IL CAPITALE

LIBRO III

SEZIONE VII

I REDDITI E LE LORO FONTI

CAPITOLO 48

LA FORMULA TRINITARIA

(I)[1]

Capitale - profitto (guadagno d’imprenditore più interesse), terra- rendita-fondiaria, lavoro-salario, questa è la formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale.

Inoltre, poiché l’interesse, come abbiamo precedentemente messo in rilievo, appare come il prodotto proprio, caratteristico del capitale e il guadagno d’imprenditore, in contrapposizione ad esso, appare come salario indipendente dal capitale, questa formula trinitaria si riduce più precisamente alla seguente:

Capitale - interesse, terra – rendita fondiaria, lavoro-salario, nella quale il profitto, la forma del plusvalore che caratterizza specifica mente il modo di produzione capitalistico, è felicemente eliminato.

Ora, se osserviamo più da vicino questa trinità economica, troviamo:

In primo luogo, le pretese fonti della ricchezza annualmente disponibile appartengono a sfere completamente diverse e non vi è fra di esse la più piccola analogia, come non vi è analogia fra gli onorari di un notaio, le carote rosse, la musica.

Capitale, terra, lavoro! Ma il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società. Rapporto che si presenta in una cosa e dà a questa cosa un carattere sociale specifico. Il capitale non è la somma dei mezzi di produzione materiali e prodotti. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione trasformati in capitale, che non sono di per sé capitale, come oro e argento non sono di per sé denaro. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa contrapposizione personificati nel capitale. Esso è costituito non soltanto dai prodotti dei lavoratori trasformati in potenze autonome, dai prodotti come dominatori e compratori dei loro produttori, ma anche dalle forze sociali e dalla futura... (illeggibile [F.E.]) forma (Noi leggiamo: dalle forze, nessi, forme sociali ) di questo lavoro, che si contrappongono ad essi come qualità del loro prodotto. Dunque abbiamo qui una definita e a prima vista molto mistica, forma sociale di uno dei fattori di un processo sociale di produzione fabbricato ... (Noi decifriamo = specificato ) storicamente.

Viene poi la terra, la natura inorganica come tale, rudis indigestaque moles (massa rozza e caotica) in tutta la sua selvaggia primitività. Valore è lavoro. Il plusvalore quindi non può essere terra. La fertilità assoluta del suolo esercita un’influenza unicamente nel senso che una certa quantità di lavoro produce un certo prodotto condizionato dalla fertilità naturale del terreno. La differenza nella fertilità del terreno fa sì che le medesime quantità di lavoro e di capitale, quindi il medesimo valore, si esprimano in diverse quantità di prodotti della terra e che questi prodotti abbiano quindi valori individuali diversi. Il livellamento di questi valori individuali ai valori di mercato fa sì che i «vantaggi del terreno fertile rispetto a quello meno fertile.., sono trasferiti dal coltivatore o dal consumatore al proprietario fondiario» (RICARD0, Principles, p. 6).

E infine, come terzo in questa alleanza, un semplice fantasma «il» lavoro che non è altro che una astrazione e che, in generale non esiste di per sé, o se noi prendiamo... (illeggibile [FE] Decifriamo: o se noi prendiamo ciò che è inteso qui) l’attività produttiva dell’uomo in generale, per mezzo della quale egli rende possibile il ricambio organico con la natura, spogliata non soltanto di ogni forma sociale e di ogni carattere determinato, ma perfino della sua semplice esistenza naturale indipendente dalla società, elevata sopra tutte le società e in quanto manifestazione e affermazione della vita, comune in generale all’uomo non ancora sociale e all’uomo già socialmente determinato in un modo o nell’altro.

(II)

Capitale - interesse; proprietà fondiaria, proprietà privata sul globo terrestre e precisamente nella forma moderna corrispondente al modo di produzione capitalistico - rendita; lavoro salariato-salario. In questa forma deve dunque consistere il nesso tra le fonti del reddito. Salario e proprietà fondiaria sono, al pari del capitale, forme sociali storicamente determinate, l’una del lavoro l’altra del globo terrestre monopolizzato; e precisamente esse sono due forme corrispondenti al capitale e appartenenti alla medesima formazione economica della società.

Ciò che sorprende innanzitutto, a proposito di questa formula, è che, accanto al capitale, accanto a questa forma di un elemento di produzione appartenente ad un determinato modo di produzione, ad una determinata configurazione storica del processo sociale di produzione, accanto ad un elemento di produzione fuso e rappresentato in una determinata forma sociale, vengono senz’altro posti la terra da un lato, il lavoro dall’altro, due elementi del reale processo di lavoro che sono comuni in questa forma materiale a tutti i modi di produzione, che sono gli elementi materiali di ogni processo di produzione e non hanno nulla a che vedere con la forma sociale dello stesso.

Secondo. Nella formula: capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, il capitale, la terra, il lavoro appaiono rispettivamente come fonti di interesse (anziché profitto), rendita fondiaria e salario, come loro prodotti, loro frutti; gli uni rappresentano il fondamento, gli altri la conseguenza; gli uni la causa, gli altri l’effetto; e precisamente in modo che ogni singola fonte è collegata con il suo prodotto come con ciò che essa ha generato e prodotto. Tutti e tre i redditi, l’interesse (in luogo del profitto), la rendita, il salario, sono tre parti del valore del prodotto, quindi, generalmente parlando, parti di valore, oppure espresse in denaro, sono certe parti di denaro, parti di prezzo. La formula: capitale-interesse è dunque sì la formula più superficiale del capitale, ma tuttavia è una delle sue formule. Ma come può la terra creare un valore, ossia una quantità di lavoro socialmente determinata e poi precisamente quella specifica parte di valore dei propri prodotti che costituisce la rendita? La terra opera ad esempio come agente di produzione, nella creazione di un valore d’uso, di un prodotto materiale, del grano. Ma essa non ha nulla a che fare con la produzione del valore del grano. In quanto il valore si rappresenta nel grano, il grano viene considerato soltanto come una quantità determinata di lavoro sociale oggettivato, indipendentemente dalla particolare materia, in cui questo lavoro si rappresenta, o dal particolare valore d’uso di questa materia. Ciò non è in contraddizione:

1) con il fatto che, a condizioni per il resto eguali, l’alto o il basso prezzo del grano dipende dalla produttività della terra. La produttività del lavoro agricolo è legata a condizioni naturali e in dipendenza della produttività di tale lavoro la medesima quantità di lavoro si esprime in un numero maggiore o minore di prodotti, di valori d’uso. La quantità di lavoro rappresentata da uno staio di grano dipende dal numero delle staia fornite dalla medesima quantità di lavoro. Dipende, in questo caso, dalla produttività della terra, in quali quantità di prodotto si rappresenta il valore; ma questo valore è dato indipendentemente da questa ripartizione. Il valore si rappresenta in valore d’uso; ed il valore d’uso è una condizione della creazione di valore; ma è follia creare una contrapposizione, ponendo da un lato un valore d’uso, la terra e dall’altro un valore e per di più ancora una particolare parte di valore.

2) (Qui il manoscritto si interrompe [FE])

(III)

L’economia volgare non fa altro, in realtà, che interpretare, sistematizzare e difendere le idee di coloro che, impigliati nei rapporti di produzione borghesi, sono gli agenti di questa produzione. Non ci dobbiamo quindi meravigliare che l’economia volgare si senta particolarmente a suo agio proprio in questa forma fenomenica estraniata dai rapporti economici, in cui questi prima facie (a prima vista) sono assurdi e del tutto contraddittori — e ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero — e che questi rapporti le appaiano tanto più evidenti di per sé quanto più le rimane nascosto il loro nesso interno, ma corrispondono alla concezione volgare. Perciò l’economia volgare non si accorge minimamente che la trinità da cui essa muove: terra-rendita, capitale- interesse, lavoro-salario o prezzo del lavoro, sono tre composizioni prima facie impossibili. Innanzi tutto abbiamo il valore d’uso, terra, che non ha un valore e il valore di scambio, rendita: così che un rapporto sociale, concepito come cosa, viene messo in relazione con la natura, cioè viene stabilita una relazione tra due grandezze incommensurabili. Poi abbiamo capitale-interesse. Se il capitale è concepito come una certa somma di valore rappresentata autonomamente in denaro, è prima facie assurdo che un valore debba essere più valore di quanto non sia. È proprio nella formula capitale-interesse che scompare ogni mediazione e che il capitale è ridotto alla sua formula più generale, ma proprio per questo di per sé incomprensibile e assurda. È appunto per questo che l’economista volgare preferisce la formula capitale-interesse, con la sua occulta facoltà di rendere un valore differente da se stesso, alla formula capitale-profitto, perché con questa si è già più vicini all’effettivo rapporto capitalistico. Poi di nuovo, avvertendo con un certo disagio che 4 non è 5 e che quindi 100 talleri non possono assolutamente essere 110 talleri, abbandonando il capitale in quanto valore, egli fa ricorso alla sostanza materiale del capitale, al suo valore d’uso in quanto condizione di produzione del lavoro, macchinario, materie prime, ecc. In tal modo egli riesce a sostituire al primo incomprensibile rapporto, in cui 4 = 5, un altro rapporto, del tutto incommensurabile, fra un valore d’uso, una cosa, da un lato e un determinato rapporto sociale di produzione, il plusvalore, dall’altro; come nel caso della proprietà fondiaria. Allorché l’economista volgare è pervenuto a questo incommensurabile, tutto gli appare chiaro ed egli non sente più il bisogno di riflettere ulteriormente. Infatti egli è appunto pervenuto al «razionale» della concezione borghese. Infine, lavoro-salario o prezzo del lavoro, è, come abbiamo dimostrato nel Libro I, una espressione che prima facie contraddice al concetto del valore, come pure a quello del prezzo che, generalmente parlando, è soltanto una espressione determinata del valore. E «prezzo del lavoro» è parimenti irrazionale come un logaritmo giallo. Ma soltanto ora l’economista volgare è completamente soddisfatto, poiché egli è pervenuto alla profonda intuizione del borghese, il quale è convinto di pagare denaro in cambio del lavoro e perché appunto la contraddizione che esiste fra la formula e il concetto del valore lo libera dall’obbligo di comprendere quest’ultimo.

Abbiamo visto che il processo di produzione capitalistico è una forma storicamente determinata del processo di produzione sociale in generale. Quest’ultimo è al tempo stesso il processo di produzione delle condizioni materiali della vita umana e un processo che si sviluppa entro specifici rapporti di produzione storico - economici, producendo e riproducendo questi rapporti stessi di produzione e in conseguenza i rappresentanti di questo processo, le loro condizioni materiali di esistenza e i loro rapporti reciproci, ossia la loro determinata forma economica sociale. Difatti, il complesso di questi rapporti in cui i rappresentanti di questa produzione stanno con la natura e fra di loro, in cui producono, costituisce precisamente la società, considerata nella sua struttura economica. Al pari di tutti quelli che lo hanno preceduto, il processo di produzione capitalistico si svolge in condizioni materiali determinate, che sono al tempo stesso depositarie di determinati rapporti sociali, in cui gli individui entrano nel processo di riproduzione della loro vita. Queste condizioni, come questi rapporti, sono da un lato i presupposti e dall’altro risultati e creazioni del processo di produzione capitalistico; essi sono prodotti e riprodotti da esso. Abbiamo visto inoltre: il capitale — e il capitalista è soltanto il capitale personificato, agisce nel processo di produzione soltanto come depositano del capitale — spreme nel processo di produzione sociale che gli corrisponde una certa quantità di pluslavoro dai produttori diretti, o operai. Pluslavoro che il capitale ricava senza equivalente e che rimane sempre, in sostanza, lavoro forzato, nonostante che possa apparire il risultato di un libero accordo contrattuale. Questo pluslavoro è rappresentato da un plusvalore e questo plusvalore esiste in un plusprodotto. Pluslavoro in generale, inteso come lavoro eccedente la misura dei bisogni dati, deve sempre continuare a sussistere. Nel sistema capitalistico come in quello schiavistico ecc., assume semplicemente una forma antagonistica ed è completato dall’ozio assoluto di una parte della società. Una determinata quantità di pluslavoro è necessaria per l’assicurazione contro le disgrazie, per il necessario e progressivo ampliamento del processo di riproduzione corrispondente allo sviluppo dei bisogni ed all’incremento della popolazione, che dal punto di vista capitalistico si chiama accumulazione.

Uno degli aspetti in cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è quello di estorcere questo pluslavoro in un modo e sotto condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti sociali e alla creazione degli elementi per una nuova e più elevata formazione, di quanto non avvenga nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc.

Ciò porta ad uno stadio, in cui da un lato sono eliminate la costrizione e la monopolizzazione dello sviluppo sociale (compresi i suoi vantaggi materiali ed intellettuali) esercitate da una parte della società a spese dell’altra; d’altro lato questo stadio crea i mezzi materiali e l’embrione di rapporti che rendono possibile combinare questo pluslavoro di una più elevata forma di società con una riduzione maggiore del tempo dedicato al lavoro materiale. Infatti, in relazione allo sviluppo della forza produttiva del lavoro, il pluslavoro può essere grande con una giornata lavorativa complessiva piccola e relativamente piccolo con una giornata lavorativa complessiva grande. Se il tempo di lavoro necessario è = 3 ed il pluslavoro anche = 3, allora la giornata complessiva di lavoro è 6 ed il saggio del pluslavoro = 100%. Se il lavoro necessario è = 9 ed il pluslavoro = 3, allora la giornata lavorativa complessiva è =12 ed il saggio del pluslavoro soltanto 33,33 %. Inoltre, dipende dalla produttività del lavoro quanto valore d’uso venga prodotto in un tempo determinato, quindi anche in un determinato tempo di pluslavoro. L’effettiva ricchezza della società e la possibilità di un continuo allargamento del suo processo di riproduzione non dipende quindi dalla durata del pluslavoro, ma dalla sua produttività e dalle condizioni di produzione più o meno ampie nelle quali è eseguito.

Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria.

Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità.

Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa.

Nella società capitalistica questo plusvalore o questo plusprodotto — se facciamo astrazione dalle fluttuazioni accidentali della sua distribuzione e consideriamo soltanto la sua legge regolatrice, i suoi limiti normativi — viene ripartito fra i capitalisti come un dividendo, in proporzione alla quota del capitale sociale posseduto da ognuno. Sotto questa forma il plusvalore appare come il profitto medio che tocca al capitale, un profitto medio che a sua volta si suddivide in guadagno d’imprenditore e interesse e che in questo modo può cadere nelle mani di diversi tipi di capitalisti. Questa appropriazione e distribuzione del plusvalore, rispettivamente plusprodotto, da parte del capitale, trova tuttavia il suo limite nella proprietà privata della terra. Come il capitalista operante estorce pluslavoro e con ciò plusvalore e plusprodotto, dall’operaio sotto forma di profitto, così il proprietario fondiario a sua volta estorce una parte di questo plusvalore e plusprodotto al capitalista, sotto forma di rendita, secondo le leggi che abbiamo precedentemente esposto.

Perciò, quando parliamo qui del profitto in quanto parte del plusvalore che, tocca al capitale, intendiamo parlare del profitto medio (corrispondente al guadagno di imprenditore più interesse) che è già limitato dalla detrazione della rendita dal profitto complessivo (identico nella sua massa al plusvalore complessivo); la detrazione della rendita è presupposta. Il profitto del capitale (guadagno d’imprenditore più interesse) e la rendita fondiaria non sono quindi altro che particolari elementi del plusvalore, categorie nelle quali il plusvalore è distinto a seconda che esso tocchi al capitale o alla proprietà fondiaria, senza che peraltro la sua natura venga alterata da questa distinzione. Addizionando questi due elementi, si ha la somma del plusvalore sociale. Il capitale estorce direttamente agli operai il pluslavoro, che è rappresentato dal plusvalore e dal plusprodotto. In questo senso può essere anche considerato produttore del plusvalore. La proprietà fondiaria non ha nulla a che vedere con l’effettivo processo di produzione. Il suo compito si limita a trasferire dalle tasche del capitale nelle sue proprie una parte del plusvalore prodotto. Tuttavia il proprietario fondiario adempie una funzione nel processo di produzione capitalistico, non soltanto per la pressione che egli esercita sul capitale, né solo per il fatto che una grande proprietà fondiaria è premessa e condizione della produzione capitalistica, rappresentando l’espropriazione dei lavoratori dalle condizioni del lavoro, ma specialmente perché il proprietario fondiario appare come la personificazione di una delle più essenziali condizioni della produzione.

L’operaio, infine, in quanto proprietario e venditore della sua forza-lavoro personale, riceve sotto la denominazione di salario una parte del prodotto, che rappresenta la parte del suo lavoro che chiamiamo lavoro necessario, ossia lavoro necessario per la conservazione e la riproduzione di questa forza-lavoro, siano le condizioni di questa conservazione e riproduzione scarse o abbondanti, favorevoli o sfavorevoli.

Per quanto diversi questi rapporti possano apparire sotto altri aspetti, essi hanno tutti un punto in comune: il capitale frutta ogni anno un profitto al capitalista, la terra una rendita fondiaria al proprietario fondiario e la forza-lavoro — in condizioni normali e fintanto che rimane una forza-lavoro utilizzabile — il salario all’operaio. Queste tre parti del valore complessivo prodotto annualmente e le corrispondenti parti del prodotto complessivo prodotto annualmente, possono essere consumate annualmente dai loro rispettivi proprietari — facciamo per il momento astrazione dalla accumulazione senza che la fonte della loro riproduzione si inaridisca. Esse appaiono come i frutti da consumarsi annualmente di un albero perenne, o meglio di tre alberi, esse costituiscono il reddito annuo di tre classi: capitalisti, proprietari fondiari e operai, redditi che il capitalista operante ripartisce, perché è lui che sfrutta direttamente il pluslavoro e che in generale impiega il lavoro. Al capitalista il suo capitale, al proprietario fondiario la sua terra e all’operaio la sua forza-lavoro o piuttosto il suo lavoro stesso (poiché egli in realtà vende la forza- lavoro soltanto nella misura in cui questa si esplica e il prezzo della forza-lavoro, come abbiamo precedentemente messo in rilievo, si presenta sulla base del modo di produzione capitalistico necessariamente come prezzo del lavoro) appaiono come tre diverse fonti dei loro redditi rispettivi, profitto, rendita fondiaria e salario. Essi lo sono in realtà, nel senso che il capitale è per il capitalista una macchina perenne per estorcere pluslavoro, la terra per il proprietario fondiario una calamita perenne per attirare una parte del plusvalore estorto dal capitale e infine il lavoro la condizione e il mezzo che si rinnovano incessantemente per acquistare, a titolo di salario, una parte del valore creato dall’operaio e quindi una parte del prodotto sociale misurato da questa parte di valore, i mezzi di sussistenza necessari. Essi lo sono, inoltre, nel senso che il capitale fissa una parte del valore e quindi del prodotto del lavoro annuo nella forma di profitto, la proprietà fondiaria un’altra parte nella forma di rendita e il lavoro salariato una terza parte nella forma di salario, ed essi convertono queste parti, proprio tramite questa trasformazione, in redditi del capitalista, del proprietario fondiario e dell’operaio, senza tuttavia creare la sostanza stessa, che si trasforma in queste diverse categorie. La ripartizione presuppone invece l’esistenza di questa sostanza, precisamente il valore complessivo del prodotto annuo che non è altro se non lavoro sociale oggettivato. La cosa tuttavia non si presenta agli agenti della produzione, ai depositari delle varie funzioni del processo di produzione, in questa forma, ma in una forma distorta. Perché ciò accada, lo dimostreremo nel seguito della analisi. Capitale, proprietà fondiaria e lavoro appaiono a quegli agenti della produzione come tre fonti diverse, indipendenti, dalle quali derivano tre diverse parti costitutive del valore prodotto annualmente e quindi del prodotto nel quale esso esiste; per essi quindi scaturiscono da queste fonti non soltanto le diverse forme di questo valore, come redditi che toccano ai singoli fattori del processo di produzione sociale, ma questo valore stesso e quindi la sostanza di queste forme di reddito.

(Manca qui nel manoscritto una pagina in folio [FE])

La rendita differenziale è connessa con la fertilità relativa delle terre, in altre parole con qualità che derivano dal terreno in quanto tale. Ma in quanto essa si fonda, innanzi tutto, sui diversi valori individuali dei prodotti dei diversi tipi di terreno, si tratta solo della determinazione che abbiamo or ora menzionato; in secondo luogo, in quanto si fonda sul valore di mercato regolatore generale che differisce da questi valori individuali, si tratta di una legge sociale che si attua mediante la concorrenza e che non ha nulla a che vedere con la terra né con i diversi gradi della sua fertilità.

Potrebbe sembrare che almeno in: «lavoro-salario» si trovi enunciato un rapporto razionale. Ma non è così né più né meno che nel caso dell’espressione: «terra-rendita fondiaria». In quanto il lavoro è creatore di valore, ed è rappresentato nel valore delle merci, non ha nulla a che vedere con la ripartizione di questo valore fra le diverse categorie. In quanto esso ha il carattere specificamente sociale di lavoro salariato, non è creatore di valore. È stato già precedentemente dimostrato che salario o prezzo del lavoro è soltanto un modo irrazionale di esprimere il valore o il prezzo della forza-lavoro; e le condizioni sociali determinate nelle quali questa forza-lavoro è venduta non hanno nulla a che vedere con il lavoro in quanto agente generale della produzione. Il lavoro si oggettiva anche in quella parte di valore della merce che costituisce, sotto forma di salario, il prezzo della forza-lavoro; esso crea questa parte precisamente come crea le altre parti del prodotto; ma non si oggettiva in questa parte in grado maggiore o in modo diverso dì quanto non faccia nelle parti che costituiscono la rendita o il profitto. E in generale, se fissiamo il lavoro come creatore di valore, lo consideriamo non nella sua forma concreta di condizione di produzione, ma in una determinazione sociale che è diversa da quella del lavoro salariato.

Anche l’espressione: «capitale-profitto» non è corretta qui. Se il capitale viene considerato nell’unico rapporto in cui produce plusvalore, precisamente nel suo rapporto con l’operaio, in cui esso estorce pluslavoro mediante la costrizione che esercita sulla forza- lavoro, ossia sull’operaio salariato, allora questo plusvalore contiene in aggiunta al profitto (guadagno d’imprenditore più interesse) anche la rendita; in breve l’intero plusvalore non ripartito. Qui, al contrario, come fonte di reddito, viene posto in rapporto soltanto con quella parte che tocca al capitalista. E questo non è il plusvalore che esso estrae in generale, ma soltanto la parte che estrae per il capitalista.  A maggior ragione cessa qualsiasi connessione, quando la formula si trasforma in «capitale-interesse».

Se abbiamo innanzi tutto considerato ciò che distingue queste tre fonti l’una dall’altra, dobbiamo ora mettere in rilievo, come secondo punto, che invece i loro prodotti, i loro rampolli, i redditi, appartengono tutti alla medesima sfera, alla sfera del valore. Tuttavia ciò viene annullato dal fatto (questo rapporto non soltanto fra grandezze incommensurabili, ma fra cose completamente diverse, non aventi fra di loro alcun rapporto e non ragguagliabili) che il capitale, al pari della terra e del lavoro, è in realtà preso solamente secondo la sua sostanza materiale, vale a dire semplicemente come mezzo di produzione prodotto e si astrae in tal modo da esso come rapporto con l’operaio e come valore.

Terzo: In questo senso anche la formula: capitale-interesse (profitto), terra-rendita, lavoro-salario, presenta una incongruenza uniforme e simmetrica. Difatti, quando il lavoro salariato non appare come una forma di lavoro socialmente determinata, ma piuttosto tutto il lavoro appare per sua natura come lavoro salariato (così si presenta a coloro che sono impigliati nei rapporti di produzione capitalistici) anche le determinate, specifiche forme sociali, che le condizioni materiali di lavoro (i mezzi di produzione prodotti e la terra) assumono rispetto al lavoro salariato (che è a sua volta un presupposto di queste condizioni), coincidono senz’altro con l’esistenza materiale di queste condizioni di lavoro o con la forma che esse in generale hanno nell’effettivo processo lavorativo, indipendentemente da ogni forma sociale storicamente determinata di questo, anzi indipendentemente da ogni sua forma sociale. La forma delle condizioni di lavoro estraniata dal lavoro, resa autonoma nei suoi confronti e così trasmutata, nella quale quindi i mezzi di produzione prodotti si trasformano in capitale e la terra in terra monopolizzata, in proprietà fondiaria, questa forma appartenente a un determinato periodo storico coincide perciò con l’esistenza e la funzione dei mezzi di produzione prodotti e della terra nel processo di produzione in generale. Quei mezzi di produzione sono in sé e per sé, per natura, capitale; capitale non è altro che un puro e semplice «nome economico» per quei mezzi di produzione; e così la terra in sé e per sé, per natura, è la terra monopolizzata da un certo numero di proprietari fondiari. Come nel capitale e nel capitalista — che in realtà non è altro che il capitale personificato — i prodotti diventano una potenza autonoma nei confronti dei produttori, così nel proprietario fondiario viene personificata la terra che anch’essa si erge in piedi come potenza autonoma ed esige la sua parte del prodotto creato con il suo concorso; così che non è la terra che riceve la parte del prodotto che le spetta a sostituzione e incremento della sua produttività, ma è il proprietario fondiario che ottiene, al posto suo, una parte di questo prodotto per sperperarla e dissiparla. E chiaro che il capitale presuppone il lavoro come lavoro salariato. Ma è altrettanto chiaro che se si parte dal lavoro come lavoro salariato, così che il coincidere del lavoro in generale col lavoro salariato appare sottinteso, allora il capitale e la terra monopolizzata devono apparire parimenti come forma naturale delle condizioni di lavoro nei confronti del lavoro in generale. Essere capitale appare dunque come forma naturale dei mezzi di lavoro e quindi come carattere puramente oggettivo e derivante dalla loro funzione nel processo lavorativo in generale. Capitale e mezzo di produzione prodotto divengono così espressioni identiche. Così pure espressioni identiche divengono terra e terra monopolizzata dalla proprietà privata. I mezzi di lavoro come tali, che per natura sono capitale, divengono quindi fonte del profitto, mentre la terra come tale diviene fonte della rendita.

Il lavoro come tale, nella sua determinazione semplice di attività produttiva corrispondente a uno scopo, si mette in rapporto coi mezzi di produzione non nella loro forma sociale determinata, ma nella loro sostanza materiale, come materiale e mezzi di lavoro, che parimenti si distinguono tra loro soltanto materialmente, come valori d’uso, la terra come mezzo di lavoro non prodotto, gli altri come mezzi di lavoro prodotti. Se il lavoro dunque coincide con il lavoro salariato, anche la forma sociale determinata in cui le condizioni di lavoro si contrappongono ora al lavoro, coincide con la loro esistenza materiale. I mezzi di lavoro sono allora come tali capitale e la terra come tale è proprietà fondiaria. La formale autonomizzazione di queste condizioni di lavoro nei confronti del lavoro, la forma particolare di questa autonomizzazione che esse possiedono rispetto al lavoro salariato, è allora una proprietà inseparabile da esse come cose, come condizioni materiali della produzione, un carattere ad esse concresciuto e immanente, che spetta loro necessariamente in quanto elementi della produzione. Il loro carattere sociale, determinato da una epoca storica determinata, nel processo di produzione capitalistico è un carattere oggettivo ad esse innato naturalmente e per così dire dall’eternità, nella loro qualità di elementi dei processo di produzione. Perciò la parte rispettiva che la terra prende come campo originario di attività del lavoro, come regno delle forze naturali, come arsenale già pronto di tutti gli oggetti del lavoro e l’altra parte, rispettiva che i mezzi di produzione prodotti (strumenti, materie prime, ecc.) prendono al processo di produzione in generale, debbono allora apparentemente esprimersi nelle parti rispettive che ad essi toccano in quanto capitale e proprietà fondiaria, ossia che toccano ai loro rappresentanti sociali nella forma di profitto (interesse) e rendita, come all’operaio nel salario spetta la parte che il suo lavoro prende al processo di produzione. Rendita, profitto, salario, sembrano così sorgere dalla funzione che la terra, i mezzi di produzione prodotti e il lavoro ricoprono nel processo lavorativo semplice, anche se consideriamo questo processo lavorativo nel suo svolgersi soltanto tra l’uomo e la natura e astraendo da ogni caratterizzazione storica. È solo la stessa cosa in un’altra forma se si dice; il prodotto in cui si rappresenta il lavoro dell’operaio salariato per se stesso, come suo guadagno, suo reddito, è soltanto il salario, la parte del valore (e quindi del prodotto sociale misurato da questo valore) che rappresenta il suo salario. Se dunque il lavoro salariato coincide con il lavoro in generale, anche il salario coincide con il prodotto del lavoro e la parte del valore che rappresenta il salario, coincide con il valore creato dal lavoro in generale. In tal modo però anche le altre parti del valore, profitto e rendita, si contrappongono in modo altrettanto autonomo al salario e debbono sgorgare da fonti proprie, specificamente diverse e indipendenti dal lavoro, devono sgorgare dagli elementi di produzione cooperanti, ai cui possessori esse toccano, dunque il profitto dai mezzi di produzione, elementi materiali del capitale e la rendita dalla terra o dalla natura, rappresentata dal proprietario fondiario (Roscher).

Proprietà fondiaria, capitale e lavoro salariato si trasformano quindi da fonti del reddito, nel senso che il capitale attrae al capitalista una parte del plusvalore, che questi estrae dal lavoro, sotto forma di profitto, il monopolio della terra attrae al proprietario fondiario un’altra parte sotto forma di rendita e il lavoro dà all’operaio l’ultima parte ancora disponibile di valore sotto forma di salario; si trasformano da fonti mediante le quali una parte del valore si tramuta nella forma del profitto, una seconda nella forma della rendita e una terza nella forma del salario, in fonti effettive da cui appunto sgorgano queste parti di valore e le relative parti del prodotto in cui essi esistono o con le quali esse sono scambiabili e dalle quali come ultima fonte sgorga quindi il valore del prodotto stesso.

Abbiamo già dimostrato a proposito delle più semplici categoria del modo di produzione capitalistico e anche della produzione mercantile, la merce e il denaro, il carattere mistificante che trasforma i rapporti sociali, ai quali gli elementi materiali della ricchezza servono da depositari nella produzione, in proprietà di queste cose stesse (merce) e ancora in modo più accentuato il rapporto di produzione stesso in una cosa (denaro). Questo travisamento è comune a tutte le forme di società, in quanto giungono alla produzione mercantile e alla circolazione monetaria. Ma nel modo di produzione capitalistico e nel caso del capitale, che è la sua categoria dominante, il suo rapporto di produzione determinante, questo mondo stregato e capovolto si sviluppa ancora molto di più. Se si considera il capitale anzitutto nel processo di produzione diretto, come pompa di pluslavoro, questo rapporto è ancora molto semplice e il nesso effettivo si impone ai depositari di questo processo, ai capitalisti stessi, ed è ancora presente nella loro coscienza. L’accanita lotta intorno ai limiti della giornata lavorativa lo dimostra in modo convincente. Ma perfino all’interno di questa sfera non mediata, nella sfera del processo diretto tra lavoro e capitale, le cose non rimangono così semplici. Con lo sviluppo del plusvalore relativo nel vero e proprio modo di produzione specificamente capitalistico, con il quale si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, queste forze produttive e i nessi sociali del lavoro appaiono nel processo lavorativo diretto come trasferite dal lavoro nel capitale. Così il capitale diviene già una entità molto mistica, in quanto tutte le forze produttive sociali del lavoro appaiono come forze appartenenti a lui e non al lavoro come tale, nate dal suo grembo. Poi interviene il processo di circolazione, i cui mutamenti di sostanza e di forma toccano tutte le parti del capitale, perfino del capitale agricolo, nella stessa misura in cui si sviluppa il modo di produzione specificamente capitalistico. E’ questa una sfera in cui i rapporti della produzione di valore originaria rimangono completamente in secondo piano. Già nel processo diretto di produzione il capitalista opera contemporaneamente come produttore di merci, come dirigente della produzione di merci. Questo processo di produzione si presenta a lui quindi non semplicemente come processo di produzione di plusvalore. Il plusvalore che il capitale ha pompato nel processo di produzione diretto e ha espresso in merci, il valore e plusvalore contenuto nelle merci, deve essere ancora realizzato nel processo di circolazione. E sia la restituzione dei valori anticipati nella produzione, sia in particolare del plusvalore contenuto nelle merci non sembra semplicemente realizzarsi nella circolazione, ma sgorgare da essa; un’apparenza che è convalidata in particolare da due circostanze: in primo luogo il profitto per alienazione, che dipende da truffa, furbizia, esperienza, abilità e migliaia di fattori che influiscono sul mercato; in secondo luogo dalla circostanza che qui, accanto al tempo di lavoro, compare un secondo elemento determinante, il tempo di circolazione. Questo opera sì soltanto come limite negativo della creazione di valore e plusvalore, ma appare come se fosse una causa altrettanto positiva quanto il lavoro stesso e come se apportasse una determinazione derivante dalla natura del capitale e indipendente dal lavoro. Nel Libro II abbiamo dovuto esaminare questa sfera della circolazione naturalmente soltanto in relazione alle determinazioni di forma che essa genera e indicare l’ulteriore sviluppo della figura del capitale che si verifica in essa. Nella realtà però questa sfera è la sfera della concorrenza che, considerata nei suoi singoli avvenimenti, è dominata dal caso; in cui dunque la legge interna che si attua in questi casi e che li regola, è visibile solo quando questi casi sono riuniti in gran numero; in cui dunque questa legge rimane invisibile e incomprensibile ai singoli agenti della produzione stessa. Inoltre: l’effettivo processo di produzione, come unità del processo di produzione diretto e del processo di circolazione, genera nuove forme, in cui sempre più si perde il filo dei nessi interni, i rapporti di produzione si autonomizzano l’uno rispetto all’altro e le parti costitutive del valore si consolidano in forme autonome l’una rispetto all’altra.

La trasformazione del plusvalore in profitto è, come abbiamo visto, determinata tanto dal processo di circolazione quanto dal processo di produzione. Il plusvalore, nella forma del profitto, è riferito non più alla parte di capitale speso in lavoro dalla quale esso sorga, ma al capitale complessivo. Il saggio del profitto è regolato da proprie leggi, che permettono ed anzi esigono un mutamento dello stesso, pur rimanendo uguale il saggio del plusvalore. Tutto ciò nasconde sempre più la vera natura del plusvalore e quindi l’effettivo meccanismo del capitale. Ciò avviene ancor più con la trasformazione del profitto in profitto medio e dei valori in prezzi di produzione, in medie regolatrici dei prezzi di mercato. Interviene qui un complicato processo sociale, che pone su un piano di parità i capitali, separando i prezzi medi relativi delle merci dai loro valori e i profitti medi nelle diverse sfere di produzione (astraendo completamente dagli investimenti individuali di capitale in ogni particolare sfera di produzione) dall’effettivo sfruttamento del lavoro da parte dei singoli capitali. Il prezzo medio delle merci non soltanto appare ma è qui di fatto distinto dal loro valore, quindi dal lavoro in esso realizzato e il profitto medio di un singolo capitale è distinto dal plusvalore che questo capitale ha estratto dagli operai da esso impiegati. Il valore delle merci appare ormai direttamente soltanto nell’influsso che il variare della forza produttiva del lavoro esercita sulla diminuzione e l’aumento dei prezzi di produzione, sul loro movimento, non sui loro limiti ultimi. Il profitto appare ormai solo determinato in modo accessorio dallo sfruttamento diretto del lavoro, in quanto questo precisamente permette al capitalista di realizzare un profitto che si discosta dal profitto medio, con i prezzi di mercato regolatori, che in apparenza esistono indipendentemente da questo sfruttamento. Gli stessi profitti medi normali sembrano immanenti al capitale, indipendenti dallo sfruttamento; lo sfruttamento anormale, oppure anche lo sfruttamento medio esercitato in condizioni eccezionalmente favorevoli, sembra determinare soltanto le deviazioni dal profitto medio, non il profitto medio stesso. La divisione del profitto in guadagno d’imprenditore e interesse (per non parlare poi dell’intervento del profitto commerciale e del profitto tratto dal commercio di denaro che sono fondati sulla circolazione e sembrano sgorgare interamente da essa e non dal processo di produzione stesso) completa l’autonomizzazione della forma del plusvalore, la solidificazione della sua forma rispetto alla sua sostanza, alla sua essenza. Una parte del profitto, in contrapposizione con l’altra, si scioglie completamente dal rapporto di capitale come tale e si presenta come derivante non dalla funzione dello sfruttamento del lavoro salariato, ma dal lavoro salariato del capitalista stesso. In contrasto con questo l’interesse appare allora sgorgare dal capitale come sua propria fonte autonoma, indipendentemente sia dal lavoro salariato dell’operaio, sia dal lavoro proprio del capitalista. Se il capitale originariamente, alla superficie della circolazione, appariva come un capitale feticcio, valore generante valore, ora esso si presenta di nuovo nella figura del capitale produttivo di interesse come nella sua forma più estraniata e più particolare. Per cui anche la forma: «capitale-interesse» posta come terza dopo «terra-rendita» e «lavoro-salario» è molto più conseguente che «capitale-profitto», in quanto nel profitto rimane sempre un ricordo della sua origine, mentre nell’interesse non soltanto è scomparso questo ricordo, ma vi è una forma saldamente contrapposta a questa origine.

Infine accanto al capitale come fonte autonoma di plusvalore si pone la proprietà fondiaria, come limite del profitto medio che trasferisce una parte del plusvalore a una classe, che né lavora essa stessa, né sfrutta direttamente gli operai, né può consolarsi, come il capitale produttivo di interesse, con edificanti motivi morali, come per esempio il rischio e il sacrificio insiti nel cedere capitale a prestito. Poiché qui una parte del plusvalore appare direttamente legata non ai rapporti sociali, ma a un elemento naturale, alla terra, la forma dell’estraniazione e solidificazione delle diverse parti del plusvalore l’una rispetto all’altra è completata, il nesso interno interamente spezzato e la sua fonte assolutamente sepolta, appunto con l’autonomizzazione reciproca dei rapporti di produzione legati ai diversi elementi materiali del processo di produzione.

In capitale-profitto, o ancora meglio in capitale-interesse, terra- rendita fondiaria, lavoro-salario, in questa trinità economica collegante le parti costitutive del valore e della ricchezza in generale con le sue fonti, la mistificazione del modo di produzione capitalistico, la materializzazione dei rapporti sociali, la diretta fusione dei rapporti di produzione materiali con la loro forma storico - sociale è completa: il mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose. Il grande merito dell’economia classica consiste nell’aver dissipato questa falsa apparenza e illusione, questa autonomizzazione e solidificazione dei diversi elementi sociali della ricchezza, questa personificazione delle cose e oggettivazione dei rapporti di produzione, questa religione della vita quotidiana, riducendo l’interesse a una parte del profitto e la rendita all’eccedenza oltre il profitto medio, cosi che ambedue coincidono nel plusvalore; in quanto essa rappresenta il processo di circolazione come pura e semplice metamorfosi delle forme e infine riduce, nel processo diretto di produzione, valore e plusvalore delle merci al lavoro. Tuttavia anche i migliori suoi rappresentanti rimangono e del resto non può accadere diversamente partendo dal punto di vista borghese, più o meno impigliati in quel mondo dell’apparenza da essi criticamente dissolto e quindi cadono tutti più o meno in incoerenze e contraddizioni non risolte, arrestandosi talvolta a metà strada. È invece d’altra parte altrettanto naturale che gli agenti effettivi della produzione in queste forme estraniate e irrazionali di capitale-interesse, terra-rendita, lavoro-salario si sentano completamente a loro agio, poiché sono appunto le forme dell’apparenza nella quale essi si muovono e con la quale hanno a che fare ogni giorno. È quindi altrettanto naturale che l’economia volgare, che non è altro che una traduzione didattica, più o meno dottrinaria, delle idee quotidiane degli agenti effettivi della produzione e che reca in mezzo ad esse un certo ordine ragionevole, proprio in questa trinità in cui è cancellato tutto l’intimo flesso trovi una base naturale e incontestabile della sua superficiale millanteria. Questa formula corrisponde al tempo stesso all’interesse delle classi dominanti, in quanto essa proclama la necessità naturale e l’eterna giustezza delle loro fonti di entrata e le eleva a dogma.

Nell’esporre l’oggettivazione dei rapporti di produzione e la loro autonomizzazione rispetto agli agenti di produzione, non indaghiamo il modo in cui le connessioni per mezzo del mercato mondiale, le sue congiunture, il movimento dei prezzi di mercato, i periodi del credito, i cicli dell’industria e del commercio, l’alternarsi di prosperità e crisi, appaiono a questi agenti come leggi naturali onnipotenti che li dominano riducendoli all’impotenza e che operano nei loro confronti come cieca necessità. E ciò perché il movimento effettivo della concorrenza non rientra nel nostro piano e dobbiamo esaminare soltanto l’organizzazione interna del modo di produzione capitalistico, per così dire nella sua media ideale.

Nelle precedenti forme di società questa mistificazione economica si riscontra principalmente solo in relazione al denaro e al capitale produttivo di interesse. Essa è, per sua natura, esclusa in primo luogo dove predomina la produzione per il valore d’uso, per i bisogni personali immediati; in secondo luogo dove la schiavitù o la servitù della gleba, come nei tempi antichi o nel Medioevo, costituisce la larga base della produzione sociale: il dominio delle condizioni di produzione sui produttori è qui celato dai rapporti di signoria e servitù, che appaiono e sono visibili come le molle dirette del processo di produzione. Nelle comunità primitive, in cui predomina il comunismo naturale e perfino nelle antiche comunità cittadine è la comunità stessa con le sue condizioni che si presenta come base della produzione, così come la sua riproduzione si presenta come suo fine ultimo. Nelle stesse corporazioni medioevali, né il capitale, né il lavoro appaiono separati, ma le loro relazioni appaiono determinate dal sistema corporativo e dai rapporti con questo connessi e dalle relative concezioni di dovere professionale, prerogative del maestro ecc. Soltanto nel modo di produzione capitalistico...

NOTE


[1] I seguenti tre frammenti si trovano in diversi punti del manoscritto alla sezione VI. (F.E).

 

AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni);

2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura;

a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle;

c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘).

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio.

In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm