IL CAPITALE

LIBRO III

SEZIONE I

TRASFORMAZIONE DEL PLUSVALORE IN PROFITTO
E DEL SAGGIO DEL
PLUSVALORE IN SAGGIO DEL PROFITTO

CAPITOLO 2

IL SAGGIO DEL PROFITTO

La formula generale del capitale è

D — M — D’

vale a dire una summa di valore é messa in circolazione per trarre da essa una maggiore somma di valore.

Il processo che produce questa maggiore somma di valore é la produzione capitalistica;

il processo che la realizza è la circolazione del capitale.

Il capitalista produce la merce non per se stessa, né per il suo valore d’uso né a fine di consumo personale. Il prodotto cui in effetti egli mira non è il prodotto materiale in sé, bensì l’eccedenza di valore del prodotto sul valore del capitale in esso consumato. Il capitalista anticipa il capitale complessivo senza riguardo alle diverse funzioni assolte nella produzione del plusvalore dalle singole parti costitutive del capitale. Egli anticipa tutte queste parti indifferentemente, non soltanto per riprodurre il capitale anticipato, ma per produrre un’eccedenza di valore sul medesimo. Egli può convertire in più elevato valore il valore del capitale variabile anticipato solo mediante lo scambio di quest’ultimo con lavoro vivente, mediante sfruttamento di lavoro vivente. Peraltro egli può sfruttare il lavoro soltanto in quanto contemporaneamente anticipi i presupposti per l’esecuzione di quel lavoro — strumenti e oggetti di lavoro, macchinari e materie prime cioé solo in quanto tramuti una somma di valore di sua proprietà nella forma di condizioni della produzione; come in generale egli è capitalista e può intraprendere il processo di sfruttamento del lavoro soltanto in quanto, come proprietario delle condizioni di lavoro, si contrappone al lavoratore quale semplice possessore della forza lavoro. Si è già mostrato più addietro, nel I libro, che è proprio il possesso di questi mezzi di produzione da parte dei non lavoratori che tramuta i lavoratori in salariati, i non lavoratori in capitalisti.

Per il capitalista è indifferente considerare la cosa come un anticipo di capitale costante per trarre un guadagno dal capitale variabile, oppure come un anticipo di capitale variabile per valorizzare quello costante; come un anticipo di denaro in salari per conferire maggiore valore alle macchine e alle materie prime, oppure come un anticipo di denaro in macchinari e materie prime per potere sfruttare il lavoro. Sebbene solo la parte variabile del capitale crei plusvalore, esso lo crea unicamente alla condizione che siano anticipate anche le altre parti, le condizioni di produzione del lavoro. Poiché il capitalista può sfruttare il lavoro soltanto anticipando il capitale costante e poiché può valorizzare quest’ultimo soltanto anticipando il capitale variabile, tutti questi elementi del capitale si presentano nella sua concezione come equivalenti, e ciò tanto più in quanto la misura reale del suo guadagno è determinata dal rapporto non con il capitale variabile ma con il capitale complessivo, non dal saggio del plusvalore, ma dal saggio del profitto, il quale, come vedremo, può permanere inalterato e tuttavia esprimere saggi diversi del plusvalore.

Dei costi del prodotto fan parte tutti gli elementi costitutivi del suo valore, che il capitalista ha pagato o per i quali ha gettato nella produzione un equivalente. Tali costi debbono essere ricuperati allorché il capitale possa semplicemente conservarsi, cioè riprodursi nella sua originaria grandezza.

Il valore contenuto nella merce è uguale alla durata del lavoro che la produzione della merce costa, e il complesso di tale lavoro consiste di una parte pagata e di una non pagata. I costi della merce per il capitalista consistono invece soltanto della parte del lavoro in essa oggettivato che egli ha pagato. Il plusvalore contenuto nella merce non costa nulla al capitalista, sebbene costi lavoro all’operaio non meno del lavoro pagato e sebbene, proprio come quest’ultimo, produca valore e, quale elemento creatore di valore, entri nella merce. Il profitto del capitalista deriva dal fatto che egli ha da vendere qualcosa che non ha pagato. Il plusvalore, e rispettivamente il profitto, consiste proprio nell’eccedenza del valore della merce sul prezzo di costo, vale a dire nell’eccedenza della somma complessiva di lavoro incorporata nella merce rispetto alla quantità di lavoro pagato che la merce contiene.

Il plusvalore (pv), qualunque sia la sua origine, è quindi un’eccedenza sul capitale complessivo anticipato (C); il rapporto tra il plusvalore ed il capitale complessivo anticipato rappresenta il saggio di profitto (p’), ossia:

saggio del profitto = p’ =  pv : C = pv : (c + v)

Il saggio del profitto esprime il grado di valorizzazione dell’intero capitale anticipato.

Esso di differenzia dal saggio del plusvalore che invece rapporta il plusvalore al capitale variabile.

saggio del plusvalore = pv’ =  pv : v

Si tratta di due misure diverse della stessa grandezza, le quali in conseguenza della diversità dei termini di confronto, esprimono rapporti o relazioni diverse della stessa grandezza.

Dalla trasformazione del saggio del plusvalore in saggio del profitto si deve dedurre la trasformazione del plusvalore, in profitto, e non viceversa.

E in realtà è il saggio del profitto che storicamente ha costituito il punto di partenza.

Plusvalore e saggio del plusvalore sono, in senso relativo, l’invisibile, l’essenziale da scoprire, mentre il saggio del profitto e quindi il profitto, forma del plusvalore, si mostrano alla superficie del fenomeno.

Per quanto riguarda il singolo capitalista, è chiaro che l’unica cosa che lo interessa è il rapporto del plusvalore, il rapporto cioè dell’eccedenza di valore a cui vende le sue merci rispetto al capitale complessivo anticipato per la produzione; mentre il preciso rapporto di tale eccedenza e le sue intime connessioni con i particolari elementi costitutivi del capitale non soltanto non lo interessano, ma è anzi suo interesse rendere confuse le idee in proposito, ricoprire di un velo questi rapporti.

L’eccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo, sebbene creata nel processo immediato di produzione, si realizza soltanto nel processo di circolazione, e tanto più facilmente assume l’apparenza di trarre origine dal processo di circolazione in quanto in realtà, nell’ambito della concorrenza, in un mercato reale, dipende dalle condizioni di mercato se quell’eccedenza stessa si realizza oppure no e in quale grado. Non ha bisogno di esame in questa sede la nozione che quando una merce è venduta sopra o sotto il suo valore, ne risulta soltanto una diversa ripartizione del plusvalore, e che tale diversa ripartizione, cioè il mutato rapporto in cui diverse persone si dividono il plusvalore, non apporta modificazione alcuna né alla grandezza né alla natura del plusvalore. Nell’effettivo processo di circolazione non soltanto si verificano le trasformazioni da noi considerate nel libro II, ma le medesime coincidono con l’effettiva concorrenza, con la vendita e l’acquisto delle merci sopra e sotto il loro valore, sicché per il singolo capitalista il plusvalore da esso personalmente realizzato dipende non meno dal vicendevole raggiro che dal diretto sfruttamento del lavoro.

Nel processo di circolazione, accanto al tempo di lavoro, entra in azione il tempo di circolazione, il quale in tal modo limita la massa del plusvalore realizzabile in un determinato intervallo di tempo. Anche altri fattori derivanti dalla circolazione interferiscono in misura determinante nel processo immediato della produzione.

I due processi, quello immediato di produzione e quello di circolazione, confluiscono e si compenetrano costantemente e quindi falsano di continuo i loro caratteristici segni distintivi.

La produzione del plusvalore e del valore in genere riceve, come già mostrammo in precedenza, nuove determinazioni nel processo di circolazione; il capitale percorre il ciclo delle sue trasformazioni; esso alla fine trapassa per così dire dalla sua vita organica interna a rapporti esterni di vita, a rapporti, in cui si contrappongono non capitale e lavoro, ma capitale e capitale da una parte, gli individui come compratori e venditori dall’altra; tempo di circolazione e tempo di lavoro si incrociano nel loro corso e in tal modo sembrano determinare ambedue in parti uguali il plusvalore; la forma originaria, secondo cui si contrappongono capitale e lavoro salariato, è mascherata per l’interferenza di rapporti che apparentemente sono da essa indipendenti; il plusvalore stesso appare non come il prodotto della appropriazione di tempo di lavoro, ma come eccedenza del prezzo di vendita delle merci sul loro prezzo di costo, il quale ultimo perciò si presenta facilmente come il loro vero valore (valeur intrinsèque), così che il profitto assume l’aspetto di eccedenza del prezzo di vendita delle merci rispetto al loro valore immanente.

Certamente, nel corso dell’immediato processo di produzione la natura del plusvalore si fa strada di continuo nella coscienza del capitalista, come già ci mostrò la sua avidità di tempo di lavoro altrui ecc., in occasione dell’esame del plusvalore. Soltanto:

1. lo stesso processo immediato di produzione è solo un momento fuggevole, che trapassa di continuo nel processo di circolazione, come questo trapassa in quello, per cui l’intuizione — che nel processo di produzione spunta ora più chiara ora più oscura — della sorgente del guadagno ottenuto nel processo stesso, cioè della natura del plusvalore, appare tutt’al più come un momento di uguale peso accanto all’opinione secondo cui l’eccedenza realizzata deriverebbe da un movimento indipendente dal processo di produzione, da un movimento nascente dalla circolazione stessa, e dunque esclusivamente pertinente al capitale all’infuori del suo rapporto con il lavoro. Perfino da economisti moderni come Ramsay, Malthus, Senior, Torrens ecc, questi fenomeni della circolazione sono direttamente addotti come prove che il capitale, nella sua esistenza puramente materiale, indipendentemente dai suoi rapporti sociali con il lavoro, in cui esso è appunto capitale, sarebbe una sorgente autonoma del plusvalore accanto al lavoro e indipendentemente dal lavoro.

2. Sotto la rubrica dei costi, nella quale si colloca il salario, non meno che il prezzo delle materie prime, il logorio del macchinario ecc., l’estorsione di lavoro non pagato appare soltanto come risparmio nel pagamento di uno degli elementi che entrano nei costi, soltanto come minor pagamento per una determinata quantità di lavoro; proprio come si risparmia quando si comprano a minor prezzo le materie prime, oppure si riduce il logorio del macchinario. In tal modo l’estorsione di pluslavoro perde il suo carattere specifico; il suo specifico rapporto col plusvalore si oscura: ciò viene di molto favorito e facilitato, come mostrammo nel libro I, sezione VI, dalla rappresentazione del valore della forza-lavoro nella forma di salario.

Apparendo tutte le parti del capitale egualmente come fonti del valore eccedente (profitto), il rapporto capitalistico risulta mistificato.

Il modo in cui, mediante il passaggio attraverso il saggio del profitto, il plusvalore è trasformato nella forma del profitto è però soltanto uno sviluppo ulteriore dell’inversione di soggetto e oggetto che già si verifica durante il processo della produzione.

Già qui noi vedemmo tutte le forze produttive soggettive del lavoro presentarsi come forze produttive del capitale.  Da una parte il valore, il lavoro passato, che domina il lavoro vivente, viene personificato nel capitalista; dall’altra parte, all’inverso, l’operaio appare come forza-lavoro puramente oggettiva, come merce. Da tale rovesciamento di rapporti necessariamente deriva già nella semplice fase della produzione stessa il corrispondente rovesciamento di concezioni, una trasposizione di coscienza, che viene ulteriormente sviluppata dalle trasformazioni e modificazioni del vero e proprio processo di circolazione.

Come si può verificare presso la scuola di Ricardo, è un tentativo del tutto assurdo il voler rappresentare le leggi del saggio del profitto direttamente come leggi del saggio del plusvalore e viceversa. Nella testa del capitalista esse naturalmente non si differenziano. Nell’espressione pv : C  il plusvalore è misurato in rapporto al valore del capitale complessivo che è stato anticipato per la sua produzione e in questa in parte consumato integralmente, in parte soltanto impiegato. Infatti il rapporto pv : C esprime il grado di valorizzazione dell’intero capitale anticipato, cioè, per esprimerci in termini corrispondenti all’intima sostanza concettuale e alla natura del plusvalore, esso indica in quale rapporto stia la grandezza della variazione del capitale variabile rispetto alla grandezza del capitale complessivo anticipato.

In sé e per sé la grandezza del valore del capitale complessivo non sta in alcun rapporto intrinseco con la grandezza del plusvalore, almeno non in forma immediata.

Considerato nei suoi elementi materiali il capitale complessivo minus il capitale variabile, in altre parole, il capitale costante, è costituito dalle con dizioni materiali per la realizzazione del lavoro, cioè dagli strumenti di lavoro e dal materiale di lavoro. Affinché una determinata quantità di lavoro si realizzi in merce e crei quindi anche il valore, si richiede una determinata quantità di materiale di lavoro e di strumenti di lavoro. Secondo il particolare carattere del lavoro incorporato si instaura un determinato rapporto tecnico fra la massa del lavoro e la massa dei mezzi di produzione cui questo lavoro vivente deve essere applicato. Perciò si stabilisce anche un determinato rapporto fra la massa del plusvalore o del pluslavoro e la massa dei mezzi di produzione.

Se per esempio il lavoro necessario per la produzione del salario ammonta giornalmente a 6 ore, l’operaio deve lavorare 12 ore per effettuare un pluslavoro di 6 ore, per produrre cioè un plusvalore del 100%. Nelle 12 ore egli consuma il doppio dei mezzi di produzione che non nelle 6 ore. Ma per tal ragione il plusvalore che egli produce in 6 ore non sta affatto in alcun rapporto immediato con il valore dei mezzi di produzione consumati nelle 6 o nelle 12 ore. Tale valore è qui del tutto indifferente; quel che importa è soltanto la massa tecnicamente necessaria. È affatto indifferente che le materie prime e gli strumenti di lavoro siano a buon mercato o a caro prezzo; purché essi posseggano il richiesto valore d’uso e siano disponibili nella proporzione tecnicamente prescritta per il lavoro vivente da assorbire. Se però mi è noto che in un’ora vengono filati (x) quintali di cotone per un costo di (a) euro, mi è pure noto naturalmente che in 12 ore vengono filate (12 . x) quintali di cotone = (12 . a) euro, e posso allora calcolare il rapporto del plusvalore rispetto al valore sia delle 12 che delle 6 ore. Ma il rapporto del lavoro vivente rispetto al valore dei mezzi di produzione interviene qui soltanto in quanto (a) euro servono a designare (x) quintali di cotone; giacché una determinata quantità di cotone ha un prezzo determinato e perciò anche, inversamente, un determinato prezzo può servire come indice per una determinata quantità di cotone, fin quando il prezzo del cotone non subisca variazioni.

Se mi è noto che per appropriarmi 6 ore di pluslavoro devo fare lavorare per 12 ore e quindi avere pronto cotone sufficiente per 12 ore, e se conosco il prezzo di questa quantità di cotone necessaria per 12 ore, viene a determinarsi per via indiretta un rapporto fra il prezzo del cotone (come indice della quantità necessaria) e il plusvalore. Ma, viceversa, non mi è mai possibile dedurre dal prezzo delle materie prime la massa delle materie stesse, che, per esempio, può essere filata in un’ora soltanto e non in 6.

Non esiste dunque alcun necessario intrinseco rapporto fra il valore del capitale costante e quindi nemmeno fra il valore del capitale complessivo (c + v), e il plusvalore.

Se il saggio del plusvalore è noto e la sua grandezza determinata, il saggio del profitto non esprime nient’altro che ciò che esso è in realtà, cioè una diversa misura del plusvalore, la misura di quest’ultimo rispetto al valore del capitale complessivo, invece che al valore della parte di capitale dalla quale esso direttamente trae vita grazie al suo scambio col lavoro.

Ma nella realtà (cioè nel mondo fenomenico) le cose si presentano in modo inverso.

Il plusvalore è un dato di fatto, ma considerato come eccedenza del prezzo di vendita della merce sul suo prezzo di costo; con il che rimane un mistero donde provenga tale eccedenza, se dallo sfruttamento del lavoro nel processo di produzione o dal raggiro dei compratori nel processo di circolazione oppure da ambedue i fenomeni.

Ciò che è pure un dato di fatto è il rapporto di questa eccedenza rispetto al valore del capitale complessivo, vale a dire il saggio del profitto. Il computo di tale eccedenza del prezzo di vendita su prezzo di costo commisurata al valore del capitale complessivo anticipato, è molto importante e naturale, giacché in realtà si viene con ciò a trovare la proporzionale nella quale il capitale complessivo si è valorizzato, ossia il grado di valorizzazione di quest’ultimo.

Se si prende come punto di partenza questo saggio del profitto, diventa assolutamente impossibile stabilire un rapporto specifico fra l’eccedenza e la parte del capitale speso in salari.

Si vedrà in un successivo capitolo quali stravaganti capriole faccia Malthus quando cerca per questa strada di penetrare il segreto del plusvalore e dello specifico rapporto del medesimo con la parte variabile del capitale. Ciò che il saggio del profitto come tale pone in evidenza è invece un rapporto uniforme tra l’eccedenza e parti identiche in grandezza del capitale, il quale da questo punto di vista non rivela in genere distinzioni interne di sorta all’infuori di quella fra capitale fisso e circolante. E anche questa distinzione la rivela solo in quanto l’eccedenza viene calcolata in duplice forma.

Cioè in primo luogo come semplice grandezza: eccedenza sul prezzo di costo. In questa sua prima forma tutto il capitale circolante entra nel prezzo di costo, mentre del capitale fisso vi si immette solo la quota consumata.

In secondo luogo: come il rapporto di questa eccedenza di valore rispetto al valore complessivo del capitale anticipato. Qui entra nel computo il valore dell’intero capitale fisso non meno di quello del capitale circolante.

Quest’ultimo interviene dunque ambedue le volte in identico modo, mentre il capitale fisso interviene una volta nella stessa maniera del capitale circolante, e un’altra volta in maniera diversa. In tal modo la distinzione fra capitale circolante e fisso si impone qui come l’unica.

L’eccedenza dunque se, per esprimerci in termini hegeliani, si riflette dal saggio del profitto in se stessa, o, in altre parole, l’eccedenza caratterizzata più strettamente dal saggio del profitto, appare come un’eccedenza che il capitale produce annualmente oppure in un determinato periodo di circolazione, in più del suo proprio valore.

Pertanto, sebbene il saggio del profitto sia diverso quantitativamente dal saggio del plusvalore mentre plusvalore e profitto sono in realtà la stessa cosa e sono anche quantitativamente identici il profitto è non di meno una forma mutata del plusvalore, una forma in cui viene dissimulata e cancellata l’origine del plusvalore e il segreto della sua esistenza.

In realtà il profitto è la forma fenomenica del plusvalore, il quale ultimo deve essere enucleato dal primo mediante un processo di analisi.

 Nel plusvalore è messo a nudo il rapporto fra capitale e lavoro; nel rapporto fra capitale e profitto, vale a dire fra il capitale e il plusvalore — dato che quest’ultimo appare da una parte come eccedenza realizzata nel processo di circolazione sul prezzo di costo della merce, e dall’altra parte come un’eccedenza più strettamente determinata per mezzo del suo rapporto con il capitale complessivo — il capitale si presenta come rapporto rispetto a se stesso, un rapporto in cui esso si differenzia come somma di valore originaria da un nuovo valore da esso stesso creato. Ci si rende conto che esso dia vita a un tale nuovo valore nel corso del suo movimento attraverso il processo di produzione e il processo di circolazione. Ma come ciò accada è processo mistificato che sembra tragga origine da qualità segrete inerenti al capitale stesso.

Quanto più ci addentriamo nel processo di valorizzazione del capitale, tanto più il rapporto capitalistico apparirà mistificato e tanto meno si scoprirà il segreto del suo intrinseco organismo.

In questa sezione il saggio del profitto è quantitativamente distinto dal saggio del plusvalore; mentre profitto e plusvalore sono invece trattati come una identica grandezza quantitativa, solo espressa in forma diversa.

Nella sezione successiva vedremo come procede la differenziazione e come il profitto si presenti anche quantitativamente come una grandezza diversa dal plusvalore.

 

 AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni);

2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura;

a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle;

c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘).

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio.

In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm