IL CAPITALE

LIBRO III

SEZIONE VI

TRASFORMAZIONE DEL PLUSPROFITTO IN RENDITA FONDIARIA

CAPITOLO 45

LA RENDITA FONDIARIA ASSOLUTA

Nell’analisi della rendita differenziale siamo partiti dalla premessa che il terreno peggiore non frutta alcuna rendita fondiaria o, per esprimerci in termini più generali, frutta una rendita fondiaria soltanto quel terreno per il cui prodotto il prezzo di produzione individuale è inferiore al prezzo di produzione che regola il mercato, così che in tal modo sorge un plusprofitto che si trasforma in rendita. Si deve innanzitutto mettere in rilievo che la legge della rendita differenziale in quanto tale è completamente indipendente dal fatto che questa premessa sia esatta o inesatta.

Chiamiamo P il prezzo generale di produzione, quello che regola il mercato. P coincide, per il prodotto del terreno peggiore A, con il suo prezzo di produzione individuale; vale a dire, il suo prezzo paga il capitale costante e variabile consumato nella produzione più il profitto medio (= guadagno d’imprenditore più interesse). La rendita in questo caso è uguale a zero. Il prezzo di produzione individuale del terreno migliore immediatamente successivo B è P’, e P è maggiore di P’; ossia P paga più dell’effettivo prezzo di produzione del prodotto del terreno di tipo B.

Sia ora P – P’ = d, l’eccedenza di P su P’, è quindi il plusprofitto realizzato dall’affittuario del terreno di tipo B. Questo d si converte in rendita, che deve essere pagata al proprietario fondiario. Per il terzo tipo di terreno C sia P” l’effettivo prezzo di produzione e  P— P” =  2d; allora questo 2d si converte in rendita; del pari per il quarto tipo D il prezzo individuale di produzione sia P”’ e  P— P’’’ = 3d che si converte in rendita fondiaria, e così via.

Ammettiamo ora che, per il terreno di tipo A, la premessa che la rendita sia = 0, ed in conseguenza il prezzo del suo prodotto =  P + 0, sia errata. Anzi che esso paghi una rendita =  r. In questo caso noi arriviamo a due conclusioni.

Primo: il prezzo del prodotto del terreno di tipo A non sarebbe regolato dal suo prezzo di produzione, ma conterrebbe un’eccedenza su tale prezzo, corrisponderebbe a P + r. Infatti, presupposto il modo di produzione capitalistico nella sua normalità, presupposto dunque che l’eccedenza  r, che l’affittuario paga al proprietario fondiario, non rappresenti una detrazione né dal salario, né dal profitto medio del capitale, essa può essere pagata dall’affittuario stesso unicamente se questo vende il suo prodotto a un prezzo superiore a quello di produzione, a un prezzo che gli darebbe un plusprofitto, se egli non dovesse cedere questa eccedenza al proprietario fondiario nella forma di rendita. In questo caso il prezzo di mercato regolatore del prodotto complessivo di tutti i tipi di terreno esistenti sul mercato non sarebbe il prezzo di produzione che il capitale generale apporta in tutte le sfere della produzione, ossia un prezzo uguale alle spese più il profitto medio, ma sarebbe il prezzo di produzione più la rendita, P + r, non semplicemente P. Infatti il prezzo del prodotto del terreno del tipo A esprime in genere il limite del prezzo di mercato generale regolatore, a cui il prodotto complessivo può essere fornito e regola pertanto il prezzo di questo prodotto complessivo.

Secondo: Tuttavia la legge della rendita differenziale non sarebbe in questo caso annullata, sebbene il prezzo generale del prodotto agricolo sia sostanzialmente modificato. Infatti, se il prezzo del prodotto di tipo A, e quindi il prezzo generale di mercato, fosse P + r, allora il prezzo dei tipi B, C, D ecc, sarebbero parimenti P + r.

Ma poiché,

per il tipo B:    P — P’ = d, allora (P + r) —  (P’ + r) sarebbe parimenti uguale a d,

e per C:     P — P” = (P +  r) — (P” + r) = 2d,

come infine per D:    P — P”’ = (P + r) — (P”’ + r) = 3d, e così via.

La rendita differenziale sarebbe, dunque, sempre la stessa e sarebbe regolata dalla medesima legge, pur contenendo la rendita un elemento indipendente da questa legge e presentando, insieme con il prezzo del prodotto del terreno, un generale aumento. Ne deriva allora che, qualunque possa essere la condizione della rendita sui tipi di terreno meno fertili, non soltanto la legge della rendita differenziale è indipendente da ciò, ma altresì che il solo modo di interpretare la rendita differenziale stessa in conforme al suo carattere, è di porre la rendita del tipo di terreno A = 0. Il fatto che questa sia zero o maggiore di zero è privo d’importanza per quanto riguarda la rendita differenziale, e non se ne tiene conto.

La legge della rendita differenziale è, quindi, indipendente dal risultato della seguente ricerca.

Approfondendo la ricerca sui fondamenti della premessa secondo cui il prodotto del terreno peggiore A non frutta rendita alcuna, si arriva necessariamente a questo: se il prezzo di mercato del prodotto del terreno, supponiamo il grano, ha raggiunto un livello tale che un anticipo addizionale di capitale investito nel terreno di tipo A frutta il prezzo di produzione usuale e quindi apporta al capitale il profitto medio usuale, allora questa condizione è sufficiente per l’investimento del capitale addizionale nel terreno di tipo A. In altre parole, questa condizione è sufficiente al capitalista per investire nuovo capitale al profitto usuale e valorizzarlo nel modo normale.

Si deve notare qui che anche in questo caso il prezzo di mercato deve essere più elevato del prezzo di produzione di A. Infatti, non appena si è creata l’offerta addizionale si è evidentemente mutato il rapporto fra offerta e domanda. Prima l’offerta era insufficiente, ora essa è sufficiente. Il prezzo deve quindi diminuire. Per poter diminuire, esso deve essere stato più alto del prezzo di produzione di A. Ma la minore fertilità del terreno di tipo A di recente messo a coltura, fa si che il prezzo non cada così in basso come al tempo in cui il prezzo di produzione del terreno di tipo B regolava il mercato. Il prezzo di produzione di A costituisce ora il limite per l’aumento non temporaneo, ma relativamente permanente del prezzo di mercato. D’altro lato, se il terreno recentemente messo a coltura è più fertile di quello di tipo A che era fino ad ora regolatore, e tuttavia è soltanto sufficiente a coprire la domanda addizionale, allora il prezzo di mercato rimane invariato. La ricerca se il tipo di terreno peggiore frutta una rendita, coincide però anche in questo caso con la nostra presente ricerca, poiché qui di nuovo la premessa che il tipo A non frutta rendita alcuna si spiegherebbe con il fatto che il prezzo di mercato è sufficiente all’affittuario capitalista per coprire con questo prezzo esattamente il capitale investito più il profitto medio, vale a dire il prezzo di mercato gli fornisce il prezzo di produzione della sua merce.

In ogni modo l’affittuario capitalista può coltivare il terreno di tipo A a queste condizioni, in quanto egli, come capitalista, ha la facoltà di decidere. È ora data la condizione per una normale valorizzazione di capitale sul terreno di tipo A. Dalla premessa, però, che il capitale potrebbe essere investito dall’affittuario sul terreno di tipo A secondo le condizioni medie di valorizzazione del capitale, anche se non dovesse pagare rendita alcuna, non segue necessariamente la conclusione che tale terreno appartenente al tipo A sia ora senz’altro a disposizione dell’affittuario. Il fatto che l’affittuario potrebbe valorizzare il suo capitale al profitto usuale, se non paga alcuna rendita, non rappresenta un motivo per il proprietario fondiario di prestare senza contropartita il suo terreno all’affittuario, e di essere così filantropo da garantire a quest’ultimo, per amicizia il crédit gratuit. Presumere ciò significa astrarre dalla proprietà fondiaria, annullare la proprietà fondiaria, la cui esistenza costituisce precisamente un limite per l’investimento di capitale e per la sua libera valorizzazione nella terra, un limite che non scompare minimamente di fronte alla semplice considerazione dell’affittuario che il livello del prezzo del grano gli permetterebbe, qualora egli non dovesse pagare una rendita, ossia qualora egli potesse comportarsi di fatto come se la proprietà fondiaria non esistesse, di ottenere dal suo capitale il profitto usuale sfruttando il terreno di tipo A. Ma la rendita differenziale ha come premessa il monopolio della proprietà fondiaria, la proprietà fondiaria come limite del capitale, poichè, senza di essa, il plusprofitto non sarebbe convertito in rendita fondiaria e non cadrebbe nelle mani del proprietario fondiario invece che in quelle dell’affittuario.

La proprietà fondiaria agisce da barriera anche là dove la rendita fondiaria non esiste in quanto rendita differenziale, cioè nel terreno di tipo A.

Se osserviamo i casi in cui in un paese a produzione capitalistica possono aver luogo investimenti di capitale nella terra senza pagamento di rendita, troviamo che essi implicano l’abolizione della proprietà fondiaria, di fatto anche se non legalmente, un’abolizione che si può verificare solamente in circostanze ben determinate e per loro natura casuali.

Primo: se il proprietario fondiario è esso stesso capitalista o il capitalista è esso stesso proprietario fondiario. In questo caso non appena il prezzo di mercato sia aumentato a un livello tale da rendergli possibile di ottenere da quella terra, che è ora di tipo A, il prezzo di produzione, cioè la sostituzione del capitale più il profitto medio, può gestire in proprio la sua terra. Ma perché? Perché per lui la proprietà fondiaria non costituisce una barriera all’investimento del suo capitale. Egli può trattare il terreno come semplice elemento naturale e può quindi lasciarsi guidare esclusivamente dalle considerazioni riguardanti la valorizzazione del suo capitale, da considerazioni capitalistiche. Tali casi si verificano in pratica, ma soltanto come eccezioni. Precisamente come la coltivazione capitalistica della terra presuppone la separazione del capitale operante dalla proprietà fondiaria, così esclude come regola che la coltivazione della proprietà fondiaria venga fatta in proprio. Si vede subito che ciò è puramente casuale. Se l’accresciuta domanda di grano richiede la coltivazione di una superficie di terreno di tipo A più ampia di quella che si trova nelle mani di proprietari che la gestiscono in proprio, in altre parole, se una parte di questa terra deve essere data in affitto per non restare incolta, allora questa ipotetica soppressione del limite creato dalla proprietà fondiaria all’investimento del capitale, crolla subito. È una contraddizione assurda partire dalla distinzione fra capitale e terra, affittuario e proprietario fondiario, che corrisponde al modo di produzione capitalistico, e poi, viceversa, premettere come regola che i proprietari fondiari gestiscano in proprio la loro terra in quell’estensione e in quei casi in cui il capitale non trarrebbe rendita alcuna dalla coltivazione della terra se la proprietà fondiaria non fosse separata e distinta da esso. (Vedere il passo di Adam Smith, concernente la rendita mineraria citato più oltre, cap 46). Una tale abolizione della proprietà fondiaria è casuale. Si può verificare, e si può non verificare.

Secondo: Nell’area complessiva di un’affittanza si possono trovare alcune estensioni di terra che non fruttano rendita al livello dato del prezzo di mercato, quindi in realtà sono dati in prestito gratuito, sebbene il proprietario fondiario non veda la cosa in tal modo, poichè prende in considerazione la rendita complessiva del terreno dato in affitto, non la rendita specifica delle sue singole parti aliquote. In tal caso, in quanto vengono prese in considerazione le parti dell’affittanza prive di rendita, la proprietà fondiaria cessa per l’affittuario di rappresentare un limite per l’investimento, e ciò per mezzo di contratto con il proprietario fondiario. Ma egli non paga rendita per tali appezzamenti, unicamente perché ne paga per il terreno di cui fanno parte. Si presuppone qui proprio una combinazione in cui non si deve ricorrere al terreno peggiore di tipo A come ad un nuovo, indipendente campo di produzione, al fine di colmare l’insufficienza dell’offerta, ma in cui questo terreno A costituisce una parte interna, non separabile, del terreno migliore. Il caso tuttavia che si deve esaminare è precisamente quello in cui certi appezzamenti di terreno di tipo A sono coltivati indipendentemente e devono quindi essere dati in affitto separatamente, nelle condizioni generali del modo di produzione capitalistico.

Terzo: Un affittuario può investire capitale addizionale sulla medesima affittanza, sebbene il prodotto addizionale ottenuto in tal modo gli apporti, ai prezzi di mercato esistenti, soltanto il prezzo di produzione, gli frutti soltanto il profitto medio, senza dargli la possibilità di pagare una rendita addizionale. In tal caso egli paga una rendita fondiaria con una parte del capitale investito nella terra; ma con l’altra parte non la paga. Quanto poco questa ipotesi risolva il problema in questione, si vede dalle considerazioni seguenti: se il prezzo di mercato (e contemporaneamente la fertilità del terreno) mette l’affittuario in grado di ottenere con il suo capitale addizionale un prodotto maggiore, così che, come il vecchio capitale, gli frutta, oltre al prezzo di produzione, un plusprofitto, allora egli stesso intasca questo plusprofitto per tutta la durata del contratto d’affitto. Ma perché?  Per il motivo che per la durata del contratto d’affitto il limite costituito dalla proprietà fondiaria all’investimento del suo capitale nel terreno è stato eliminato. Ma il semplice fatto che, per assicurargli questo plusprofitto, deve essere indipendentemente messo a coltura e preso in affitto un nuovo e peggiore terreno, prova che l’investimento addizionale di capitale sul vecchio terreno non è sufficiente ad assicurare il necessario aumento dell’offerta. Una ipotesi esclude l’altra. È vero che si potrebbe dire: la rendita del terreno peggiore di tipo A è essa stessa una rendita differenziale, confrontata o con la terra coltivata dal proprietario stesso (il che. tuttavia si presenta puramente come una eccezione casuale), o con l’investimento addizionale di capitale sulle vecchie affittanze che non fruttano nessuna rendita. Questa però sarebbe in primo luogo una rendita differenziale che non sorgerebbe dalla differente fertilità dei vari tipi di terreno e che quindi non sarebbe fondata sulla premessa che terreno di tipo A non frutta rendita alcuna e vende il suo prodotto al prezzo di produzione. Ed in secondo luogo, la questione se gli investimenti addizionali di capitale sulla medesima affittanza fruttino una rendita oppure no, non ha nulla a che fare con la questione se il nuovo terreno di tipo A, che deve essere messo a coltura, frutta una rendita oppure no, così come, per esempio, l’impianto di una nuova e indipendente attività industriale non ha nulla a che vedere col fatto che un altro industriale del medesimo ramo investa una parte del suo capitale in titoli fruttiferi, non potendo usarlo tutto nei suoi affari, oppure che egli introduca certi ampliamenti che non gli assicurano il pieno profitto, pur fruttandogli sempre più dell’interesse. Per lui è questione secondaria. I nuovi établissements addizionali devono, al contrario, produrre il profitto medio e vengono impiantati in questa previsione. È vero che gli investimenti addizionali di capitale nella vecchia affittanza e la coltivazione addizionale di nuova terra tipo A creano limiti reciproci. Il limite a cui il capitale addizionale può essere investito nella medesima affittanza, in condizioni di produzione meno favorevoli, è determinato dai nuovi investimenti che sono in concorrenza su terreni di tipo A; d’altro lato la rendita, che può essere prodotta da questo tipo di terreno, è limitata dagli investimenti di capitale addizionali in concorrenza sulle vecchie affittanze.

Tutti questi falsi sotterfugi non risolvono il problema, che in linguaggio semplice è il seguente. Supponendo che il prezzo di mercato del grano (che nella presente ricerca rappresenta tutti i prodotti agricoli), sia sufficiente per far mettere a coltura porzioni di terreno di tipo A, e per far sì che il capitale investito su questi nuovi campi ricavi il prezzo di produzione del prodotto, cioè la sostituzione del capitale più il profitto medio; supponendo, quindi, che siano presenti le condizioni per la valorizzazione normale del capi tale sul terreno A, è ciò sufficiente?

Il capitale può venire allora effettivamente investito? Oppure il prezzo di mercato deve aumentare fino a che anche il peggiore terreno A frutta una rendita? Il monopolio del proprietario fondiario pone un limite all’investimento del capitale, che dal punto di vista puramente capitalistico non esisterebbe senza l’esistenza di questo monopolio?

Già dalle condizioni della domanda posta risulta che il problema se del capitale può essere realmente investito in terreno di tipo A, che frutterebbe il profitto medio ma non una rendita, non è risolta affatto perché, ad esempio, si possono avere investimenti addizionali di capitale nelle vecchie affittanze, che fruttano soltanto il profitto medio, ma non una rendita, al prezzo di mercato esistente. Questa è precisamente la questione. Il fatto che gli investimenti addizionali di capitale che non fruttano alcuna rendita, non coprono il bisogno, è dimostrato dalla necessità di mettere a coltura nuova terra di tipo A.

Se la coltivazione addizionale di terra dì tipo A si verifica soltanto nella misura in cui questa terra frutta una rendita, ossia più del prezzo di produzione, allora soltanto due casi sono possibili.

O il prezzo di mercato deve essere tale che anche gli ultimi investimenti addizionali di capitale nelle vecchie affittanze fruttino un plusprofitto, sia che questo venga intascato dall’affittuario o dal proprietario fondiario. Questo aumento di prezzo e questo plusprofitto degli ultimi investimenti addizionali di capitale sarebbero allora un risultato del fatto che il terreno A non può essere coltivato senza fruttare una rendita. Se infatti il prezzo di produzione, il conseguimento del semplice profitto medio, fosse sufficiente a permettere la coltivazione, il prezzo non sarebbe salito a questo livello e la concorrenza delle nuove terre si sarebbe già manifestata non appena esse potessero fruttare questi prezzi di produzione. Con gli investimenti addizionali di capitale nelle vecchie affittanze, che non fruttano rendita, entrerebbero allora in concorrenza investimenti di capitale su terreno A, che parimenti non frutterebbero nessuna rendita. Oppure gli ultimi investimenti di capitale nelle vecchie affittanze non fruttano rendita alcuna, ma ciò nonostante il prezzo di mercato è salito a un livello tale che il terreno A può essere messo a coltura e frutta una rendita. In questo caso l’investimento addizionale di capitale, che non frutta nessuna rendita, sarebbe possibile solamente per il motivo che il terreno A non potrebbe essere coltivato fino a che il prezzo di mercato non gli permettesse di pagare una rendita. Senza questa condizione la sua coltivazione sarebbe già cominciata quando i prezzi erano più bassi; e quegli ulteriori investimenti di capitale nelle vecchie affittanze, che richiedono un prezzo di mercato elevato per fruttare il profitto usuale senza rendita, non avrebbero potuto aver luogo. Essi infatti fruttano solamente il profitto medio a prezzo di mercato elevato. A un prezzo di mercato più basso, che sarebbe diventato regolatore con la messa a coltura del terreno A, come suo prezzo di produzione, questi ultimi investimenti non avrebbero quindi potuto fruttare questo profitto e in generale non sarebbero avvenuti a queste condizioni. In tal modo la rendita del terreno A verrebbe, è vero, a costituire una rendita differenziale, rispetto a questo investimento di capitale nelle vecchie affittanze che non fruttano nessuna rendita. Ma che le aree di A creino una tale rendita differenziale, è unicamente una conseguenza del fatto che queste aree non vengono messe a coltura, a meno che non fruttino una rendita; ossia del fatto che la necessità di questa rendita, che in sé e per sé non è determinata da una differenza tra i tipi di terreno, esiste e costituisce una barriera ai possibili investimenti di capitale addizionale nelle vecchie affittanze. In entrambi i casi, la rendita del terreno A non sarebbe una semplice conseguenza dell’aumento del prezzo del grano, ma, viceversa, il fatto che il terreno peggiore deve fruttare una rendita affinché la sua coltivazione sia possibile, sarebbe la causa di un aumento dei prezzi del grano fino al punto in cui questa condizione può essere soddisfatta.

La rendita differenziale ha questa caratteristica, che la proprietà fondiaria si prende qui solo il plusprofitto, che altrimenti sarebbe intascato dall’affittuario e che questi in certi casi effettivamente intasca mentre dura il suo contratto d’affitto. La proprietà fondiaria è in questo caso soltanto la causa del trasferimento di una parte del prezzo del prodotto, che viene creata senza partecipazione del proprietario fondiario (ma in seguito alla determinazione del prezzo di produzione che regola il prezzo di mercato tramite la concorrenza) e si risolve in plusprofitto — del trasferimento di questa aliquota di prezzo da un individuo all’altro, dal capitalista al proprietario fondiario.

Ma la proprietà fondiaria non è qui la causa che crea questa parte integrante del prezzo, o apporta l’aumento di prezzo che essa presuppone.

Al contrario, se il tipo peggiore di terreno, A, non può essere coltivato — quantunque la sua coltivazione frutterebbe il prezzo di produzione — fino che non frutta una eccedenza su questo prezzo di produzione, una rendita, allora la proprietà fondiaria è la causa che crea questo aumento di prezzo. La proprietà fondiaria ha creato essa stessa la rendita.

La cosa non cambia se, come nel secondo caso ricordato, la rendita ora pagata dal terreno A costituisce una rendita differenziale confrontata con l’ultimo investimento di capitale addizionale sulla vecchia affittanza che paga soltanto il prezzo di produzione. Poiché il fatto che il terreno A non può essere coltivato fino a che il prezzo regolatore di mercato è diventato abbastanza alto da consentire il gettito di una rendita al terreno A, soltanto questo fatto è qui l’unica causa perché il prezzo di mercato salga a un livello tale che paga, sì, agli ultimi investimenti di capitale nelle vecchie affittanze, soltanto il loro prezzo di produzione, ma un tale prezzo di produzione che frutta al tempo stesso una rendita al terreno A.

Che questo terreno in genere debba pagare una rendita, è qui la causa che crea una rendita differenziale fra il terreno A e gli ultimi investimenti di capi tale nelle vecchie affittanze.

In generale, quando diciamo che — premesso che il prezzo del grano è regolato dal prezzo di produzione — il tipo di terreno A non paga rendita alcuna, noi intendiamo rendita nel senso categorico della parola. Se l’affittuario paga un affitto che costituisce una detrazione dal salario normale dei suoi operai, o dal suo proprio profitto medio normale, egli non paga una rendita, una rendita che sia distinta dal salario e dal profitto, parte aliquota autonoma del prezzo della sua merce. Noi abbiamo già precedentemente messo in evidenza che nella pratica ciò si verifica continuamente. Nella misura in cui i salari dei lavoratori agricoli in un certo paese sono costantemente depressi sotto il livello medio normale del salario, così che una parte detratta dai salari entra in generale nella rendita, ciò non costituisce una eccezione per l’affittuario del tipo di terreno peggiore. Nello stesso prezzo di produzione che rende possibile la coltivazione del terreno peggiore, questo salario basso forma già una voce essenziale e la vendita del prodotto al prezzo di produzione non permette all’affittuario di questo terreno di pagare una rendita. Il proprietario fondiario può affittare il suo terreno anche ad un lavoratore, che si adatta a pagare all’altro nella forma di rendita tutto o la maggior parte di quanto gli viene assicurato dal prezzo di vendita oltre il salario. In tutti questi casi, però, non viene pagata una rendita effettiva, sebbene si paghi l’affitto. Ma dove esistono condizioni corrispondenti al modo di produzione capitalistico, rendita e affitto devono coincidere. Ed è precisamente questo rapporto normale che deve essere esaminato qui.

Se già i casi precedentemente considerati, in cui, nell’ambito del modo di produzione capitalistico, si possono avere investimenti di capitale sulla terra senza che essi fruttino rendita, non sono decisivi per il nostro problema, tanto meno lo è il riferimento a condizioni coloniali. Ciò che fa di una colonia una colonia — parliamo qui soltanto delle vere e proprie colonie agricole — non è soltanto la vasta area di terre fertili che si trovano allo stato naturale. È piuttosto il fatto che queste terre non sono di proprietà, non entrano nella categoria della proprietà fondiaria. È ciò che costituisce l’enorme differenza fra i vecchi paesi e le colonie, per quanto riguarda la terra: la inesistenza legale o di fatto della proprietà fondiaria, come Wakefield giustamente nota e come già molto prima di lui Mirabeau père, i fisiocratici e altri economisti precedenti avevano scoperto. Non ha alcuna importanza se i colonizzatori si appropriano senz’altro la terra, oppure se essi pagano allo Stato solo un compenso a titolo di prezzo nominale della terra. Non ha neppure importanza che colonizzatori, già da prima stabilitisi sul luogo, siano legalmente proprietari della terra. Di fatto la proprietà fondiaria non costituisce qui un limite all’investimento di capitale o anche all’impiego di lavoro senza capitale; il fatto che una parte della terra sia già occupata da colonizzatori aventi già stabile dimora, non toglie ai nuovi venuti la possibilità di impiegare il loro capitale o il loro lavoro su nuove terre.

Se si tratta dunque di indagare quale influenza abbia la proprietà fondiaria sul prezzo dei prodotti della terra e sulla rendita là dove la proprietà fondiaria costituisce un limite all’investimento di capitale, è assolutamente assurdo parlare di libere colonie borghesi, dove non esistono né il modo di produzione capitalistico nell’agricoltura, né la corrispondente forma della proprietà fondiaria e dove quest’ultima di fatto non esiste minimamente. Così, ad esempio, Ricardo nel capitolo sulla rendita fondiaria. All’inizio egli dice di voler studiare l’effetto che ha l’appropriazione della terra sul valore dei prodotti della terra e subito dopo cita come esempio le colonie, sostenendo che la terra si presenta qui allo stato relativamente naturale e che il suo sfruttamento non è limitato dal monopolio della proprietà fondiaria.

La pura e semplice proprietà giuridica della terra non crea una rendita fondiaria al proprietario. Ma gli dà il potere di non sotto porre a sfruttamento il suo terreno, finché le condizioni economiche non gli permettano una valorizzazione di esso, che gli dia una eccedenza sia nel caso che la terra venga usata per l’agricoltura vera e propria, sia per altri scopi produttivi, come costruzioni  ecc.

Egli non può accrescere o diminuire la quantità assoluta di questo suo campo di attività, ma può farlo per quanto riguarda la quantità che si trova sul mercato. Per questa ragione, come ha già notato Fourier, è un fatto caratteristico che in tutti i paesi civilizzati una parte relativamente importante della terra è sempre sottratta alla coltivazione.

Supponendo allora che la domanda esiga il dissodamento di nuove terre, diciamo di terre meno fertili di quelle fino ad ora coltivate, forse che il proprietario darà in affitto queste terre gratis perché il prezzo di mercato dei prodotti agricoli ha raggiunto un livello tale che l’investimento di capitale su questa terra paga all’affittuario il prezzo di produzione e gli frutta perciò il profitto usuale? Niente affatto.

L’investimento di capitale gli deve fruttare una rendita. Egli lo affitta soltanto quando gli può esser pagato un affitto. Il prezzo di mercato deve esser salito dunque sopra il prezzo di produzione, a P + r, così che al proprietario fondiario possa essere pagata una rendita. Poiché, in base alla nostra premessa, la proprietà fondiaria fino a che non viene affidata non dà alcun introito, è economicamente priva di valore, un piccolo aumento del prezzo di mercato sopra il prezzo di produzione è sufficiente per portare sul mercato il nuovo terreno di tipo peggiore.

Ora si chiede: che cosa deriva dalla rendita fondiaria del terreno peggiore, che non può essere attribuita a un differente grado di fertilità? Che il prezzo del prodotto agricolo è necessariamente un prezzo di monopolio nel senso comune della parola, o un prezzo in cui la rendita entra, per la forma, come un’imposta, con la sola differenza che è prelevata dal proprietario fondiario invece che dallo Stato? Che questa imposta abbia i suoi determinati limiti economici è evidente. Essa è limitata dagli investimenti addizionali di capitale nelle vecchie affittanze, dalla concorrenza dei prodotti agricoli di paesi stranieri — presupposta la loro libera importazione — dalla concorrenza dei proprietari fondiari fra di loro, infine dal bisogno e dalla solvibilità dei consumatori. Ma non è questo il punto. Il punto è se la rendita pagata dal terreno peggiore passa nel prezzo del suo prodotto, prezzo che, secondo la nostra premessa, regola il prezzo generale di mercato allo stesso modo in cui un’imposta entra nel prezzo della merce che le è soggetta, in altre parole se questa rendita entra nel prezzo come un elemento indipendente del suo valore.

Ciò non consegue affatto necessariamente, ma è stato soltanto affermato perchè. la distinzione fra il valore delle merci e il loro prezzo di produzione finora non era stata compresa.

Abbiamo visto che il prezzo di produzione di una merce non è affatto identico al suo valore, quantunque i prezzi di produzione delle merci, considerate nel loro insieme, siano regolati solamente dal loro valore complessivo, e quantunque il movimento dei prezzi di produzione dei diversi tipi di merci, a parità di tutte le altre circostanze, sia regolato esclusivamente dal movimento dei loro valori.

È stato dimostrato che il prezzo di produzione di una merce può stare sopra o sotto il suo valore e che solo eccezionalmente coincide con esso.

Quindi il fatto che i prodotti del suolo siano venduti al di sopra del loro prezzo di produzione non significa in nessun modo che essi siano venduti al di sopra del loro valore; precisamente come il fatto che i prodotti dell’industria sono in media venduti al loro prezzo di produzione, non dimostra in nessun modo che essi siano venduti al loro valore. È possibile che i prodotti agricoli siano venduti al di sopra del loro prezzo di produzione e al di sotto del loro valore, come d’altro lato molti prodotti industriali fruttano il prezzo di produzione solamente perché sono venduti al di sopra del loro valore. Il rapporto fra il prezzo di produzione di una merce e il suo valore è determinato esclusivamente dal rapporto in cui la parte variabile del capitale con cui essa è prodotta sta alla sua parte costante, ossia dalla composizione organica del capitale che la produce.

Se la composizione del capitale, in una certa sfera di produzione, è inferiore a quella del capitale sociale medio, in altre parole, se la sua parte variabile spesa per i salari, è, rapportata alla sua parte costante spesa nelle condizioni materiali di lavoro, maggiore di quanto è nel capitale sociale medio, allora il valore del suo prodotto deve stare al di sopra del suo prezzo di produzione. In altre parole, un tale capitale, poiché impiega più lavoro vivo, al medesimo grado di sfruttamento del lavoro produce più plusvalore, dunque più profitto, di una eguale parte aliquota del capitale sociale medio.

Il valore del suo prodotto sta quindi sopra il suo prezzo di produzione, poiché il prezzo di produzione è uguale alla sostituzione del capitale più il profitto medio, e il profitto medio è inferiore al profitto prodotto in questa merce.

Il plusvalore prodotto dal capitale sociale medio è inferiore a quello prodotto da un capitale di questa composizione inferiore. Il contrario si verifica quando il capitale investito in una determinata sfera di produzione è di una composizione superiore a quella del capitale sociale medio. Il valore delle merci da esso prodotte è inferiore al loro prezzo di produzione, e questo è generalmente il caso dei prodotti delle industrie più sviluppate.

Se il capitale in una certa sfera di produzione ha una composizione inferiore a quella del capitale sociale medio, anzitutto ciò significa in altri termini soltanto che la forza produttiva del lavoro sociale in questa particolare sfera produttiva sta sotto il livello medio: poiché il livello raggiunto dalla forza produttiva si manifesta nella relativa preponderanza della parte costante del capitale su quella variabile, o nella continua diminuzione della parte aliquota pagata da un determinato capitale per i salari. D’altro lato, se il capitale in una certa sfera di produzione è di una composizione più elevata, ciò esprime uno sviluppo della forza produttiva superiore al livello medio.

Lasciando da parte il lavoro degli artisti, che è naturalmente escluso dalla nostra discussione, si comprende da sé che diverse sfere di produzione richiedono diverse proporzioni di capitale costante e di capitale variabile a seconda delle loro peculiarità tecniche, e che il lavoro vivo deve occupare in certe sfere più spazio che in altre. Ad esempio, nell’industria estrattiva, che deve essere chiaramente distinta dall’agricoltura, la materia prima come elemento del capitale costante è completamente assente, e anche la materia ausiliaria ha una funzione importante soltanto qua e là. Nell’industria mineraria, però, l’altra parte del capitale costante, il capitale fisso, ha una funzione importante. Tuttavia anche qui il progresso dello sviluppo si potrà misurare dal relativo incremento del capitale costante rispetto a quello variabile.

Se la composizione del capitale nell’agricoltura vera e propria è inferiore a quella del capitale sociale medio, ciò sarebbe prima facie una espressione del fatto che in paesi con una produzione sviluppata l’agricoltura non ha progredito di pari passo con l’industria che elabora i suoi prodotti. Un simile fatto potrebbe essere spiegato, indipendentemente da tutte le altre circostanze economiche che sono in parte decisive, già con il più precoce e più rapido sviluppo delle scienze meccaniche e specialmente con la loro applicazione, a paragone del più tardo e in parte recentissimo sviluppo della chimica, geologia e fisiologia, e particolarmente della loro applicazione al l’agricoltura. Del resto è un fatto indubitabile e da tempo conosciuto che il progresso dell’agricoltura si esprime sempre in un relativo incremento della parte costante del capitale rispetto alla parte variabile. Se in un determinato paese a produzione capitalistica, l’Inghilterra ad esempio, la composizione del capitale agricolo sia o no inferiore a quella del capitale sociale medio, è una questione che può essere decisa solo con le statistiche, e ai fini della presente ricerca riteniamo superfluo entrare in particolari a questo proposito. In ogni modo è teoricamente accertato che soltanto a questa condizione il valore dei prodotti agricoli può superare il loro prezzo di produzione; in altre parole il plusvalore creato da un capitale di determinata grandezza nell’agricoltura, oppure, il che è la stessa cosa, il pluslavoro da esso posto in movimento e diretto (quindi anche in generale il lavoro vivo impiegato) è maggiore di quello di un capitale di eguale grandezza di composizione sociale media.

Dunque per la forma di rendita che qui stiamo analizzando e che può verificarsi a questa condizione, è sufficiente questa premessa. Dove cade questa ipotesi, viene a mancare anche la forma, corrispondente di rendita.

Tuttavia, il semplice fatto di una eccedenza del valore dei prodotti agricoli al di sopra del loro prezzo di produzione, non basterebbe di per sè a spiegare l’esistenza di una rendita fondiaria indipendente dal differente grado di fertilità dei terreni o da successivi investimenti di capitale sul medesimo terreno, in breve di una rendita che deve essere chiaramente distinta dalla rendita differenziale e che noi possiamo perciò chiamare rendita assoluta.

Molti prodotti della manifattura godono della proprietà di avere un valore superiore al loro prezzo di produzione, senza tuttavia fruttare per questo motivo una eccedenza sopra il profitto medio, ovvero un plusprofitto, che si potrebbe trasformare in rendita. Al contrario.

Esistenza e concetto del prezzo di produzione, e del saggio generale del profitto che esso include, si fondano sul fatto che le singole merci non sono vendute al loro valore.

I prezzi di produzione derivano da un livellamento dei valori delle merci. Tale livellamento, dopo aver restituito i rispettivi valori-capitale consumati nelle diverse sfere di produzione, ripartisce il plusvalore complessivo, non nella proporzione in cui esso è stato prodotto nelle diverse sfere di produzione e quindi incorporato nei prodotti di queste, ma in rapporto alla grandezza del capitale in esse anticipato. Solo in questo modo viene creato un profitto medio e con ciò il prezzo di produzione delle merci, di cui questo profitto medio è elemento caratteristico.

I capitali tendono costantemente a realizzare, per mezzo della concorrenza, questo livellamento nella ripartizione del plusvalore creato dal capitale complessivo e a superare tutti gli ostacoli che si oppongono a questo livellamento. Essi tendono, quindi, a permettere solamente quei plusprofitti che derivano in tutti i casi non dalla differenza fra i valori e i prezzi di produzione delle merci, ma dal prezzo di produzione generale che regola il mercato e dai prezzi di produzione individuali che differiscono da esso. Infatti, sono tollerati unicamente quei plusprofitti che non hanno luogo fra due diverse sfere di produzione, ma all’interno di ogni sfera di produzione, ossia non alterano i prezzi generali di produzione delle diverse sfere, cioè il loro saggio generale di profitto, ma piuttosto hanno per premessa la conversione dei valori nei prezzi di produzione e in un saggio generale del profitto. Questa premessa si fonda tuttavia, come si è prima spiegato, sulla distribuzione proporzionale e continuamente mutevole del capitale complessivo sociale fra le diverse sfere di produzione, sulla incessante emigrazione e immigrazione dei capitali, sulla loro trasferibilità da una sfera all’altra, in breve sul loro libero movimento fra queste diverse sfere di produzione, che rappresentano altrettanti campi di investimenti disponibili per le porzioni autonome del capitale complessivo sociale. E l’altra premessa in questo caso è che nessun ostacolo, o almeno solamente un ostacolo casuale e temporaneo, impedisca alla concorrenza dei capitali, — ad esempio in una sfera di produzione in cui il valore delle merci è superiore al loro prezzo di produzione o in cui il plusvalore prodotto è superiore al profitto medio — di ridurre il valore al prezzo di produzione e di distribuire così proporzionalmente l’eccedenza di plusvalore di questa sfera di produzione fra tutte le sfere sfruttate del capitale.

Ma se si verifica il caso contrario, se il capitale incontra una forza estranea, che non può superare, o che può superare solo parzialmente, e che limita il suo investimento in particolari sfere di produzione, ammettendolo solamente a certe condizioni che totalmente o parzialmente escludono quel generale livellamento del plusvalore al profitto medio, è evidente allora che in tali sfere di produzione l’eccedenza del valore e delle merci al di sopra dei loro prezzi di produzione verrebbe a creare un plusprofitto, che potrebbe essere trasformato in rendita e reso autonomo, in quanto tale, rispetto al profitto. Ma appunto come una tale forza estranea, come una tale barriera la proprietà fondiaria si contrappone al capitale nei suoi investimenti nella terra, ossia il proprietario fondiario si contrappone al capitalista.

La proprietà fondiaria è qui la barriera che non permette nessun nuovo investimento di capitale sul terreno finora non coltivato o non affidato, senza prelevare una tassa, in altre parole senza pretendere una rendita, quantunque la terra messa a coltura sia di un tipo che non frutta alcuna rendita differenziale e che, se non esistesse la proprietà fondiaria, avrebbe già potuto essere coltivato con un aumento minimo del prezzo di mercato, di modo che il prezzo di mercato regolatore avrebbe pagato al coltivatore di questo terreno peggiore soltanto il suo prezzo di produzione. Ma, in conseguenza del limite posto dalla proprietà fondiaria, il prezzo di mercato deve accrescersi fino a un punto in cui la terra può pagare una eccedenza sul prezzo di produzione, ossia una rendita. Ora, poiché, secondo la nostra premessa, il valore delle merci prodotte dal capitale agricolo è più elevato del loro prezzo di produzione, questa rendita costituisce (ad eccezione di un caso che esamineremo immediatamente) l’eccedenza del valore sul prezzo di produzione o una parte dì essa.

Che la rendita corrisponda all’intera differenza fra il valore e il prezzo di produzione, oppure sia soltanto uguale ad una parte maggiore o minore di questa differenza, dipenderà completamente dal rapporto fra domanda e offerta e dall’estensione della terra messa a coltura.

Nella misura in cui la rendita non è uguale all’eccedenza del valore dei prodotti agricoli sul loro prezzo di produzione, una parte di questa eccedenza entrerà sempre nel livellamento generale e nella ripartizione proporzionale del plusvalore complessivo fra i diversi capitali individuali. Quando la rendita è uguale all’eccedenza del valore sul prezzo di produzione, tutta questa parte del plusvalore che eccede il profitto medio sarebbe sottratta a questo livellamento.

Ma sia che questa rendita assoluta sia uguale a tutta l’eccedenza del valore sul prezzo di produzione, sia che sia uguale soltanto a una parte di essa, i prodotti agricoli verrebbero sempre venduti a un prezzo di monopolio, non perché il loro prezzo eccederebbe il loro valore, ma perché sarebbe uguale al loro valore, o inferiore al loro valore, ma superiore al loro prezzo di produzione.

Il loro monopolio consisterebbe nel fatto che essi, a differenza degli altri prodotti dell’industria il cui valore è superiore al prezzo generale di produzione, non vengono livellati al prezzo di produzione.

Poiché una parte del valore, come pure del prezzo di produzione, è una costante concretamente data, cioè il prezzo di costo, rappresentante il capitale consumato nella produzione, = k, la loro differenza sta nell’altra parte, quella variabile, il plusvalore, che nel prezzo di produzione è uguale a (p), al profitto, ossia è uguale al plusvalore complessivo, calcolato in base al capitale sociale e ad ogni capitale individuale come parte aliquota del capitale sociale. Nel valore della merce questo profitto è uguale all’effettivo plusvalore creato da questo capitale particolare e costituisce una parte integrante dei valori-merci da esso creati. Se il valore della merce è superiore al suo prezzo di produzione, il prezzo di produzione è k + p, il valore k + p + d, cosicché p + d  rappresenta il plusvalore in essa contenuto. La differenza fra il valore e il prezzo di produzione è quindi uguale a d, all’eccedenza che il plusvalore creato da questo capitale presenta sul plusvalore assegnato a questo capitale dal saggio del profitto. Da ciò consegue che il prezzo dei prodotti agricoli può essere superiore al loro prezzo di produzione, senza raggiungere il loro valore.

Ne consegue, inoltre, che fino a un certo punto si può verificare un incremento costante nel prezzo dei prodotti agricoli, prima che il loro prezzo raggiunga il loro valore. Ne consegue parimenti che l’eccedenza di valore dei prodotti agricoli sopra il loro prezzo di produzione può diventare un elemento determinante del loro prezzo di mercato generale, solamente perché vi è un monopolio della proprietà fondiaria. Ne consegue, infine, che in questo caso non è l’aumento del prezzo del prodotto che è la causa della rendita, ma piuttosto la rendita è la causa dell’aumento del prezzo del prodotto. Se il prezzo del prodotto per unità di superficie del terreno peggiore è uguale a P + r, tutte le rendite differenziali si accresceranno dei corrispondenti multipli di r, perché, secondo la premessa, P + r diventa il prezzo di mercato regolatore.

Se la composizione media del capitale sociale non agricolo fosse 85c + 15 v, e il saggio del plusvalore = 100% il prezzo di produzione sarebbe 115. Se la composizione del capitale agricolo fosse 75c + 25v, supponendo uguale il saggio del plusvalore, il valore del prodotto agricolo e il valore di mercato regolatore sarebbe 125. Se il prodotto agricolo e il prodotto non agricolo fossero livellati al medesimo prezzo medio (per amore di brevità supponiamo che il capitale complessivo in entrambi i rami di produzione sia uguale), il plusvalore complessivo sarebbe 40, quindi 20% sui 200 di capitale. Il prodotto dell’uno e dell’altro verrebbe venduto a 120.

 

c

v

C

pv =p

pv%

Valore della merce

p’

Prezzo di produzione

Industria

85

15

100

15

100

115

15

120

Agricoltura

75

25

100

25

100

125

25

120

totale

160

40

200

40

 

 

 

 

Valor medio

80

20

100

20

 

 

20

 

Nel livellamento ai prezzi di produzione, i prezzi di mercato medi dei prodotti non agricoli verrebbero ad essere superiori al loro valore, e quelli dei prodotti agricoli inferiori. Se i prodotti agricoli fossero venduti al loro pieno valore, sarebbero di 5 più cari e quelli industriali di 5 meno cari che nel caso di livellamento. Se le condizioni di mercato non permettono che i prodotti agricoli vengano venduti al loro pieno valore, alla piena eccedenza sul prezzo di produzione, il risultato sta fra i due estremi: i prodotti industriali vengono venduti un poco al di sopra del loro valore ed i prodotti agricoli un poco al di sopra del loro prezzo di produzione.

Sebbene la proprietà fondiaria possa spingere il prezzo dei prodotti agricoli sopra il loro prezzo di produzione, non dipende da questa proprietà, ma dalla situazione generale del mercato, il grado in cui il prezzo di mercato eccederà il prezzo di produzione e si avvicinerà al valore, e fino a quale misura il plusvalore creato nell’agricoltura, al di sopra del profitto medio dato, si trasformerà in rendita o entrerà nel livellamento generale del plusvalore al profitto medio. In ogni caso questa rendita assoluta, che deriva dall’eccedenza dei valore sul prezzo di produzione, non è che una parte del plusvalore agricolo, una trasformazione di questo plusvalore in rendita, la sua appropriazione da parte del proprietario fondiario: precisamente come la rendita differenziale deriva dalla trasformazione del plusprofitto in rendita, dalla sua appropriazione da parte della proprietà fondiaria, a un prezzo di produzione che agisce come regolatore generale. Queste due forme di rendita sono le uniche normali. All’infuori di esse la rendita può fondarsi unicamente sul prezzo di monopolio vero e proprio, che non è determinato né dal prezzo di produzione, né dal valore delle merci, ma soltanto dal bisogno e dalla solvibilità del compratore, e la cui analisi appartiene alla teoria della concorrenza, dove viene indagato l’effettivo movimento dei prezzi di mercato.

Se, in un paese, tutta la terra coltivabile fosse affittata, presupposti in generale il modo di produzione capitalistico e condizioni normali, non esisterebbe alcun terreno che non fruttasse una rendita, ma si potrebbero avere investimenti di capitale, singole parti del capitale investito nella terra, che non fruttano rendita; perché non appena la terra è stata data in affitto, la proprietà fondiaria cessa di agire come limite assoluto al necessario investimento di capitale. Essa continua ad agire come limite relativo anche allora, in quanto il fatto che il capitale incorporato nella terra finisce nelle mani del proprietario fondiario pone limiti molto precisi all’affittuario. Soltanto in questo caso ogni rendita si trasformerebbe in rendita differenziale, in una rendita differenziale determinata non dal differente grado di fertilità del terreno, ma dalla differenza fra i plusprofitti, che sussistono dopo gli ultimi investimenti di capitale in un certo terreno, e la rendita che viene pagata per l’affitto del terreno della qualità peggiore. La proprietà fondiaria agisce come limite assoluto solo in quanto è richiesto un tributo in favore del proprietario fondiario per avere in generale il permesso di accedere alla terra come a un campo di investimento del capitale. Una volta che questa concessione è avvenuta, il proprietario fondiario non può più opporre limiti assoluti alla estensione quantitativa dell’investimento di capitale in un determinato terreno. La costruzione di case in generale trova un limite nella proprietà fondiaria in quanto il terreno su cui la casa deve essere costruita è in mano di terzi. Ma una volta che questo terreno è stato affittato perché vi si costruisca dipende dall’affittuario se egli vuole costruire una casa grande o piccola.

Se la composizione media del capitale agricolo fosse uguale o più elevata di quella del capitale sociale medio, la rendita assoluta, sempre nel senso da noi indicato, scomparirebbe; ossia la rendita che è distinta sia dalla differenziale che dalla rendita fondata sul prezzo di monopolio vero e proprio. Il valore del prodotto agricolo non sarebbe in questo caso superiore al suo prezzo di produzione, e il capitale agricolo non metterebbe in movimento una quantità di lavoro maggiore, non realizzerebbe quindi una quantità di pluslavoro maggiore di quella realizzata dal capitale non agricolo. Lo stesso fatto si verificherebbe se la composizione del capitale agricolo, con il progresso dell’agricoltura, diventasse uguale a quella del capitale sociale medio.

Sembra a prima vista una contraddizione supporre che da un lato la composizione del capitale agricolo si elevi e quindi si accresca la sua parte costante rispetto alla variabile, e che d’altro lato il prezzo del prodotto agricolo salga a un livello tale da permettere il pagamento di una rendita da parte di terreno nuovo e peggiore di quello precedentemente coltivato, rendita che in questo caso potrebbe provenire unicamente dall’eccedenza del prezzo di mercato sul valore e sul prezzo di produzione, in breve da un prezzo di monopolio del prodotto.

Si deve qui fare una distinzione.

In primo luogo abbiamo visto, nell’analisi della formazione del saggio del profitto, che capitali, tecnologicamente della stessa composizione, che cioè mettono in movimento la medesima quantità di lavoro in rapporto al macchinario e alle materie prime, possono tuttavia avere una differente composizione in conseguenza dei di versi valori delle parti costanti del capitale. Le materie prime o il macchinario possono essere in un caso più care che nell’altro. Per mettere in movimento la medesima massa di lavoro (e questo sarebbe necessario in base alla nostra premessa, perché la medesima massa di materia prima possa essere lavorata) dovrebbe essere anticipato un capitale maggiore in un caso che nell’altro, poiché, ad esempio, non si può mettere in movimento con un capitale di 100 la medesima quantità di lavoro, se la materia prima, che del pari deve essere pagata con i 100, in un caso costa 40, nell’altro 20. Ma diventerebbe evidente che questi due capitali hanno la medesima composizione tecnologica, non appena il prezzo della materia prima più cara scendesse al livello di quella più a buon mercato. I rapporti di valore fra capitale costante e variabile sarebbero in questo caso divenuti uguali, pur non verificandosi mutamenti nel rapporto tecnico fra il lavoro vivo impiegato e la massa e natura delle condizioni di lavoro impiegate. D’altro lato, un capitale di composizione organica inferiore, in virtù di un semplice aumento di valore delle sue parti costanti, può, se considerato unicamente secondo la composizione di valore, porsi in apparenza allo stesso livello di un capitale di composizione organica superiore.

Un capitale, ad esempio, può essere = 60c + 40v, perché impiega molto macchinario e materia prima in rapporto alla forza-lavoro viva e un altro capitale può essere 40c + 60v, perché impiega molto lavoro vivo (60%) e poco macchinario (poniamo 10%) e, in rapporto alla forza-lavoro, poca materia prima e a buon prezzo (poniamo 30%); in questo caso un semplice aumento nel valore della materia prima e ausiliaria da 30 a 80 livellerebbe la composizione, così che ora il secondo capitale sarebbe composto di 10 macchinario, 80 materia prima e 60 forza lavoro, quindi 90c + 60v, il che in percentuale rappresenta parimenti 60c + 40v, senza che si sia verificato nessun cambiamento tecnico nella sua composizione.

Capitali di uguale composizione tecnica possono, dunque, avere una diversa composizione di valore e capitali con la medesima composizione percentuale di valore possono essere a diversi livelli di composizione organica ed esprimere quindi diversi gradi di sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro.

Il semplice fatto che, per quanto riguarda la composizione di valore, il capitale agricolo si trovi al livello generale, non proverebbe quindi che la forza produttiva sociale del lavoro sia in esso ugualmente sviluppata. Questo fatto potrebbe dimostrare unicamente che il prodotto del capitale agricolo, che costituisce a sua volta una parte delle condizioni di produzione di questo capitale, è più caro, o che materie ausiliarie, come il concime, che prima erano più a portata di mano, devono essere ora trasportate da luoghi distanti, e così via.

Ma anche facendo astrazione da ciò, bisogna prendere in considerazione il carattere particolare dell’agricoltura.

Supposto che il macchinario che risparmia lavoro, i mezzi sussidiari chimici ecc. assumano nell’agricoltura un peso maggiore, così che il capitale costante aumenti tecnicamente, non soltanto nel valore, ma anche nella massa, rispetto alla massa della forza-lavoro impiegata, ciò che conta nell’agricoltura (come nell’industria mineraria) non è soltanto la produttività sociale del lavoro, ma anche la sua produttività naturale, che dipende dalle sue condizioni naturali. È possibile che l’accrescersi della forza produttiva sociale nell’agricoltura compensi soltanto la diminuzione della forza naturale, oppure non riesca nemmeno a compensarla — questa compensazione può essere sempre solo temporanea — così che in questo campo, nonostante lo sviluppo tecnico, il prodotto non diminuisce di prezzo, ma ne viene solo impedito un rincaro ancora maggiore. È anche possibile che la massa assoluta del prodotto decresca mentre aumenta il prezzo dei cereali, e si accresce il plusprodotto relativo; ciò potrebbe verificarsi se il capitale costante, che consiste in gran parte di macchine o di bestiame, che richiedono semplicemente una sostituzione del loro logorio, si accrescesse relativamente, e se la parte di capitale variabile sborsata in salari e che deve essere sempre sostituita interamente con il prodotto, diminuisse in modo corrispondente.

Il fatto, ad esempio, che nell’allevamento del bestiame su larga scala la massa della forza-lavoro è molto piccola in confronto al capitale costante rappresentato dal bestiame stesso, potrebbe essere considerato un argomento decisivo contro la tesi che il capitale agricolo, calcolato in percentuale, mette in movimento una quantità di forza-lavoro maggiore di quella impiegata dal capitale sociale medio non agricolo. Si deve però notare qui che noi fondiamo la nostra analisi della rendita su quella parte del capitale agricolo che produce il principale prodotto alimentare vegetale, il principale mezzo di sussistenza presso i popoli civili, essendo tale parte l’elemento determinante. A. Smith — e ciò è uno dei suoi meriti — ha già dimostrato che nell’allevamento del bestiame, e in generale nella media dei capitali investiti nella terra non per la produzione dei principali mezzi di sussistenza, cioè, per es., del grano, il prezzo viene determinato in modo completamente diverso. In questo caso il prezzo è determinato precisamente dal fatto che il prezzo del prodotto del terreno, usato, per esempio, come prato artificiale per l’allevamento del bestiame, ma che potrebbe essere parimenti trasformato in seminativo di una certa qualità, deve accrescersi tanto da fruttare la stessa rendita di un seminativo della stessa qualità; la rendita della terra coltivata a grano entra quindi come elemento determinante nel prezzo del bestiame: per questa ragione Ramsay ha giustamente osservato che in questo modo il prezzo del bestiame viene artificialmente accresciuto dalla rendita, espressione economica della proprietà fondiaria, quindi dalla proprietà fondiaria.

«In conseguenza dell’estendersi delle colture la terra incolta non è più sufficiente a soddisfare la domanda di bestiame da macello. Una gran parte delle terre coltivate deve essere impiegata nell’allevamento e nell’ingrasso del bestiame, il cui prezzo quindi deve essere sufficiente a pagare non solo il lavoro necessario a tale scopo, ma anche la rendita che il proprietario fondiario ed il profitto che l’affittuario avrebbero potuto estrarre da questa terra qualora fosse stata coltivata come un campo. Il bestiame allevato sui muschi di torbiera meno coltivati, è venduto, in relazione al suo prezzo ed alla sua qualità sullo stesso mercato, al medesimo prezzo di quello allevato nella terra coltivata. I proprietari di queste torbiere a muschio approfittano di ciò ed accrescono la rendita delle loro terre in proporzione ai prezzi del bestiame» (A. SMITH [Wealth of Nations], Libro I, cap. XI, parte I [EDiz. Wakefield, Londra, 1835-39, tomo II, p. 9 sg.]). In questo caso dunque, a differenza della rendita in grano, vi è una rendita differenziale anche a favore del terreno peggiore.

La rendita assoluta spiega alcuni fenomeni che a prima vista sembrano indicare che la rendita sia dovuta a un semplice prezzo di monopolio.

Prendiamo, per riallacciarci all’esempio di Adam Smith, il possessore di un bosco che non ha subito l’intervento dell’uomo, quindi non sia prodotto del rimboschimento, poniamo, in Norvegia. Se questo possessore del bosco riceve una rendita da un capitalista che fa tagliare il legname, perché, ad esempio, ve ne è richiesta in Inghilterra, o se il possessore stesso fa tagliare il legname in veste di capitalista, allora in aggiunta al profitto sul capitale anticipato, ricava dal legname una rendita più o meno grande. Nel caso di questo prodotto puramente naturale, ciò appare come un puro e semplice sovrapprezzo di monopolio. Ma in realtà il capitale consiste qui quasi esclusivamente dì capitale variabile, dì capitale sborsato in lavoro, e quindi esso mette in movimento una maggiore quantità di pluslavoro che non un altro capitale di uguale grandezza. Il valore del legname contiene quindi una eccedenza di lavoro non pagato, ossia di plusvalore, maggiore di quella che contiene un prodotto di capitali aventi una più elevata composizione organica. Per tale ragione da questo legname può essere ricavato il profitto medio e al proprietario del bosco può toccare una eccedenza considerevole sotto forma di rendita. D’altro lato vi è da supporre che, per la facilità con cui il taglio del legname può essere esteso e quindi questa produzione può rapidamente accrescersi, la domanda debba aumentare in modo considerevole perché il prezzo del legname coincide con il suo valore, e quindi tutta l’eccedenza di lavoro non pagato (oltre quella parte che tocca al capitalista, come profitto medio) tocchi al proprietario sotto forma di rendita.

Abbiamo supposto che il nuovo terreno messo a coltura sia di qualità ancora inferiore a quello peggiore precedentemente coltivato. Se è migliore, frutta una rendita differenziale. Ma noi stiamo analizzando qui precisamente il caso in cui la rendita non si manifesta come rendita differenziale. Allora solo due casi sono possibili. Il terreno di nuova coltivazione è inferiore a quello precedentemente coltivato, oppure è della stessa qualità. Se è peggiore, la questione è già stata analizzata. Rimane quindi ancora da analizzare soltanto il caso in cui esso sia della stessa qualità.

Come abbiamo già indicato nella nostra analisi della rendita differenziale, col progresso dell’agricoltura possono essere messi a coltura terreni sia di qualità uguali o addirittura migliori che di qualità peggiore.

Primo: Perché nella rendita differenziale (o nella rendita in genere, poiché anche nel caso della rendita non differenziale si presenta sempre la questione se da un lato la fertilità del terreno in generale e dall’altro lato la sua posizione permettono di coltivarlo al prezzo di mercato regolatore con profitto e rendita) due condizioni operano in direzione opposta, ora paralizzandosi reciproca mente, ora esercitando alternativamente la influenza determinante. Presupposto che il prezzo di costo della coltivazione non sia caduto, in altre parole, presupposto che progressi di natura tecnica non costituiscano un nuovo elemento per una nuova coltivazione, l’aumento del prezzo di mercato può far sì che sia messo a coltura terreno più fertile, che prima era escluso dalla concorrenza a causa della sua posizione. Oppure può, nel caso di terreno meno fertile, accrescere il vantaggio della posizione a tal punto che la minore produttività ne risulta compensata. Oppure, senza alcun aumento nel prezzo di mercato, la posizione può mettere in concorrenza i terreni migliori, in seguito al miglioramento dei mezzi di comunicazione, come vediamo su larga scala negli Stati delle praterie nord- americane. Ciò si verifica continuamente, anche nei paesi di antica civiltà, sebbene non nella stessa misura come nelle colonie, in cui, come Wakefield giustamente nota, la posizione è l’elemento determinante. Dunque, per riassumere il primo punto, gli effetti contraddittori di posizioni e di fertilità e la variabilità del fattore della posizione, che è continuamente equilibrato e passa perpetuamente attraverso cambiamenti progressivi che tendono verso un equilibrio, mettono alternativamente in una nuova concorrenza, con i terreni di vecchia coltivazione, appezzamenti di terra di pari qualità, migliori o peggiori.

Secondo: Con lo sviluppo delle scienze naturali o dell’agronomia si modifica anche la fertilità della terra, modificandosi i mezzi con i quali gli elementi del terreno possono essere resi immediatamente sfruttabili. In tal modo terreni leggeri in Francia e nelle contee orientali dell’Inghilterra, che precedentemente erano reputati cattivi, nei tempi più recenti sono saliti al livello dei migliori (vedi Passy). D’altro lato, terreno che era considerato cattivo, non a causa della sua composizione chimica, ma soltanto perché opponeva alla coltivazione certi ostacoli meccanici e fisici, si trasforma in terra buona, non appena sono stati scoperti i mezzi per superare tali ostacoli.

Terzo: In tutti i paesi di antica civiltà, certe antiche condizioni storiche e tradizionali, ad esempio demani pubblici, terre comunali, ecc. hanno sottratto alla coltivazione, per motivi puramente casuali, importanti estensioni di terreno che vi entrano soltanto gradualmente. La successione in cui sono messi a coltura, non di pende né dalla loro qualità, né dalla loro posizione, ma da circostanze completamente esterne. Se si seguisse la storia delle terre comunali inglesi, come esse successivamente sono state trasformate in proprietà privata, mediante enclosure bills, e rese coltivabili, nulla apparirebbe più ridicolo della fantastica ipotesi secondo la quale un moderno chimico agrario, Liebig ad esempio, avrebbe diretto la scelta di questa progressione, indicando per la coltivazione certi campi in virtù delle loro proprietà chimiche ed escludendone altri. Il fattore decisivo fu qui piuttosto l’occasione che fa l’uomo ladro, cioè i più o meno plausibili pretesti giuridici che si offrivano per l’appropriazione ai grandi proprietari fondiari.

Quarto: Indipendentemente dal fatto che il grado di sviluppo successivamente raggiunto dall’accrescimento della popolazione e del capitale pone un limite, sia pure elastico, all’ampliamento della coltivazione; indipendentemente dagli effetti di fattori accidentali che esercitano una temporanea influenza sul prezzo di mercato — come per esempio una serie di stagioni favorevoli o sfavorevoli —, l’estensione della coltivazione agricola su una scala più larga dipende dalle condizioni generali del mercato del capitale e dalla situazione degli affari di un dato paese. In periodi di scarsità di capitale, non sarà sufficiente che terreni non coltivati possano fruttare il profitto medio per l’affittuario — che paghi o no una rendita — perché capitale addizionale venga investito nell’agricoltura. In altri periodi, contraddistinti da una pletora di capitali, questo affluisce nell’agricoltura anche senza aumento dei prezzi di mercato, purché per il resto le condizioni siano normali. Terreni migliori di quelli ancora coltivati sarebbero in realtà esclusi dalla concorrenza soltanto a causa della loro posizione, o per ostacoli finora non eliminati o per cause accidentali. Perciò noi ci dobbiamo unicamente occupare di tipi di terreno che hanno le stesse qualità di quelli coltivati per ultimi. Ora fra il nuovo terreno e l’ultimo coltivato vi è sempre la differenza delle spese di preparazione alla coltivazione, e che questa venga intrapresa o no dipende dal livello dei prezzi di mercato o dalle condizioni del credito. Non appena questo terreno entra di fatto in concorrenza, il prezzo di mercato, a parità di altre circostanze, scende di nuovo al suo livello precedente, e il nuovo terreno produrrà la stessa rendita del vecchio terreno corrispondente. Coloro che sostengono la tesi che esso non darà rendita, la dimostrano presupponendo ciò che deve essere dimostrato, cioè: che l’ultimo terreno non ha dato rendita. Si potrebbe allo stesso modo dimostrare che le case costruite per ultime non fruttano rendita, eccettuato il vero e proprio affitto del fabbricato, sebbene siano date in affitto. Sta di fatto che esse fruttano una rendita, ancor prima di dare un affitto, quando rimangono vuote per molto tempo. Precisamente come successivi investimenti di capitale in un certo appezzamento di terra possono dare un provento eccedente proporzionale, e quindi la medesima rendita dei primi investimenti, così campi che hanno la medesima qualità degli ultimi messi a coltura, possono dare il medesimo provento al medesimo costo. Sarebbe altrimenti inspiegabile come campi della medesima qualità possano essere messi a coltura successivamente e non tutti in una volta, e piuttosto non ne venga messo a coltura nemmeno uno per evitare che si trascini tutti gli altri in concorrenza. Il proprietario fondiario è sempre pronto a prendere una rendita, ossia a ricevere qualche cosa gratis; ma il capitale ha bisogno di certe condizioni per soddisfare il desiderio del proprietario fondiario. La concorrenza delle terre fra di loro non dipende quindi dal fatto che il proprietario fondiario le vuol mettere in concorrenza, ma dal fatto che si trovi del capitale che si metta in concorrenza con gli altri su nuovi terreni.

In quanto la rendita agricola vera e propria è puramente un prezzo di monopolio, tale prezzo non può essere che basso, come pure la rendita assoluta in condizioni normali non può essere che bassa, quantunque possa essere l’eccedenza del valore del prodotto sul suo prezzo di produzione.

La sostanza della rendita assoluta consiste quindi in questo: capitali di pari grandezza in diverse sfere di produzione producono, a seconda della loro diversa composizione media, allo stesso saggio del plusvalore o allo stesso grado di sfruttamento del lavoro, masse diverse di plusvalore. Nell’industria queste diverse masse di plusvalore si livellano al profitto medio e si distribuiscono uniformemente fra i singoli capitali in quanto parti aliquote del capitale sociale. La proprietà fondiaria, non appena la produzione richiede terra sia per l’agricoltura che per l’estrazione di materie prime, impedisce un tale livellamento fra i capitali investiti nella terra e si appropria una porzione del plusvalore che altrimenti parteciperebbe al livellamento che porta al saggio generale del profitto. La rendita costituisce, allora, una parte del valore, più specificamente del plusvalore delle merci, che, invece di toccare alla classe dei capitalisti che l’ha estorta ai lavoratori, tocca ai proprietari fondiari, che la estorcono ai capitalisti. Si presuppone qui che il capitale agricolo metta in movimento una quantità di lavoro maggiore di un capitale non agricolo di pari grandezza. L’entità di questa differenza o in genere la sua presenza dipendono dallo sviluppo relativo dell’agricoltura rispetto all’industria. Secondo la natura della cosa, questa differenza deve diminuire con il progresso dell’agricoltura, a meno che il rapporto secondo cui il capitale variabile diminuisce rispetto al costante non sia ancora maggiore nel capitale industriale che nel capitale agricolo.

Questa rendita assoluta occupa un posto ancora più importante nell’industria estrattiva vera e propria, in cui un elemento del capitale costante, cioè la materia prima, scompare completamente, e in cui, ad eccezione di quei rami dove la parte consistente in macchinari e altro capitale fisso è molto considerevole, esiste indubbiamente la più bassa composizione di capitale. Proprio qui, dove la rendita sembra dovuta esclusivamente a un prezzo di monopolio, sono necessarie condizioni di mercato estremamente favorevoli perché le merci vengano vendute al loro valore o la rendita possa diventare uguale all’intera eccedenza del plusvalore della merce sopra il suo prezzo di produzione. Così ad esempio, per la rendita nelle acque da pesca, nelle cave di pietra, nelle foreste che si sono sviluppate naturalmente, ecc.

 

AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni);

2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura;

a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

b –  diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle;

c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘).

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio.

In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm