IL CAPITALE

LIBRO III

SEZIONE III

LEGGE DELLA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DEL PROFITTO

CAPITOLO 15

SVILUPPO DELLE CONTRADDIZIONI INTRINSECHE DELLA LEGGE

1. CONSIDERAZIONI GENERALI.

Si è visto nella prima sezione di questo Libro che il saggio del profitto esprime sempre un saggio del plusvalore inferiore a quello reale; si è inoltre appena visto che anche l’accrescimento del saggio del plusvalore ha la tendenza a tradursi in una diminuzione del saggio del profitto.

Il saggio del profitto può coincidere con il saggio del plusvalore solo nel caso che c = 0 , vale a dire quando il capitale complessivo fosse speso integralmente sotto forma di salario.

Un saggio del profitto decrescente esprime un saggio del plusvalore decrescente solo quando rimanga invariato il rapporto fra il valore del capitale costante e l’ammontare della forza-lavoro che lo mette in opera, o quando l’ammontare della forza-lavoro si sia accresciuto rispetto al valore del capitale costante.

Ricardo, pur pretendendo di analizzare il saggio del profitto, analizza in realtà solo il saggio del plusvalore e per di più limitatamente alla premessa che la giornata lavorativa sia una grandezza costante sia dal punto di vista dell’intensità che dell’estensione.

Caduta del saggio del profitto ed accelerazione dell'accumulazione sono semplicemente diverse espressioni di uno stesso processo, ambedue esprimendo lo sviluppo della forza produttiva. L’accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, in quanto determina la concentrazione del lavoro su vasta scala e quindi una composizione superiore del capitale. Del resto la diminuzione del saggio del profitto accelera a sua volta la concentrazione di capitale e la sua centralizzazione tramite l’espropriazione di piccoli capitalisti, degli ultimi produttori diretti sopravvissuti presso i quali vi è ancora qualcosa da espropriare.

L’accumulazione in quanto massa viene quindi accelerata, mentre il saggio di accumulazione diminuisce insieme al saggio del profitto.

Del resto, dato che il saggio di valorizzazione del capitale totale, il saggio del profitto, è la molla della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne è l’intrinseco fine) la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e si presenta come un ostacolo per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico.

Difatti favorisce la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale insieme a un eccesso di popolazione.

Gli economisti i quali, come Ricardo, considerano come assoluto il modo di produzione capitalistico, si accorgono adesso che tale modo di produzione genera esso stesso dei limiti ed attribuiscono questi ultimi non alla produzione, bensì alla natura (nella teoria della rendita). L’“horror” che essi sentono dinanzi alla tendenza alla diminuzione del saggio del profitto è provocato soprattutto dal fatto che il modo di produzione capitalistico trova, nello sviluppo delle forze produttive, un limite che ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza in quanto tale; e questo particolare limite testimonia del carattere ristretto, semplicemente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico; prova che esso non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato ad un certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo.

Ricardo e la sua scuola considerano soltanto il profitto industriale, in cui è incluso l’interesse. Ma anche il saggio della rendita fondiaria ha una tendenza al diminuire, malgrado la sua massa assoluta aumenti e possa aumentare anche, in proporzione, più del profitto industriale. (Vedi Ed. West il quale prima di Ricardo ha sviluppato la legge della rendita fondiaria).

Prendiamo in esame il capitale complessivo C della società e chiamiamo (p1) il profitto industriale fatta detrazione dell’interesse (i) e della rendita fondiaria (r): si ha

saggio del profitto = p’ = pv : C = p : C = (p1 + i + r) : C = (p1 : C) + (i : C) + (r : C)

Si è visto che quantunque nello sviluppo della produzione capitalistica (pv), vale a dire la somma complessiva del plusvalore, cresca costantemente, pv : C diminuisce costantemente, perché C cresce ancora più rapidamente di (pv).

Non vi è dunque nessuna contraddizione nel fatto che (p1) ed (r) possano aumentare continuamente e indipendentemente l’un dall’altro, mentre

pv : C = p : C e p1 : C, i : C e r : C diminuiscono ugualmente di continuo, o nel fatto che (p1) aumenti rispetto ad (i), o (r) rispetto a (p1) o (r) rispetto a (p1) ed  (i). Quando il plusvalore complessivo o profitto pv = p aumenta, mentre contemporaneamente il saggio del profitto =  pv : C = p : C diminuisce, il rapporto delle parti (p1) , (i) ed (r)  — che compongono pv = p —  può variare in qualsiasi modo entro i limiti determinati dalla somma (pv), senza che con ciò venga alterata la grandezza di (pv)  o di pv : C.

La variazione reciproca di (p1) ed  (r) esprime semplicemente che  (pv)  si ripartisce in modo diverso fra le diverse rubriche.

Può anche accadere che  p1 : C, i : C o r : C, ossia saggio del profitto industriale individuale, saggio di interesse e rapporto della rendita al capitale complessivo, aumentino l’uno rispetto all’altro, mentre pv : C ossia il saggio generale del profitto, diminuisce; la sola condizione è che la loro somma complessiva resti uguale a pv : C.

Supponiamo che il saggio del profitto si riduca dal 50% al 25%, e la composizione del capitale, il essendo  il saggio del plusvalore del 100%, si modifichi come indicato nella tabella I da A a B;

Tab. I

 

c

v

C = k

pv = pm

Valore prodotto

Valore della merce

pv%

p’%

A

50

50

100

50

100

150

100

50

B

75

25

100

25

50

125

100

25

Nel primo caso (A) un capitale di 1.000 darà un profitto di 500 e nel secondo caso (B) un capitale di 4.000 darà un profitto di 1.000. (pv) oppure (p)  si sarà raddoppiato mentre (p’) sarà ridotto della metà.

Supponendo che nel primo caso i 50% del primo caso risultassero composti di 20 di profitto, 10 di interesse, 20 di rendita, vale a dire che si sia avuto

 p1 : C = 20%,   i : C = 10%,   r : C = 20%,

nel secondo caso, rimanendo inalterato il rapporto, si avrebbe:

p1 : C = 10%,   i : C = 5%,   r : C = 10%

Se la ripartizione fosse invece

p1 : C = 8%   e   i : C = 4%,   si avrebbe r : C = 13%

la grandezza proporzionale di (r) risulterebbe accresciuta rispetto a (p) e (i), ma (p’) sarebbe rimasto costante.

Nelle due ipotesi la somma di (p1+ i + r)  risulterebbe aumentata poiché è prodotta da un capitale 4 volte più grande.

La premessa di Ricardo che all’origine il profitto industriale (più l’interesse) assorbe interamente il plusvalore è falsa storicamente e logicamente. È al contrario solo il progresso della produzione capitalistica che :

1) fa affluire di prima mano tutto il profitto ai capitalisti industriali e commerciali per una ulteriore ripartizione,

e

2) riduce la rendita alla differenza che rimane dopo la detrazione del profitto.

E su questa base capitalistica ricomincia a crescere la rendita che è una parte del profitto (vale a dire del plusvalore considerato come prodotto del capitale complessivo) e non la parte specifica del prodotto che il capitalista intasca.

Presupponendo dati i mezzi di produzione necessari, vale a dire una accumulazione sufficiente di capitale, la creazione del plusvalore trova il suo unico limite nella popolazione operaia, se è determinato il saggio del plusvalore, ossia del grado di sfruttamento del lavoro; oppure nel grado di sfruttamento del lavoro, se è data la popolazione operaia.

Il processo di produzione capitalistico consiste essenzialmente nella produzione del plusvalore, rappresentato dal plusprodotto ossia dalla parte aliquota delle merci prodotte, nella quale è oggettivato un lavoro non pagato. Non si deve mai dimenticare che la produzione di questo plusvalore — e la riconversione di una parte di esso in capitale o accumulazione formano una parte integrante di questa produzione di plusvalore — costituisce lo scopo immediato ed il motivo determinante della produzione capitalistica. Non si deve dunque mai rappresentare quest’ultima per ciò che non è, vale a dire come produzione avente per scopo immediato il godimento o la produzione di mezzi di godimento per il capitalista. Con ciò si astrae completamente dal suo specifico carattere, che si presenta in tutta la sua intima essenza.

Il guadagnare questo plusvalore costituisce il processo di produzione immediato che, come si è già detto, non ha altri limiti oltre quelli sopra menzionati. Il plusvalore è prodotto non appena il pluslavoro che è possibile estorcere si trova oggettivato nelle merci. Ma con questa produzione del plusvalore si chiude solo il primo atto del processo di produzione capitalistico, la produzione immediata. Il capitale ha assimilato una quantità determinata di lavoro non pagato. Contemporaneamente allo sviluppo del processo, che si  esprime in una diminuzione del saggio del profitto, la massa di plusvalore così prodotta si gonfia all’infinito.

Comincia ora il secondo atto del processo. La massa complessiva delle merci, il prodotto complessivo, tanto la parte che rappresenta il capitale costante e variabile, come quella che rappresenta il plusvalore, deve essere venduta. Qualora questa vendita non abbia luogo o avvenga solo in parte oppure a prezzi inferiori a quelli di produzione, lo sfruttamento dell’operaio, che esiste in ogni caso, non si tramuta in un profitto per il capitalista e può dar luogo ad una realizzazione nulla o parziale del plusvalore estorto ed anche a una perdita parziale o totale del suo capitale. Le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione non sono identiche: esse differiscono non solo dal punto di vista del tempo e del luogo ma anche della sostanza. Le une sono limitate esclusivamente dalla forza produttiva della società, le altre dalla proporzione esistente tra i diversi rami di produzione e dalla capacità di consumo della società. Quest’ultima, a sua volta, non è determinata né alla forza produttiva assoluta né alla capacità di consumo assoluta ma dalla capacità di consumo fondata su una distribuzione antagonistica che riduce il consumo della grande massa della società ad un limite che può variare solo entro confini più o meno ristretti. Essa è inoltre limitata dall’impulso ad accumulare, ad accrescere il capitale ed ottenere delle quantità sempre più forti di plusvalore. Per la produzione capitalistica si tratta di una legge determinata dalle incessanti rivoluzioni nei metodi di produzione, dal deprezzamento continuo del capitale esistente che ne è la conseguenza, dalla concorrenza generale e dalla necessità infine di perfezionare la produzione ed allargarne le dimensioni, al semplice scopo di conservarla ed evitare la rovina. Il mercato di conseguenza deve essere costantemente ampliato, cosicché  suoi rapporti e le condizioni che li regolano assumono sempre di più l’apparenza di una legge naturale indipendente dai produttori, sfuggono sempre di più al controllo. La contraddizione intrinseca cerca una compensazione mediante l’allargamento del campo esterno della produzione. Ma tanto più la forza produttiva si sviluppa e tanto maggiore è il contrasto in cui viene a trovarsi con la base ristretta su cui poggiano i rapporti di consumo. E non vi è nulla di inspiegabile nel fatto che, su questa base piena di contraddizioni, un eccesso di capitale sia collegato con un eccesso crescente di popolazione; e quantunque la massa di plusvalore risulterebbe aumentata nel caso che si assorbisse l’eccesso di popolazione con l’eccesso di capitale, si accentuerebbe con ciò il conflitto fra le condizioni in cui questo plusvalore è prodotto e quelle in cui invece è realizzato.

Per un determinato saggio del profitto, la massa del profitto dipende sempre dalla grandezza del capitale anticipato.

Ma l’accumulazione è allora determinata dalla parte di questa massa che è riconvertita in capitale. Ma questa parte, che corrisponde al profitto meno il reddito consumato dal capitalista, dipenderà non solo dal valore di questa massa ma anche dal prezzo delle merci che il capitalista può con ciò acquistare, sia delle merci destinate al suo consumo personale, al suo reddito, sia di quelle destinate al suo capitale costante. (Si suppone qui che il salario rimanga invariato).

La quantità di capitale che l’operaio mette in opera, di cui egli conserva il valore con il suo lavoro, facendolo riapparire nel prodotto, differisce assolutamente dal valore che egli vi aggiunge.

Se per esempio la massa di capitale è uguale a 1.000 ed il lavoro aggiunto corrisponde a 100, allora il capitale riprodotto ha un valore di 1.100. Se la massa di capitale è di 100 ed il lavoro aggiunto di 20, il capitale riprodotto è di 120. Il saggio del profitto è del 10% nel primo caso e del 20% nel secondo e tuttavia l’accumulazione sui 100 della prima ipotesi può essere maggiore di quella sui 20 della seconda ipotesi. E così, astrazione fatta dal suo deprezzamento proveniente dall’aumento della forza produttiva, la corrente del capitale, o la sua accumulazione, continua a scorrere con un impeto che dipende dalla forza che già possiede e non dal saggio del profitto.

Un elevato saggio del profitto può coesistere con un elevato saggio del plusvalore quando la giornata lavorativa sia molto lunga, quantunque il lavoro sia improduttivo precisamente perché i bisogni degli operai sono molto modesti ed il salario medio molto basso. Al basso livello dei salari corrisponde la mancanza di energia degli operai; l’accumulazione di capitale, nonostante l’elevato saggio del profitto, sarà lenta, la popolazione stagnante ed il tempo di lavoro che il prodotto costa considerevole, quantunque il salario pagato all’operaio sia basso.

Il saggio del profitto diminuisce non perché il grado di sfrutta mento dell’operaio sia minore, ma perché viene impiegata una quantità di lavoro minore in rapporto al capitale impiegato.

Se, come si è dimostrato, la diminuzione del saggio del profitto coincide con l’aumento della massa del profitto, ne risulta che il capitalista si appropria un quantitativo maggiore del prodotto annuo del lavoro sotto forma di capitale (per sostituire il capitale consumato) e un quantitativo relativamente minore sotto forma di profitto.

Di qui la fantastica affermazione del prete Chalmers, che la quantità di profitto che i capitalisti intascano sia tanto più considerevole quanto minore è la massa del prodotto annuo che essi spendono come capitale; e la Chiesa di Stato viene loro in aiuto in questo senso, preoccupandosi del consumo piuttosto che della capitalizzazione di una gran parte del plusprodotto. Il prete già nominato confonde causa ed effetto. A misura che il capitale speso si accresce, il profitto, anche se diminuisce come saggio, aumenta come massa. Questo implica tuttavia al tempo stesso una concentrazione di capitale, poiché ora le condizioni di produzione richiedono l’impiego di capitali molto forti; da qui la centralizzazione, vale a dire l’assorbimento dei piccoli capitalisti da parte dei grandi e la loro «decapitalizzazione». Si tratta ancora una volta della separazione — elevata alla seconda potenza — delle condizioni del lavoro dai produttori ai quali questi piccoli capitalisti ancora appartengono, poiché il lavoro in proprio tiene ancora un posto considerevole nel loro corso; il lavoro del capitalista sta in generale in ragione inversa della grandezza del suo capitale, vale a dire del grado in cui egli è capitalista.

È questa separazione fra le condizioni del lavoro da una parte ed i produttori dall’altra, che costituisce la nozione di capitale; essa ha come punto di partenza  l’accumulazione originaria (Libro I, capitolo XXIV), continua a manifestarsi come processo costante nell’accumulazione e nella concentrazione del capitale e qui finalmente si esprime nella centralizzazione dei capitali già esistenti in poche mani e nella decapitalizzazione dei più (forma in cui si manifesta ora l’espropriazione). Questo processo avrebbe come conseguenza quella di portare rapidamente la produzione capitalistica allo sfacelo, qualora altre tendenze contrastanti non esercitassero di continuo un’azione centrifuga accanto alla tendenza centripeta.

II. CONFLITTO FRA L’ESTENSIONE DELLA PRODUZIONE E LA VALORIZZAZIONE.

Lo sviluppo della produttività sociale del lavoro si manifesta in due modi: innanzitutto nel volume delle forze produttive già prodotte, nell’entità del valore e della massa delle condizioni di produzione che danno luogo alla nuova produzione e nella grandezza assoluta del capitale produttivo già accumulato; in secondo luogo nella relativa esiguità della parte di capitale spesa in salario in rapporto al capitale complessivo, ossia nella quantità relativamente modesta di lavoro vivo che è richiesta per riprodurre e valorizzare un capitale determinato, per la produzione in massa. Ciò presuppone nel medesimo tempo la concentrazione del capitale.

In rapporto alla forza-lavoro impiegata, lo sviluppo della forza produttiva si palesa nuovamente sotto un duplice aspetto: innanzitutto nell’incremento del plusvalore ossia nella diminuzione del tempo di lavoro necessario che è richiesto per la riproduzione della forza-lavoro; secondariamente nella riduzione della quantità della forza-lavoro (numero degli operai) che viene impiegata per mettere in opera un capitale determinato.— Questi due movimenti non solo agiscono simultaneamente, ma si determinano reciprocamente, sono manifestazioni di una medesima legge. Essi tuttavia agiscono in senso opposto sul saggio del profitto.

La massa complessiva del profitto corrisponde alla massa complessiva del plusvalore e il saggio del profitto è espresso dalla formula pv : C.

Ma il plusvalore come totale è determinato in primo luogo dal suo saggio, in secondo luogo dalla massa di lavoro contemporaneamente impiegata a questo saggio o, ciò che significa la stessa cosa, dalla grandezza del capitale variabile.

Da un lato uno di questi fattori, il saggio del plusvalore, aumenta, dall’altro lato il secondo fattore, il numero degli operai, diminuisce in senso relativo o assoluto.

In quanto lo sviluppo delle forze produttive fa diminuire la parte pagata del lavoro impiegato, esso accresce il plusvalore aumentandone il saggio; in quanto tuttavia diminuisce la massa complessiva del lavoro impiegato da un determinato capitale, esso diminuisce il coefficiente numerico con cui viene moltiplicato il saggio del plusvalore per ricavarne la massa.

Due lavoratori i quali lavorassero 12 ore al giorno non potrebbero produrre la stessa massa di plusvalore di 24 lavoratori che lavorassero solo due ore giornaliere anche nel caso che essi potessero vivere semplicemente di aria e di conseguenza non dovessero produrre assolutamente nulla per se stessi. Sotto questo rispetto, la possibilità di compensare la diminuzione del numero degli operai aumentando il grado di sfruttamento del lavoro ha dei limiti insuperabili; la caduta del saggio del profitto può essere ostacolata, ma non annullata.

Con lo sviluppo del modo capitalistico di produzione diminuisce dunque il saggio del profitto, mentre la sua massa aumenta unitamente alla massa crescente del capitale messo in opera.

Dato il saggio, la massa assoluta secondo cui il capitale cresce dipende dunque dalla sua grandezza esistente; ma, d’altro lato, questa grandezza essendo data la proporzione secondo cui il capitale cresce, cioè il saggio del suo incremento, dipende dal saggio del profitto. L’aumento della forza produttiva (che inoltre, come si è detto, va sempre di pari passo con la diminuzione di valore del capitale esistente) può accrescere direttamente il valore del capitale solo se elevando il saggio del profitto aumenta la parte di valore del prodotto annuo che deve essere riconvertita in capitale. Nella misura in cui la forza produttiva del lavoro deve venire considerata, questo può accadere (poiché questa forza produttiva non ha nulla a che vedere direttamente con il valore del capitale esistente) unicamente se da ciò derivi un accrescimento del plusvalore relativo od una diminuzione del valore del capitale costante, unicamente dunque se si verifichi una diminuzione del prezzo delle merci che entrano nella riproduzione della forza- lavoro oppure negli elementi del capitale costante. Ambedue i casi determinano una diminuzione di valore del capitale esistente e una riduzione contemporanea del capitale variabile in rapporto al costante; ambedue provocano la diminuzione del saggio del profitto, ma ne rallentano d’altro lato la caduta. Inoltre, nella misura in cui l’accrescimento del saggio del profitto provoca un aumento della domanda di lavoro, esso influisce sull’aumento della popolazione operaia vale a dire della materia sfruttabile senza la quale il capitale non è capitale.

Ma indirettamente lo sviluppo della forza produttiva del lavoro contribuisce ad aumentare il valore del capitale esistente poiché accresce la massa e la varietà dei valori d’uso che corrispondono ad un medesimo valore di scambio e che formano il sostrato materiale, gli elementi concreti del capitale, gli oggetti materiali che costituiscono direttamente il capitale costante ed almeno indirettamente il capitale variabile. Con lo stesso capitale ed il medesimo lavoro viene creata una maggiore quantità di beni che possono esse riconvertiti in capitale, astrazione fatta dal loro valore di scambio; beni che possono servire ad assorbire lavoro addizionale e per conseguenza plusvalore addizionale e formare così del capitale addizionale. La massa di lavoro che il capitale può comandare non dipende dal suo valore ma dalla quantità di materie prime ed ausiliarie, del macchinario ed altri elementi del capitale fisso, dei mezzi di sussistenza di cui esso è composto, qualunque possa esserne il valore. Poiché da questo deriva un aumento della massa del lavoro impiegato e di conseguenza del pluslavoro, aumenta anche il valore del capitale riprodotto unitamente al plusvalore aggiunto.

Ma questi due momenti inerenti al processo di accumulazione non devono essere considerati solo nella loro tranquilla coesistenza, come fa Ricardo: essi contengono una contraddizione, che si manifesta in tendenze e fenomeni contrastanti: agiscono nello stesso tempo l’uno contro l’altro.

Contemporaneamente alle tendenze verso un aumento effettivo della popolazione operaia, che provengono dall’aumento della parte del prodotto complessivo sociale che funziona da capitale agiscono i fattori che creano solamente una sovrappopolazione relativa.

Contemporaneamente alla caduta del saggio del profitto, cresce la massa dei capitali e al tempo stesso si verifica una diminuzione di valore del capitale esistente, che frena questa caduta e tende ad accelerare l’accumulazione del valore-capitale.

Contemporaneamente all'evoluzione della forza produttiva si sviluppa anche la composizione superiore del capitale, la diminuzione relativa della parte variabile in rapporto alla costante.

L’azione di queste influenze contraddittorie si manifesta tanto simultaneamente nello spazio quanto successivamente nel tempo; periodicamente il conflitto fra le forze contrastanti erompe in crisi, le quali sono sempre solo delle temporanee e violente soluzioni delle contraddizioni esistenti, violente eruzioni che ristabiliscono momentaneamente l’equilibrio turbato.

La contraddizione, esposta in termini generali, consiste in questo:

la produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione {vale a dire l’accrescimento accelerato di questo valore).

Per la sua intrinseca natura essa tende a considerare il valore-capitale esistente come mezzo per la massima valorizzazione possibile di questo valore. Fra i metodi di cui si serve per ottenere questo scopo sono inclusi: la diminuzione del saggio del profitto, il deprezzamento del capitale esistente, lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a spese delle forze produttive già prodotte.

Il periodico deprezzamento del capitale esistente, che è un mezzo immanente del modo capitalistico di produzione per arrestare la diminuzione del saggio del profitto ed accelerare l’accumulazione del valore-capitale mediante la formazione di nuovo capitale, turba le condizioni date in cui si compie il processo di circolazione e di riproduzione del capitale e provoca di conseguenza degli arresti improvvisi e delle crisi del processo di produzione.

La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al costante che si verifica parallelamente allo sviluppo della forza produttiva, stimola l’accrescimento della popolazione operaia mentre crea di continuo una sovrappopolazione artificiale.

L’accumulazione di capitale, per quanto riguarda il valore, è rallentata dalla diminuzione de saggio del profitto al fine di accelerare ancora l’accumulazione del valore d’uso, mentre questa a sua volta accelera l’accumulazione per quanto riguarda il valore.

La produzione capitalistica tende continuamente a superare questi limiti immanenti, ma riesce a superarli unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta.

Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori.

I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale che si fonda sull'espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali – viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente.

Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono.

III. ECCESSO DI CAPITALE E SOVRAPPOPOLAZIONE.

Contemporaneamente alla caduta del saggio del profitto aumenta il minimo di capitale che è necessario al capitalista individuale per la messa in opera produttiva del lavoro, tanto per il suo sfruttamento in generale, come per far sì che il tempo di lavoro impiegato corrisponda al tempo necessario per la produzione delle merci e non oltrepassi la media di tempo di lavoro socialmente necessario alla loro produzione.

Nello stesso tempo s’accentua la concentrazione perché, oltre certi limiti, un grande capitale con un basso saggio del profitto accumula più rapidamente di un capitale piccolo con un elevato saggio del profitto. Questa crescente contrazione provoca a sua volta, non appena abbia raggiunto un certo livello, una nuova diminuzione del saggio del profitto. La massa dei piccoli capitali frantumati viene così trascinata sulla via delle avventure: speculazione, imbrogli creditizi ed azionari, crisi. Quando si parla di pletora di capitale ci si riferisce sempre o quasi sempre, in sostanza, alla pletora di capitale per il quale la caduta del saggio di profitto non è compensata dalla sua massa — e questo avviene sempre nel caso di nuovi capitali di formazione derivata — oppure alla pletora che questi capitali, incapaci di funzionare da soli, mettono a disposizione dei dirigenti delle grandi industrie sotto forma di credito. Questa pletora di capitale viene determinata dalle stesse circostanze che generano una sovrappopolazione relativa e ne costituisce quindi una manifestazione complementare, quantunque i due fenomeni si trovino ai poli opposti, capitale inutilizzato da un lato e popolazione operaia inutilizzata dall’altro.

Sovrapproduzione di capitale, non delle singole merci - quantunque la sovrapproduzione di capitale generi sempre sovrapproduzione di merci — significa soltanto sovraccumulazione di capitale.

Per capire cosa sia tale sovraccumulazione (più avanti ce ne occuperemo in maniera maggiormente approfondita) è sufficiente presupporla assoluta.

In quali circostanze la sovrapproduzione di capitale può ritenersi assoluta, ossia tale da non estendersi a questo, a quello o ad alcune importanti branche della produzione, ma da essere assoluta nella sua stessa estensione e comprender quindi tutte le branche?

Si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale allorché il capitale addizionale destinato alla produzione capitalistica fosse uguale a zero.

Tuttavia il fine della produzione capitalistica è l'autovalorizzazione del capitale, ossia l’appropriazione del pluslavoro, ovvero la produzione di plusvalore, di profitto.

Non appena dunque il capitale fosse aumentato in proporzione tale nei rispetto alla popolazione operaia che non potrebbe essere prolungato né il tempo di lavoro assoluto fornito da tale popolazione né essere esteso il tempo di pluslavoro relativo (questo ultimo caso del resto non potrebbe verificarsi qualora la domanda di lavoro fosse così elevata da determinare una tendenza al rialzo dei salari), allorché quindi il capitale accresciuto producesse una massa di plusvalore solo equivalente o addirittura inferiore a quella prodotta prima del suo aumento, allora si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale; ovvero il capitale accresciuto C + Δ C non produrrebbe un profitto maggiore oppure produrrebbe un profitto minore di quello dato dal capitale C prima del suo aumento di Δ C.

In entrambi i casi si verificherebbe una notevole ed improvvisa diminuzione del saggio generale del profitto provocata dal cambiamento della composizione del capitale, che non deriverebbe dallo sviluppo della forza produttiva bensì da un accrescimento del valore monetario del capitale variabile (in seguito all’aumento dei salari) e dalla corrispondente diminuzione nel rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario.

Nella realtà, le cose si svolgerebbero in modo tale che una parte del capitale resterebbe interamente o parzialmente inattiva (perché per potersi valorizzare essa avrebbe dovuto prima soppiantare il capitale già in funzione) mentre l’altra parte verrebbe valorizzata ad un saggio del profitto ridotto in seguito alla pressione del capitale totalmente o parzialmente inattivo. Non altererebbe per nulla questo stato di cose il fatto che una parte del capitale supplementare si sostituisse ad una parte del capitale già in funzione e viceversa: si avrebbe sempre da un lato un determinato capitale in funzione e dall’altro un determinato capitale supplementare.

Contemporaneamente alla caduta del saggio del profitto, si verificherebbe questa volta una diminuzione assoluta della massa del profitto poiché, secondo l’ipotesi fatta, la massa della forza-lavoro messa in opera ed il saggio del plusvalore non potrebbero essere aumentati, cosicché non potrebbe essere aumentata neppure la massa del plusvalore. E questa massa di profitto diminuita dovrebbe essere calcolata in base ad un capitale complessivo accresciuto.

Ma anche supponendo che il capitale in funzione continui ad essere valorizzato all’antico saggio del profitto e che la massa di profitto rimanga dunque inalterata, essa dovrebbe pur sempre essere calcolata in base ad un capitale complessivo accresciuto, ne deriverebbe di conseguenza una caduta del saggio del profitto. Quando un capitale complessivo di 1.000 che produce un profitto di 100 (saggio del profitto 100%)  viene accresciuto a 1.500 e dopo il suo aumento produce ancora un profitto di 100 (saggio del profitto 66,66%), nel secondo caso un capitale di 1.000 produrrebbe solo un profitto del 66,66. La valorizzazione dell’antico capitale sarebbe diminuita in senso assoluto. Un capitale di 1.000 non produrrebbe, nelle nuove condizioni, un profitto maggiore di un capitale di 666,66 nelle condizioni di prima.

È tuttavia chiaro che questa effettiva diminuzione di valore dell’antico capitale non potrebbe aver luogo senza conflitto e che il capitale supplementare Δ C non potrebbe operare come capitale senza sostenere una lotta.

Il saggio del profitto non diminuirebbe a causa della concorrenza derivante dalla sovrapproduzione di capitale: al contrario la concorrenza entrerebbe ora in gioco in quanto caduta del saggio del profitto e sovrapproduzione di capitale provengono dalle medesime cause.

La parte di Δ C che si trovasse nelle mani degli antichi capitalisti verrebbe da essi lasciata più o meno inoperosa, e, ciò, al fine di non provocare essi stessi una diminuzione di valore del loro capitale originario od una riduzione della sua attività nel campo di produzione: oppure potrebbe essere messa da essi in opera, anche con una perdita momentanea, onde riversare sui nuovi intrusi e sui loro concorrenti in generale, l’inattività dei capitali supplementari.

La parte di Δ C , che si trovasse nelle nuove mani, cercherebbe di conquistarsi il suo posto a spese dell’antico capitale, e vi riuscirebbe parzialmente quando riducesse all’inattività una parte del l’antico capitale che sarebbe costretto a cedergli il suo posto, sostituendosi a sua volta al capitale supplementare parzialmente o total mente inattivo.

In ogni caso, una dell’antico capitale dovrebbe essere lasciata inattiva, inoperosa nella sua essenza stessa di capitale, che deve operare come capitale e dare un profitto.

Ed è la concorrenza che decide quale aliquota di esso debba  in  particolare condannata all’inoperosità. Fino a che gli affari vanno bene, la concorrenza esercita, come si è visto a proposito del saggio generale del profitto, un’azione di fratellanza sulla classe capitalistica che praticamente si ripartisce il bottino comune, in proporzione del rischio assunto da ognuno.

Appena non si tratta più di ripartire i profitti ma di suddividere le perdite, ciascuno cerca di ridurre il più possibile la propria quota parte della perdita e di riversarla sulle spalle degli altri. La perdita per la classe nell’insieme è inevitabile, ma quanto di essa ciascuno debba sopportare, in quale misura debba assumersene una parte, diventa allora questione di forza e di astuzia e la concorrenza si trasforma in una lotta fra fratelli nemici.

L’antagonismo fra l’interesse di ogni singolo capitalista e quello della classe capitalistica si manifesta allora nello stesso modo come nel periodo di prosperità si era praticamente affermata l’identità di tali interessi per mezzo della concorrenza.

Come si appianerà questo conflitto e come si ristabiliranno condizioni favorevoli ad un movimento «sano» della produzione capitalistica?

La soluzione si trova già racchiusa nella semplice esposizione del conflitto che si tratta di appianare. Essa richiede l’inattività ed anche una parziale distruzione di capitale, per un ammontare corrispondente al valore di tutto il capitale supplementare Δ C  o di una parte di esso.

Tale perdita per altro, come già appare dalla semplice enunciazione del conflitto, non colpisce affatto in misura uguale i diversi capitali particolari; la sua ripartizione viene invece decisa in una lotta di concorrenza nella quale, in relazione ai vantaggi particolari o a posizioni già acquistate, tale perdita si ripartisce molto inegualmente e con manifestazioni assai diverse, cosicché un capitale viene lasciato inattivo, un secondo distrutto, un terzo subisce solo una perdita relativa o una diminuzione di valore temporanea, e così via.

Ma in tutti i casi, per ristabilire l’equilibrio, si renderebbe necessario lasciare inattiva o anche distruggere una quantità più o meno grande di capitale.

Questo processo si estenderebbe in parte alla sostanza materiale del capitale; ossia una parte dei mezzi di produzione, del capitale fisso e del capitale circolante, cesserebbe di funzionare, di agire come capitale; una parte delle imprese produttive già in azione verrebbe lasciata inoperosa.

E quantunque il tempo intacchi tutti i mezzi di produzione (eccettuata la terra) e li deteriori, si verificherebbe, a causa dell’interruzione nel funzionamento del sistema produttivo, una distruzione assai più forte ed effettiva dei mezzi di produzione. L’effetto principale, sotto questo punto di vista, sarebbe tuttavia che questi mezzi di produzione cesserebbero di funzionare come tali; si avrebbe una distruzione più o meno lunga della loro funzione di mezzi di produzione.

La distruzione principale e a carattere più grave avverrebbe per il capitale in quanto esso possiede carattere di valore e quindi per i valori-capitale. La parte del valore-capitale che rappresenta semplicemente dei buoni su un’aliquota del plusvalore futuro, ossia del profitto, in realtà semplici obbligazioni sulla produzione sotto forme diverse, si trova subito deprezzata in seguito alla caduta dei redditi, in base ai quali essa è calcolata. Una parte d’oro e d’argento in contanti rimane inattiva, non opera come capitale. Una parte delle merci a disposizione sul mercato può completare il suo processo di circolazione e di riproduzione solo mediante un'enorme contrazione del suo prezzo, quindi mediante deprezzamento del capitale che essa rappresenta. Allo stesso modo gli elementi del capitale fisso risultano più o meno deprezzati. A questo si aggiunge che il processo di riproduzione dipende da determinate e presupposte condizioni di prezzo e verrà quindi a trovarsi in una situazione di ristagno e di disorganizzazione a causa della diminuzione generale dei prezzi. Tale ristagno e tale disorganizzazione paralizzano la funzione del denaro come mezzo di pagamento, — funzione che si è venuta determinando contemporaneamente allo sviluppo stesso del capitale e che dipende da quelle condizioni di prezzo presupposte — spezzano in cento punti la catena dei pagamenti che scadono a date fisse, vengono ulteriormente aggravate dall’inevitabile collasso del sistema creditizio, sviluppatosi contemporaneamente al capitale e portano a delle crisi burrascose e gravi, a deprezzamenti improvvisi e violenti, ad un'effettiva paralisi e perturbazione del processo di riproduzione e di conseguenza ad una reale contrazione della riproduzione.

Ma altri fattori avrebbero nel medesimo tempo fatto sentire la loro influenza. Il ristagno della produzione avrebbe reso disoccupata una parte della classe operaia ed avrebbe in conseguenza costretto la parte occupata ad accettare una riduzione di salario anche al di sotto del salario medio: operazione che rispetto al capitale avrebbe lo stesso identico effetto di un aumento del plusvalore assoluto o relativo, con un salario medio rimasto invariato. Il periodo di prosperità avrebbe favorito i matrimoni fra gli operai e diminuito il saggio di mortalità infantile, circostanze queste che quantunque possano provocare un aumento reale della popolazione, non determinano un aumento effettivo della popolazione operaia e pur tuttavia esercitano nei rapporti fra capitale e lavoro un effetto analogo a quello che si verificherebbe in seguito ad un aumento di numero degli operai effettivamente in funzione.

La diminuzione dei prezzi e la lotta di concorrenza avrebbero d’altro lato incoraggiato ogni capitalista ad accrescere — mediante l’impiego di nuove macchine, di nuovi metodi perfezionati di lavoro, di nuove combinazioni — il valore individuale del proprio prodotto complessivo al di sopra del valore generale, ossia lo avrebbero incoraggiato ad accrescere la forza produttiva di una determinata quantità di lavoro, a diminuire la proporzione del capitale variabile rispetto al costante  e, quindi, a licenziare degli operai; in breve, a creare una sovrappopolazione artificiale. Inoltre, il deprezzamento degli elementi del capitale costante costituirebbe esso stesso un fattore che provocherebbe un aumento del saggio del profitto. La massa del capitale costante impiegato rispetto al variabile sarebbe accresciuta, ma il valore di questa massa potrebbe essere diminuito. Il rallentamento sopravvenuto nella produzione avrebbe preparato — entro limiti capitalistici — un ulteriore aumento della produzione.

E così il circolo tornerebbe a riprodursi. Una parte del capitale, il cui valore era diminuito in seguito all’arresto della sua funzione, riguadagnerebbe il suo antico valore. Ed a partire da questo momento il medesimo circolo vizioso verrebbe ripetuto con mezzi di produzione più considerevoli, con un mercato più esteso e con una forza produttiva più elevata.

Ma anche nell’ipotesi spinta all’estremo che abbiamo appena fatta, la sovrapproduzione assoluta di capitale non è una sovrapproduzione assoluta in generale, una sovrapproduzione assoluta di mezzi di produzione. Essa è solo una sovrapproduzione di mezzi di produzione, in quanto questi operano come capitale e devono, perciò, in proporzione al valore accresciuto che deriva dall’aumento della loro massa, valorizzare questo valore, creare un valore supplementare.

E tuttavia si tratterebbe sempre di sovrapproduzione, perché il capitale sarebbe incapace di utilizzare il lavoro a quel grado di sfruttamento che è richiesto dallo sviluppo «sano», «normale» del processo capitalistico di produzione, a quel grado di sfruttamento che accresce se non altro la massa di profitto parallelamente alla massa accresciuta del capitale impiegato e non consente che il saggio del profitto diminuisca nella stessa misura in cui il capitale cresce, o che la diminuzione del saggio del profitto sia più rapida dell’aumento di capitale.

Sovrapproduzione di capitale non è altro che sovrapproduzione di mezzi di produzione — mezzi di lavoro e di sussistenza — che possono operare come capitale, ossia essere impiegati allo sfruttamento degli operai ad un grado determinato, poiché la diminuzione del grado di sfruttamento al di sotto di un livello determinato provoca delle perturbazioni e delle paralisi nel processo capitalistico di produzione, crisi, distruzioni di capitale. Non esiste nessuna contraddizione nel fatto che questa sovrapproduzione di capitale sia accompagnata da una sovrappopolazione relativa più o meno grande. Poiché le medesime circostanze che hanno accresciuto la forza produttiva del lavoro, aumentato la massa dei prodotti, ampliato i mercati, accelerato l’accumulazione di capitale come massa e come valore e diminuito il saggio del profitto, hanno creato una sovrappopolazione relativa e creano continuamente una sovrappopolazione di operai che non possono venire assorbiti dal capitale in eccesso perché il grado di sfruttamento del lavoro, che solo consentirebbe il loro impiego, non è abbastanza elevato, o, almeno, perché il saggio del profitto che essi produrrebbero a questo determinato grado di sfruttamento è troppo basso.

Quando il capitale è inviato all’estero, questo non avviene perché sia assolutamente impossibile impiegarlo nel paese ma perché all’estero esso può venire utilizzato ad un saggio di profitto più elevato. Ma questo capitale è effettivamente superfluo riguardo alla popolazione operaia occupata e a quel determinato paese in generale: come tale esso sussiste accanto ad un relativo eccesso di popolazione e fornisce un esempio di come questi due fenomeni coesistano e siano interdipendenti fra loro.

D’altro lato la caduta del saggio del profitto, provocata dall’accumulazione, genera necessariamente la concorrenza. Soltanto il capitale complessivo sociale ed i grandi capitalisti già saldamente installati trovano una compensazione alla caduta del saggio del profitto nell’aumento della massa dei profitti. Il nuovo capitale addizionale che funziona per proprio conto non trova tali condizioni di compensazione, deve cominciare a conquistarsele lottando; e così è la caduta del saggio del profitto che genera la concorrenza fra i capitali, e non inversamente la concorrenza che determina la caduta del saggio del profitto. Tale concorrenza è sempre accompagnata da un aumento temporaneo del salario, e quindi da un’ulteriore caduta temporanea del saggio del profitto; si manifesta anche nella sovrapproduzione dei prodotti, nella saturazione dei mercati. Poiché il capitale non ha come fine la soddisfazione dei bisogni ma la produzione del profitto, e poiché può realizzare questo fine solo usando dei metodi che regolano la massa dei prodotti secondo la scala della produzione e non inversamente, si deve necessariamente venire a creare un continuo conflitto fra le dimensioni limitate del consumo su basi capitalistiche ed una produzione che tende continuamente a superare questo limite che le è assegnato.

Inoltre il capitale si compone di merci e quindi la sovrapproduzione del capitale comporta una sovrapproduzione di merci. Da qui deriva il bizzarro fenomeno che quegli stessi economisti, che negano la possibilità di una sovrapproduzione di merci, l’ammettono invece per il capitale. Quando si afferma che non si tratta di una sovrapproduzione generale ma di una mancanza proporzione fra i diversi rami di produzione, si afferma semplicemente che nella produzione capitalistica la proporzionalità dei diversi rami di produzione risulta continuamente dalla loro sproporzione: poiché qui il nesso interno della produzione complessiva si impone agli agenti della produzione come una legge cieca e non come una legge che, compresa e dominata dal loro intelletto associato, sottometta il processo di produzione al loro comune controllo.

Si pretende inoltre che quei paesi in cui il modo capitalistico di produzione non è sviluppato, consumino e producano nella misura che si addice ai paesi aventi una produzione capitalistica. Se con ciò si vuoi dire che la sovrapproduzione è solamente relativa, questo è perfettamente esatto; ma tutto il modo capitalistico di produzione è solo un modo di produzione relativo i cui limiti non sono assoluti ma lo diventano per il modo di produzione stesso. Come sarebbe altrimenti possibile che possa far difetto la domanda per quelle stesse merci di cui il popolo ha bisogno, e come sarebbe possibile che si debba cercare questa domanda all’estero, su mercati lontani, per poter pagare agli operai del proprio paese la media dei mezzi di sussistenza necessari?

Precisamente perché solo in questo nesso, specificamente capitalistico, il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che lo possiede può metterlo a disposizione del consumo unicamente quando esso si riconverte per lui in capitale.

Infine, quando si afferma che i capitalisti non hanno che da scambiare fra di loro e consumare essi stessi i loro prodotti, si perde completamente di vista la natura della produzione capitalistica e si dimentica che il suo scopo è la valorizzazione del capitale e non il consumo.

In breve, tutte le obiezioni che vengono mosse contro i fenomeni tangibili della sovrapproduzione (fenomeni che per altro si verificano indipendentemente da queste obbiezioni) si riducono in ultima analisi all’affermazione che i limiti della produzione capitalistica non sono limiti inerenti alla produzione in generale e, in conseguenza, non sono neanche limiti dello specifico modo di produzione capitalistico. Ma la contraddizione esistente nel modo capitalistico di produzione, consiste proprio nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive che vengono continuamente a trovarsi in conflitto con le specifiche condizioni di produzione entro le quali il capitale si muove e può solo muoversi.

Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente.

Al contrario, se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo conveniente ed umano la massa della popolazione.

Non vengono prodotti troppi mezzi di produzione, per poter occupare la parte della popolazione capace di lavorare. Al contrario. Si crea innanzitutto una parte troppo grande di popolazione che effettivamente non è atta al lavoro ed è costretta dalle sue particolari condizioni a sfruttare il lavoro altrui o ad eseguire dei lavori che possono essere considerati tali solo in un modo di produzione assolutamente miserabile.

In secondo luogo, non si producono sufficienti mezzi di produzione perché tutta quanta la popolazione capace di lavorare possa farlo nelle circostanze più produttive, in modo che il suo tempo di lavoro assoluto venga ridotto dalla massa e dall’efficienza del capitale costante impiegato durante il tempo di lavoro. Ma vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza perché possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento degli operai a un determinato saggio del profitto. Vengono prodotte troppe merci, perché il valore ed il plusvalore che esse contengono possano essere realizzati e riconvertiti in nuovo capitale, e nei rapporti di distribuzione e di consumo inerenti alla produzione capitalistica, ossia perché questo processo possa compiersi senza che si verifichino continue esplosioni.

Non viene prodotta troppa ricchezza. Ma periodicamente viene prodotta troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, che hanno un carattere antitetico.

Il limite del modo capitalistico di produzione si manifesta nei fatti seguenti:

1. Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, determinando la caduta del saggio del profitto, genera una legge che, ad un dato momento, si oppone inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e che deve quindi di continuo essere superata per mezzo di crisi.

2. L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione ed i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione del lavoro non pagato ed al rapporto fra questo lavoro non pagato ed il lavoro oggettivato in generale o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto ed al rapporto fra questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio del profitto. Essa incontra quindi dei limiti ad un certo grado di sviluppo, che sembrerebbe viceversa assai inadeguato sotto l’altro punto di vista. Si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo arresto.

Quando il saggio del profitto diminuisce, il capitale da un lato raddoppia i suoi sforzi ed ogni singolo capitalista, impiegando metodi migliori ecc., cerca di ridurre il valore individuale della sua merce particolare al disotto del suo valore medio sociale, realizzando così, a dato prezzo di mercato, un sovrapprofitto, d’altro lato, si verifica una ripresa della speculazione ed un generale incoraggiamento alla speculazione che si esprime in appassionati tentativi di nuovi metodi di produzione, di nuovi investimenti di capitali, nuove avventure, al fine di assicurare in qualsiasi modo un extraprofitto, indipendente dal profitto medio generale e ad esso superiore.

Il saggio del profitto, ossia l’incremento proporzionale di capitale è particolarmente importante per tutti i capitali di nuova formazione che si raggruppano indipendentemente.

E non appena la formazione di capitale diventasse monopolio di pochi grandi capitali già affermatisi, che trovassero nella massa un compenso al saggio del profitto, si spegnerebbe il fuoco vivificatore della produzione e questa cadrebbe in letargo. Il saggio del profitto costituisce la forza motrice della produzione capitalistica: viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto.

Di qui l’angoscia degli economisti inglesi di fronte alla diminuzione del saggio del profitto. Il fatto che la sola possibilità allarma Ricardo, dimostra la sua profonda conoscenza delle condizioni della produzione capitalistica. Quello che è più significativo in lui è proprio quanto gli viene rimproverato, ossia di non dare alcuna importanza nel suo studio della produzione capitalistica «agli uomini», per attenersi esclusivamente allo sviluppo delle forze produttive, per quanto grandi siano i sacrifici in uomini ed in valori-capitale che esso comporta.

Lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale costituisce la missione storica e la ragione d’essere del capitale: è appunto mediante tale sviluppo che inconsciamente esso crea le condizioni materiali di una forma più elevata di produzione.

Quello che inquieta Ricardo è che il saggio del profitto, forza motrice della produzione capitalistica, condizione e stimolo al tempo stesso dell’accumulazione, sia compromesso dallo sviluppo stesso della produzione. Ed il rapporto quantitativo è tutto qui. Ma vi è in realtà alla base del problema qualche cosa di più profondo che egli appena sospetta. Viene qui dimostrato in termini puramente economici, cioè dal punto di vista borghese, entro i limiti della comprensione capitalistica, dal punto di vista della produzione capitalistica stessa, che quest’ultima è limitata e relativa: che essa non costituisce un modo di produzione assoluto ma semplicemente storico, corrispondente ad una certa, limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione.

IV. CONSIDERAZIONI COMPLEMENTARI.

Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro procede molto inegualmente nei diversi rami industriali, non solo per quanto riguarda il grado di intensità ma anche per quanto riguarda la sua direzione, sovente opposta. Ne consegue che la massa del profitto medio (ossia del plusvalore) deve essere di molto inferiore a quella che sarebbe logico prevedere in base allo sviluppo della forza produttiva nei rami industriali più progrediti. Il fatto che lo sviluppo della forza produttiva nei diversi rami industriali si manifesta non solo in proporzioni molto diverse, ma spesso in direzione contraria, non è dovuto unicamente all’anarchia determinata dalla concorrenza o al particolare carattere del modo borghese di produzione; si ricollega anche con le condizioni naturali che diminuiscono sovente il loro rendimento nella stessa misura in cui la produttività — in quanto dipende da condizioni sociali — aumenta. Come conseguenza si hanno movimenti in senso contrario in queste diverse sfere produttive ed al progresso da una parte corrisponde il regresso dall’altra. Basta considerare, ad esempio la semplice influenza delle stagioni, dalla quale dipende la quantità della maggior parte delle materie prime, l’esaurimento di boschi, di miniere di carbone e di ferro, ecc.

Mentre la parte circolante del capitale costante, materie prime ecc., non cessa di aumentare proporzionalmente alla produttività del lavoro, non si verifica lo stesso fatto per il capitale fisso, edifici, macchinario, impianti per l’illuminazione, per il riscaldamento, ecc. Con l’accrescersi del suo volume la macchina diventa, è vero, sempre più costosa in senso assoluto, ma nello stesso tempo essa diventa relativamente sempre meno cara. Se cinque operai producono oggi un quantitativo di merci che è dieci volte più grande di prima, questo non significa che occorra moltiplicare per dieci la spesa di capitale fisso; il valore di questa parte del capitale costante cresce, è vero, parallelamente allo sviluppo della forza produttiva, ma è ben lungi dal crescere nella stessa proporzione. Diverse volte noi abbiamo già messo in rilievo che il rapporto fra il capitale costante e quello variabile, come esso si esprime nella diminuzione del saggio del profitto, non coincide con quello stesso rapporto, come si presenta con lo sviluppo della produttività del lavoro in relazione alla singola merce ed al suo prezzo.

(Il valore della merce è determinato dal tempo di lavoro complessivo, passato e vivo, che vi è incorporato. L’aumento della produttività del lavoro consiste proprio nel fatto che la parte che rappresenta il lavoro vivo diminuisce e quella che rappresenta il lavoro passato si accresce, ma la proporzione è tale che la somma complessiva di lavoro contenuta nella merce decresce: in altre parole il lavoro vivo diminuisce più di quanto non aumenti il lavoro passato. Tale lavoro passato, oggettivato nel valore di una merce — la parte costante del capitale — si compone per una parte di logorio di capitale costante fisso e per una parte di capitale costante circolante — materie prime ed ausiliarie — interamente assorbito dalla merce. Con l’aumento delle produttività del lavoro la parte di valore che proviene dalle materie prime e dalle materie ausiliarie deve diminuire, poiché la produttività rispetto ad esse si manifesta precisamente in una diminuzione del loro valore. Al contrario, ed in ciò consiste la caratteristica della crescente produttività del lavoro, la parte fissa del capitale costante subisce un aumento molto forte e con ciò si accresce necessariamente anche quella parte di valore che viene trasferita alle merci a titolo di logorio. Perché un nuovo metodo di produzione si esprima effettivamente in un aumento della produttività, bisogna che esso diminuisca il valore della merce, ossia che esso trasmetta alla singola merce, a titolo di logorio del capitale fisso, una parte di valore addizionale inferiore alla parte di valore che viene detratta, che viene risparmiata in conseguenza della diminuzione del lavoro vivo. E questo risultato si deve verificare anche quando, come avviene in alcuni casi, nella formazione del valore della merce entra in aggiunta alla parte addizionale di valore che rappresenta il logorio del capitale fisso, una parte addizionale di valore proveniente dalle materie prime od ausiliarie richieste in maggior quantità o più costose. Bisogna dunque che tutte le aggiunte di valore siano largamente compensate dalla diminuzione di valore risultante dal risparmio di lavoro vivo.

La riduzione della quantità complessiva di lavoro incorporata nella merce sembra costituire la caratteristica essenziale dell’aumento della forza produttiva del lavoro, indipendentemente dalle condizioni sociali in cui ha luogo la produzione. In una società in cui i produttori regolano la produzione in base ad un piano determinato in anticipo ed anche nella produzione semplice delle merci, la produttività del lavoro sarebbe necessariamente calcolata secondo questo principio. Ma che cosa accade invece nella produzione capitalistica?

Supponiamo che un determinato ramo di produzione capitalistico produca normalmente la sua merce alle condizioni indicate in A della tabella II seguente (i valori sono relativi ad una unità di merce prodotta) e, per semplificare, supponiamo che in questo ramo di produzione il capitale abbia la composizione media del capitale sociale, vale a dire che il costo di produzione delle merci coincida con il loro valore e che il profitto del capitalista corrisponda al plusvalore realizzato.

Supponiamo ora che venga inventata una macchina, la quale riduca della metà il lavoro vivo necessario per ogni unità di merce, ma triplichi al tempo stesso la parte di valore che rappresenta il logorio del capitale fisso. Si avrà allora la situazione indicata in B nella tabella II (anche qui i valori sono relativi ad una unità di merce prodotta).

Tab. II

 

logorio del capitale fisso

cf

materie prime e ausiliarie

cmat

salario
 

v

Prezzo di costo

k

pv = pm

Valore prodotto

Valore della merce o costo di produzione

pv

p’

 

%

%

A

6

210

24

240

24

48

264

100

10

B

18

210

12

240

12

24

252

100

5

Il valore della merce è dunque diminuito di 12 € grazie alla nuova macchina che ha accresciuto la forza produttiva del lavoro.

Il capitalista tuttavia fa un calcolo profondamente diverso.

Il suo prezzo di costo è ora così composto: logorio cf = 18 €; materie prime ed ausiliarie cmat = 210 €; salario v = 12 € ed esso corrisponde quindi complessivamente a k = 240 € come prima. Poiché la macchina nuova non modifica immediatamente il saggio del profitto, il capitalista deve ricevere il 10% in più del prezzo di costo, ossia 24 €: il prezzo di produzione è sempre lo stesso, 264 €, ma superiore di 12 € al valore.

Per una società che produce nelle condizioni capitalistiche, la merce non è diminuita di prezzo, la nuova macchina non rappresenta un progresso. Il capitalista non ha perciò alcun interesse ad introdurre la nuova macchina. E poiché, qualora la introducesse, priverebbe di ogni valore le macchine che già possiede e che non sono state ancora sfruttate, le ridurrebbe cioè a rottami di ferro, subendo una perdita netta, egli si guarderà bene dal commettere questa stupidaggine, secondo il suo punto di vista, puramente utopistica.

La legge della produttività crescente del lavoro, non ha dunque per il capitale un valore assoluto. Per esso, come noi abbiamo già brevemente messo in rilievo nel Libro I, cap. XIII, si ha accrescimento di produttività non quando si ha un semplice risparmio del lavoro vivo in generale, ma unicamente quando il risparmio della parte di lavoro vivo pagata è superiore all’aumento del lavoro passato. Il modo capitalistico di produzione cade qui in una nuova contraddizione. La sua missione storica è lo sviluppo brutale e in progressione geometrica della produttività del lavoro umano. Esso tradisce questa missione quando, come nel caso citato, pone degli ostacoli allo sviluppo della produttività e dimostra così, ancora una volta, di essere caduco e sempre più sorpassato)[1].

Nella concorrenza, sotto l’azione della produttività crescente, l’aumento del volume minimo di capitale necessario per la gestione proficua di un'impresa industriale autonoma assume le seguenti caratteristiche: non appena l’uso di un nuovo impianto più costoso si è generalizzato, i piccoli capitali si trovano esclusi dalla produzione, poiché essi possono funzionare in modo indipendente nelle diverse sfere di produzione unicamente quando le invenzioni meccaniche sono al loro inizio. D’altro lato le imprese molto ampie, aventi una proporzione straordinariamente elevata di capitale costante come ad es. le ferrovie, non danno il saggio medio del profitto, ma soltanto una frazione di esso, un interesse. Se non fosse così, la diminuzione del saggio generale del profitto sarebbe ancora più forte. In compenso, una forte concentrazione di capitale trova qui, sotto forma di azioni, un campo immediato di investimento.

L’aumento del capitale, e quindi l’accumulazione, si ripercuote in una diminuzione del saggio del profitto unicamente quando questo aumento sia accompagnato da modificazioni nel rapporto degli elementi organici del capitale, di cui ci siamo già occupati. Ora, malgrado le continue, quotidiane rivoluzioni dei metodi di produzione, ora l’una, ora l’altra parte, più o meno importante, del capitale complessivo, continua per un certo tempo ad accumularsi, in base ad una proporzione media data di questi elementi, cosicché con il suo incremento non si verifica nessuna modificazione organica e non si verificano quindi le cause che determinano la caduta del saggio del profitto. Questo continuo aumento di capitale ed in conseguenza anche l’estensione della produzione, che procede tranquillamente in base ai vecchi metodi di produzione, mentre intorno nuovi metodi cominciano già ad essere applicati, rappresenta un altro fattore che impedisce al saggio del profitto di diminuire nella stessa proporzione in cui si accresce il capitale complessivo sociale.

L’aumento del numero assoluto degli operai, malgrado la diminuzione relativa del capitale variabile speso in salari, non si verifica in tutti i rami della produzione, né si manifesta con la medesima intensità. Nell’agricoltura la diminuzione degli elementi del lavoro vivo può essere assoluta.

D’altro lato però è unicamente nel modo capitalistico di produzione che si riscontra questo bisogno di un aumento, assoluto del numero dei salariati, nonostante la loro diminuzione relativa. In tale sistema le forze-lavoro sono già in eccesso dal momento in cui non sia più necessario occuparle dalle 12 alle 15 ore al giorno. Uno sviluppo delle forze produttive che avesse come risultato di diminuire il numero assoluto degli operai, che permettesse in sostanza a tutta la nazione di compiere la produzione complessiva in un periodo minore di tempo, provocherebbe una rivoluzione perché ridurrebbe alla miseria la maggior parte della popolazione...

Si manifesta qui nuovamente il limite specifico contro cui urta la produzione capitalistica e si dimostra chiaramente come essa non solo non rappresenti la forma assoluta per lo sviluppo delle forze produttive e della produzione della ricchezza, ma debba necessariamente, ad un certo punto, trovarsi in conflitto con questo sviluppo.

Tale conflitto si palesa in parte in crisi periodiche, che provengono dal fatto che ora una parte, ora l’altra della popolazione operaia è resa superflua nel suo vecchio modo d’occupazione. La produzione capitalistica incontra un limite nel tempo superfluo degli operai. L’eccedenza di tempo che la società guadagna non le importa. Lo sviluppo della forza produttiva la interessa unicamente in quanto accresce il tempo di pluslavoro della classe operaia e non in quanto diminuisce in generale il tempo di lavoro per la produzione materiale; si muove quindi in un contrasto.

Si è visto che un’intensificazione dell’accumulazione implica una concentrazione crescente del capitale. Aumenta in tal modo la potenza del capitale, si accentua la personificazione nel capitalista delle condizioni sociali di produzione nei confronti del produttore reale. Il capitale si manifesta sempre più come una potenza sociale — di cui il capitalista è l’agente — che ha oramai perduto qualsiasi rapporto proporzionale con quello che può produrre il lavoro di un singolo individuo; ma come una potenza sociale, estranea, indipendente che si contrappone alla società come entità materiale e come potenza dei capitalisti attraverso questa entità materiale.

La contraddizione fra questa potenza sociale generale alla quale si eleva il capitale e il potere privato del capitalista sulle condizioni sociali della produzione si va facendo sempre più stridente e deve portare alla dissoluzione di questo rapporto ed alla trasformazione delle condizioni di produzione, in condizione di produzioni sociali, comuni, generali. Questa trasformazione è il risultato dello sviluppo delle forze produttive nel modo capitalistico di produzione e della maniera in cui questo sviluppo si compie.

Non esiste un capitalista il quale applichi di buon grado un nuovo metodo di produzione quando questo, pur essendo assai più produttivo ed aumentando considerevolmente il saggio del plusvalore, provoca una diminuzione del saggio del profitto. Ma un tal metodo di produzione fa diminuire il prezzo delle merci. Il capitalista vende in un primo tempo le merci al disopra del loro prezzo di produzione, e forse al disopra del loro valore; egli intasca la differenza fra il costo di produzione ed il prezzo di mercato delle altre merci prodotte a costi di produzione più elevati e può fare questo perché il tempo medio necessario alla produzione di tali merci è superiore al tempo di lavoro inerente al nuovo metodo di produzione. Il suo metodo di produzione è superiore alla media sociale: ma la concorrenza non tarda a generalizzarlo ed a sottometterlo alla legge comune. Ha allora inizio la diminuzione del saggio del profitto — che può manifestarsi in un primo tempo nella sfera di produzione del capitalista, per poi livellarsi al saggio del profitto delle altre sfere — senza che tutto ciò dipenda minimamente dalla volontà del capitalista.

Si deve ancor notare, in proposito, che questa stessa legge trova ugualmente applicazione nelle sfere di produzione i cui prodotti non sono consumati né direttamente, né indirettamente dall’operaio, né entrano nelle condizioni di produzione dei suoi mezzi di sussistenza; quindi anche nelle sfere in cui nessuna diminuzione del prezzo delle merci può aumentare il plusvalore relativo o ridurre il prezzo della forza-lavoro. (Un deprezzamento del capitale costante può però aumentare il saggio del profitto in tutti questi rami, nonostante che lo sfruttamento degli operai rimanga invariato). Non appena il nuovo metodo di produzione comincia a guadagnar terreno, fornendo così la prova tangibile che queste merci possono venire prodotte a costo minore, i capitalisti che continuano a lavorare secondo i vecchi sistemi di produzione devono vendere le loro merci al di sotto del loro pieno prezzo di produzione perché il valore di queste merci è diminuito ed il tempo di lavoro necessario per la loro produzione è superiore a quello sociale. In una parola — e questo sembra essere un effetto della concorrenza — essi pure sono costretti, ad introdurre il nuovo metodo di produzione che diminuisce il rapporto in cui il capitale variabile sta al capitale costante.

Tutti i fattori che hanno come effetto la riduzione del prezzo delle merci prodotte in seguito all’impiego delle macchine, si riducono sempre:

a - alla diminuzione della quantità di lavoro che viene assorbita dalla singola merce,

b - alla riduzione della parte di logorio del macchinario, il cui valore entra nella singola merce.

Meno rapido è il logorio della macchina, tanto maggiore è la quantità di merci sulle quali esso si ripartisce, e più considerevole è il lavoro che essa sostituisce prima che arrivi il momento della sua sostituzione. In ambedue i casi la quantità ed il valore del capitale costante fisso si accrescono rispetto al variabile.

«A parità di altre circostanze, la capacità di una nazione di risparmiare sui suoi profitti varia con il saggio del profitto; è forte quando questo è elevato, minore quando questo è basso; ma quando questo saggio declina tutte le altre circostanze non si mantengono invariate... Un basso saggio del profitto è comunemente accompagnato da una rapida accumulazione (rapid rate of accumulation) rispetto all’entità della popolazione, come in Inghilterra... un elevato saggio del profitto dà un’accumulazione più lenta (slower rate of accumulation) relativamente alla popolazione». Per es. in Polonia, in Russia, nelle Indie ecc. (RICHARD JONES, An Introductory Lecture on Political Economy, Londra 1833, p. 50 sgg.). Jones fa giustamente rilevare che, malgrado la diminuzione del saggio del profitto, occasioni e facoltà di accumulazione si accrescono:

1) perché si ha accrescimento della sovrappopolazione relativa;

2) perché con il progresso della produttività del lavoro aumenta la massa dei valori d’uso rappresentata da un medesimo valore di scambio, quindi aumentano anche gli elementi materiali del capitale;

3) perché i rami di produzione si moltiplicano;

4) perché lo sviluppo del sistema creditizio, delle società per azioni ecc., permettono agli individui di trasformare il denaro in capitale senza diventare essi stessi dei capitalisti industriali;

5) perché si accrescono i bisogni e il desiderio di ricchezza;

6) perché si fanno dei forti investimenti di capitale fisso, e così via.

Le tre caratteristiche fondamentali della produzione capitalistica sono:

1. La concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione, che cessano perciò di apparire come proprietà dei lavoratori diretti e si trasformano in potenze sociali della produzione, anche se in un primo tempo nella forma di proprietà privata dei capitalisti. Questi ultimi sono dei mandatari della società borghese, ma intascano tutti gli utili di tale mandato.

2. L’organizzazione sociale del lavoro mediante la cooperazione, la divisione del lavoro e l’unione del lavoro con le scienze naturali.

In seguito alla concentrazione dei mezzi di produzione ed alla organizzazione sociale del lavoro, il modo capitalistico di produzione sopprime, sia pure in forme contrastanti, e la proprietà individuale e il lavoro privato.

3. La creazione del mercato mondiale.

L’enorme forza produttiva in relazione alla popolazione, quale si sviluppa in seno al modo capitalistico di produzione e, quantunque non nella stessa misura, l’aumento dei valori-capitali (non solamente dei loro elementi materiali) che si accrescono molto più rapidamente della popolazione, si trovano in contrasto e con la base per cui lavora questa enorme forza produttiva, che relativa mente all’accrescimento della ricchezza diventa sempre più angusta, e con le condizioni di valorizzazione di questo capitale crescente. Da questo contrasto hanno origine le crisi.

NOTE


[1] Questa parte è stata chiusa fra parentesi perché, quantunque sia stata redatta secondo una nota del manoscritto originale, presenta alcuni sviluppi che non appartengono al materiale originale trovato. F. E.

 

AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni);

2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura;

a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle;

c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘).

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio.

In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm