IL CAPITALE

LIBRO III

SEZIONE V

SUDDIVISIONE DEL PROFITTO IN INTERESSE
E GUADAGNO D’IMPRENDITORE.

IL CAPITALE PRODUTTIVO D’INTERESSE.

CAPITOLO 30

CAPITALE MONETARIO E CAPITALE EFFETTIVO (1)

Le uniche questioni difficili che devono ora essere esaminate in rapporto al sistema creditizio sono le seguenti:

Primo: l’accumulazione del capitale monetario propriamente detto.

Fino a qual punto essa è o non è un indice della effettiva accumulazione del capitale, ossia della riproduzione allargata?

La cosiddetta pletora di capitale, espressione questa che viene usata sempre unicamente in riferimento al capitale produttivo d’interesse ossia al capitale monetario, è soltanto un modo particolare per designare la sovrapproduzione industriale o costituisce uno speciale fenomeno collaterale?

Questa pletora, questa offerta eccessiva di capitale monetario coincide con l’esistenza di masse monetarie stagnanti (lingotti, moneta aurea e banconote) di modo che tale sovrabbondanza di denaro reale è effettivamente espressione e manifestazione di questa pletora di capitale disponibile per il prestito?

Secondo: fino a qual punto la difficoltà monetaria, ossia la mancanza di denaro disponibile per il prestito, esprime la mancanza di capitale reale (capitale-merce e capitale produttivo)?

E fino a qual punto, d’altro lato, essa coincide con la mancanza di denaro in quanto tale, mancanza di mezzi di circolazione?

La forma particolare dell’accumulazione del capitale monetario e del patrimonio monetario, di cui ci siamo in generale fino ad ora occupati, si è risolta in definitiva in una accumulazione dei diritti della proprietà sul lavoro. L’accumulazione del capitale del debito pubblico non esprime altro, come si è visto, che il rafforzarsi di una classe di creditori di Stato autorizzati a prelevare a loro favore certe somme sul gettito delle imposte  (I titoli di Stato non sono altro che il capitale immaginario rappresentante la parte determinata del reddito annuo destinata al pagamento dei debiti. Un capitale di pari grandezza è stato sprecato; tale capitale serve da denominatore al prestito, ma non è quello rappresentato dai valori di Stato, poiché esso ormai non esiste più. Frattanto dal lavoro dell’industria devono sorgere nuove ricchezze; una quota annua di tali ricchezze viene assegnata in anticipo a coloro che avevano prestato quelle ricchezze sprecate; tale quota viene tolta per mezzo delle imposte a coloro che producono le ricchezze per essere distribuita ai creditori dello Stato e, in base al rapporto in uso nel paese fra il capitale e l’interesse, si suppone un capitale immaginario di una grandezza pari a quella del capitale da cui potrebbe derivare la rendita annua che i creditori devono ricevere (SISMONDI, Nouveaux Principes [Parigi 1819], II, p. 229 e 230).

In questo, cioè nel fatto che  perfino una accumulazione di debiti possa apparire come accumulazione di capitale, si manifesta nella sua pienezza il capovolgimento che avviene nel sistema creditizio. Questi titoli di credito che sono rilasciati in cambio del capitale dato originariamente in prestito e da tempo speso, questi duplicati cartacei di capitale distrutto, esercitano per chi li possiede la funzione di capitale, in quanto sono merci vendibili e perciò possono essere ritrasformati in capitale.

I titoli di proprietà su imprese di società, ferrovie, miniere ecc., sono effettivamente, come noi abbiamo parimenti visto, titoli su capitale effettivo. Ciò nondimeno essi non permettono di disporre di questo capitale, che non può venir ritirato: conferiscono semplicemente diritti legali su una parte del plusvalore che dovrà essere da esso creato. Ma anche questi titoli diventano un duplicato cartaceo del capitale effettivo; come se la polizza di carico avesse un valore indipendentemente dal carico e contemporaneamente ad esso. Essi si trasformano in rappresentanti nominali di capitali inesistenti. Poiché il capitale effettivo esiste indipendentemente da esse e non muta affatto di mano se questi duplicati cambiano di mano. Essi diventano forme di capitale produttivo d’interesse, non soltanto perché assicurano certi proventi anche perché con la vendita si può effettuarne il rimborso come valori-capitale. In quanto l’accumulazione di questi titoli esprime l’accumulazione di ferrovie, miniere, navi ecc., essa esprime l’allargamento del processo effettivo di riproduzione, precisamente come l’ampliamento di un ruolo d’imposta, ad esempio quello che riguarda la proprietà mobiliare, è un indice della espansione di tali beni mobili. Ma in quanto duplicati, che sono essi stessi negoziabili come merci e circolano quindi come valori - capitale, essi sono fittizi e il loro valore può accrescersi o diminuire con un movimento del tutto indipendente da quello del valore del capitale effettivo di cui sono titoli. Il loro valore, ossia la loro quotazione in borsa, ha necessariamente una tendenza al rialzo quando il saggio dell’interesse diminuisce, poiché ciò, indipendentemente dai movimenti propri del capitale monetario, è semplice conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto; di modo che questa ricchezza immaginaria, già per questo motivo cresce nel corso dello sviluppo della produzione capitalistica, in conseguenza dell’aumento di valore di ognuna delle sue parti aliquote, aventi determinato valore nominale originario (Una parte del capitale monetario accumulato disponibile per il prestito non è in realtà che una semplice espressione di capitale industriale. Se, ad esempio, l’Inghilterra verso il 1857 ha investito 80 milioni di Lst. nelle ferrovie americane ed in altre imprese, questo investimento fu quasi interamente reso possibile dalla esportazione di merci inglesi, per le quali gli americani non dovevano effettuare alcun rimborso. L’esportatore inglese spiccò per queste merci cambiali sull’America, che furono acquistate dagli azionisti inglesi e spedite in America in pagamento dell’importo delle azioni). I profitti e le perdite provenienti dalle oscillazioni di prezzo di questi titoli di proprietà, come pure il loro accentramento nelle mani di re delle ferrovie ecc., diventano sempre più, secondo la natura delle cose, risultato del giuoco, che si presenta, invece del lavoro, come il modo originario di appropriarsi il capitale e prende anche il posto della violenza diretta. Questo tipo di patrimonio monetario fittizio non rappresenta soltanto, come abbiamo già accennato, una parte considerevole del patrimonio monetario dei privati, ma anche del capitale bancario.

Si potrebbe — e di ciò facciamo qui solo un rapido cenno - intendere per accumulazione del capitale monetario anche l’accumulazione della ricchezza in mano dei banchieri (il cui mestiere consiste nel dare il denaro in prestito) intermediari fra i capitalisti monetari privati da un lato e lo Stato, i comuni, coloro che prendono in prestito per la riproduzione, dall’altro; poiché essi sfruttano tutta l’enorme espansione del sistema creditizio, tutto il credito, come se fosse loro capitale privato. Questi tali possiedono il capitale e i redditi sempre in forma di denaro o in forma di crediti su denaro. L’accumulazione del patrimonio di questa classe può svilupparsi di per se stessa in una direzione molto diversa da quella dell’accumulazione reale, dimostrando però in ogni caso che questa classe intasca una buona parte dell’accumulazione reale.

Riassumendo in termini più concisi la questione: i titoli di Stato, le azioni e gli altri titoli di qualsiasi tipo sono sfere d’investimento per il capitale prestabile, per il capitale che è destinato a diventare produttivo d’interesse. Esse sono forme con cui il capitale è data in prestito. Ma non rappresentano esse stesse il capitale da prestare, di cui costituiscono l’investimento.

 D’altro lato per quanto riguarda la funzione che il credito esercita nel processo di riproduzione: ciò di cui l’industriale e il commerciante hanno bisogno quando vogliono scontare una cambiale oppure contrarre un prestito, non sono le azioni né i titoli di Stato. Ciò di cui essi hanno bisogno è il denaro. Essi impegnano o vendono dunque quei titoli quando non è possibile procurarsi il denaro in altro modo.

È precisamente dell’accumulazione di questo capitale da darsi in prestito che ci dobbiamo qui occupare e in particolare di quella del capitale monetario prestabile.

Non si tratta qui del prestito di case, di macchine o di altro capitale fisso. Non si tratta neppure di anticipi che gli industriali o i commercianti si fanno reciprocamente sotto forma di merci, nel quadro del processo di riproduzione, punto questo che dovrà tuttavia esser da noi analizzato prima o dopo; si tratta esclusivamente, dei prestiti monetari che i banchieri nella loro qualità d’intermediari concedono agli industriali e ai commercianti.

Analizziamo dunque innanzitutto il credito commerciale, ossia il credito che i capitalisti occupati nella riproduzione si accordano reciprocamente.

Esso costituisce la base del sistema creditizio. Suo rappresentante è la cambiale, titolo di credito con termine di pagamento determinato, document of deferred payment (Documento di pagamento differito ). Ognuno fa credito con una mano, e riceve credito con l’altra.

Prescindiamo completamente, per ora, dal credito bancario, che costituisce un momento assolutamente distinto essenzialmente diverso. Nella misura in cui queste cambiali circolano di nuovo come mezzo di pagamento fra i commercianti stessi, passando dall’uno all’altro attraverso la girata, nella quale però non interviene lo sconto, non vi è altro che trasferimento del titolo di credito da A a B, e nulla muta assolutamente nella sostanza. Ciò pone soltanto una persona al posto di un’altra. E perfino, in questo caso, la liquidazione può avvenire senza l’intervento di denaro. Il filandiere A per esempio ha una cambiale da pagare al mediatore di cotone B, e questi all’importatore C. Ora se C, come si verifica abbastanza sovente, è al tempo stesso esportatore di filati, egli può allora acquistare il filato da A con una cambiale e a sua volta il filandiere A può pagare il mediatore B con la cambiale ricevuta in pagamento da C. In questo caso al massimo si deve pagare un saldo di denaro. Tutta la transazione media allora soltanto lo scambio di cotone e di filati. L’esportatore rappresenta soltanto il filandiere, il mediatore di cotone il piantatore di cotone.

A proposito del ciclo di questo credito puramente commerciale si devono fare due osservazioni.

Primo: Il saldo di questi titoli di credito reciproci dipende dal riflusso del capitale; vale a dire da M — D, che è soltanto prorogato. Se il filandiere ha ricevuto una cambiale dal fabbricante di cotonati, questi sarà in grado di pagare non appena sia riuscito a vendere nel frattempo i cotonati che egli ha sul mercato. Se il trafficante di grano ha dato una cambiale al suo agente, questi può pagare il denaro se nel frattempo il grano viene venduto al prezzo previsto. Questi pagamenti dipendono quindi dalla fluidità della riproduzione, ossia del processo di produzione e di consumo. Ma poiché i crediti sono reciproci, la solvibilità di ognuno dipende al tempo stesso dalla solvibilità di un altro; poiché ciascuno al momento di emettere la sua cambiale può aver calcolato sul riflusso del capitale nella propria impresa o sul riflusso nell’impresa di un terzo che nel frattempo gli deve pagare una cambiale. Indipendentemente dalla prospettiva di tali riflussi, il pagamento può essere possibile unicamente con il capitale di riserva che il traente di una cambiale tiene a disposizione per far fronte ai suoi impegni nel caso che tali riflussi ritardino.

Secondo: Questo sistema creditizio non elimina la necessità dei pagamenti in denaro contante. Vi sono innanzitutto delle spese che devono sempre essere pagate in contanti, salari, imposte, ecc. Può anche darsi, ad esempio, che B, che ha ricevuto da C una cambiale come pagamento, debba egli stesso, prima che questa cambiale venga a scadenza, soddisfare una cambiale che gli è scaduta con D, ed a tal fine deve avere del denaro in contanti. Un ciclo così completo della riproduzione come quello che abbiamo sopra presupposto fra il piantatore di cotone e il filandiere, e viceversa, può costituire soltanto un’eccezione e deve sempre essere interrotto in molti punti. Abbiamo visto che nel processo di riproduzione (Libro II, sez. III) i produttori del capitale costante si scambiano in parte tra loro capitale costante. Le cambiali si possono perciò più o meno compensare. Lo stesso fatto si verifica secondo la linea ascendente della produzione, quando il mediatore di cotone spicca cambiali sul filandiere, il filandiere sul fabbricante di cotonati, questi sull’esportatore, questi a sua volta sull’importatore (forse ancora di cotone). Ma non vi è contemporaneamente ciclo delle transazioni e quindi il cerchio dei crediti non si chiude. Il credito, ad esempio, del filandiere verso il tessitore non viene saldato dal credito che il commerciante di carbone ha verso il costruttore di macchine; il filandiere non ha mai nella sua impresa da avanzare pretese di compensazione sul costruttore di macchine, perché il suo prodotto, il filo, non entra come elemento nel processo di riproduzione di quest’ultimo. Tali crediti devono quindi essere saldati in denaro.

I confini di questo credito commerciale, considerati isolatamente, sono:

1) La ricchezza degli industriali e dei commercianti, ossia la loro disponibilità di capitale di riserva nel caso che i riflussi ritardino;

2) Questi riflussi stessi possono ritardare di qualche tempo, oppure può accadere che i prezzi delle merci nel frattempo diminuiscono, come pure che le merci rimangano momentaneamente invendibili a causa di un ingorgo dei mercati. Quanto più lontana è la scadenza della cambiale tanto maggiore deve essere il capitale di riserva, e tanto maggiore è la possibilità di una diminuzione o di un ritardo nel riflusso in seguito a una caduta dei prezzi o alla saturazione dei mercati. Inoltre quanto più la transazione originaria era determinata da speculazioni al rialzo o al ribasso del prezzo delle merci, tanto più incerti sono i rientri.

Ma è chiaro che con lo sviluppo della forza produttiva del lavoro e quindi della produzione su vasta scala,

1) i mercati si estendono e si allontanano dal luogo di produzione,

2) i crediti in conseguenza devono essere a più lunga scadenza, e, quindi,

3) l’elemento della speculazione deve impadronirsi sempre più delle transazioni.

La produzione su vasta scala e destinata a mercati lontani getta il prodotto complessivo nelle mani del commercio; ma è impossibile che il capitale della nazione si raddoppi così da permettere al commercio da solo di acquistare con capitale proprio tutto il prodotto complessivo nazionale e rivenderlo. Il credito è dunque qui indispensabile; il credito, il cui volume si espande con l’accrescersi del valore della produzione e la cui durata si prolunga con il progressivo allontanarsi dei mercati. Si produce qui un’azione reciproca. Lo sviluppo del processo di produzione amplia il credito, e il credito a sua volta porta all’ampliamento delle operazioni commerciali e industriali.

Se noi esaminiamo ora questo credito, separatamente dal credito bancario, è evidente che esso aumenta con l’espansione del capitale industriale stesso. Capitale da prestito e capitale industriale sono qui identici; i capitali dati in prestito sono dei capitali-merce, destinati al definitivo consumo individuale, oppure alla sostituzione degli elementi costanti del capitale produttivo. Ciò che quindi appare qui come capitale dato in prestito è sempre capitale che si trova in una fase determinata del processo di riproduzione, ma che la compravendita fa passare di mano in mano, mentre  l’equivalente rispettivo viene pagato dal compratore solo più tardi, alla scadenza pattuita.

Il cotone, ad esempio, passa contro cambiale al filandiere, i filati a loro volta contro cambiale al fabbricante di cotonati, questi cotonati contro cambiale al commerciante, poi contro cambiale all’esportatore, per finire, sempre contro cambiale, nelle mani di un commerciante delle Indie che li vende per acquistare, per esempio, dell’indaco, e così via. Durante questi passaggi da una mano all’altra, il cotone compie la sua trasformazione in cotonati che vengono infine trasportati in India, scambiato con dell’indaco che è spedito in Europa per essere qui immesso nuovamente nella riproduzione. Le diverse fasi del processo di riproduzione sono qui mediate dal credito, senza che il filandiere abbia pagato i cotonati, il fabbricante di cotonati i filati, il commerciante i cotonati, ecc. Nelle prime fasi del suo processo, la merce, ossia il cotone, passa attraverso le sue diverse fasi di produzione, e questo passaggio è mediato dal credito. Ma quando il cotone ha ricevuto nella produzione la sua forma definitiva di merce, il medesimo capitale-merce passa soltanto fra le mani di vari commercianti, i quali ne curano il trasporto verso il mercato lontano: l’ultimo di essi lo vende infine al consumatore e acquista in cambio altre merci che entrano nel consumo oppure nel processo di riproduzione.

Occorre quindi distinguere due fasi:

nella prima, il credito è l’intermediario di effettive fasi successive della produzione del medesimo articolo;

nella seconda, rende semplicemente possibile il trasferimento, che include il trasporto dalle mani di un commerciante a quelle dell’altro, quindi l’atto M — D. Ma anche in questa seconda fase la merce si trova pur sempre nel l’atto di circolazione, ossia in una fase del processo di riproduzione.

In conseguenza, ciò che viene qui dato in prestito non è mai capitale inattivo, ma capitale che deve mutare forma tra le mani del suo possessore, per il quale esso ha esclusivamente la forma di capitale-merce, ossia di capitale che deve essere ritrasformato e, almeno in un primo tempo, convertito in denaro. È quindi la metamorfosi della merce che viene qui mediata dal credito e non soltanto l’atto M — D, ma anche D — M e l’effettivo processo di produzione.

Credito abbondante nel ciclo riproduttivo — a prescindere dal credito bancario — non significa che vi sia molto capitale inattivo che è offerto in prestito e cerca investimenti che diano ampi profitti; indica al contrario una grande attivazione di capitale nel processo di riproduzione.

Il credito media qui dunque:

I) per quanto riguarda i capitalisti industriali, il passaggio del capitale industriale da una fase all’altra, il legame delle diverse sfere di produzione connesse e concatenate l’una con l’altra;

2) per quanto riguarda i commercianti, il trasporto e il trasferimento delle merci da una mano all’altra fino alla loro vendita definitiva per denaro o al loro scambio con un’altra merce.

L’estensione massima del credito corrisponde in questo caso alla più completa utilizzazione del capitale industriale, ossia alla esplicazione più intensa possibile della sua forza di riproduzione, senza riguardo ai limiti del consumo. Questi limiti del consumo vengono allargati dalla intensificazione del processo di riproduzione stesso, che da un lato accresce il consumo di reddito da parte degli operai e dei capitalisti, d’altro lato si identifica con l’intensificazione del consumo produttivo.

Fino a che il processo di riproduzione fluisce normalmente ed assicura in tal modo i riflussi, questo credito si mantiene e si amplia, e questo ampliamento è fondato sull’ampliamento del processo stesso della riproduzione. Non appena subentra un ristagno provocato da ritardo dei riflussi, da saturazione dei mercati, da caduta dei prezzi, la sovrabbondanza di capitale industriale persiste sempre, ma in forma che non gli permette di adempiere alla sua funzione. Massa di capitale-merce, ma invendibile. Massa di capitale fisso, ma in gran parte inattivo a causa del ristagno della riproduzione.

Il credito si contrae:

1) perché questo capitale è inattivo, ossia ristagna in una delle fasi della sua riproduzione, perché non può compiere la sua metamorfosi;

2) perché è infranta la fiducia nella fluidità del processo di riproduzione;

3) perché diminuisce la domanda di questo credito commerciale.

Il filandiere che restringe la sua produzione e ha in magazzino una grande quantità di filo invenduto, non ha bisogno di acquistare del cotone a credito; il commerciante non ha bisogno di acquistare delle merci a credito, avendone a disposizione più del necessario.

Quando subentra quindi una perturbazione in questa espansione o anche soltanto nella normale intensità del processo di riproduzione, si verifica contemporaneamente una mancanza di credito; diventa più difficile acquistare merci a credito. La richiesta di pagamento in contanti e la cautela nella vendita a credito sono tuttavia fenomeni particolarmente caratteristici nella fase del ciclo industriale che segue una crisi. Durante la crisi stessa, quando ognuno ha da vendere ma non può vendere ed è tuttavia costretto a vendere per far fronte ai pagamenti, è la massa non del capitale inattivo in cerca di investimento, ma del capitale ostacolato nel suo processo di riproduzione, che raggiunge il suo massimo proprio quando anche la mancanza di credito raggiunge il suo culmine (e quindi il saggio di sconto per il credito bancario raggiunge il suo massimo). Il capitale già investito si trova infatti inattivo in grandi quantità, perché il processo di riproduzione ristagna. Le fabbriche rimangono ferme, le materie prime si accumulano, i prodotti finiti saturano il mercato di merci.

Non vi è quindi nulla di più errato che attribuire tale stato di cose a una mancanza di capitale produttivo. Si ha, al contrario, una sovrabbondanza di capitale produttivo, sia in rapporto alla scala normale, ma momentaneamente contratta della riproduzione, sia in rapporto al consumo paralizzato.

Supponiamo che tutta quanta la società si componga unicamente di capitalisti industriali e di operai salariati. Facciamo inoltre astrazione dalle variazioni di prezzo che impediscono a grandi porzioni del capitale totale di ricostituirsi nelle loro condizioni medie e che a causa della concatenazione generale di tutto quanto il processo di produzione, quale viene sviluppato particolarmente dal credito devono necessariamente provocare dei ristagni generali, sempre momentanei. Facciamo parimenti astrazione dagli affari puramente apparenti e dalle transazioni a carattere speculativo che il sistema creditizio stimola. Una crisi potrebbe allora trovare una spiegazione unicamente in una sproporzione della produzione nei diversi rami e in una sproporzione fra il consumo dei capitalisti stessi e la loro accumulazione. Ma, allo stato attuale delle cose, la ricostituzioni dei capitali impiegati nella produzione dipende soprattutto dalla capacità di consumo delle classi non produttive; mentre la capaciti di consumo dei lavoratori è limitata in parte dalle leggi del salario in parte dal fatto che essi vengono impiegati soltanto fino a quando  possono essere impiegati con profitto per la classe dei capitalisti.

La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà  e la limitazione di consumo delle masse in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive a un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumi assoluta della società.

Di una reale mancanza di capitale produttivo, almeno presso nazioni capitalisticamente sviluppate, si può parlare unicamente in caso di cattivi raccolti generali sia dei prodotti alimentari di prima necessità, sia delle più importanti materie prime industriali.

Ma a questo credito commerciale viene ad aggiungersi il credito monetario propriamente detto. Gli anticipi che gli industriali ed i commercianti si fanno reciprocamente vengono complicati dagli anticipi monetari che ad essi fanno i banchieri e coloro che danno denaro a prestito. Nello sconto delle cambiali l’anticipo è puramente nominale. Un fabbricante vende il suo prodotto contro cambiale che egli sconta presso un bill-broker. Quest’ultimo non fa in realtà che anticipare il credito del suo banchiere, che a sua volta gli anticipa il capitale monetario dei suoi depositanti rappresentati dagli stessi industriali e commercianti, ma anche da operai (per mezzo delle casse di risparmio), da proprietari terrieri che vivono di rendita e dalle altre classi improduttive. Si elimina così per ogni singolo fabbricante o commerciante la necessità di un forte capitale di riserva, come pure la loro dipendenza dai riflussi effettivi. D’altra parte però, l’intero processo viene complicato, in parte dalla semplice speculazione cambiaria, in parte dalle transazioni mercantili che hanno per scopo la pura e semplice fabbricazione di cambiali, a tal punto che l’apparenza di una impresa molto solida e di riflussi sicuri, può tranquillamente continuare ad esistere, anche dopo che  in realtà i riflussi sono stati compiuti già da lungo tempo soltanto a spese in parte di prestatori, in parte di produttori, truffati gli uni e gli altri. Per questo l’impresa appare sempre quasi eccessivamente sana proprio immediatamente prima del crollo. La prova migliore ci viene fornita ad esempio dai Reports on Bank Acts del 1857 e del 1858, nei quali tutti i direttori di banca, commercianti, in breve tutti i competenti invitati a testimoniare, Lord Overstone in testa, si congratulavano vicendevolmente per la prosperità e solidità degli affari — proprio un mese prima che scoppiasse la crisi nell’agosto 1857. E, fatto curioso, nella sua History of  Prices, Tooke, lo storico di quella crisi, fa rivivere ancora una volta questa illusione. Gli affari sono sempre sanissimi e il loro svolgimento progredisce ad un ritmo favorevole fino a che il crollo avviene tutto in una volta.

Torniamo ora all’accumulazione del capitale monetario.

Non ogni aumento del capitale monetario prestabile indica una effettiva accumulazione di capitale o di allargamento del processo di riproduzione. Ciò si manifesta con particolare evidenza nella fase del ciclo industriale che segue immediatamente il superamento della crisi, quando il capitale da prestito rimane in massa inattivo. In questo periodo, durante il quale il processo di produzione è limitato (dopo la crisi del 1847 la produzione dei distretti industriali inglesi presentava la riduzione di un terzo), e i prezzi delle merci toccano il loro livello più basso, mentre lo spirito d’intrapresa è paralizzato, noi vediamo che il saggio dell’interesse è ridotto ad un livello basso, sintomo questo che indica semplicemente l’incremento del capitale da prestito dovuto proprio alla concentrazione ed alla paralisi del capitale industriale. Il fatto che, da un lato, con la caduta dei prezzi delle merci, la contrazione delle transazioni e la diminuzione del capitale investito in salari, venga richiesta una quantità minore di mezzi di circolazione; che, d’altro lato, dopo la liquidazione dei debiti contratti all’estero in parte col deflusso di oro e in parte con la bancarotta, non vi sia richiesta di denaro supplementare per la funzione di moneta mondiale, che infine il volume degli affari condotti mediante sconti cambiari si riduca in proporzione al numero e all’ammontare di queste cambiali stesse, — tutto ciò è evidente. La domanda di capitale monetario da prestito, sia come mezzo di circolazione, sia come mezzo di pagamento (di nuovi investimenti di capitale non è ancora il caso di parlare) si riduce, di modo che esso è relativamente abbondante: ma anche l’offerta del capitale monetario da prestito si accresce positivamente, in tali circostanze, come vedremo più tardi.

È cosi che dopo la crisi del 1847 regnava «una riduzione degli scambi ed una grande sovrabbondanza di denaro» (Commercial Distress, 1847-48, Deposizione n. 1664). Il saggio dell’interesse era molto basso a causa «dell’annientamento quasi completo del commercio e della impossibilità pressochè assoluta di investire il denaro» (ivi p. 21 [n 231]. Testimonianza di Hodgson, direttore della Royal Bank di Liverpool). Quali assurdità questi signori (e Hodgson è pur sempre uno dei migliori) vadano raccontando per spiegarsi questo fatto, si può dedurre dalla frase seguente: «La scarsità del denaro (1847) aveva la sua origine in una effettiva riduzione del capitale monetario nel paese, dovuta in parte alla necessità di pagare in oro le importazioni provenienti da tutti i paesi del mondo, e in parte alla conversione del capitale di circolazione (floating capital) in capitale fisso» [ p. 39, nn.464, 466]. Non è possibile comprendere in qual modo la conversione del capitale di circolazione in capitale fisso possa far diminuire il capitale monetario del paese: poiché nelle ferrovie, ad esempio, nelle quali allora era stato principalmente investito capitale, l’oro o la carta moneta non furono materialmente usati per costruire viadotti o rotaie, e il denaro per le azioni ferroviarie, in quanto depositato semplicemente a copertura dei pagamenti, adempiva esattamente la stessa funzione di tutto l’altro denaro depositato presso le banche ed accresceva per di più, sia pure momentaneamente, il capitale monetario da prestito, come abbiamo già precedentemente messo in rilievo; nella misura in cui poi questo denaro fu effettivamente speso nella costruzione, esso circolava nel paese come mezzo di acquisto e di pagamento. Il capitale monetario potrebbe risentire le conseguenze di tale conversione soltanto nel caso in cui il capitale fisso fosse costituito da articoli non esportabili, e quindi con l’impossibilità dell’esportazione scompare il capitale disponibile che è alimentato dai rientri per gli articoli esportati e in conseguenza fanno difetto anche i rientri in contanti o in lingotti. Ma allora, per di più, articoli di esportazione inglese giacevano invendibili in grandi quantità sui mercati esteri. I commercianti ed i fabbricanti di Manchester ecc., che avevano investito in azioni ferroviarie una parte del loro capitale abitualmente impiegato nelle loro imprese e che dipendevano quindi per la gestione dei loro affari dal capitale dato in prestito, avevano in realtà immobilizzato il loro floating capital e dovevano subirne le conseguenze. Ma sarebbe stata esattamente la stessa cosa se essi avessero investito il capitale sottratto alla normale gestione dei loro affari, invece che nelle ferrovie, nelle miniere, il cui prodotto stesso è di nuovo floating capital, ferro, carbone, rame, ecc. La effettiva riduzione del capitale monetario disponibile causata da cattivo raccolto, importazione di grano ed esportazione d’oro, era naturalmente un fatto che non aveva nulla a che vedere con la fraudolenta speculazione ferroviaria. «Quasi tutte le ditte commerciali avevano cominciato, in grado maggiore o minore, a dissanguare le proprie imprese per investire il denaro nelle ferrovie» [ ivi, p. 18, n. 177]. «I prestiti così estesi fatti alle ferrovie dalle ditte commerciali, inducevano queste ultime ad appoggiarsi troppo, attraverso lo sconto delle cambiali, alle banche per la gestione dei propri affari commerciali» (il già citato Hodgson, [ivi, n. 43 n. 526]). «A Manchester si verificarono delle perdite colossali a causa della speculazione nelle ferrovie» (R. Gardner, già Citato nel Libro I, cap. XIII, 3, e più volte altrove. Deposizione n. 4884, ivi [ p.369]).

Una delle cause principali della crisi del 1847 consisteva nell’enorme saturazione del mercato e nella sconfinata losca speculazione che si era verificata nelle operazioni mercantili con le Indie orientali. Ma anche altre circostanze portarono alla rovina ditte molto prospere di questo ramo:

«Esse avevano mezzi in abbondanza, che però non potevano esser resi liquidi. Tutto il loro capitale giaceva immobilizzato in proprietà fondiarie nell’isola Mauritius, oppure in fabbriche di indaco e di zucchero. Mentre esse avevano contratto degli impegni che ammontavano fino a 5-600.000 Lst., non avevano a loro disposizione alcun mezzo liquido per pagare le loro cambiali ed in definitiva si vide che per pagare le loro cambiali dovevano esclusivamente fare assegnamento sul loro credito» (Ch. Turner, grosso mercante di Liverpool, che commerciava con le Indie orientali, n. 730, ivi). Più oltre Gardner (n. 4872, ivi): «Immediatamente dopo il trattato con la Cina furono fatte balenare al paese prospettive tali di un potente ampliamento del nostro commercio con la Cina che furono costruite appositamente per questo tipo di commercio numerose grandi fabbriche per approntare tessuti di cotone particolarmente smerciabili sul mercato cinese: e queste vennero ad aggiungersi a tutte le nostre fabbriche già preesistenti».

«4874. Quale fu il risultato di questi affari? Esso fu così disastroso da far impallidire qualsiasi descrizione; non credo che ci siano stati rimborsati più di due terzi dell’importo complessivo delle nostre spedizioni in Cina nel 1844 e 1845; poiché il tè costituisce l’articolo principale delle reimportazioni dalla Cina e ci erano state fatte balenare le più rosee speranze, noi industriali calcolavamo con sicurezza su una forte riduzione del dazio sul tè».

Ed ecco ora, ingenuamente espresso il Credo caratteristico del fabbricante inglese:

«ll nostro commercio con un mercato estero non trova un limite nella sua capacità di acquistare le nostre merci, ma piuttosto nel fatto che noi siamo in grado di consumare i prodotti che ci vengono forniti in cambio dei nostri prodotti industriali». (I paesi relativamente poveri con cui l’Inghilterra si trova in rapporti commerciali sono naturalmente in grado di pagare e di consumare qualsiasi ammontare dei prodotti industriali inglesi, ma sfortunatamente la ricca Inghilterra non può smaltire i prodotti forniti in cambio).

«4876, Io cominciai ad inviare una piccola quantità di merci che furono vendute con una perdita di circa il 15%, nella assoluta convinzione che il prezzo a cui i miei agenti avrebbero potuto acquistare il tè, rivenduto mi avrebbe dato un profitto così forte qui, da coprir tale perdita; ma anziché conseguire un profitto subii talvolta delle perdite che variavano dal 25 fino al 50%».

«4877. I fabbricanti esportavano a loro rischio e pericolo? Per la maggior parte sì i commercianti, sembra, si accorsero ben presto che questi affari non rendevano e, in luogo di parteciparvi personalmente, incoraggiavano i fabbricanti a consegnare. Nel 1857, invece, perdite e fallimenti si riversarono principalmente sui commercianti, i fabbricanti avendo questa volta trasferito loro l’incombenza di saturare a  “loro rischio” i mercati esteri».

Una espansione del capitale monetario, proveniente dal fatto che in seguito allo sviluppo del sistema bancario il denaro che per il passato serviva da tesoro privato o da riserva contante si trasforma per un tempo determinato in capitale da prestito (vedere nell’esempio di Ipswich, più sotto riportato, come i depositi degli affittuari prima del 1857, in pochi anni, si quadruplicarono), non indica un incremento del capitale produttivo, più di quanto non lo indichi l’aumento verificatosi nei depositi presso le banche azionarie di Londra, non appena esse cominciarono a pagare interesse sui depositi. Fintanto che  la scala della produzione si mantiene invariata, una espansione di questo tipo provoca unicamente una abbondanza del capitale monetario da prestito rispetto al capitale produttivo. In conseguenza il saggio dell’interesse diminuisce.

Quando il processo di riproduzione raggiunge ancora una volta quella fase di prosperità che precede la fase di eccessiva tensione, il credito commerciale si estende fortemente, il che ha ancora una volta una «sana » base costituita dalla facilità dei riflussi e dalla espansione della produzione. In circostanze tali il saggio dell’interesse, pur superando il suo minimo, è ancora basso. È questo in realtà il solo momento in cui si può dire che il basso saggio dell’interesse e quindi la relativa abbondanza di capitale suscettibile di essere prestato coincidono con una espansione effettiva del capitale industriale. La facilità e la regolarità dei riflussi, unitamente all’espansione del credito commerciale, assicurano l’offerta di capitale da prestito nonostante che la domanda sia in aumento ed impediscono che il saggio d’interesse si accresca. D’altro lato, proprio in questo periodo cominciano a presentarsi in numero notevole i cavalieri d’industria, che trafficano senza capitale di riserva o del tutto senza capitale e che per le loro operazioni si fondano quindi esclusivamente sul credito monetario. Al che vengono ancora ad aggiungersi in questo periodo il forte sviluppo del capitale fisso in tutte le sue forme e la costituzione di numerose nuove imprese aventi un raggio d’azione molto vasto. Il saggio d’interesse raggiunge ora il suo livello medio, toccando di nuovo il suo massimo quando sopravviene la nuova crisi e il credito viene interrotto di punto in bianco, mentre i paga menti si arenano, il processo della riproduzione si paralizza e, a parte le eccezioni precedentemente ricordate, contemporaneamente ad una qualsiasi assoluta mancanza di capitale da prestito si ha una sovrabbondanza di capitale industriale inattivo.

Nell’insieme dunque il movimento del capitale da prestito, quale si esprime nel saggio d’interesse, si sviluppa in direzione opposta al movimento del capitale industriale.

Soltanto nella fase in cui il saggio d’interesse basso, ma superiore al suo minimo, coincide con il «miglioramento» e con il rinascere della fiducia dopo la crisi, particolarmente nella fase in cui esso tocca il suo livello medio, il punto intermedio, a pari distanza dal minimo e dal massimo, soltanto in questi due momenti la sovrabbondanza del capitale da prestito corrisponde ad una contemporanea e forte espansione del capitale industriale. All’inizio del ciclo industriale, invece, il saggio d’interesse basso coincide con la contrazione del capitale industriale, mentre alla fine del ciclo stesso il saggio d’interesse alto coincide con la sovrabbondanza di esso. Il basso saggio d’interesse che accompagna il «miglioramento» significa che il credito commerciale, bastando per il momento a se stesso, non ha bisogno di ricorrere in forti misure al credito bancario.

Il ciclo industriale ha la caratteristica che, una volta dato il primo impulso, esso si deve riprodurre periodicamente[1]. Nella fase della depressione la produzione scende al di sotto del livello che aveva raggiunto nel periodo precedente e di cui sussiste ora la base tecnica.

Durante la prosperità — che costituisce il periodo intermedio — essa continua a svilupparsi su questa base. Nel periodo della sovrapproduzione e della speculazione essa tende al massimo le forze produttive fino ad oltrepassare i limiti capitalistici del processo di produzione.

Il fatto che in periodi di crisi vi sia mancanza di mezzi di pagamento è così evidente da non richiedere spiegazione. La convertibilità delle cambiali si è sostituita alla metamorfosi delle merci stesse, fenomeno questo che si manifesta soprattutto in questo periodo e con una intensità tanto maggiore, quanto maggiore è il numero delle ditte commerciali che lavorano a credito. Una legislazione bancaria inconsulta e stupida, come quella del 1844-45, può aggravare ulteriormente questa crisi monetaria. Non esiste tuttavia legislazione bancaria che possa scongiurarla.

In un sistema di produzione in cui tutto il meccanismo del processo di produzione riposa sul credito, deve evidentemente prodursi una crisi, una affannosa ricerca dei mezzi di pagamento, al momento in cui improvvisamente il credito viene a mancare e tutti i pagamenti devono essere fatti in contanti. A prima vista sembra quindi che la crisi nel suo complesso, sia unicamente una crisi creditizia e monetaria. Ed effettivamente si tratta in realtà unicamente della convertibilità delle cambiali in denaro. Ma queste cambiali rappresentano, per la maggior parte, acquisti e vendite reali che, avendo assunto un’estensione di gran lunga superiore al bisogno sociale, sono in definitiva la base di tutta la crisi. Inoltre una massa enorme di queste cambiali rappresenta soltanto affari truffaldini che vengono ora finalmente a galla e scoppiano; inoltre rappresentano speculazioni fatte con capitale altrui e non riuscite; in fine capitali-merce deprezzati o del tutto invendibili, oppure riflussi che non possono più attuarsi. Tutto questo sistema artificiale di ampliamento violento del processo di riproduzione, non può naturalmente essere risanato per il fatto che una banca, ad esempio la Banca d’Inghilterra, fornisca in carta a tutti gli speculatori il capitale che fa loro difetto ed acquisti al loro antico valore nominale tutte le merci ora deprezzate. Del resto tutto qui si presenta deformato, perché in questo mondo di carta non appaiono mai il prezzo reale ed i suoi reali elementi, ma soltanto lingotti, denaro sonante, banconote, cambiali, titoli. Questa deformazione è soprattutto visibile in quei centri in cui, come Londra, confluiscono tutte le operazioni finanziarie del paese, cosicché il processo nel suo insieme sfugge alla comprensione. È meno sensibile invece nei centri di produzione.

Si deve inoltre ancora notare a proposito della sovrabbondanza del capitale industriale che si manifesta nelle crisi: i1 capitale-merce è di per sé contemporaneamente capitale monetario, ossia una somma di valore determinata, espressa nel prezzo della merce. In quanto valore d’uso esso rappresenta una quantità determinata di oggetti d’uso determinati, di cui vi è sovrabbondanza in periodi di crisi. Ma in quanto capitale monetario in sé, in quanto capitale monetario potenziale, esso è soggetto ad un movimento di espansione e di contrazione che non conosce sosta. Alla vigilia della crisi e durante il corso della crisi stessa il capitale-merce è contratto nella sua qualità di capitale monetario potenziale. Per chi lo possiede, come pure per i suoi creditori (ed anche in quanto serve da garanzia di cambiali e di prestiti) esso rappresenta una quantità minore di capitale monetario rispetto al momento in cui fu acquistato ed in cui furono concluse le operazioni di sconto e di pegno che vi si riferivano. Se questo è il senso dell’affermazione che il capitale monetario di un paese risulta diminuito in periodi di crisi, ciò significa semplicemente che i prezzi delle merci sono diminuiti. Un simile tracollo dei prezzi non fa d’altro lato che compensare il gonfiamento eccessivo che essi avevano subito nel periodo precedente.

Le entrate delle classi improduttive e di coloro che vivono di redditi fissi si mantengono per la maggior parte stazionarie durante il periodo del rigonfiamento dei prezzi, che si accompagna alla sovrapproduzione e alla sovraspeculazione. La loro capacità di consumo risulta quindi relativamente diminuita, e per conseguenza la loro capacità di ricostituire quella parte della riproduzione complessiva che dovrebbe normalmente entrare nel loro consumo. Anche nel caso in cui la loro domanda rimanga nominalmente invariata, essa in realtà si contrae.

Per quanto riguarda l’importazione e l’esportazione si deve notare che tutti i paesi vengono, l’uno dopo l’altro, coinvolti nella crisi. E si vede allora che, a parte qualche eccezione, quasi tutti hanno importato ed esportato troppo, quindi la bilancia dei pagamenti è sfavorevole per tutti. Non si può dunque dire che la bilancia sia responsabile della situazione. Ad esempio l’Inghilterra soffre di deflussi d’oro. Essa ha importato troppo. Ma al tempo stesso tutti gli altri paesi sono oberati di merci inglesi. Anche essi hanno quindi ecceduto nelle importazioni o sono stati costretti a farlo. (Si deve tuttavia fare una distinzione fra quel paese che esporta a credito e quelli che non lo fanno, oppure lo fanno soltanto in misura ridotta. Questi ultimi però importano a credito, eccettuato il caso in cui le merci vengano loro spedite soltanto a consegna). Può accadere che la crisi scoppi in un primo tempo in Inghilterra, paese che più di tutti gli altri concede credito e meno ne domanda, la sua bilancia dei paga menti, la bilancia dei pagamenti che vengono a scadenza, che devono essere liquidati senza indugio, essendo passiva, sebbene la bilancia commerciale generale sia attiva. Fenomeno questo che si spiega con il credito che essa ha concesso e con la massa di capitali che ha dato in prestito all’estero, di modo che in aggiunta ai rientri commerciali ordinari le affluiscono masse di rientri sotto forma di merci. (La crisi tuttavia di quando in quando ha avuto inizio in America, il paese che assorbe in grado maggiore il credito commerciale e di capitale inglese). La crisi in Inghilterra, generata e accompagnata dal deflusso dell’oro, salda la bilancia inglese dei pagamenti, in parte tramite il fallimento dei suoi importatori (argomento su cui ritorneremo più tardi), in parte tramite la svendita di una parte del suo capitale-merce a prezzi ridotti all’estero, in parte tramite la vendita di titoli esteri, l’acquisto di titoli inglesi ecc. Viene ora il turno di un altro paese. La bilancia dei pagamenti era momentaneamente attiva; ma ora la crisi sopprime o per lo meno abbrevia il lasso di tempo che in tempi normali intercorre fra la bilancia dei pagamenti e la bilancia commerciale; tutti i pagamenti devono essere effettuati contemporaneamente. La medesima storia torna a ripetersi. Questo paese deve esportare l’oro, l’Inghilterra ne importa. Ciò che in un paese appare come sovra importazione, per l’altro appare come sovra esportazione e viceversa. Ma in tutti i paesi vi è stata una sovra importazione e una sovra esportazione (non parliamo qui di cattivi raccolti ecc., ma di crisi generale); ossia di sovrapproduzione stimolata dal credito e dal generale aumento dei prezzi che vi è connesso.

Nel 1857 la crisi scoppiò negli Stati Uniti. Ne seguì un deflusso dell’oro dall’Inghilterra verso l’America. Ma non appena il processo inflazionistico fu cessato in America, la crisi scoppiava in Inghilterra e l’oro defluiva dall’America verso l’Inghilterra. Lo stesso fatto si verificava fra l’Inghilterra e il continente. In periodi di crisi generale tutte la nazioni hanno, o per lo meno quelle commercialmente sviluppate, la bilancia dei pagamenti sfavorevole e sempre una dopo l’altra, come un fuoco di fila, non appena giunge il suo turno di pagamento. Una volta che la crisi si è iniziata, ad esempio in Inghilterra, i termini di questi pagamenti si susseguono a brevissima distanza l’uno dall’altro. Si vede allora che tutte queste nazioni hanno contemporaneamente importato ed esportato in quantità eccessiva (ossia prodotto e commerciato in eccedenza), di modo che per ognuna di esse i prezzi erano esageratamente elevati ed il credito aveva avuto un’espansione troppo forte. E lo stesso collasso colpisce tutte. Il fenomeno del deflusso dell’oro si manifesta successivamente per ognuna di esse e mostra proprio con il suo carattere generale

1) che questo deflusso dell’oro è semplicemente un fenomeno, non la causa della crisi;

2) che l’ordine di successione in cui tutte le nazioni vengono colpite indica semplice mente quando è venuto per esse il momento della resa finale dei conti, il loro turno di essere coinvolte nella crisi i cui elementi latenti si manifestano anche per esse.

È una caratteristica degli scrittori inglesi di economia — e a partire dal 1830 la letteratura economica degna di nota si riduce in massima parte ad una letteratura sul currency, il credito, le crisi, — di considerare l’esportazione dei metalli preziosi, in periodi di crisi, nonostante le variazioni del corso dei cambi, unicamente da un punto di vista inglese, come un fenomeno puramente nazionale, e di chiudere risolutamente gli occhi davanti al fatto che, se la loro Banca in periodi di crisi eleva il saggio dell’interesse, tutte le altre banche europee fanno lo stesso e che se il grido d’allarme per il deflusso dell’oro viene lanciato in Inghilterra, domani risuona in America e dopodomani in Germania e in Francia.

Nel 1847 l’Inghilterra doveva far fronte a numerose scadenze in corso (la maggior parte per importazioni di grano). «Sfortunatamente essa vi fece fronte in gran parte con la bancarotta». (La ricca Inghilterra si procurava ossigeno facendo appello alla bancarotta contro il continente e l’America). «Ma quando non si ricorse alla bancarotta, si fece fronte a questi impegni con le esportazioni di metalli preziosi» (Report of Committee on Bank Acts, 1857). Nella misura in cui quindi la crisi in Inghilterra viene aggravata dalla legislazione bancaria, questa legislazione non è che un mezzo, in tempo di carestia, per defraudare le nazioni esportatrici di grano prima del loro grano e poi del denaro con cui dovrebbe essere pagato il loro grano. Un divieto di esportazione del grano, in tali periodi, da parte di paesi che soffrono essi stessi in grado maggiore o minore del rincaro dei prezzi, rappresenterebbe quindi un mezzo molto razionale per ostacolare questo piano della Banca d’Inghilterra di «fare fronte con la bancarotta» agli impegni relativi alle importazioni di grano. È molto meglio che i produttori di grano e gli speculatori perdano una parte del loro profitto a vantaggio del proprio paese, anziché perdere il loro capitale a vantaggio dell’Inghilterra.

Da quanto si è detto risulta che il capitale-merce durante la crisi, e in generale durante periodi di ristagno degli affari, perde in gran parte la sua proprietà di rappresentare capitale monetario potenziale. Lo stesso si può dire per il capitale fittizio, i titoli fruttiferi, in quanto questi circolano in borsa come capitale monetario. Il loro prezzo diminuisce con l’aumento dell’interesse. Esso diminuisce inoltre a causa della mancanza generale di credito, che costringe il loro proprietario a svenderli in massa sul mercato per procurarsi denaro. Per le azioni infine questo prezzo diminuisce, in parte a causa della riduzione dei redditi a cui esse danno diritto, in parte perché le imprese che esse rappresentano hanno troppo spesso carattere fittizio. Questo capitale monetario fittizio durante le crisi risulta fortemente ridotto e quindi diminuisce anche la possibilità per il proprietario di venderlo per procurarsi denaro. La diminuzione delle espressioni monetarie di questi titoli nel bollettino dei cambi non riguarda tuttavia il capitale reale che essi rappresentano, riguarda invece moltissimo la solvibilità dei loro proprietari.

NOTE


[1] Come ho già avuto occasione di rilevare altrove, a partire dall’ultima grandi crisi di carattere generale le cose hanno preso un’altra piega. La forma acuta del processo periodico con il suo abituale ciclo decennale sembra essersi trasformati in un alternarsi, a carattere più cronico e di più lunga durata, di periodi di ripresa relativamente brevi e poco accentuati, e di periodi di depressione relativamente lunghi e senza soluzione, fasi che si presentano nei diversi paesi industriali in tempi diversi Può darsi però che si tratti soltanto di un prolungamento della durata del ciclo Nei primordi del commercio mondiale, 1815-1847, si possono individuare delle crisi separate da intervalli di cinque anni circa; dal 1847 al 1867, il ciclo ha una durata decisamente decennale; ci troviamo forse noi nella fase preparatoria di una nuova crisi mondiale di inaudita violenza? Molti sintomi sembrano portare a questi conclusione. Dopo l’ultima crisi generale del 1867 si sono verificati dei profondi cambiamenti. Con il colossale sviluppo dei mezzi di comunicazione — transatlantici a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, il canale di Suez — il mercato mondiale è divenuto una realtà operante. Accanto all’Inghilterra, che precedentemente deteneva il monopolio dell’industria, troviamo una serie di paesi industriali che le fanno concorrenza; al capitale che si trova in eccedenza in Europa vengono offerti in tutte le parti del mondo campi di investimento infinitamente più vasti e più vari, di modo che esso si ridistribuisce in misura molto maggiore, mentre la superspeculazioni locale viene superata con maggiore facilità. Tutti questi fatti hanno eliminato o fortemente indebolito gli antichi focolai delle crisi e le occasioni che le favorivano. Al tempo stesso sul mercato interno la concorrenza retrocede di fronte ai cartelli ed ai trusts, mentre sui mercati esteri essa trova una barriera nei dazi protezionistici di cui si circondano tutti i grandi paesi industriali, eccettuata l’Inghilterra. Mi questi dazi rappresentano in realtà soltanto degli armamenti per la definitiva campagna industriale universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale. Di modo che ogni elemento che contrasta il ripetersi delle antiche crisi reca quindi in sé il germe di una crisi futura molto più terribile. F.E.).

 

AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni);

2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura;

a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle;

c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘).

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio.

In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm