal concreto rappresentato, ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici. Da qui si tratterebbe poi di intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare finalmente di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni.”[108]

Quando Popper afferma che il capitalismo studiato da Marx non esiste più, non si pone solo nella prospettiva, a nostro avviso errata, di identificare “laissez faire” ottocentesco e capitalismo “tout court” ma, cosa ben più grave, interpreta “Il Capitale” come un’opera di economia politica teso alla confutazione dei precedenti lavori degli economisti dell’epoca. Egli vede nel “Capitale” un trattato di economia politica del “proletariato” che si oppone ai coevi trattati di economia politica della “borghesia”. L’intenzione di Marx tuttavia non è quella che gli attribuisce Popper ma l’esatto contrario. Egli infatti, a partire dalla investigazione materialistica del modo di produzione determinato che presuppone l’autoproduzione processuale umana, intende svelare le relazioni sociali che l’economia politica come scienza particolare occulta, ed esibire la formazione sociale capitalista come un tutto vivente.

Questa ricognizione nel “Capitale” si compie in tre fasi.

La prima fase, tramite la intuizione e la rappresentazione del concreto materiale, parte dall’insieme vivente percepito che nella storia compiuta compare come prodotto storico.

La seconda fase trae analiticamente alcune relazioni determinanti generali fissate socialmente nella storia in atto.

La terza fase svolge deduttivamente e sinteticamente le forme generali precedenti in sistemi risalenti all’insieme vivente facendo storia.

“Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. Per la prima via, [quella dell’economia politica] la rappresentazione concreta si è volatilizzata in una astratta determinazione; per la seconda, [quella di Marx] le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero.”[109]

Popper distingue tra il metodo marxiano, che chiama “collettivismo metodologico” o “olismo”, ed il presunto “economismo”. Mentre al materialismo dialettico il filosofo viennese contrappone, come abbiamo visto, il metodo per “congetture e confutazioni” basato su un’ontologia individualistica, alla “critica dell’economia politica” egli non trova niente di meglio che contrapporre dogmaticamente…l’economia politica! Una scienza puramente induttiva.

La critica popperiana al presunto “economismo” marxiano si accentra prioritariamente su tre obiettivi: la teoria del valore e dello sfruttamento della forza lavoro, la teoria del plusvalore, e la legge generale dell’accumulazione capitalistica.

IV.12.1. La teoria del valore

Secondo Popper, Marx mutua, inutilmente, la teoria del valore lavoro da Ricardo e da Smith “al fine di spiegare i prezzi effettivi ai quali sono scambiate tutte le merci”[110]. A parere dell’epistemologo viennese per spiegare ciò basta unicamente la teoria classica della domanda e dell’offerta, mentre non serve a nulla sapere che i prezzi delle merci sono determinati dalle ore necessarie alla loro produzione.

La teoria del valore marxiana risulterebbe essere così assolutamente “priva di importanza” e addirittura “ridondante”.

Ci domandiamo: è corretto ridurre Marx ad “un attento negoziante che vuole sapere perché questo debba costare più di quello”[111]? Noi pensiamo di no! Pensiamo che egli sia più interessato alla formazione, allo sviluppo, e al cambiamento delle relazioni di produzione attraverso la spiegazione concreta della legge puramente fenomenica della domanda e dell’offerta.

Tenteremo di dimostrare questa tesi analizzando il lavoro di Marx.

Prima di tutto occorre dire che Marx, contrariamente a quanto pensa Popper, non parte dalla teoria del valore lavoro di Smith e Ricardo per poi spiegare tutte le dinamiche sociali in essere, bensì arriva ad una teoria del valore che conserva, nega, ed alla fine supera la teoria dei classici partendo dalla società come presupposto. Per lui, ricordiamolo, gli strumenti cognitivi del pensiero quali la teoria o la logica non determinano la realtà effettiva ma ne sono determinati.

“La cosiddetta evoluzione storica si fonda in generale sul fatto che l’ultima forma considera le precedenti come semplici gradini che portano a sé stessa, e poiché è raramente e solo in certe determinate condizioni capace di criticare sé stessa…le concepisce sempre unilateralmente…Come in generale per ogni scienza storica e sociale, nell’ordinare le categorie economiche si deve sempre tener fermo che, come nella realtà così nella mente, il soggetto – qui la moderna società borghese – è già dato, e che le categorie perciò esprimono modi d’essere, determinazioni d’esistenza, spesso soltanto singoli lati di questa determinata società, di questo soggetto e che pertanto anche dal punto di vista scientifico essa non comincia affatto nel momento in cui se ne comincia a parlare come tale.”[112]

Marx presuppone dunque la società come sistema sviluppato della produzione capitalistica la cui esistenza storicamente determinata viene prodotta e riprodotta, nella forma di un rapporto mercantile, dalle relazioni reciproche degli individui. Questo sistema viene presupposto per poter essere dimostrato al termine del processo di rappresentazione, astrazione, e “risalimento al concreto”.

Gli individui, immediatamente, percepiscono il rapporto sociale di produzione come oggetto esterno, come bene concreto. Perciò il punto di partenza per l’analisi di questo rapporto è il suo prodotto empiricamente percepito: la merce.

“La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una ‘immane raccolta di merci’ e la merce singola si presenta come sua forma elementare.”[113]

La merce si presenta come “oggetto esterno”, come natura, che tuttavia possiede qualità del tutto particolari e per così dire innaturali, quelle di soddisfare bisogni umani. Astraendo da questo carattere immediato o utile della merce che andrà dimostrato alla fine in quanto rapporto, Marx analizza la sua ambivalenza di contenuto materiale, o qualità, e forma sociale, o quantità.

“Ogni cosa utile, come il ferro, la carta, ecc., dev’essere considerata da un duplice punto di vista, secondo la qualità e secondo la quantità. Ognuna di tali cose è un complesso di molte qualità e quindi può essere utile da diversi lati. È opera della storia scoprire questi diversi lati e quindi i molteplici modi di usare delle cose. Così pure il ritrovamento di misure sociali per la quantità delle cose utili.”[114]

I due caratteri di questa rappresentazione sono valori: rapporti storico-sociali e quindi determinati di validità. La determinazione qualitativa del corpo della merce è “valore d’uso”. Esso è il “corpo della merce stesso”.

La “proporzione nella quale valori d’uso sono scambiati” è “valore di scambio”. Esso è il “rapporto quantitativo” tra due o più valori d’uso ma si presenta contraddittoriamente come “valeur intrinseque”.

Vediamo già in questo primo approccio come Marx faccia emergere le relazioni interne complesse del fenomeno merce mentre Popper, rifiutando i fatti come presupposti, paradossalmente, nel suo processo di astrazione, li accetti dogmaticamente senza analizzarli. Ma proseguiamo.

Perché il valore d’uso, l’in sé della merce, possa confrontarsi col valore di scambio, il per sé della merce, per comprendere la totalità del fenomeno effettivo merce, occorre un elemento di mediazione che comprenda e allo stesso tempo superi entrambe le determinazioni semplici. A questo scopo occorre prescindere per un momento dal valore d’uso semplice dei corpi delle merci a causa della non confrontabilità di due corpi concreti (ferro e grano non sono confrontabili in sé), compiendo una seconda astrazione che riduce i corpi delle merci alla loro determinazione più generale elevandoli a prodotti antropomorfi.

“…se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro.”[115]

Sospendendo l’osservazione delle “diverse forme concrete” dei lavori che producono merci rimane “lavoro umano in astratto”, la rappresentazione di lavoro umano, e le merci, a loro volta, diventano l’oggettivazione di “forza-lavoro umana”.

“Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono valori, valori di merci.”[116]

Il contenuto di valore delle merci, la loro sostanza, è dunque l’oggettivazione di un rapporto sociale, il prodotto di “lavoro astrattamente umano” il quale, a sua volta, è valore di scambio e viene misurato in tempo di lavoro. Ma anche il tempo di lavoro è un rapporto sociale, da una parte infatti il tempo è riconosciuta misura del lavoro, e dall’altra, come “tempo di lavoro socialmente necessario”, riproduce questo rapporto.

La merce diventa tale solo grazie alla sintesi di valore d’uso e valore di scambio cioè oggettivazione di lavoro umano socialmente determinato.

Questo processo analitico-sintetico del fatto merce, attraverso la sua contraddittorietà oggettiva, permette a Marx di dimostrare ciò che per Smith e Ricardo rimane indimostrato e che per Popper è ininfluente, ossia l’originarietà dell’attività umana nel processo di definizione del mondo.

Il rimprovero di meccanicismo storicista rivolto da Popper a Marx può dunque essere ribaltato già a questo livello. Vediamo infatti come, tra i due, chi accetta di determinare il concetto di merce assumendola come dato di fatto naturale invece di mettere in rilievo la sua natura di rapporto sociale collettivamente determinato, sia proprio Popper.

Marx, scoprendo la natura sociale della determinazione di merce, ne mette in luce anche la forma di valore. Questa, nella sua rappresentazione più semplice, implica i prodromi dell’appropriazione privata.

La merce, nel suo sviluppo necessario dalla forma semplice a quella dispiegata a quella generale, giunge a trasformarsi in denaro.

Il denaro si converte necessariamente, a sua volta, in capitale, il quale per valorizzarsi deve sfruttare il lavoro salariato.

In questo senso si può dire che, anche se nella merce in quanto tale storicamente non è contenuto sfruttamento, contraddittoriamente è “storicamente necessario” che il prodotto divenga merce, poi denaro e poi capitale, e quindi che quest’ultimo contenga al proprio interno le determinazioni precedenti. Questo significa che dalla forma semplice della merce si giunge storicamente alla estrazione predatoria di plusvalore, dalla merce forza-lavoro, del modo di produzione capitalistico.

“Il nostro possessore di denaro, che ancora esiste soltanto come bruco di capitalista, deve comperare le merci al loro valore, le deve vendere al loro valore, eppure alla fine del processo deve trarne più valore di quanto ve ne abbia immesso. Il suo evolversi in farfalla deve avvenire entro la sfera della circolazione e non deve avvenire entro la sfera della circolazione. Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta![117]

Abbiamo visto che la merce diviene sé stessa quando è unità di valore d’uso, corpo materiale di lavoro qualitativamente determinato, e valore di scambio, quantità di lavoro umano astrattamente uguale. Tuttavia non ogni oggettivazione di lavoro (valore d’uso), è valore (merce), per esserlo deve diventare “valore d’uso per altri, valore d’uso sociale”. La merce diviene questa unità, fenomeno immediato, nel rapporto di scambio. Qui accade però una cosa del tutto sorprendente:

“Nel rapporto di scambio delle merci stesse il loro valore di scambio ci è apparso come una cosa completamente indipendente dai loro valori d’uso. Ma se si fa realmente astrazione del valore d’uso dei prodotti del lavoro, si ottiene il loro valore…”[118].

Mediante l’analisi Marx mette a nudo la relazione generale determinante delle merci. Nel rapporto di scambio le merci si manifestano come “prodotti del lavoro”, “semplici concrezioni di lavoro umano indistinto”, “dispendio di forza-lavoro”, ossia: valore.

“Dunque, un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano.”

La sostanza di valore è “dispendio di lavoro umano in generale”. Se andiamo però a scomporre e ad analizzare questa astrazione ci accorgiamo che il valore è in realtà “dispendio di quella semplice forza-lavoro che ogni uomo comune possiede in media nel suo organismo fisico”, e che i differenti generi determinati di lavoro “sono ridotti a lavoro semplice come unità di misura” da un processo sociale “estraneo ai produttori” che appare loro come tradizionale o naturale. Verifichiamo ancora come la astrazione, in questo caso il lavoro uguale, se sottoposta ad analisi acquista la sua concretezza, in questo caso l’unità di misura della forza-lavoro semplice, come contraddizione oggettiva.

Popper a nostro avviso sbaglia quando riduce la teoria del valore “forza-lavoro” marxiana alla teoria del valore lavoro di Smith e Ricardo. Essa è quest’ultima, ma allo stesso tempo anche di più, e in questo percorso mette in luce gli antagonismi reali occultati dalla falsa coscienza dell’economia politica.

Ma andiamo avanti. Come per la merce nel processo di astrazione si evidenzia l’ambivalenza tra valore d’uso e valore di scambio, anche per il lavoro si ripete questa duplicità. Da una parte la sostanza del valore, come abbiamo visto, è “lavoro umano in generale”, dall’altra la forma di valore, come “grandezza di valore”, è il “tempo di lavoro socialmente necessario per fornire un valore d’uso”. Il movimento reciproco di questi due momenti produce la contraddizione tra ricchezza e valore, tra concreto percepito e astratta relazione determinante.

“…lavoro identico rende sempre, in spazi di tempo identici, grandezza identica di valore, qualunque possa essere la variazione della forza produttiva. Ma esso fornisce nello stesso periodo di tempo quantità differenti di valori d’uso: maggiori quando la forza produttiva cresce, minori quando cala. Dunque quella stessa variazione della forza produttiva che aumenta la fecondità del lavoro e quindi la massa dei valori d’uso da esse fornita, diminuisce la grandezza di valore di questa massa complessiva aumentata, quando accorcia il totale del tempo di lavoro necessario alla produzione di quella massa stessa. E viceversa.”[119]

Il valore fagocita completamente la natura ed il lavoro solo quando questi dati vengono unilateralmente ricomposti nel mondo sociale della produzione di merci; quando la merce da “presupposto della formazione di capitale” appare “come il prodotto e il risultato specifico del processo produttivo capitalistico”. Il mondo sociale delle merci allora si nutre di valore d’uso, di prodotto storico e di prodotto naturale, e lo fa appropriandosi in forma valore-merce della natura (trasforma tutta la natura in merci), e in forma valore-merce del lavoro (trasforma tutto l’uomo in merce). Valori d’uso, lavori, uomini, divengono così prede assolutamente appetibili, e il valore opera per cacciarle, divorarle, e metabolizzarle in merce-valore.

Già a questo livello ci si può rendere conto di come Marx, partendo dal dato immediato delle merci, astraendone la relazione di valore, ed arrivando al dato mediato (dal capitale) delle merci, sia in grado di proporci un’immagine del mondo sociale che nega, con buona pace di Popper, la pretesa di un mercato perennemente in grado di riequilibrare domanda e offerta, ed implica la completa distruzione e ricostruzione come valore-merce della totalità del reale. L’uomo e la natura si riducono a semplici fattori inessenziali di una relazione che hanno creato. Come può avvenire tutto ciò?

Nel terzo livello della dialettica materialistica, consistente nel risalimento “dall’astratto al concreto”, questo movimento di predazione, divoramento, e metabolizzazione viene illustrato da Marx grazie al concetto di valore accresciuto o categoria concreta di valore di scambio.

“Il progredire dell’indagine ci ricondurrà al valore di scambio come modo di espressione o forma fenomenica del valore…”[120].

Il valore di scambio che come grandezza di valore è “tempo di lavoro socialmente necessario”, ora diviene “forma fenomenica del valore”, oggettività di valore. L’immediatezza di una merce è il suo valore di scambio, ovvero il suo valore.

“Ognuno sa, anche se non sa nient’altro, che le merci posseggono una forma di valore che contrasta in maniera spiccatissima con le variopinte forme naturali dei loro valori d’uso, e comune a tutte: la forma di denaro.”[121]

Anche Popper non sa nient’altro oltre al fatto che le merci si scambiano sul mercato, in base al loro valore, secondo la legge della domanda e dell’offerta. Il valore di scambio invece per Marx diviene concretezza di una merce solo grazie al suo sviluppo promosso sin dalla forma più semplice.

La base elementare del movimento di mercificazione universale, che noi chiameremo strategia relativo-equivalente, si trova proprio nella forma semplice di valore.

“x merce A = y merce B, oppure: x merce A vale y merce B…L’arcano di ogni forma di valore sta in questa forma semplice di valore.”[122]

“A” come merce presa a sé stante, ad esempio 20 braccia di tela, è semplice cristallizzazione di lavoro umano e l’analisi che possiamo farne la riduce all’astrazione di valore: lavoro umano astratto. Questa analisi non le può attribuire alcuna forma di valore, alcuna scambiabilità, differente dalla sua forma naturale: tela. La merce “A” ha valore, ha senso sociale, solo nel rapporto con un’altra merce “B”, ad esempio un abito, che conseguentemente assume la forma di equivalente.

Nell’incontro-scontro 20 braccia di tela = un abito, il solo valore che si erge alla fine della contesa è quello della tela, mentre l’abito giace come oggetto ai piedi del valore trionfante. “A”, in questo rapporto, si attiva a spese del corpo materiale di “B” per trascinarlo in catene nella spirale del valore. Il lavoro concreto della forma di equivalente diviene forma fenomenica del suo contrario, di astratto lavoro umano. Il carattere di valore di “A” si impossessa del corpo di “B”, lo muta in oggetto di valore, e vi stabilisce la propria immagine riflessa.

“Dunque mediante il rapporto di valore la forma naturale della merce B diventa forma di valore della merce A, ossia il corpo della merce B diventa lo specchio di valore della merce A[123]. La merce A, riferendosi alla merce B come corpo di valore, come materializzazione di lavoro umano, fa del valore d’uso B materiale della sua propria espressione di valore. Il valore della merce A, così espresso nel valore d’uso della merce B, ha la forma del valore relativo.”[124]

In questo modo “B” (valori d’uso, lavori utili, uomini) è precipitato nella merce. Acquista esso stesso forma di valore che “equivale” a quella di “A”. “B”, catturato da “A”, è venuto al mondo delle merci come forma di esistenza di valore. Esso è una cosa che vale in quanto è assunto nella natura sociale di “A” diventando identico ad “A”. A sua volta l’autonomia di merce che caratterizza “A” emerge proprio nell’azione di cattura di “B”.

“La tela esprime il proprio valore nell’abito, l’abito serve da materiale di questa espressione di valore. La prima merce rappresenta una parte attiva, la seconda merce una parte passiva. Il valore della prima merce è rappresentato come valore relativo, ossia quella merce si trova in forma relativa di valore. La seconda merce funziona come equivalente, ossia essa si trova in forma di equivalente. Forma relativa di valore e forma di equivalente sono momenti pertinenti l’uno all’altra, l’uno dei quali è condizione dell’altro, inseparabili, ma allo stesso tempo sono estremi che si escludono l’un l’altro, ossia opposti, cioè poli della stessa espressione di valore; essi si distribuiscono sempre sulle differenti merci che l’espressione di valore riferisce l’una all’altra.”[125]

Il mondo delle merci è generato/genera dalla/la strategia relativo-equivalente. Esso è il luogo costitutivo delle categorie reali in quanto tende a contenere-comprendere ogni dato esterno dotandolo di validità-verità mediante la spiegazione sensata prodotta dal valore. Risulta evidente perciò, sulla base di quanto detto, che è proprio nella forma di valore più semplice che si assiste ai prodromi della deprivazione di personalità degli individui che scambiano e conseguente attribuzione inversa di cosalità.

Proseguendo nel percorso di risalimento dall’astratto al concreto questa relazione feticista si può ritrovare anche nel rapporto tra capitale e forza-lavoro. Quest’ultima infatti, in quanto equivalente, viene trascinata nel processo di valorizzazione del valore, diventando valore essa stessa, proprio perdendo le sue peculiari caratteristiche di umanità.

Non serve dunque a Marx, per spiegare lo sfruttamento, come pensa Popper, sostenere la teoria del valore con la teoria della sovrappopolazione relativa. E non gli serve nemmeno, per spiegare il valore, la legge della domanda e dell’offerta.

“Diventa manifesto che non è lo scambio a regolare la grandezza di valore della merce, ma al contrario, è la grandezza di valore della merce a regolare i rapporti di scambio di quest’ultima.”[126]

Popper, supponendo che la teoria del valore forza-lavoro sia introdotta da Marx solo per spiegare a quali prezzi le merci vengono scambiate, ha completamente frainteso, a nostro avviso, il problema che la teoria vuole risolvere. Attraverso di essa Marx vuole spiegare le relazioni sociali in una società produttrice di merci.

Dove Popper vede solo oggetti che vengono scambiati al loro valore Marx vede rapporti sociali di prevaricazione e sfruttamento.

Dove Popper vede una legge ben bilanciata che regola gli scambi liberi di individui liberi Marx vede l’anarchia della appropriazione privata di un prodotto sociale.

Come può accadere che proprio Popper, il fustigatore dell’empirismo positivista, colui che proclama di aver ucciso il neopositivismo, possa ridursi a sostenere l’induttivismo dell’economia politica? È Marx stesso a spiegarcelo nel famoso capitolo del primo volume del “Capitale” dedicato al feticismo delle merci.

“A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che essa soddisfa con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano…Ma appena si presenta come merce, si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile.”[127]

Il prodotto del lavoro, quando diviene forma di merce, assume nel contempo un carattere enigmatico dovuto al fatto che tale forma restituisce agli uomini, come uno specchio, l’immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro come proprietà sociali naturali delle cose. Questo significa, in altri termini, che il rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo viene restituito rovesciato, dalla forma di merce, come un rapporto sociale tra oggetti esistente al di fuori dei produttori. I prodotti del lavoro, “mediante questo quid pro quo”, divengono merci, “cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali”. Questo accade perché generalmente, sostiene Marx criticando l’empirismo dell’economia politica ma non solo, la analisi scientifica delle forme della vita umana inizia “post festum” partendo dai risultati del processo reale. In tal maniera attribuisce solidità naturale alla vita sociale senza che gli uomini si rendano conto del suo contenuto.

Anche Popper, come abbiamo visto, parte induttivamente dal rapporto di scambio considerandolo un fatto naturale immediato. Per lui come per gli economisti volgari:

“La determinazione della grandezza di valore mediante il tempo di lavoro è quindi un arcano celato sotto i movimenti appariscenti dei valori relativi delle merci.”[128]

L’attributo arcano, enigmatico, mistificato, trascendente, del mondo delle merci, che Marx chiama feticismo, è determinato “dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci”. Gli oggetti d’uso, frutto “di prodotti di lavori privati eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro”, divengono merci proprio per il modo in cui sono prodotti, ma questa realtà effettiva viene occultata dal rapporto sociale che lega i produttori privati. Essi infatti “entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro”. Questo significa che i caratteri sociali dei loro prodotti emergono solo all’interno dello scambio dei prodotti stessi e non all’interno della produzione. Per i produttori dunque:

“…le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose.”[129]

Popper, come l’economia politica, non solo non si chiede per quale motivo il lavoro si rappresenti nel valore, ma non riconosce nemmeno lo sforzo di analisi che ha portato alla luce il contenuto che si cela nel valore. Egli per difendere a qualsiasi costo la rappresentazione dominante, democratica, della società, non intende insinuarvi alcun dubbio accettandola dogmaticamente così com’è e proponendosi come il cantore delle sue magnifiche sorti e progressive.

IV.12.2. Il plusvalore

Popper, come abbiamo visto, afferma che lo sfruttamento del lavoro era frutto del vecchio sistema di “laissez faire” indagato da Marx col nome di “capitalismo”. Oggi, a parere di Popper, quel sistema è scomparso per essere rimpiazzato dal moderno interventismo politico sull’economia che ha permesso di eliminare definitivamente lo sfruttamento del lavoro. Lo sfruttamento, che consisteva nell’aumento dell’orario di lavoro assieme all’abbassamento contemporaneo dei salari reali, sarebbe stato debellato grazie alla contrattazione ed alla legislazione sociale senza alcun bisogno della rivoluzione. Vediamo se tutto questo corrisponde a verità.

Prima di tutto, come abbiamo tentato di illustrare nel capitolo precedente, ricordiamo che per Marx lo sfruttamento, la assimilazione predatoria, risiede nel codice genetico delle merci nella misura in cui, nella loro forma valore semplice, si inaugura la appropriazione privata che conduce storicamente e necessariamente, attraverso le tappe che abbiamo sinteticamente considerato, allo sfruttamento capitalistico della merce forza-lavoro. In base a questo assunto qualsiasi società regolata dal modo di produzione capitalistico riproduce naturalmente questo rapporto violento. Sulla base dell’analisi che Marx svolge del capitalismo della propria epoca non ci sembra che si possa dire vi sia stata una trasformazione sostanziale del modo di produrre nel periodo che intercorre tra la sua morte e l’epoca presente. Sicuramente vi è stata una evoluzione che ha portato a modificazioni importanti soprattutto del processo lavorativo, ma possiamo verificare ogni giorno come le forze produttive siano sempre più socializzate mentre i rapporti sociali di produzione siano rimasti di tipo essenzialmente privato confermando, ed anzi inasprendo, la contraddizione di fondo del modo di produzione capitalistico così come l’ha descritta Marx 150 anni fa.

Non è certo il pendolo tra accelerazioni liberistiche e rallentamenti interventisti che può risolvere il rapporto di sfruttamento insito nel modo di produzione capitalistico. Marx lo ha capito investigando dettagliatamente la maniera in cui storicamente il capitalismo sorge sulla base dell’espropriazione dei mezzi di produzione ai lavoratori. Ciò che distingue il capitalismo dai modi di produzione precedenti è infatti il lavoro salariato. I lavoratori sono costretti a vendere la loro forza-lavoro ai capitalisti, detentori  dei mezzi di produzione, in cambio di un salario col quale devono acquistare le merci di cui hanno bisogno per riprodursi in quanto venditori di forza-lavoro. Allo stesso tempo i capitalisti, in cambio del salario, ottengono interamente il prodotto del lavoro dei salariati.

Il profitto deriva ai capitalisti dalla differenza, chiamata da Marx plusvalore, tra il valore totale prodotto in merci dai lavoratori e requisito dai capitalisti, ed il valore della forza-lavoro restituito ai lavoratori in forma di salario. Come Marx ha dimostrato, un saggio crescente di plusvalore può essere ottenuto, ed è stato ottenuto, contrariamente a quanto afferma Popper, anche riducendo le ore di lavoro ed innalzando il salario reale. È sufficiente aumentare la produttività e razionalizzare la produzione.

La diminuzione degli orari e l’aumento dei salari non intacca minimamente la sostanza dello sfruttamento capitalista consistente nell’appropriazione, da parte di una minoranza, dei prodotti del lavoro della maggioranza salariata.

Per concludere rileviamo che Popper rimprovera a Marx l’astrattezza della teoria del plusvalore accusandolo di aver escogitato una nozione priva di importanza quanto la teoria del valore da cui deriva. Per spiegare la realtà economica, ribadisce Popper, basta la legge della domanda e dell’offerta. Ma il processo di astrazione, come sa bene il filosofo viennese, è decisivo per la comprensione della realtà, tutto sta a vedere se viene usato per occultare, allo scopo di mantenere invariati i rapporti sociali, o se viene usato per rivelare le interne connessioni che si agitano alle spalle dei fatti immediati al fine di mutare le relazioni collettive.

“Di fatto è molto più facile trovare mediante l’analisi il nocciolo terreno delle nebulose religiose che, viceversa, dedurre dai rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme incielate. Quest’ultimo è l’unico metodo materialistico e quindi scientifico. I difetti del materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali, che esclude il processo storico, si vedono già nelle concezioni astratte e ideologiche dei suoi portavoce appena s’arrischiano al di là della loro specialità.”[130]

IV.12.3. La legge dell’accumulazione

A giudizio di Popper, Marx fonda la sua “profezia” dell’inevitabile crollo del capitalismo sulla teoria secondo la quale, col progredire dell’accumulazione capitalista, le condizioni di vita della classe lavoratrice si deterioreranno progressivamente fino a quando diverranno insopportabili provocando la rivoluzione sociale. Quel che accade, secondo Popper, contrariamente a quanto afferma Marx, è che le condizioni del proletariato non solo non peggiorano, ma migliorano considerevolmente e continuano a migliorare. Questo, in ultima analisi, confuta qualsiasi ipotesi di comunismo.

La mancata realizzazione della legge marxiana dell’accumulazione oltretutto, come conseguenza accessoria, spingerebbe i marxisti verso un dogmatismo assoluto, “ostile ad ogni argomento ragionevole”, e chiuso ad ogni possibile scientificità.

Vediamo cosa afferma Marx in proposito.

“…nella misura in cui il capitale si accumula la situazione dell’operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare…Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale. Questo [è il] carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica.”[131]

“Questa legge assoluta, generale dell’accumulazione capitalistica”, scrive Marx smentendo il profetismo attribuitogli da Popper, “come tutte le altre leggi è modificata nel corso della propria attuazione da molteplici circostanze”. In altri termini Marx, mediante questa legge, non pone un fato ineluttabile, bensì la possibilità astratta, ovvero la necessità categoriale, che per divenire possibilità concreta, storica, deve fare i conti con le condizionalità tendenziali contrastanti.

Nessuno può pensare, ed è strano che lo faccia un epistemologo come Popper, che una “legge” possa essere accomunata ad una predizione incondizionale; “le affermazioni delle leggi non sono predizioni, ma strumenti da usare per fare predizioni”[132].

Questa legge, come del resto tutte le leggi marxiane, ha dunque un carattere tendenziale che è determinato da diversi fattori. Prima di tutto dalle condizioni della lotta di classe come fattore sostanziale per determinare il livello di vita dei lavoratori e, secondariamente, dallo sviluppo tecnologico come diffusore di merci di massa che incrementano il valore della forza-lavoro.

Se è vero che il “lassez faire” ottocentesco ha lasciato spazio al “protezionismo”, come afferma Popper, questo non significa che il comunismo, ovvero la gestione pianificata dell’economia da parte dei produttori associati per i produttori associati, venga espunto dall’orizzonte delle possibilità concrete. La legislazione sociale, il servizio sanitario e la scuola pubblica in quanto forme di salario sociale non sono, come afferma Popper, frutto della benevolenza dello Stato interventista e altrettante dimostrazioni della fallacia della cosiddetta “predizione marxiana”, bensì, all’opposto, proprio la conferma del fatto che, anche in presenza del capitalismo, i lavoratori possono ottenere un miglioramento della loro condizioni reali solo attraverso la lotta di classe.

Ma questo, ribadisce Popper, non implica l’abolizione del capitalismo. Se attraverso la mobilitazione i lavoratori possono migliorare la loro condizione anche all’interno del modo di produzione capitalistico perché abolirlo, si domanda il filosofo viennese.

Marx per la verità, come abbiamo tentato di mettere in luce precedentemente, non si propone di abolire il capitalismo, bensì intende rilevare le contraddizioni oggettive che necessariamente porteranno alla sua caduta. Le contraddizioni che possono promuovere questo processo, e lo promuoveranno, sono sostanzialmente due.

La prima consegue dal fatto che l’accumulazione capitalista si ottiene mediante l’estrazione di plusvalore. Questo significa che l’accumulazione di capitale, che è essenziale per la riproduzione del sistema complessivo, implica un’opposizione continua a qualsiasi richiesta dei salariati tesa all’acquisizione di una quota maggiore del valore prodotto.

La seconda comporta un antagonismo sempre più rilevante tra l’interesse del capitale ad una continua razionalizzazione della produzione per mezzo dell’automazione, ed il contemporaneo interesse confliggente dei lavoratori a non farsi espellere dal processo produttivo.

Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l’energia del suo aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. La forza-lavoro disponibile è sviluppata dalle stesse cause che sviluppano la forza d’espansione del capitale.”[133]

In sostanza, quanto più si sviluppa l’accumulazione capitalista, tanto più si sviluppa un “esercito industriale di riserva” o “forza-lavoro disponibile” che preme sui lavoratori occupati determinando la riduzione progressiva delle condizioni di vita della classe[134].

Ciò che il capitale è costretto a fare per continuare ad esistere dunque è valorizzare sé stesso attraverso l’estrazione di plusvalore dalla classe lavoratrice. Se questo processo spiraliforme riuscisse a realizzare nella circolazione tutto il valore che produce, allora sarebbe vera la legge dell’economia politica che afferma l’equilibrio tra merci prodotte e merci vendute e l’utopia del capitalismo sarebbe realizzata. Purtroppo però questo equilibrio non sussiste e se ne accorge anche Popper, riconoscendo l’esistenza delle crisi, contraddicendosi (logicamente e non oggettivamente).

Le crisi che percorrono ciclicamente la produzione capitalista sono concrete testimonianze dell’anarchia di un modo di produzione che “pianifica per il profitto e non per il benessere”[135], che crea ricchezza nel momento stesso in cui la distrugge, che provoca guerre nel momento stesso in cui lavora per la pace.

“Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per la continua estensione del processo vitale per la società dei produttori.”[136]

Questo limite sancirà necessariamente la fine del modo di produzione capitalistico.

IV.13.
RIVOLUZIONE E VIOLENZA

La teoria marxiana culmina nell’idea che la possibilità reale della tappa successiva della storia consista nell’emancipazione umana attraverso la autoliberazione della classe lavoratrice.

Marx ha come obiettivo una libertà concreta, realizzata nell’azione dall’intervento pratico degli uomini nella storia. Questa libertà è da conquistare piuttosto che da riconoscere o da ritrovare, un risultato, non un presupposto come crede Popper. Solo un’azione storica di lotta contro l’alienazione che si radica nello sfruttamento del lavoro e nell’esistenza delle classi la può realizzare. Questa azione, avendo come scopo un cambiamento sostanziale delle relazioni ci produzione, interferirebbe drasticamente col diritto individuale di proprietà e questo costituirebbe una rivoluzione sociale.

Popper, come portavoce delle classi dominanti, ritiene chiaramente che una simile eventualità sarebbe una tremenda iattura. Egli, dimenticandosi che gli attuali rapporti di potere derivano sostanzialmente dalla rivoluzione francese, si profonde in una lunga lamentazione sugli effetti disastrosi che avrebbe una rivoluzione sul tessuto sociale. Essa infatti, secondo il filosofo viennese, per mezzo di un inevitabile e prolungato uso della violenza causerebbe la distruzione della civiltà ricacciandoci ad un’esistenza ferina.

A Popper non interessa la violenza quotidiana compiuta a danno dei salariati espropriati del prodotto del loro lavoro, della loro umanità.

Gli unici, a suo avviso, che da una parte incitano alla violenza, e dall’altra attendono fatalisticamente lo scoppio rivoluzionario rigeneratore, obnubilati da un radicalismo morale che sfocia nel futurismo etico, sono i marxisti.

Si assiste così ad una strana quanto paradossale metamorfosi che trasforma Popper, l’alfiere della libertà e della rivoluzione teorica permanente, nel più fedele e dogmatico sostenitore di leggi di produzione e di scambio se non eterne quantomeno molto antiche e conseguenti a rapporti sociali liberal-democratici ingenerati da un ontologia individualistica da rintracciare nell’imperialismo ateniese del quinto secolo avanti cristo.

L’individuo popperiano, immerso in relazioni sociali e morali eternamente vere, indagato più da vicino tuttavia si presenta per quello che è: da un lato, autoritratto popperiano, lo scienziato platonico che, attraverso il confronto coi suoi pari, è in grado di discernere il bene comune e, dall’altro lato il burocrate oscuro e ottuso che non deve fare altro che applicare, ed eventualmente tecnicamente migliorare attraverso l’ingegneria istituzionale gradualista, le direttive del consesso degli scienziati consapevoli. Al fondo della scala la forza-lavoro, graziosamente miracolata da istituzioni sociali elargite benignamente dall’alto che, se non sopporta questo stato di cose, se diventa intollerante della propria subalternità, deve essere repressa duramente perché la “tolleranza” va difesa intollerantemente e chi mette in discussione la piramide sociale dev’esserne espulso.

Lo stato protezionista popperiano, “guardiano notturno” dei rapporti mercantili di produzione, diviene così la rappresentazione ideologica, e quindi rovesciata, dell’istituzione collettiva occidentale storicamente determinata nata a cavallo della fine dell’ultima guerra mondiale. Essa non si caratterizza tanto per il controllo politico democratico delle dinamiche economiche come crede Popper, ma per l’esigenza urgente di integrazione delle masse impoverite, spogliate prima dalla crisi e in seguito dal grande calderone distruttivo della guerra, ed influenzate dall’esempio sovietico. In questa chiave si comprende, a nostro parere, come il rimprovero rivolto da Popper a Marx e ai marxisti di essere mallevadori della violenza vada ribaltato. Egli infatti attraverso l’immagine idilliaca della sua democrazia astorica ci offre, a ben vedere, la rappresentazione di un’istituzione politica, quindi sublimemente violenta, molto concreta, tesa alla conservazione  con ogni mezzo dei rapporti sociali in essere. Ma, come afferma Engels:

“Ogni operaio socialista, senza differenza, qualunque sia la sua nazionalità, sa benissimo che la violenza non fa che proteggere lo sfruttamento ma non lo causa; che la base del suo sfruttamento è il rapporto tra capitale e lavoro salariato e che questo è sorto per via puramente economica e niente affatto per via violenta.”[137]

L’alternativa secca tra “utopia sociale violenta” e “ingegneria sociale democratica”, dipinta come una scelta tra la barbarie e la civiltà che ci propone Popper dunque, è una falsa dicotomia.

Marx non parte tratteggiando uno Stato ideale al quale la realtà debba adeguarsi, ma parte dall’analisi scientifica del modo di produzione della società moderna, individua le sue contraddizioni oggettive, e analizza la possibilità reale di rimuoverle per istituire relazioni di produzione che permettano lo sfruttamento collettivo delle forze produttive. La questione posta dal marxismo allora, non è quella di scegliere, al posto di una razionale pratica riformista, una utopica organizzazione politica da imporre con la forza sopprimendo violentemente l’ordine costituito, bensì quella di accettare l’esistente modello di sfruttamento violento come eterno oppure di esaminare la maniera in cui poterlo rimuovere. Del resto “la violenza non è un semplice atto di volontà”, ma pretende per concretizzarsi condizioni preesistenti molto reali “soprattutto strumenti, di cui il più perfetto ha la meglio sul meno perfetto”[138], e chi detiene il possesso di questi strumenti, la classe dominante in genere, di solito pratica effettivamente la violenza.

“…la vittoria della violenza poggia sulla produzione di armi, e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, quindi sulla ‘potenza economica’, ‘sull’ordine economico’, sui mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza.”[139]

Certo la violenza, usando le parole di Marx, è anche “la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova”, ma questo accade solamente quando il movimento della società infrange “forme politiche irrigidite e morte”, quando cioè, come all’epoca della rivoluzione sovietica ad esempio, la forza economica progressiva, in questo caso i “soviet”, è negata dall’anacronismo feudale e aristocratico del potere politico zarista. Allora diviene inevitabile uno scontro violento tra i due poteri che si risolve, nel lungo periodo, a favore di quello che prevede un ulteriore sviluppo economico. Anche in questo caso tuttavia Marx non auspica una violenza cieca ed immotivata:

“Anche quando una società è riuscita a intravedere la legge di natura del proprio movimento…non può né saltare né eliminare per decreto le fasi naturali del suo svolgimento. Ma può abbreviare e attenuare le doglie del parto.”[140]

IV.14.
CONCLUSIONI

Il dualismo di teoria e prassi che percorre tutta l’opera di Popper si ricompone, a nostro avviso, nella sostanziale unità della sua utopica rappresentazione sociale: la “società aperta”. Questa immagine della società occidentale a cavallo della seconda guerra mondiale, ideologizzata da Popper perché eternata, analizzata in termini materialistici ripropone in un unico soggetto sociale le antinomie irrisolte della filosofia popperiana.

Da una parte, nell’apparenza della circolazione del modo di produzione capitalistico, egli fonda la sostanziale libertà assoluta dell’individuo che scambia le proprie merci sul mercato e la sua metodologia scientifica basata sulla rivoluzione teorica permanente.

Dall’altra parte, nella evidenza empirica accettata acriticamente della produzione capitalistica, egli fonda la politica democratica come eterno riaggiustamento riformatore di un equilibrio astorico.

Queste due antinomie, il dover essere individuale e l’essere sociale, giungono a compimento ed a risoluzione per Popper nello Stato concreto statunitense successivo alla crisi del ’29, quello del “New Deal” rooseveltiano e del “welfare” keynesiano che successivamente diviene “warfare”, e nello Stato concreto statunitense degli anni ’50, quello della caccia alle streghe maccartista e dei prodromi della guerra fredda. Questi sono i due modelli storicamente determinati che, secondo noi, per Popper rappresentano la formazione politico-sociale assoluta: la “società aperta”. Nelle esigenze fondamentali della sua “società aperta”: l’interventismo politico sull’economia e l’antimarxismo, ritroviamo entrambi questi modelli rovesciati ed idealizzati.

Quello che Popper rimprovera al marxismo ovvero il suo dogmatismo, testimonianza della mancanza di scientificità, paradossalmente è proprio quello che, da un lato manca maggiormente al marxismo per diventare “scienza normale” nei termini kuhniani, e d’altro lato abbonda nella teoria sociale popperiana al fine di occultare i reali rapporti sociali di sfruttamento.

Probabilmente chissà, ragionando per assurdo, se Popper avesse completato la propria maturazione teorica nell’epoca attuale, caratterizzata da un liberismo economico estremo frutto di circa un trentennio di crisi economica strisciante e dalla scomparsa della pianificazione economica del socialismo reale, avrebbe rinunciato ad assolutizzare il riformismo politico per affermare al contrario la necessità di liberare la forza economica da vincoli di natura politica che ne impediscano il totale dispiegamento.

Quello che è certo, a nostro parere, è che se il filosofo viennese avesse analizzato meglio e senza pregiudizi l’opera di Hegel e di Marx, cioè se fosse stato maggiormente conseguente coi suoi stessi principi teorici, ne avrebbe tratto un notevole giovamento evitando di santificare un modo di produzione determinato e la sua manifestazione politica necessaria. D’altra parte questo avrebbe comportato sicuramente, come conseguenza, un minore successo accademico ed un ridimensionamento della notorietà di Popper quale “maitre a penser” di diverse generazioni e forse questo gioco non sarebbe valso la candela.

BIBLIOGRAFIA

AAVV, Critica e crescita della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1984; ed. orig.: Criticism and the Growth of Knowledge, a cura di Lakatos I. e Musgrave A., Cambridge, 1970.

AAVV, Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

AAVV, Il Capitale. Movimento in Valore, a cura del Coordinamento Nazionale R.S.U., inedito.

AAVV, Il piacere di lavorare. Saggi sull’utopia marxista del lavoro-bisogno, a cura di Andolfi F., Milano, Unicopli, 1982.

AAVV, Karl Popper: Philosophy and Problems, a cura di O’Hear A., Cambridge, University Press, 1995.

AAVV, L’Ostato ovvero come lo Stato degli inganni sia stato sovrastato, a cura di Pala G., Napoli, La Città del Sole, 2000.

AAVV, Philosophy of the Social Sciences. Special Isuue: The 50th Anniversary of Popper’s the Open Society and Its Enemies: Part I, a cura di Shearmur J. e Jarvie I. C., vol. 26, dic. 1996, n° 4.

AAVV, Philosophy of the Social Sciences. Special Isuue: The 50th Anniversary of Popper’s the Open Society and Its Enemies: Part 2, a cura di Shearmur J. e Jarvie I. C., vol. 27, mar. 1997, n° 1.

AAVV, Plato, Popper and Politics. Some Contributions to a Modern Controversy, a cura di Bambrough R., Cambridge, Heffer, 1967.

AAVV, Traffici e mercati negli antichi imperi. Le economie nella storia e nelle teorie, a cura di Polanyi K. con la collaborazione di Arensberg C. M. e Pearson H. W., Torino, Einaudi, 1978; tit. orig.: Trade and Market in the Early Empires. Economies in the History and Theory, 1957.

Adorno T. W., “ Sociologia e ricerca empirica”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 83-104; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

Adorno T. W., “Introduzione”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 9-82; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

Adorno T. W., “Sulla logica delle scienze sociali”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 125-144; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

Agassi J., “Celebrating The Open Society”, in Philosophy of the Social Sciences, vol. 27, dic. 1997, n° 4, pp. 486-525.

Agazzi E., “Jurgen Habermas: ‘critico’ o ‘ricostruttore’ del materialismo storico?”, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Urbino, QuattroVenti, 1987, pp. 155-193.

Albanese L., “La società ‘aperta’”, in L’Unità, 26 sett. 1974, p. 7.

Albert H., “Alle spalle del positivismo?”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 261-296; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

Albert H., “Breve nota conclusiva a proposito di una lunga e sorprendente introduzione”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 325-330; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

Albert H., “Il mito della ragione totale”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 189-228; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

Alcaro M., “Alla ricerca di un’alternativa al marxismo. Popper e il governo spassionato della ragione”, in Classe, XIII, giu. 1982, 21, pp. 61-80.

Amodio L., “La polemica tra Marx e Proudhon”, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Urbino, QuattroVenti, 1987, pp. 111-124.

Andolfi F., “Il decentramento del lavoro nella teoria. Linee del dibattito in Italia (1977-1980)”, in Il piacere di lavorare. Saggi sull’utopia marxista del lavoro-bisogno, a cura di Andolfi F., Milano, Unicopli, 1982, pp. 99-122.

Andolfi F., “Il lavoro come autocreazione nella critica marxiana dell’economia politica”, in Il piacere di lavorare. Saggi sull’utopia marxista del lavoro-bisogno, a cura di Andolfi F., Milano, Unicopli, 1982, pp.19-54.

Andolfi F., “L’utopia del lavoro come bisogno vitale”, in Il piacere di lavorare. Saggi sull’utopia marxista del lavoro-bisogno, a cura di Andolfi F., Milano, Unicopli, 1982, pp. 55-80.

Antiseri D., “Il cacciatore di falsi”, in L’Unità 2, 18 sett. 1994, p. 3.

Antiseri D., “Popper e le basi teoriche del riformismo”, in Mondoperaio, dic. 1981, n° 12, pp. 89-97.

Antiseri D., Critiche epistemologiche al marxismo, Milano, Borla, 1986.

Antiseri D., Karl R. Popper. Epistemologia e società aperta, Roma, Armando, 1972.

Badaloni N., Dialettica del capitale, Roma, Editori Riuniti, 1980.

Badaloni N., Per il comunismo. Questioni di teoria, Torino, Einaudi, 1972.

Baldini M., “La dimensione ideologica dell’epistemologia di Karl R. Popper”, in Sapienza, anno XXVII, 1974, fasc.2, pp. 129-154.

Baumann Z., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Bari, Laterza, 1999; ed. orig.: Globalization. The Human Consequences, Cambrifge-Oxford, 1998.

Bellone E., “La scienza, conoscenza senza soggetto”, in L’Unità 2, 18 sett. 1994, p. 3.

Borghini A., Karl Popper Politica e Società, Milano, Angeli, 2000.

Bosetti G., “Quella sua voce dolce e rigorosa”, in L’Unità 2, 18 sett. 1994, p. 1.

Brown H. I., La nuova filosofia della scienza, Bari, Laterza, 1984; ed. orig.: Perception, Theory and Commitment. The New Philosophy of Science, 1977.

Bufalini J., “Sir Karl e la sinistra italiana. Prima e dopo il muro”, in L’Unità 2, 18 sett. 1994, p. 2.

Bunge M., “The Seven Pillars of Popper’s Social Philosophy”, in Philosophy of the Social Sciences. Special Isuue: The 50th Anniversary of Popper’s the Open Society and Its Enemies: Part I, a cura di Shearmur J. e Jarvie I. C., vol. 26, dic. 1996, n° 4, pp. 528-556.

Calamita U., “L’adeguamento mondiale degli Stati nazionali”, in L’Ostato ovvero come lo Stato degli inganni sia stato sovrastato, a cura di Pala G., Napoli, La Città del Sole, 2000, pp. 135-136.

Carr E. H., Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966; ed. orig.: What is History?, London, 1961.

Catone A., “Lo Stato nella ‘mondializzazione’”, in L’Ostato ovvero come lo Stato degli inganni sia stato sovrastato, a cura di Pala G., Napoli, La Città del Sole, 2000, pp. 113-134.

Cazzaniga G. M., “Marx e l’idea di Progresso”, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Urbino, QuattroVenti, 1987, pp. 55-70.

Cazzaniga G. M., Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo, Napoli, Liguori, 1981, 19889.

Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Marx e i suoi critici, Urbino, QuattroVenti, 1987.

Ciabatti G., Il neocorporativismo, introduzione di Filosa C., Napoli, Laboratorio Politico, 1995.

Clark P., “Popper on determinism”, in Karl Popper: Philosophy and Problems, a cura di O’Hear A., Cambridge, University Press, 1995, pp. 149-162.

Cornforth M., The Open Philosophy and The Open Society. A Reply to Dr. Karl Popper’s Refutation of Marxism, London, Lawrence and Wishart, 1968.

D’Hondt J., Hegel. Biographie, Paris, Calmann – Lévy, 1998.

Dahrendorf R., “Note sulla discussione delle relazioni di Karl R. Popper e Theodor W. Adorno”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 145-152; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

De Pisi E. e Fraioli M., “La democrazia su palafitte”, in Mondoperaio, dic. 1981, n° 12, pp. 98-102.

Eagleton T., Le illusioni del postmodernismo, Roma, Editori Riuniti, 1998; ed. orig.: The illusion of postmodernism.

Eidlin F., “Blindspot of a Liberal: Popper and the Problem of Community”, in Philosophy of the Social Sciences. Special Isuue: The 50th Anniversary of Popper’s the Open Society and Its Enemies: Part 2, a cura di Shearmur J. e Jarvie I. C., vol. 27, mar. 1997, n° 1, pp. 5-23.

Engels F., “Anti-Duhring”, in Karl Marx Friedrich Engels Opere XXV, Roma, Editori Riuniti, 1974; ed orig.: Herrn Eugen Duhring’s Umwalzung der Wissenschaft, Stuttgart, 1894.

Engels F., Dialettica della natura, Roma, Edizioni Rinascita, 1955.

Feyerabend P. K., “Consolazioni per lo specialista”, in Critica e crescita della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 277-312; ed. orig.: Criticism and the Growth of Knowledge, a cura di Lakatos I. e Musgrave A., Cambridge, 1970.

Feyerabend P. K., Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1979, 19904; ed. orig.: Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, 1975.

Filosa C., “Lo Stato neocorporativo di classe”, in L’Ostato ovvero come lo Stato degli inganni sia stato sovrastato, a cura di Pala G., Napoli, La Città del Sole, 2000, pp.73-96.

Focher F., I quattro autori di Popper, Milano, Angeli, 1982.

Garroni S., “Lo Stato e il postmoderno”, in L’Ostato ovvero come lo Stato degli inganni sia stato sovrastato, a cura di Pala G., Napoli, La Città del Sole, 2000, pp. 137-144.

Geymonat L., Riflessioni critiche su Kuhn e Popper, Bari, Edizioni Dedalo, 1983.

Giorello G., “I bersagli di Popper”, in L’Unità, 12 apr. 1975, p. 3.

Giorello G., “Introduzione”, in Critica e crescita della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 7-63; ed. orig.: Criticism and the Growth of Knowledge, a cura di Lakatos I. e Musgrave A., Cambridge, 1970.

Giorello G., “Società aperta e governabilità”, in Mondoperaio, giu. 1981, n° 6, pp. 94-100.

Gombrich E. H., “”The open society - A Comment”, già in The British Journal of Sociology, 3, 1952, ora in Plato, Popper and Politics. Some Contributions to a Modern Controversy, a cura di Bambrough R., Cambridge, Heffer, 1967, pp. 146-149.

Gozzi G., “Dialettica e razionalismo critico. Analisi del dibattito metodologico tra Popper e la scuola di Francoforte”, in Il Mulino, XXIII, 1974, n° 231, pp. 69-92.

Gravagnuolo B., “Bobbio: ‘Con lui dall’inizio’”, in L’Unità 2, 18 sett. 1994, p. 2.

Gruppi L., “Il pensiero borghese e il distacco dalla storia”, in Rinascita, 37, sett. 1974, pp. 23-24.

Habermas J., “Contro il razionalismo dimezzato dei positivisti”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 229-260; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

Habermas J., “Epistemologia analitica e dialettica”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 153-188; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

Hacohen M. H., “Karl Popper in Exile: The Viennese Progressive Imagination and the Making of the Open Society”, in Philosophy of the Social Sciences. Special Isuue: The 50th Anniversary of Popper’s the Open Society and Its Enemies: Part I, a cura di Shearmur J. e Jarvie I. C., vol. 26, dic. 1996, n° 4, pp. 452-492.

Hegel G. W. F., “La scienza della logica” a cura di Verra V., parte prima, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche in Compendio, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1981.

Hegel G. W. F., Fenomenologia dello Spirito, a cura di Cicero V., Milano, Rusconi, 1995, 19992; ed. orig.: System der Wissenschaft. Erster Teil die Phanomenologie des Geistes, Bamberg und Wurzburg, 1807.

Hegel G. W. F., Lineamenti di Filosofia del Diritto, Bari, Laterza, 1913.

Holz H. H., “Natura e storia in Marx”, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Urbino, QuattroVenti, 1987, pp. 195-217.

Holz H. H., Marx, la storia, la dialettica, introduzione di Garroni S., Napoli, Laboratorio Politico, 1996.

Holz H. H., Riflessioni sulla filosofia di Hegel, Napoli, Edizioni La Città del Sole, 1997.

Hudelson R., “Popper’s Critique of Marx”, in Philosophical Studies, 37, 1980, pp. 259-270.

Irzik G., “Popper’s Piecemeal Engineering: What is Good for Science is not always Good for Society”, in The British Journal for the Philosophy of Science, 1985, vol.36, pp. 1-10.

Jacobs S., “Tilley and Popper’s Alleged Historicism”, in Philosophy of the Social Sciences, 13, 1985, pp. 303-305.

Jarvie I. C. e Shearmur J., “Introduction”, in Philosophy of the Social Sciences. Special Isuue: The 50th Anniversary of Popper’s the Open Society and Its Enemies: Part I, a cura di Shearmur J. e Jarvie I. C., vol. 26, dic. 1996, n° 4, pp. 445-451.

Keaney M., “The poverty of rhetoricism: Popper, Mises and the riches of historicism”, in History of the Human Sciences, vol.10, 1997, n° 1, pp. 1-22.

Kiesewetter H., “Ethical Foundations of Popper’s Philosophy”, in Karl Popper: Philosophy and Problems, a cura di O’Hear A., Cambridge, University Press, 1995, pp. 275-288.

Koertge N., “Popper’s Metaphysical Research Program for the Human Sciences”, in Inquiry, 18, 1975, pp. 437-462.

Kragh H., Introduzione alla storiografia della scienza, Bologna, Zanichelli, 1990, 19945; ed. orig.: An Introduction to the Historiography of Science, Cambridge, 1987.

Kuhn T. S., “Logica della scoperta o psicologia della ricerca?”, in La tensione essenziale, Torino, Einaudi, 1985, pp. 290-320; ed. orig.: The Essential Tension, Chicago, 1977.

Kuhn T. S., “Logica della scoperta o psicologia della ricerca?”, in Critica e crescita della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 69-93; ed. orig.: Criticism and the Growth of Knowledge, a cura di Lakatos I. e Musgrave A., Cambridge, 1970.

Kuhn T. S., “Nuove riflessioni sui paradigmi”, in La tensione essenziale, Torino, Einaudi, 1985, pp. 321-350; ed. orig.: The Essential Tension, Chicago, 1977.

Kuhn T. S., “Prefazione”, in La tensione essenziale, Torino, Einaudi, 1985, pp. VII-XXII; ed. orig.: The Essential Tension, Chicago, 1977.

Kuhn T. S., “Riflessioni sui miei critici”, in Critica e crescita della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 313-365; ed. orig.: Criticism and the Growth of Knowledge, a cura di Lakatos I. e Musgrave A., Cambridge, 1970.

Kuhn T. S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969; ed. orig.: The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, 1962.

Lakatos I., “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici”, in Critica e crescita della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 164-276; ed. orig.: Criticism and the Growth of Knowledge, a cura di Lakatos I. e Musgrave A., Cambridge, 1970.

Lakatos I., La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, I vol., Scritti filosofici I, Milano, Il Saggiatore, 1985; ed. orig.: The Methodology of Scientific Research Programmes, I vol., Philosophical Papers Volume I, Cambridge, 1978.

Lenin V. I. U., Matérialisme et Empiriocriticisme. Notes Critiques sur une Philosophie Réactionnaire, Paris, Edition Sociales, 1948; ed. it. Materialismo ed Empiriocriticismo, Roma, Editori Riuniti, 1973.

Lenin V. I. U., Stato e Rivoluzione, Roma, Newton Compton, 1971, 19775.

Losurdo D., “Contraddizione oggettiva e analisi della società da Kant a Marx”, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Urbino, QuattroVenti, 1987, pp. 7-22.

Lowith K., Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Milano, Il Saggiatore, 1989; ed. orig.: Meaning in History; Weltgeschichte und Heilsgeschehen, Stuttgart, 1953.

Macchioro A., “1990: il secondo ‘primonovecento’, un ritorno annunciato al liberal-liberismo”, in La Contraddizione, lug.-ago. 2001, n° 85, pp. 72-79.

Macdonald G., “The Grounds for Anti-Historicism”, in Karl Popper: Philosophy and Problems, a cura di O’Hear A., Cambridge, University Press, 1995, pp. 241-258.

Machiavelli N., Il principe, Firenze, Le Monnier, 1888.

Magee B., “What Use is Popper to a Politician?”, in Karl Popper: Philosophy and Problems, a cura di O’Hear A., Cambridge, University Press, 1995, pp. 259-274.

Magee B., Il nuovo radicalismo in politica e nella scienza. Le teorie di K. R. Popper, Roma, Armando, 1975; ed. orig.: Popper, London, 1973.

Marx K. e Engels F., L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, Roma, Editori Riuniti, 1958, 19752,3; tit. orig.: Die Deutsche Ideologie.

Marx K. e Engels F., Manifesto del Partito Comunista, a cura di Cantimori Mezzomonti E., Torino, Einaudi, 1998.

Marx K., “Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte”, in Karl Marx Friedrich Engels Opere XI, Roma, Editori Riuniti, 1974.

Marx K., “Lettera a Annenkov” in Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della Miseria del signor Proudhon, Roma, Editori Riuniti, 1950, 19733,1, pp. 151-162; tit. orig.: Misère de la philosophie, Réponse à la philosophie de la misère de M. Proudhon.

Marx K., “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Karl Marx Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1950, 19744,2; tit. orig.: Oekonomisch-philosophische Manuskripte ans dem Jahre 1844.

Marx K., “Sulla questione ebraica”, in Karl Marx Friedrich Engels Opere III, Roma, Editori Riuniti, 1976.

Marx K., “Tesi su Feuerbach”, in Karl Marx Friedrich Engels Opere V, Roma, Editori Riuniti, 1972.

Marx K., Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Roma, Editori Riuniti, 1950, 19831; tit. orig.: Aus der Kritik der Hegelschen Rechtphilosophie.

Marx K., Il Capitale. Critica dell’economia politica, a cura di Cantimori D., 3 voll., Roma, Editori Riuniti, 1989; tit. orig.: Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie.

Marx K., Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato, a cura di Maffi B., Firenze, La Nuova Italia, 1997.

Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1968, 1971; tit. orig.: Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie 1857-1858.

Marx K., Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della Miseria del signor Proudhon, Roma, Editori Riuniti, 1950, 19733,1; tit. orig.: Misère de la philosophie, Réponse à la philosophie de la misère de M. Proudhon.

Marx K., Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1957, 19713,1; tit. orig.: Zur Kritik der Politischen Oekonomie.

Mazzone A., “Idea dello Stato”, in L’Ostato ovvero come lo Stato degli inganni sia stato sovrastato, a cura di Pala G., Napoli, La Città del Sole, 2000, pp. 97-112.

Mazzone A., “L’idea dello stato: per un’analisi del potere”, in La Contraddizione, lug.-ago. 1999, n° 73, pp. 72-81.

Mazzone A., “La temporalità specifica del modo di produzione capitalistico. Ovvero: la ‘missione storica del capitale’”, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Urbino, QuattroVenti, 1987, pp. 225-260.

McLachlan H., “Popper, Marxism and the nature of social laws”, in British Journal of Sociology, vol.31, mar.1980, n° 1, pp.66-77.

McQuarie D., “A Further Comment on Karl Popper and Marxian Laws”, in Science and Society, XLI, 1977-78, n° 4, pp. 447-484.

Milhau J., “L’antimarxisme de Karl Popper ou la philosophie du réformisme politique”, in Cahiers du Communisme, LV, 1979, n° 5, pp. 76-87.

Minazzi F., “Riflessioni critiche sulla filosofia di Popper”, in Epistemologia, anno XIII, 1990, n° 2, pp. 209-234.

Minogue K., “Does Popper Explain Historical Explanation?”, in Karl Popper: Philosophy and Problems, a cura di O’Hear A., Cambridge, University Press, 1995, pp. 225-240.

Montaleone C., “Spiegazione storica e critica dello storicismo”, in Critica Marxista, XIII, 1975, n° 2-3, pp. 147-168.

Montaleone C., Filosofia e politica in Popper, Napoli, Guida Editori, 1979.

Morandi B., Introduzione a Marx, Roma, Datanews, 1996.

Munz P., “The Quixotic Element in The Open Society”, in Philosophy of the Social Sciences. Special Isuue: The 50th Anniversary of Popper’s the Open Society and Its Enemies: Part 2, a cura di Shearmur J. e Jarvie I. C., vol. 27, mar. 1997, n° 1, pp. 39-55.

Negri A., Il mondo dell’insicurezza. Dittico su Popper, Milano, Angeli, 1983.

Notturno M. A., “Popper’s Critique of Scientific Socialism, or Carnap and His Co-Workers”, in Philosophy of the Social Sciences, vol. 29, mar. 1999, n° 1, pp. 32-61.

Nutarelli L., “La critica dell’economia politica non è normale”, in Invarianti, IX, n° 30, feb.1997, pp. 28-32.

Nutarelli L., L’epistemologia di T. S. Kuhn e la scienza economica, Roma, tesi di laurea, Università La Sapienza, 1994.

Oddie G., “The Poverty of the Popperian Program for Truthlikeness”, in Philosophy of Science, vol. 53, giu. 1986, n° 2, pp. 163-178.

Ohmae K., La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, Milano, Baldini&Castoldi, 1995.

Pala G., “Necessità. Riconoscimento e Libertà”, in La Contraddizione, mar.-apr. 2001, n° 83, pp. 95-98.

Pala G., “Sovrastati dagli inganni”, in L’Ostato ovvero come lo Stato degli inganni sia stato sovrastato, a cura di Pala G., Napoli, La Città del Sole, 2000, pp. 19-44.

Pala G., Proudhon e il comunismo. Per una critica marxista del prekeynesismo, testo inedito preparato per un seminario, Reggio Emilia, 2000.

Pazzaglia M., Letteratura italina: testi e critica con lineamenti di storia letteraria, vol.2, Bologna, Zanichelli, 1979, 19833.

Pellicani L., “I nemici della società aperta”, in Mondoperaio, sett.-ott. 1981, n° 9-10, pp. 89-101.

Pera M., “I fondamenti epistemologici della società aperta”, in Mondoperaio, mag. 1981, n° 5, pp. 85-91.

Pera M., Popper e la scienza su palafitte, Bari, Laterza, 1981, 19822.

Pheby J., Economia e filosofia della scienza. Una introduzione critica, Bologna, Il Mulino, 1991; ed. orig.: Methodology and Economics. A Critical Introduction, London, 1988.

Plamenatz J., “The Open Society – A Rejoinder”, già in The British Journal of Sociology, 4, 1953, ora in Plato, Popper and Politics. Some Contributions to a Modern Controversy, a cura di Bambrough R., Cambridge, Heffer, 1967, pp. 150-151.

Plamenatz J., “The Open Society and Its Enemies”, già in The British Journal of Sociology, 3, 1952, ora in Plato, Popper and Politics. Some Contributions to a Modern Controversy, a cura di Bambrough R., Cambridge, Heffer, 1967, pp. 136-145.

Popper K. R., “ La logica delle scienze sociali” in Alla ricerca di un mondo migliore: conferenze e saggi di trent’anni di attività, Roma, Armando, 1989, pp. 73-90; ed. orig.: Auf der Suche nach einer besseren Welt: Vortrage und Aufsatze aus dreissig Jahren, Munchen, 1984.

Popper K. R., “A cosa crede l’Occidente? (ripreso dall’autore de <La società aperta>)” in Alla ricerca di un mondo migliore: conferenze e saggi di trent’anni di attività, Roma, Armando, 1989, pp. 207-226; ed. orig.: Auf der Suche nach einer besseren Welt: Vortrage und Aufsatze aus dreissig Jahren, Munchen, 1984.

Popper K. R., “Che cos’è la dialettica?”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 531-570; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “Considerazioni di un realista sul problema corpo-mente” in Tutta la vita è risolvere problemi, Milano, Rusconi, 1996, pp. 89-106; ed. orig.: Alles Leben ist Problemlosen. Uber Erkenntnis, Geschichte und Politik, Munchen, 1994.

Popper K. R., “Considerazioni sulla teoria e sulla pratica dello stato democratico” in Tutta la vita è risolvere problemi, Milano, Rusconi, 1996, pp. 197-218; ed. orig.: Alles Leben ist Problemlosen. Uber Erkenntnis, Geschichte und Politik, Munchen, 1994.

Popper K. R., “Contro il cinismo nell’interpretazione della storia” in Tutta la vita è risolvere problemi, Milano, Rusconi, 1996, pp. 243-258; ed. orig.: Alles Leben ist Problemlosen. Uber Erkenntnis, Geschichte und Politik, Munchen, 1994.

Popper K. R., “Fare guerre per la pace” in Tutta la vita è risolvere problemi, Milano, Rusconi, 1996, pp. 259-270; ed. orig.: Alles Leben ist Problemlosen. Uber Erkenntnis, Geschichte und Politik, Munchen, 1994.

Popper K. R., “Il mito della cornice” in Il mito della cornice. Difesa della razionalità e della scienza, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 57-94; ed. orig.: The myth of the framework. In defence of the science and rationality, London-New York, 1994.

Popper K. R., “Introduzione: Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp.11-60; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “Keplero: la sua metafisica del sistema solare e la sua critica empirica” in Tutta la vita è risolvere problemi, Milano, Rusconi, 1996, pp. 135-144; ed. orig.: Alles Leben ist Problemlosen. Uber Erkenntnis, Geschichte und Politik, Munchen, 1994.

Popper K. R., “L’opinione pubblica e i principi liberali”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 589-600; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “La demarcazione fra scienza e metafisica”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 431-498; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “La liberazione di sé mediante il sapere” in Alla ricerca di un mondo migliore: conferenze e saggi di trent’anni di attività, Roma, Armando, 1989, pp. 137-150; ed. orig.: Auf der Suche nach einer besseren Welt: Vortrage und Aufsatze aus dreissig Jahren, Munchen, 1984.

Popper K. R., “La logica delle scienze sociali”, in Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Maus H. e Furstenberg F., Torino, Einaudi, 1972, pp. 105-124; ed. orig.: Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Munchen, 1969.

Popper K. R., “La posizione epistemologica della teoria evolutiva della conoscenza” in Tutta la vita è risolvere problemi, Milano, Rusconi, 1996, pp. 119-134; ed. orig.: Alles Leben ist Problemlosen. Uber Erkenntnis, Geschichte und Politik, Munchen, 1994.

Popper K. R., “La razionalità delle rivoluzioni scientifiche. Selezione versus istruzione” in Il mito della cornice. Difesa della razionalità e della scienza, Bologna, Il Mulino, 1995, pp.17-56; ed. orig.: The myth of the framework. In defence of the science and rationality, London-New York, 1994.

Popper K. R., “La scienza normale e i suoi pericoli”, in Critica e crescita della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 121-128; ed. orig.: Criticism and the Growth of Knowledge, a cura di Lakatos I. e Musgrave A., Cambridge, 1970.

Popper K. R., “La scienza: congetture e confutazioni”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 61-116; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “Lo status della scienza e della metafisica”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 317-344; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “Modelli, strumenti e verità. Lo status del principio di razionalità nelle scienze sociali” in Il mito della cornice. Difesa della razionalità e della scienza, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 207-246; ed. orig.: The myth of the framework. In defence of the science and rationality, London-New York, 1994.

Popper K. R., “Pensieri sul collasso del comunismo: un tentativo di capire il passato e di costruire il futuro” in Tutta la vita è risolvere problemi, Milano, Rusconi, 1996, pp. 271-290; ed. orig.: Alles Leben ist Problemlosen. Uber Erkenntnis, Geschichte und Politik, Munchen, 1994.

Popper K. R., “Per una teoria razionale della tradizione”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 207-234; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “Previsione e profezia nelle scienze sociali”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 571-588; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “Ragione o rivoluzione?” in Il mito della cornice. Difesa della razionalità e della scienza, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 95-114; ed. orig.: The myth of the framework. In defence of the science and rationality, London-New York, 1994.

Popper K. R., “Tre differenti concezioni della conoscenza umana”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 169-206; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “Un approccio pluralista alla filosofia della storia” in Il mito della cornice. Difesa della razionalità e della scienza, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 177-206; ed. orig.: The myth of the framework. In defence of the science and rationality, London-New York, 1994.

Popper K. R., “Una teoria oggettiva della comprensione storica” in Alla ricerca di un mondo migliore: conferenze e saggi di trent’anni di attività, Roma, Armando, 1989, pp. 163-172; ed. orig.: Auf der Suche nach einer besseren Welt: Vortrage und Aufsatze aus dreissig Jahren, Munchen, 1984.

Popper K. R., “Utopia e violenza”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 601-616; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., “Verità, razionalità e accrescersi della conoscenza scientifica”, in Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 369-430; ed. orig.: Conjectures and Refutations, London, 1969.

Popper K. R., Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, Roma, Armando, 1975, 19832; ed. orig.: Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Oxford, 1972.

Popper K. R., La libertà è più importante dell’uguaglianza, Roma, Armando, 2000.

Popper K. R., La politica, la scienza e la società, Roma, Armando, 1997.

Popper K. R., La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma, Armando, 1976; ed. orig.: Ausgangspunkte. Meine intellectuelle Entwichlung, Frankfurt, 1994.

Popper K. R., La società aperta e i suoi nemici, 2 voll., Roma, Armando, 1974, 19771; ed. orig.: The Open Society and Its Enemies, 2 voll., London, 1945.

Popper K. R., Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi, 1970, 19741; ed. orig.: The Logic of Scientific Discovery [Logik der Forschung, 1934], London, 1959.

Popper K. R., Marcuse Popper rivoluzione o riforme? Venti anni dopo, Roma, Armando, 1977, 19892; ed. orig. Revolution oder Reform? Herbert Marcuse und Karl Popper. Eine Konfrontation, Munchen, 1971.

Popper K. R., Miseria dello storicismo, Milano, Feltrinelli, 1975, 19815; ed orig.: The Poverty of Historicism, London, 1944-5.

Popper K. R., Poscritto alla logica della scoperta scientifica, I vol., Il realismo e lo scopo della scienza, Milano, Il Saggiatore, 1984; ed. orig.: Postscript to the Logic of Scientific Discovery, I, Realism and the aim of science, London, 1983.

Popper K. R., Scienza e filosofia. Cinque saggi, Torino, Einaudi, 1969, 19911.

Popper K. R.. “La riduzione scientifica e l’essenziale incompletezza della scienza” in Tutta la vita è risolvere problemi, Milano, Rusconi, 1996, pp. 49-88; ed. orig.: Alles Leben ist Problemlosen. Uber Erkenntnis, Geschichte und Politik, Munchen, 1994.

Porciello R., Scienza e Decisione. Saggio sul pensiero politico di Karl Popper, Milano, Angeli, 1999, 20002.

Raffaelli, T., “I limiti della filosofia critica di K. R. Popper”, in Critica Marxista, XV, 1977, pp. 187-202.

Rainone A., “Osservazioni sulla plausibilità dell’individualismo metodologico”, in Sapienza, vol. XLI, 1988, fasc. 1, pp. 55-69.

Reichelt H., La struttura logica del concetto di capitale in Marx, Bari, De Donato, 1973; ed. orig.: Zur logischen Struktur des Kapitalsbegriffs bei Karl Marx, Frankfurt, 1970.

Rossi P., “Karl Popper e la critica neopositivistica allo storicismo”, in Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano, Il Saggiatore, 1991, pp. 93-120.

Rossi P., “Lo storicismo e il problema dei valori”, in Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano, Il Saggiatore, 1991, pp. 93-120.

Ruelland J. G., De l’epistemologie a la politique. La philosophie de l’histoire de Karl Popper, Paris, Presses Universitaires de France, 1991.

Ryle G., “Review of K. R. Popper, The Open Society and its Enemies”, già in Mind, 1948, ora in Plato, Popper and Politics. Some Contributions to a Modern Controversy, a cura di Bambrough R., Cambridge, Heffer, 1967, pp. 85-90.

Sciarra E., L’epistemologia delle scienze storico-sociali nel pensiero di K. Popper, Chieti, Università Abruzzese degli Studi “G. D’Annunzio”, 1981.

Scoppolini S., Popper contra Hegel. Per una critica della critica, Macerata, Olmi, 1985.

Shaw P. D., “Popper, Historicism, and the Remaking of Society”, in Philosophy of the Social Sciences, 1, 1971, pp. 299-308.

Shearmur J., “Popper, Hayek, and the Poverty of Historicism Part I: A Largely Bibliographical Essay”, in Philosophy of the Social Sciences, vol. 28, set. 1998, n° 3, pp. 434-450.

Shearmur J., Il pensiero politico di Karl Popper, Milano, Società Aperta Edizioni, 1997; ed. orig.: The Political Thought of Karl Popper, London, 1996.

Sichirollo L., “‘L’action’. Una lettura weiliana di Marx”, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Urbino, QuattroVenti, 1987, pp. 147-154.

Soldani F., Il cristallo e l’organismo. Struttura e dinamica del modo di produzione capitalistico, Milano, Edizioni Punto Rosso, 1994.

Stokes G., “Karl Popper’s Political Philosophy of Social Science”, in Philosophy of the Social Sciences. Special Isuue: The 50th Anniversary of Popper’s the Open Society and Its Enemies: Part 2, a cura di Shearmur J. e Jarvie I. C., vol. 27, mar. 1997, n° 1, pp. 56-79.

Suchting W. A., “Marx, Popper, and ‘Historicism’”, in Inquiry, XV, 1972, pp. 235-266.

Tagliagambe S., L’epistemologia contemporanea. Linguaggio. Realtà. Realtà del linguaggio, Roma, Editori Riuniti, 1991.

Texier J., “Quelques aspects du rapport Stirner – Marx”, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Urbino, QuattroVenti, 1987, pp. 95-110.

Tilley N., “Periodization, Holism and Historicism: A Reply to Jacobs”, in Philosophy of the Social Sciences, vol.14, 1984, pp. 393-396.

Tilley N., “Popper, positivism and ethnomethodology”, in British Journal of Sociology, vol. 31, mar. 1980, n° 1, pp. 28-45.

Tosel A., “Proces a Marx. Note sur quelques lectures francaises de Marx”, in Marx e i suoi critici, a cura di Cazzaniga G. M., Losurdo D. e Sichirollo L., Urbino, QuattroVenti, 1987, pp. 125-145.

Vadee M., Marx Penseur du Possible, Paris, Meridiens Klincksieck, 1992.

Vercelli A., Teoria della struttura economica capitalistica. Il metodo di Marx e i fondamenti della critica all’economia politica, Torino, Einaudi, 1973.

Weil E., Hegel e lo Stato. E altri scritti hegeliani, a cura di Burgio A., Milano, Guerini e Associati, 1988.

Woods A. e Grant T., La rivolta della ragione. Filosofia marxista e scienza moderna, Milano, A. C. Editoriale Coop., 1997; ed. orig.: Reason in Revolt. Marxist Philosophy and Modern Science.

Worral J., “‘Revolution in Permanence’: Popper on Theory-Change in Science”, in Karl Popper: Philosophy and Problems, a cura di O’Hear A., Cambridge, University Press, 1995, pp. 75-102.

Zolo D., “La ‘società aperta’ e i suoi amici. Neoliberalismo ed epistemologia popperiana in Italia”, in Critica Marxista, XX, 1982, n° 3, pp. 131-148.

NOTE


[1] H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, Napoli, Laboratorio Politico, 1996, p. 22.

[2] Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, 1° vol., p. 57.

[3] Karl Popper, “Tre punti di vista sulla conoscenza umana”, in Scienza e filosofia, Torino, Einaudi, 1969.

[4] M. Cornforth, The open philosophy and the open society, London, 1968, p. 42.

[5] F. Engels, “Anti-Duhring”, in Opere XXV, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 34.

[6] Op. cit. p. 34.

[7] V. I. U. Lenin, Materialisme et empiriocriticisme, Paris, Edition Sociales, 1948, p. 85-86.

[8] H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, p. 26.

[9] Karl Marx, “Tesi su Feuerbach 6”, in Karl Marx Friedrich Engels Opere V, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 4.

[10] H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, pp. 26-27.

[11] Op. cit.

[12] V. I. U. Lenin, Materialisme et empiriocriticisme, p. 138.

[13] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1971.

[14] V. I. U. Lenin, Materialisme et empiriocriticisme, p. 169.

[15] Op. cit. p. 169.

[16] F. Engels, Dialettica della natura, Roma, Edizioni Rinascita, 1955, p. 223.

[17] Op. cit. p. 224.

[18] Op. cit. p. 225.

[19] H. H. Holz, “Natura e storia in Marx”, in  Marx e i suoi critici, a cura di G. M. Cazzaniga, D. Losurdo e L. Sichirollo, Urbino, QuattroVenti, 1987, p. 200.

[20] A Woods e T. Grant, La rivolta della ragione, Milano, A. C. Editoriale, 1997, p. 300.

[21] F. Engels, Dialettica della natura, p. 165-166.

[22] Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 267.

[23] H. H. Holz, “Natura e storia in Marx”, in Marx e i suoi critici, p. 216.

[24] Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere filosofiche giovanili, p. 226.

[25] Karl Popper, Tutta la vita è risolvere problemi, p. 150.

[26] Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici,  2° vol., p. 43.

[27] Op. cit. p. 45.

[28] Op. cit. p. 47.

[29] Nella dialettica servo-padrone della “Fenomenologia dello Spirito”, il servo non si pone il problema di abolire il rapporto stesso, ma di ottenere che il padrone lo riconosca come uomo: “…sono poste (A) un’autocoscienza pura e (B) una coscienza che non è puramente per sé, ma è per un altro, una coscienza, cioè, meramente essente, che ha la figura della cosalità. Entrambi i momenti sono essenziali. Inizialmente essi sono diseguali e opposti, e non si è ancora determinata la loro riflessione nell’unità. I momenti si presentano dunque come due figure opposte della coscienza: l’una è la coscienza autonoma, che ha per essenza l’essere-per-sé, l’altra è la coscienza non autonoma la cui essenza è la vita, l’essere per un altro. Uno è il signore, l’altro è il servo…Nel signore, l’essere-per-sé appare alla coscienza servile come qualcosa d’altro, è cioè solo per esso; nella paura, l’essere-per-sé è nella coscienza stessa; nell’attività formatrice, infine, esso diviene l’essere-per-sé proprio della e per la coscienza, la quale giunge così alla consapevolezza di essere in sé e per sé. Nel lavoro, dunque, in cui essa sembrava essere solo un senso estraneo, la coscienza ritrova sé mediante se stessa e diviene senso proprio.” G. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Milano, Rusconi, 1999, pp. 283-290-291.

[30] Afferma D’Hondt nella sua biografia di Hegel: “Marx si spiace che Hegel abbia giustificato ‘speculativamente’ l’istituzione carceraria nella sua ‘Filosofia del diritto’. Ma egli ignora che Hegel, la notte, col rischio di ricevere un colpo di fucile, va a parlare ad uno dei suoi discepoli e amici attraverso la finestra di una cella. Una critica esplicita del maggiorascato e del sistema carcerario prussiano avrebbe reso impossibile, hic et nunc, la pubblicazione della filosofia del diritto. Noi non tratteremo Hegel, in ultima istanza, come filosofo della restaurazione.” J. D’Hondt, Hegel. Biographie, Paris, 1998, p. 217.

[31] Op. cit. p. 239.

[32] D. Losurdo, “Contraddizione oggettiva e analisi della società da Kant a Marx”, in Marx e i suoi critici, p. 8.

[33] F. W. Hegel, “Scienza della logica”, in Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1981, p. 313.

[34] Op. cit. p. 180.

[35] H. H. Holz, Riflessioni sulla filosofia di Hegel, Napoli, La Città del Sole, 1997, p. 173.

[36] F. W. Hegel, “Scienza della logica”, in Enciclopedia delle scienze filosofiche, pp. 354-355-356.

[37] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 5.

[38] F. W. Hegel, “Scienza della logica”, in Enciclopedia delle scienze filosofiche, p. 135.

[39] Op. cit. p.461.

[40] H. H. Holz, Marx, la storia, la dialettica, p. 56.

[41] E. Weil, Hegel e lo Stato, a cura di A. Burgio, Milano, Guerini e Associati, 1988, p. 59.

[42] F. W. Hegel, Fenomenologia dello Spirito.

[43] E. Weil, Hegel e lo Stato, p. 68.

[44] A. Mazzone, “Autocoscienza e tirannide”, in La Contraddizione, n° 73, lug.-ago. 1999, p. 73.

[45] F. W. Hegel, “Prefazione”, in Lineamenti di Filosofia del Diritto, Bari, Laterza, 1913, p. 16.

[46] A. Burgio, “Introduzione”, in Hegel e lo Stato, di E. Weil, pp. 22-23.

[47] Karl Popper, “Che cos’è la dialettica?”, in Congetture e confutazioni, pp. 531-570.

[48] E. Weil, Hegel e lo Stato, p. 142.

[49] F. W. Hegel, Filosofia del Diritto, § 198, pp. 174-175.

[50] Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere filosofiche giovanili, p. 263.

[51] Karl Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Roma Editori Riuniti, 1983, pp. 115-131-132.

[52] Karl Marx, “Sulla questione ebraica”, in Karl Marx Friedrich Engels Opere III, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 181-182.

[53] E. Weil,  Hegel e lo Stato, p. 145.

[54] Karl Marx, “Sulla questione ebraica”, in Karl Marx Friedrich Engels Opere III, p. 166.

[55] Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere filosofiche giovanili, p. 267.

[56] Op. cit. p. 268-269.

[57] Karl Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1975,  p. 9.

[58] Op. cit. p. 12.

[59] Op. cit. p. 21.

[60] Op. cit. p. 14.

[61] Op. cit. p. 25.

[62] Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere filosofiche giovanili, p. 200.

[63] Karl Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, p. 57.

[64] Op. cit. p. 25.

[65] Karl Marx, “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, in K. Marx F. Engels Opere XI, Roma, Editori Riuniti, 1982, p. 107.

[66] ibidem.

[67] M. Cornforth, The open philosophy and the open society, pp. 133-134.

[68] Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere filosofiche giovanili.

[69] Karl Marx, “Lettera a Annenkov”, in Miseria della filosofia, Roma, Editori Riuniti, 1973,  p. 161.

[70] Karl Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della Miseria del signor Proudhon, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 94.

[71] Karl Marx, “Tesi su Feuerbach 11”, in Karl Marx Friedrich Engels Opere V, p. 5.

[72] E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966, p. 35.

[73] Op. cit. p. 60.

[74] Op. cit. p. 69.

[75] Ricordiamo la pretesa popperiana di rintracciare la nascita dell’individualismo moderno negli scambi commerciali amministrati dell’antichità.

[76] E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, p.71, lettera di Marx apparsa sul giornale russo “Otecestvennye Zapiski” nel 1877.

[77] E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, p. 77.

[78] Karl Marx, “Prefazione”, in Il Capitale, 1° vol., Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 33.

[79] Karl Marx, “Prefazione”, in Per la critica dell’economia politica, p. 4.

[80] M. Vadee, Marx Penseur du Possible, Paris, 1992, p. 225.

[81] Karl Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, p. 18.

[82] Karl Marx e F. Engels, dal Manifesto del Partito Comunista, Torino, Einaudi, 1998: “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.” p. 7.

[83] M. Vadee, Marx penseur du possible, p. 230.

[84] Karl Marx, “Prefazione”, in Il Capitale, 1° vol., p. 32.

[85] Karl Marx, Il Capitale, 1° vol., p. 107.

[86] Op. cit. pp. 104-105.

[87] M. Vadee, Marx Penseur du Possible, p. 91.

[88] Op. cit. p. 93.

[89] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 172 e Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, p. 6.

[90] Op. cit. p. 173 e p. 6.

[91] Op. cit. p. 175 e p. 10.

[92] Op. cit. p. 179 e p. 14-15.

[93] M. Vadee, Marx Penseur du Possible, p. 99.

[94] Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, in Opere filosofiche giovanili, p. 161.

[95] Op. cit. pp. 176-177.

[96] Op. cit. p. 159.

[97] Op. cit. p. 193.

[98] H. H. Holz,  Marx, la storia, la dialettica, pp. 36-37.

[99] M. Vadee, Marx penseur du possible, p. 205.

[100] Karl Marx, Il Capitale, 3° vol., p. 302.

[101] Op. cit. pp. 290-291.

[102] Op. cit. p. 273.

[103] Op. cit. p. 284.

[104] M. Vadee, Marx Penseur du Possible, p. 211.

[105] Karl Marx, Il Capitale, 3° vol., p. 312.

[106] Op. cit. p. 313.

[107] Karl Marx, “Tesi su Feuerbach n°11”, in Karl Marx Friedrich Engels Opere V, p. 5.

[108] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 188 e Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, pp. 26-27.

[109] Op. cit. p. 189 e p. 27.

[110] Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, 2° vol., p. 224.

[111] M. Cornforth, The open philosophy and the open society, p. 193.

[112] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 194 e Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, pp. 33-34.

[113] Karl Marx, Il Capitale, 1°vol., p. 67.

[114] Op. cit. pp.67-68.

[115] Op. cit. p. 70.

[116] ibidem.

[117] Op. cit. p.199.

[118] Op. cit. p. 70.

[119] Op. cit. p.78.

[120] Op. cit. pag.70.

[121] Op. cit. pag.80.

[122] ibidem.

[123] Si può dedurre che Marx, attraverso questo excursus, avesse intenzione di riferirsi anche agli uomini dalla nota che nel “Capitale” viene agganciata a questo passaggio. In questa nota la strategia relativo-equivalente viene associata anche agli esseri umani: “In certo modo all’uomo succede come alla merce. Dal momento che l’uomo non viene al mondo con uno specchio, né da  filosofo fichtiano (Io sono Io), egli, in un primo momento, si rispecchia in un altro uomo. L’uomo Pietro si riferisce a sé stesso come a uomo soltanto mediante la relazione all’uomo Paolo come proprio simile. Ma così anche Paolo in carne ed ossa, nella sua corporeità paolina, conta per lui come forma fenomenica del genus uomo.” Op. cit. p. 85.

[124] Op. cit. pp. 84-85.

[125] Op. cit. pp. 80-81.

[126] Op. cit. p. 96.

[127] Op. cit. p. 103.

[128] Op. cit. p. 107.

[129] Op. cit. p. 105.

[130] Op. cit. pp. 414-415, n. 89.

[131] Op. cit. pp. 706-707.

[132] M. Cornforth, The open society and the open philosophy, p. 205.

[133] Karl Marx, Il Capitale, 1° vol., p. 705.

[134] Quello che sta accadendo oggidì attraverso la flessibilizzazione e conseguente precarizzazione del rapporto di lavoro.

[135] M. Cornforth, The open philosophy and the open society, p. 211.

[136] Karl Marx, Il Capitale, 3° vol., p. 303.

[137] F. Engels, “Anti-Duhring”, p. 146.

[138] Op. cit. p. 159.

[139] ibidem.

[140] Karl Marx, “Prefazione”, in Il Capitale, 1° vol., p. 33.