IL CAPITALE

LIBRO I

SEZIONE I

MERCE E DENARO

CAPITOLO 1

LA MERCE

1. I DUE FATTORI DELLA MERCE: VALORE D'USO E VALORE (SOSTANZA DI VALORE, GRANDEZZA DI VALORE).

La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una "immane raccolta di merci"[1] e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l'analisi della merce.

La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, per esempio il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia, non cambia nulla[2]. Qui non si tratta neppure del come la cosa soddisfi il bisogno umano; se immediatamente, come mezzo di sussistenza, cioè come oggetto di godimento o per via indiretta, come mezzo di produzione.

Ogni cosa utile, come il ferro, la carta, ecc., dev'essere considerata da un duplice punto di vista, secondo la qualità e secondo la quantità. Ognuna di tali cose è un complesso di molte qualità e quindi può essere utile da diversi lati. E' opera della storia[3] scoprire questi diversi lati e quindi i molteplici modi di usare delle cose. Così pure il ritrovamento di misure sociali per la quantità delle cose utili. La differenza nelle misure delle merci sorge in parte dalla differente natura degli oggetti da misurare, in parte da convenzioni.

L'utilità di una cosa ne fa un valore d'uso[4]. Ma questa utilità non aleggia nell'aria. E' un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, un diamante, ecc., è quindi un valore d'uso, ossia un bene. Questo suo carattere non dipende dal fatto che l'appropriazione delle sue qualità utili costi all'uomo molto o poco lavoro. Quando si considerano i valori d'uso si presuppone che siano determinati quantitativamente, come una dozzina di orologi, un metro di tela di lino, una tonnellata di ferro, ecc. I valori d'uso delle merci forniscono il materiale di una loro particolare disciplina d'insegnamento, la merceologia[5]. Il valore d'uso si realizza soltanto nell'uso, ossia nel consumo. I valori d'uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d'uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio.

Il valore di scambio si presenta in un primo momento come il rapporto quantitativo, la proporzione nella quale valori d'uso d'un tipo sono scambiati[6] con valori d'uso di altro tipo; tale rapporto cambia continuamente coi tempi e coi luoghi. Perciò si presenta come qualcosa di casuale e puramente relativo, e perciò un valore di scambio interno, immanente alla merce (valeur intrinsèque) si presenta come una contradictio in adjecto[7]. Consideriamo la cosa più da vicino.

Una certa merce, per esempio 1 kg di grano, si scambia con x lucido da stivali, o con y seta, o con z oro: in breve, si scambia con altre merci in differentissime proporzioni. Quindi il grano ha molteplici valori di scambio invece di averne uno solo. Ma poiché x lucido da stivali, e così y seta, e così z oro, ecc. è il valore di scambio di 1 kg di grano, x lucido da stivali, y seta, z oro, ecc. debbono essere valori di scambio sostituibili l'un con l'altro o di grandezza eguale fra loro. Perciò ne consegue: in primo luogo, che i valori di scambio validi della stessa merce esprimono la stessa cosa. Ma, in secondo luogo: il valore di scambio può essere in generale solo il modo di espressione, la " forma fenomenica " di un contenuto distinguibile da esso.

Prendiamo poi due merci: per esempio grano e ferro. Quale che sia il loro rapporto di scambio, esso è sempre rappresentabile in una equazione, nella quale una quantità data di grano è posta come eguale a una data quantità di ferro, per esempio

1 kg di grano = 1 kg di ferro.

Cosa ci dice questa equazione? Che in due cose differenti, in1 kg di grano come pure in 1 kg di ferro, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Dunque l'uno e l'altro sono eguali a una terza cosa, che in sé e per sé non è né l'uno né l'altro. Ognuno di essi, in quanto valore di scambio, dev'essere dunque riducibile a questo terzo.

Un semplice esempio geometrico ci servirà per dare un'idea di ciò. Per determinare e per confrontare la superficie di tutte le figure rettilinee, le risolviamo in triangoli. Poi riduciamo il triangolo ad una espressione del tutto differente dalla sua figura visibile, al semiprodotto della base per l'altezza. Allo stesso modo i valori di scambio delle merci sono riducibili a qualcosa di comune, di cui rappresentano un'aggiunta o una diminuzione.

Questo qualcosa di comune non può essere una qualità geometrica, fisica, chimica o altra qualità naturale delle merci. Le loro proprietà corporee si considerano, in genere, soltanto in quanto le rendono utilizzabili, cioè le rendono valori d'uso. Ma d'altra parte è proprio tale astrarre dai loro valori d'uso che caratterizza con evidenza il rapporto di scambio delle merci. Entro tale rapporto, un valore di scambio è valido quanto un altro, purchè ve ne sia in proporzione sufficiente. Ossia, come dice il vecchio Barbon: " Un genere di merci è buono quanto un altro, se il loro valore di scambio è di eguale grandezza. Non esiste nessuna differenza o distinguibilità fra cose che abbiano valore di scambio di eguale grandezza "[8].

Come valori d'uso le merci sono soprattutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè non contengono nemmeno un atomo di valore d'uso.

Ma, se si prescinde dal valore d'uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Eppure anche il prodotto del lavoro ci si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore d'uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che lo rendono valore d'uso. Non è più tavola, né casa, né filo né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. E non è più nemmeno il prodotto del lavoro di falegnameria o del lavoro edilizio o del lavoro di filatura o di altro lavoro produttivo determinato. Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto.

Consideriamo ora il residuo dei prodotti del lavoro. Non è rimasto nulla di questi all'infuori di una medesima spettrale oggettività, d'una semplice concrezione di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose rappresentano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavorativa umana, è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono valori, valori di merci.

Nel rapporto di scambio delle merci stesse il loro valore di scambio ci è apparso come una cosa completamente indipendente dai loro valori d'uso. Ma se si fa realmente astrazione dal valore d'uso dei prodotti del lavoro, si ottiene il loro valore come è stato or ora determinato. Dunque quell'elemento comune che si manifesta nel rapporto di scambio o nel valore di scambio della merce, è il valore della merce stessa. Il progredire dell'indagine ci ricondurrà al valore di scambio come modo di espressione necessario o forma fenomenica del valore, il quale tuttavia in un primo momento è da considerarsi indipendentemente da quella forma.

Dunque, un valore d'uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano.

E come misurare ora la grandezza del suo valore?

Mediante la quantità della "sostanza valorificante", cioè del lavoro, in esso contenuta. La quantità del lavoro a sua volta si misura con la sua durata temporale, e il tempo di lavoro ha a sua volta la sua misura in parti determinate di tempo, come l'ora, il giorno, ecc.

Potrebbe sembrare che, se il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro spesa durante la produzione di essa, quanto più pigro o quanto meno abile fosse un uomo, tanto più di valore dovrebbe essere la sua merce, poiché egli avrebbe bisogno di tanto più tempo per finirla. Però il lavoro che forma la sostanza dei valori è lavoro umano eguale, dispendio della medesima forza lavorativa umana. La forza lavorativa complessiva della società che si presenta nei valori del mondo delle merci, vale qui come unica e identica forza-lavoro umana, benché consista di innumerevoli forze-lavoro individuali. Ognuna di queste forze-lavoro individuali è una forza-lavoro umana identica alle altre, in quanto possiede il carattere di una forza-lavoro sociale media e in quanto opera come tale forza-lavoro sociale media, e dunque abbisogna, nella produzione di una merce, soltanto del tempo di lavoro necessario in media, ossia socialmente necessario. Tempo di lavoro socialmente necessario è il tempo di lavoro richiesto per rappresentare un qualsiasi valore d'uso nelle esistenti condizioni di produzione socialmente normali, e col grado sociale medio di abilità e intensità di lavoro. Per esempio, dopo l'introduzione del telaio a vapore in Inghilterra, è bastata forse la metà del tempo prima necessario per trasformare in tessuto una data quantità di filato. Il tessitore inglese al telaio a mano aveva di fatto bisogno dello stesso tempo di lavoro, prima e dopo, per questa trasformazione; ma il prodotto della sua ora lavorativa individuale rappresentava ormai, dopo l'introduzione del telaio meccanico, soltanto una mezza ora lavorativa sociale, e quindi scese alla metà del suo valore precedente.

Quindi è soltanto la quantità di lavoro socialmente necessario, cioè il tempo di lavoro socialmente necessario per fornire un valore d'uso che determina la sua grandezza di valore[9]. Qui la singola merce vale in generale come esemplare medio del suo genere[10]. Merci nelle quali sono contenute eguali quantità di lavoro ossia merci che possono venir prodotte nello stesso tempo di lavoro hanno quindi la stessa grandezza di valore. Il valore di una merce sta al valore di ogni altra merce come il tempo di lavoro necessario per la produzione dell'una sta al tempo di lavoro necessario per la produzione dell'altra. "Come valori, tutte le merci sono soltanto misure determinate di tempo di lavoro congelato"[11].

La grandezza di valore di una merce rimarrebbe quindi costante se il tempo di lavoro richiesto per la sua produzione fosse costante. Ma esso cambia con ogni cambiamento della forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro è determinata da molteplici circostanze, e, fra le altre, dal grado medio di abilità dell'operaio, dal grado di sviluppo e di applicabilità tecnologica della scienza, dalla combinazione sociale del processo di produzione, dall'entità e dalla capacità operativa dei mezzi di produzione, e da situazioni naturali. Per esempio la stessa quantità di lavoro si presenta in una stagione favorevole con 8 t. di grano, in una situazione sfavorevole solo con 4 t.. La stessa quantità di lavoro fornisce più metallo in miniere ricche che in miniere povere, ecc. I diamanti si trovano di rado sulla crosta terrestre, quindi il loro reperimento costa in media molto tempo di lavoro. Di conseguenza, essi rappresentano molto lavoro in poco volume. Lo Jacob dubita che l'oro abbia mai pagato il suo pieno valore. Questo vale ancor più per il diamante. Secondo l'Eschwege, nel 1823, il bottino complessivo ottantennale delle miniere diamantifere brasiliane non aveva ancor raggiunto il prezzo del prodotto medio di diciotto mesi delle piantagioni brasiliane di zucchero e caffè, benché rappresentasse molto più lavoro, cioè molto più valore. Se si avessero miniere più ricche, la stessa quantità di lavoro si rappresenterebbe in una maggiore quantità di diamanti, e il valore di questi scenderebbe. Se si riesce a trasformare il carbone in diamante con poco lavoro, il valore del diamante può scendere al di sotto di quello dei mattoni. In generale: quanto maggiore la forza produttiva del lavoro, tanto minore il tempo di lavoro richiesto per la produzione di un articolo, tanto minore la massa di lavoro in esso cristallizzata, e tanto minore il suo valore. Viceversa, tanto minore la forza produttiva del lavoro, tanto maggiore il tempo di lavoro necessario per la produzione di un articolo, e tanto maggiore il suo valore. La grandezza di valore di una merce varia dunque direttamente col variare della quantità e inversamente col variare della forza produttiva del lavoro che in essa si è realizzato.

Una cosa può essere valore d'uso senza essere valore. Il caso si verifica quando la sua utilità per l'uomo non è ottenuta mediante il lavoro: aria, terreno vergine, praterie naturali, legna di boschi incolti, ecc. Una cosa può essere utile e può essere prodotto di lavoro umano senza essere merce. Chi soddisfa con la propria produzione il proprio bisogno, crea sì valore d'uso, ma non merce. Per produrre merce, deve produrre non solo valore d'uso, ma valore d'uso per altri, valore d'uso sociale. (E non solo per altri semplicemente. Il contadino medievale produceva il grano d'obbligo per il signore feudale, il grano della decima per il prete. Ma né il grano d'obbligo né il grano della decima diventavano merce per il fatto d'essere prodotti per altri. Per divenire merce il prodotto deve essere trasmesso all'altro, a cui serve come valore d'uso, mediante lo scambio)11a. E, in fine, nessuna cosa può essere valore, senza essere oggetto d'uso. Se è inutile, anche il lavoro contenuto in essa è inutile, non conta come lavoro e non costituisce quindi valore.

2. DUPLICE CARATTERE DEL LAVORO RAPPRESENTATO NELLE MERCI.

All'inizio la merce ci si è presentata come qualcosa di duplice, valore d'uso e valore di scambio. In un secondo tempo s'è visto che anche il lavoro, in quanto espresso nel valore, non possiede più le stesse caratteristiche che gli sono proprie come generatore di valori d'uso. Tale duplice natura del lavoro contenuto nella merce è stata dimostrata criticamente da me per la prima volta[12]. E poiché questo punto è il perno sul quale muove la comprensione dell'economia politica, occorre esaminarlo più da vicino.

Prendiamo due merci, per esempio 1 abito e 10 m di tela. Abbia il primo valore doppio di queste ultime, cosicché, se poniamo

10 m di tela = V,

n 1 abito = 2 V.

L'abito è un valore d'uso che soddisfa a un bisogno particolare. Per produrlo, occorre un determinato genere di attività produttiva, che è determinata dal suo fine, dal suo modo di operare, dal suo oggetto, dai suoi mezzi e dal suo risultato. Chiamiamo senz'altro lavoro utile il lavoro che si presenta in tal modo nel valore d'uso del suo prodotto o nel fatto che il suo prodotto è un valore d'uso. Da questo punto di vista il lavoro viene sempre considerato in rapporto al suo effetto utile.

Allo stesso modo che abito e tela sono valori d'uso qualitativamente differenti, i lavori che ne procurano l'esistenza, sartoria e tessitura, sono anch'essi qualitativamente differenti. Se quelle cose non fossero valori d'uso qualitativamente differenti e quindi prodotti di lavori qualitativamente differenti, non potrebbero in nessun modo stare a confronto l'una con l'altra come merci. Un abito non si scambia con un abito, lo stesso valore d'uso non si scambia con lo stesso valore d'uso.

Nell'insieme dei diversi valori d'uso o corpi di merci si presenta un insieme di lavori utili altrettanto differenti secondo la specie, il genere, la famiglia, la sottospecie, la varietà: una divisione sociale del lavoro. Essa è condizione d'esistenza della produzione delle merci, benché la produzione delle merci non sia inversamente condizione d'esistenza della divisione sociale del lavoro. Nell'antica comunità indiana il lavoro è diviso socialmente senza che i prodotti diventino merci. Oppure, esempio a noi più vicino, in ogni fabbrica il lavoro è, diviso sistematicamente, ma questa divisione non è derivata da uno scambio dei prodotti individuali fra un operaio e l'altro. Solo prodotti di lavori privati autonomi e indipendenti l'uno dall'altro stanno a confronto l'un con l'altro come merci.

Dunque si è visto: nel valore d'uso di ogni merce c'è una determinata attività, produttiva e conforme a un fine, cioè lavoro utile. Valori d'uso non possono stare a confronto l'uno con l'altro come merci se non ci sono in essi lavori utili qualitativamente differenti. In una società i cui prodotti assumono in generale la forma della merce, cioè in una società di produttori di merci, tale differenza qualitativa dei lavori utili che vengono compiuti l'uno indipendentemente dall'altro come affari privati di produttori autonomi, si sviluppa in un sistema pluriarticolato, in una divisione sociale del lavoro.

Del resto, per l'abito è indifferente esser portato dal sarto o dal cliente del sarto: esso opera come valore d'uso nell'un caso come nell'altro. Né il rapporto fra l'abito e il lavoro che lo produce è certo cambiato, preso in sé e per sé, per il fatto che la sartoria diventi professione particolare, articolazione autonoma della divisione sociale del lavoro. Dove e quando è stato costretto dal bisogno di coprirsi, l'uomo ha tagliato e cucito per millenni, prima che un uomo divenisse sarto. Ma l'esistenza dell'abito, della tela, di ogni elemento della ricchezza materiale non presente nella natura, ha sempre dovuto essere procurata mediante un'attività speciale, produttiva in conformità a uno scopo, che assimilasse particolari materiali naturali a particolari bisogni umani. Quindi il lavoro, come formatore di valori d'uso, come lavoro utile è una condizione d'esistenza dell'uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini.

I valori d'uso abito, tela, ecc., in breve i corpi delle merci, sono combinazioni di due elementi, materia naturale e lavoro. Se si detrae la somma complessiva di tutti i vari lavori utili contenuti nell'abito, nella tela, ecc., rimane sempre un substrato materiale, che è dato per natura, senza contributo dell'uomo. Il procedimento dell'uomo nella sua produzione può essere soltanto quello stesso della natura: cioè semplice cambiamento delle forme dei materiali[13]. E ancora: in questo stesso lavoro di formazione l'uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l'unica fonte dei valori d'uso che produce, della ricchezza materiale. Come dice William Petty, il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre.

Passiamo ora dalla merce in quanto oggetto d'uso al valore della merce.

Secondo la nostra ipotesi l'abito ha valore doppio della tela. Ma questa è soltanto una differenza quantitativa che in un primo momento non ci interessa ancora. Ricordiamo perciò che, se il valore di un abito è il doppio del valore di dieci metri di tela, venti metri di tela hanno la stessa grandezza di valore di un abito. Come valori, abito e tela sono cose di sostanza identica, espressioni oggettive di lavoro dello stesso genere. Ma sartoria e tessitura sono lavori qualitativamente differenti. Ci sono tuttavia situazioni della società nelle quali lo stesso uomo tesse e alternativamente taglia e cuce, e quindi questi due differenti generi di lavoro sono soltanto modificazioni del lavoro dello stesso individuo e non sono ancora funzioni particolari, fisse di individui differenti, proprio come l'abito che il nostro sarto ci fa oggi e i calzoni che ci fa domani presuppongono solo variazioni dello stesso lavoro individuale. L'evidenza ci insegna inoltre che nella nostra società capitalistica, a seconda del variare della domanda di lavoro, una porzione data di lavoro umano viene fornita alternativamente nella forma di sartoria o in quella di tessitura. Queste trasformazioni del lavoro può darsi che non avvengano senza attrito, ma devono avvenire. Se si fa astrazione dalla determinatezza dell'attività produttiva e quindi dal carattere utile del lavoro, rimane in questo il fatto che è un dispendio di forza-lavoro umana. Sartoria e tessitura, benché siano attività produttive qualitativamente differenti, sono entrambe dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani, ecc. umani: ed in questo senso sono entrambe lavoro umano. Sono soltanto due forme differenti di spendere forza-lavoro umana. Certamente, la forza-lavoro umana deve essere più o meno sviluppata per essere spesa in questa o in quella forma. Ma il valore della merce rappresenta lavoro umano in astratto, dispendio di lavoro umano in generale. Ora, come nella società civile un generale o un banchiere rappresentano una parte importante e l'uomo senz'altro nome all'incontro vi rappresenta una parte molto misera[14], allo stesso modo vanno le cose per il lavoro umano. Esso è dispendio di quella semplice forza-lavoro che ogni uomo comune possiede in media nel suo organismo fisico, senza particolare sviluppo. Certo, col variare dei paesi e delle epoche della civiltà anche il lavoro medio semplice[15] varia il proprio carattere, ma in una società data è dato. Un lavoro più complesso vale soltanto come lavoro semplice potenziato o piuttosto moltiplicato , cosicché una quantità minore di lavoro complesso è eguale a una quantità maggiore di lavoro semplice. L'esperienza insegna che questa riduzione avviene costantemente. Una merce può essere il prodotto del lavoro più complesso di tutti, ma il suo valore la equipara al prodotto di lavoro semplice e rappresenta quindi soltanto una determinata quantità di lavoro semplice. Le varie proporzioni nelle quali differenti generi di lavoro sono ridotti a lavoro semplice come loro unità di misura, vengono stabilite mediante un processo sociale estraneo ai produttori, e quindi appaiono a questi ultimi date dalla tradizione. Per ragioni di semplicità, d'ora in poi ogni genere di forza-lavoro varrà immediatamente per noi come forza-lavoro semplice, con il che ci si risparmia solo la fatica della riduzione.

Come dunque nei valori abito e tela si è astratto dalla differenza dei loro valori d'uso, altrettanto si astrae per i lavori che si rappresentano in quei valori dalla differenza fra le loro forme utili, sartoria e tessitura. Come i valori d'uso abito e tela sono combinazioni fra attività produttive e determinate da uno scopo da una parte e panno e filo dall'altra, e a loro volta invece i valori abito e tela sono soltanto cristallizzazioni omogenee di lavoro, allo stesso modo anche i lavori contenuti in questi valori contano non per il loro rapporto produttivo col panno e col filo, ma soltanto come dispendi di forza-lavoro umana. Sartoria e tessitura sono elementi costitutivi dei valori d'uso abito e tela proprio per le loro differenti qualità: ma esse sono sostanza del valore dell'abito e del valore della tela solamente in quanto si astrae dalla loro qualità particolare e in quanto entrambi posseggono la stessa qualità, la qualità d'esser lavoro umano.

Ma abito e tela non sono soltanto valori in genere, bensì valori di una determinata grandezza; e secondo la nostra ipotesi l'abito ha valore doppio di dieci metri di tela. Di dove viene questa differenza fra le loro due grandezze di valore? Dal fatto che la tela contiene soltanto la metà del lavoro dell'abito, cosicché per la produzione di quest'ultimo la forza-lavoro deve essere spesa durante un tempo doppio di quello occorrente per la produzione della tela.

Se dunque riguardo al valore d'uso il lavoro contenuto nella merce conta solo qualitativamente, riguardo alla grandezza del valore conta solo quantitativamente, dopo essere stato già ridotto a lavoro umano senza ulteriore qualificazione. Là si tratta del come e del cosa del lavoro, qui del quanto di esso, della sua durata temporale. Poiché la grandezza del valore di una merce rappresenta soltanto la quantità del lavoro in essa contenuta, le merci debbono sempre essere, in una certa proporzione, valori d'eguale grandezza.

Se la forza produttiva, diciamo, di tutti i lavori utili richiesti per la produzione di un abito, rimane immutata, la grandezza di valore degli abiti cresce col crescere della loro quantità. Se 1 abito rappresenta x giornate lavorative, 2 abiti rappresentano 2 x giornate lavorative, ecc. Ma ammettiamo che il lavoro necessario alla produzione di un abito cresca del doppio o diminuisca della metà. Nel primo caso un abito ha altrettanto valore quanto in precedenza ne avevano due, nel secondo caso due abiti hanno tanto valore quanto in precedenza ne aveva uno, benché nell'uno e nell'altro caso un abito renda prima e dopo gli stessi servizi e il lavoro utile contenuto in esso rimanga prima e dopo della stessa bontà. Ma si è cambiata la quantità dei lavoro spesa nella sua produzione.

Una quantità maggiore di valore d'uso costituisce in sé e per sé una maggiore ricchezza di materiale, due abiti sono più di uno. Con due abiti si possono vestire due uomini, con un abito se ne può vestire uno solo, ecc. Eppure alla massa crescente della ricchezza di materiali può corrispondere una caduta contemporanea della sua grandezza di valore. Questo movimento antagonistico sorge dal carattere duplice del lavoro. Naturalmente forza produttiva è sempre forza produttiva di lavoro utile, concreto, e di fatto determina soltanto il grado di efficacia di una attività produttiva conforme a uno scopo in un dato spazio di tempo. Quindi il lavoro utile diventa fonte più abbondante o più scarsa di prodotti in rapporto diretto con l'aumento o con la diminuzione della sua forza produttiva. Invece, un cambiamento della forza produttiva non tocca affatto il lavoro rappresentato nel valore preso in sé e per sé. Poiché la forza produttiva appartiene alla forma utile e concreta del lavoro, non può naturalmente più toccare il lavoro, appena si fa astrazione dalla sua forma concreta e utile. Quindi lavoro identico rende sempre, in spazi di tempo identici, grandezza identica di valore, qualunque possa essere la variazione della forza produttiva. Ma esso fornisce nello stesso periodo di tempo quantità differenti di valori d'uso: in più quando la forza produttiva cresce, in meno quando cala. Dunque quella stessa variazione della forza produttiva che aumenta la fecondità del lavoro e quindi la massa dei valori d'uso da esso fornita, diminuisce la grandezza di valore di questa massa complessiva aumentata, quando accorcia il totale del tempo di lavoro necessario alla produzione di quella massa stessa. E viceversa.

Da una parte, ogni lavoro è dispendio di forza-lavoro umana in senso fisiologico, e in tale qualità di lavoro umano eguale o astrattamente umano esso costituisce il valore delle merci. Dall'altra parte, ogni lavoro è dispendio di forza-lavoro umana in forma specifica e definita dal suo scopo, e in tale qualità di lavoro concreto utile esso produce valori d'uso[16] .

3. LA FORMA DI VALORE OSSIA IL VALORE DI SCAMBIO.

Le merci vengono al mondo in forma di valori d'uso o corpi di merci, conte ferro, tela, grano, ecc. Questa è la loro forma naturale casalinga. Tuttavia esse sono merci soltanto perché sono qualcosa di duplice: oggetti d'uso e contemporaneamente depositari di valore. Quindi si presentano come merci oppure posseggono la forma di merci soltanto in quanto posseggono una duplice forma: la forma naturale e la forma di valore.

L’oggettività del valore delle merci si distingue da Mrs. Quickly perché non si sa dove trovarla. In diretta contrapposizione all'oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci, nemmeno un atomo di materiale naturale passa nell'oggettività del valore delle merci stesse. Quindi potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile. Tuttavia, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressioni di una identica unità sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale, e allora sarà ovvio che quest'ultima può presentarsi soltanto nel rapporto sociale fra merce e merce. Di fatto noi siamo partiti dal valore di scambio o dal rapporto di interscambio delle merci, per poter trovare le tracce del loro valore ivi nascosto. Ora dobbiamo ritornare a questa forma fenomenica del valore.

Ognuno sa, anche se non sa nient'altro, che le merci posseggono una forma di valore, che contrasta in maniera spiccatissima con le variopinte forme naturali dei loro valori d'uso, e comune a tutte: la forma di denaro. Ma qui si tratta di compiere un'impresa che non è neppure stata tentata dall'economia borghese: cioè di dimostrare la genesi di questa forma di denaro, dunque di perseguire lo svolgimento dell'espressione di valore contenuta nel rapporto di valore delle merci, dalla sua figura più semplice e inappariscente, fino all'abbagliante forma di denaro. Con ciò scomparirà anche l'enigma del denaro.

Il rapporto di valore più semplice è evidentemente il rapporto di valore d'una merce con un'unica merce di genere differente, qualunque essa sia. Il rapporto di valore fra due merci ci fornisce dunque la più semplice espressione di valore per una merce.

A) FORMA DI VALORE SEMPLICE, SINGOLA OSSIA ACCIDENTALE.

x merce A = y merce B

oppure:

x merce A vale y merce B

(20 m di tela =  n.1 abito oppure: 20 m di tela hanno il valore di n.1 abito).

A1. I due poli dell'espressione di valore: forma relativa di valore e forma di equivalente.

L'arcano di ogni forma di valore sta in questa forma semplice di valore. La vera e propria difficoltà sta dunque nell'analisi di essa.

Qui, due merci di genere differente, A e B, nel nostro esempio tela e abito, rappresentano evidentemente due parti differenti. La tela esprime il proprio valore nell'abito, l'abito serve da materiale di questa espressione di valore. La prima merce rappresenta una parte attiva, la seconda una parte passiva. Il valore della prima merce è rappresentato come valore relativo ossia quella merce si trova in forma relativa di valore. La seconda merce funziona come equivalente ossia essa si trova in forma di equivalente.

Forma relativa di valore e forma di equivalente sono momenti pertinenti l'uno all'altro, l'uno dei quali è condizione dell'altro, inseparabili, ma allo stesso tempo sono estremi che si escludono l'un l'altro ossia opposti, sono cioè poli della stessa espressione di valore; essi si distribuiscono sempre sulle differenti merci che l'espressione di valore riferisce l'una all'altra. Per esempio io non posso esprimere in tela il valore della tela. Venti metri di tela = venti metri di tela non è una espressione di valore; anzi, tale equazione dice, al contrario, che venti metri di tela non sono altro che venti metri di tela, una quantità determinata dell'oggetto d'uso tela. Il valore della tela può dunque essere espresso solo relativamente, cioè in altra merce. La forma di valore relativa della tela presuppone quindi che una qualsiasi altra merce si trovi in confronto ad essa nella forma di equivalente. D'altra parte, quest'altra merce che figura come equivalente, non si può trovare contemporaneamente in forma relativa di valore. Non è essa ad esprimere il suo valore. Essa fornisce soltanto il materiale all'espressione di valore di un'altra merce.

Certo, l'espressione: 20 m di tela = 1 abito, oppure 20 m di tela valgono 1 abito, implica anche la reciproca: 1 abito = 20 m  di tela oppure: 1 abito vale 20 m di tela. Ma per far ciò devo per l'appunto invertire l'equazione, per esprimere relativamente il valore dell'abito; e appena ho fatto questo, la tela diventa equivalente al posto dell'abito. Dunque la stessa merce non può presentarsi simultaneamente nelle due forme nella stessa espressione di valore. Anzi, queste forme si escludono polarmente.

Ora, che una merce si trovi in forma relativa di valore o nella forma opposta di equivalente dipende esclusivamente dalla posizione ch'essa ha di volta in volta nell'espressione di valore, cioè dal fatto che essa sia la merce della quale si esprime un valore oppure la merce nella quale si esprime un valore.

A2. La forma relativa di valore.

a) Contenuto della forma relativa di valore.

Per scoprire come l'espressione semplice di valore di una merce stia nel rapporto di valore fra due merci si deve in primo luogo considerare tale rapporto in piena indipendenza dal suo aspetto quantitativo. Per lo più si procede proprio all'inverso e si vede nel rapporto di valore soltanto la proporzione nella quale determinate quantità di due specie di merci si equivalgono l'una con l'altra. Non si tiene conto del fatto che le grandezze di cose differenti, diventano confrontabili quantitativamente soltanto dopo che è avvenuta la loro riduzione alla stessa unità. Sono grandezze dello stesso denominatore e quindi commensurabili soltanto come espressioni della stessa unità[17].

Che 20 m di tela siano = 1 abito, o siano = 20 abiti o = x abiti, cioè, che una data quantità di tela valga molti o pochi abiti, ogni proporzione di questo genere implica sempre che tela e abiti come grandezze di valore siano espressioni della stessa unità, cose della stessa natura. Tela = abito è il fondamento dell'equazione.

Ma le due merci qualitativamente equiparate l'una all'altra non rappresentano la stessa parte. Viene espresso solo il valore della tela. E come? Mediante il suo riferimento all'abito come suo " equivalente ", ossia " cosa scambiabile " con essa. In questo rapporto l'abito conta come forma d'esistenza di valore, come cosa di valore, poiché solo come tale esso è eguale alla tela. Dall'altra parte il proprio esser valore della tela viene in luce ossia riceve una propria espressione autonoma, poiché solo come valore essa è riferibile all'abito come qualcosa di valore identico ossia scambiabile con essa. Allo stesso modo l'acido butirrico è un corpo differente dal formiato di propile. Ma l'uno e l'altro consistono degli stessi elementi chimici: carbonio (C), idrogeno (H) e ossigeno (0), e inoltre nella stessa composizione percentuale C4H8O2.. Ora, se identificassimo il formiato di propile con l'acido butirrico, in questo rapporto il formiato di propile varrebbe in primo luogo soltanto come forma di esistenza di C4H8O2, e in secondo luogo si verrebbe a dire che anche l'acido butirrico consiste di C4H8O2,. Con l'identificazione del formiato di propile con l'acido butirrico si sarebbe dunque espressa la loro sostanza chimica, distinguendola dalla loro forma fisica.

Se diciamo: come valori, le merci sono semplici cristallizzazioni di lavoro umano, l'analisi che ne facciamo le riduce all'astrazione valore, ma non dà loro nessuna forma di valore differente dalle loro forme naturali. Altrimenti stanno le cose nel rapporto di valore d'una merce con l'altra. Il suo carattere di valore spicca in tal caso per la sua relazione con l'altra merce.

Per esempio, facendo dell'abito, come cosa di valore, l'equivalente della tela, il lavoro inerente all'abito viene posto come equivalente al lavoro inerente alla tela. E' vero che l'arte della sartoria che fa l'abito è un lavoro concreto di genere differente da quella della tessitura che fa la tela. Ma l'equiparazione alla tessitura riduce effettivamente la sartoria a quello che realmente è eguale nei due lavori: al loro carattere comune di lavoro umano. E con questa perifrasi si è detto che neppure la tessitura, in quanto tesse valore. possiede note distintive che la differenzino dalla sartoria, e che dunque è lavoro astrattamente umano. Solo l'espressione di equivalenza fra merci di genere differente mette in luce il carattere specifico del lavoro creatore di valore, in quanto riduce effettivamente i lavori di genere differente inerenti alle merci di genere differente, a ciò che è loro comune, a lavoro umano in genere17a.

Tuttavia non basta esprimere il carattere specifico del lavoro nel quale consiste il valore della tela. Forza - lavoro umana allo stato fluido, ossia lavoro umano, crea valore, ma non è valore. Diventa valore allo stato coagulato, nella forma oggettiva. Per esprimere il valore della tela come coagulo di lavoro umano, esso deve essere espresso come una " oggettività " la quale, come cosa, sia differente dalla tela e, simultaneamente, le sia comune con altra merce. Il problema è già risolto.

Nel rapporto di valore colla tela l'abito conta come qualitativamente eguale ad essa, come cosa della stessa natura, perché è un valore. Quindi l'abito conta qui come una cosa nella quale si presenta valore, ossia come cosa che rappresenta valore nella sua forma fisica tangibile. E l'abito, il corpo della merce abito, è d'altronde soltanto un valore d'uso. Un abito esprime tanto poco valore quanto il primo pezzo di tela che capiti fra le mani. Questo prova soltanto che l'abito, entro il rapporto di valore con la tela, significa di più che fuori del rapporto stesso, come tanti uomini entro un abito gallonato significano di più che fuori dell'abito.

Nella produzione dell'abito è stata spesa effettivamente forza lavoro umana in forma di sartoria. Dunque in esso è accumulato lavoro umano. Da questo lato l'abito è "depositario di valore", benché questa sua qualità non faccia capolino neppure quando l'abito sia arrivato, per il consumo, ad essere quasi tra. sparente. E nel rapporto di valore della tela, l'abito conta solo da questo lato, e quindi come lavoro incorporato, come corpo di valore. Nonostante che si presenti tutto abbottonato, la tela ha riconosciuto in lui la bell'anima affine del valore. L'abito però non può rappresentare valore nei confronti della tela, senza che per questa, simultaneamente, il valore assuma la forma di un abito. Così l'individuo A non si può comportare con l'individuo B come con una maestà, senza che per A la maestà assuma simultaneamente la forma corporea di B; e quindi la maestà cambi tratti del viso, capigliatura e molto altro ancora secondo il padre della patria del momento.

Dunque, nel rapporto di valore, nel quale l'abito costituisce l'equivalente della tela, la forma di abito conta come forma di valore. Il valore della merce tela viene dunque espresso nel corpo della merce abito, il valore d'una merce viene espresso nel valore d'uso dell'altra merce. Come valore d'uso la tela è una cosa sensibile e differente dall'abito, come valore è " eguale ad abito " e ha quindi aspetto di abito. Così riceve una forma di valore differente dalla sua forma naturale. Il suo esser valore si presenta nella sua eguaglianza con l'abito, come la natura pecorina del cristiano nella sua eguaglianza con l'agnello di Dio.

Vediamo dunque che tutto quello che prima ci ha detto l'analisi del valore della merce ce lo dice ora la tela stessa, appena entra in comunicazione con un'altra merce, l'abito. Solo che essa ci rivela i suoi pensieri nell'unico linguaggio che le sia accessibile, il linguaggio delle merci. Per dire che il lavoro nella sua qualità astratta di lavoro umano costituisce il suo proprio valore, dice che l'abito, in quanto equivale ad essa, cioè in quanto è valore, consiste dello stesso lavoro che la tela. Per dire che la sua oggettività sublime di valore è differente dal suo corpo di traliccio, essa dice che il valore ha l'aspetto d'un abito e che quindi essa stessa, la tela, come cosa di valore, assomiglia all'abito come un uovo ad un altro uovo. Osserviamo di passaggio che anche il linguaggio delle merci ha molti altri dialetti, più o meno corretti, oltre l'ebraico. Per esempio la parola tedesca Wertsein esprime il fatto che il porre l'equazione della merce A con la merce B è l'espressione propria di valore della merce A, in maniera meno spiccata che il verbo romanzo valere, valer, valoir. Paris vaut bien une messe!

Dunque mediante il rapporto di valore la forma naturale della merce B diventa forma di valore della merce A, ossia il corpo della merce B diventa lo specchio di valore della merce A[18].

La merce A, riferendosi alla merce B come corpo di valore, come materializzazione di lavoro umano, fa del valore d'uso B materiale della sua propria espressione di valore. Il valore della merce A, così espresso nel valore d'uso della merce B, ha la forma del valore relativo.

b) Determinatezza quantitativa della forma relativa di valore.

Ogni merce della quale si debba esprimere il valore è un oggetto d'uso di quantità data: 15 moggia di grano, cento kg di caffè, ecc. Questa quantità data di merce contiene una determinata quantità di lavoro umano. La forma di valore non deve dunque esprimere soltanto valore in generale, ma valore determinato quantitativamente, ossia grandezza di valore. Nel rapporto di valore della merce A con la merce B, della tela con l'abito, non solo il genere di merce abito, come corpo di valore in generale, viene equiparato qualitativamente alla tela, ma ad una determinata quantità di tela, per esempio venti metri, viene equiparata una quantità determinata del corpo di valore, ossia dell'equivalente, per esempio un abito.

L'equazione: " 20 m di tela = 1 abito, ossia: 20 m di tela valgono 1 abito ", presuppone che in un abito sia incorporata esattamente tanta sostanza di valore quanta in 20 m di tela, che cioè entrambe le quantità di merci costino la stessa quantità di lavoro, ossia tempo di lavoro della stessa misura. Il tempo di lavoro necessario per la produzione di venti metri di tela o di un abito varia con ogni variazione della forza produttiva della tessitura o della sartoria. Indagheremo ora più da vicino l'influsso di tali variazioni sull'espressione relativa della grandezza di valore.

I. Il valore della tela sia variabile[19], mentre il valore dell'abito rimane costante. Se raddoppia il tempo di lavoro necessario per la produzione della tela, per esempio in seguito ad un aumento di sterilità dei terreni coltivati a lino, raddoppia il valore della tela. Invece di

20 m di tela = n 1 abito,

avremmo

20 m di tela = n 2 abiti,

poiché un abito ora contiene soltanto la metà del tempo di lavoro contenuto in 20 m di tela. Se invece il tempo di lavoro necessario per la produzione della tela diminuisce di metà, per esempio in seguito a perfezionamenti dei telai, allora il valore della tela diminuisce di metà. Di conseguenza, ora si avrebbero

20 m di tela = ½ abito.

Il valore relativo della merce A, cioè il suo valore espresso in merce B, sale e scende in rapporto diretto con il valore della merce A, fermo rimanendo il valore della merce B.

II. Rimanga costante il valore della tela, sia invece variabile il valore dell'abito. In questa circostanza, se il tempo di lavoro necessario alla produzione dell'abito raddoppia, per esempio in seguito a una tosatura sfavorevole, invece di:

20 m di tela = n 1 abito,

ora abbiamo

20 m di tela = 1/2 abito.

Se invece il valore dell'abito scende a metà, allora:

20 m di tela = n 2 abiti.

Rimanendo costante il valore della merce A, il suo valore relativo espresso in merce B, sale o scende, quindi, in rapporto inverso alla variazione del valore di B.

Se si confrontano i vari casi di I e II, ne deriva che la stessa variazione di grandezza del valore relativo può sorgere da cause del tutto opposte. Così da:

20 m di tela = n 1 abito

proviene:

 l - l'equazione 20 m di tela = n 2 abiti, o perché raddoppia il valore della tela o perché cala di metà il valore degli abiti, e

2 - l'equazione: 20 m di tela = ½ abito, o perché il valore della tela cala di metà o perché il valore degli abiti raddoppia.

III. Le quantità di lavoro necessarie alla produzione della tela e dell'abito possono variare simultaneamente, nella stessa direzione e nella stessa proporzione. In questo caso, 20 m di tela = n 1 abito prima e dopo, quali si siano le variazioni dei loro valori. La loro variazione di valore si scopre appena si confrontano con una terza merce il cui valore sia rimasto costante. Se i valori di tutte le merci salissero o cadessero simultaneamente e nella stessa proporzione, i loro valori relativi rimarrebbero inalterati. La loro variazione reale di valore si desumerebbe dal fatto che allora nello stesso tempo di lavoro si fornirebbe in generale una quantità di merci maggiore o minore di prima.

IV. I tempi di lavoro necessari alla produzione della tela e rispettivamente dell'abito, e quindi i loro valori, possono variare simultaneamente nella stessa direzione, ma in grado diseguale, oppure possono variare in direzioni opposte, ecc.. L'effetto di tutte le possibili combinazioni di questo tipo sul valore relativo di una merce risulta semplicemente dall'applicazione dei casi I, II, III.

Dunque, le variazioni reali della grandezza di valore non si rispecchiano né esaurientemente né inequivocabilmente nella loro espressione relativa, ossia nella grandezza del valore relativo. Il valore relativo di una merce può variare, benché il suo valore rimanga costante. Il suo valore relativo può rimanere costante, benché il suo valore vari; ed infine, non è affatto necessario che variazioni simultanee nella sua grandezza di valore e nell'espressione relativa di tale grandezza di valore coincidano esattamente[20].

A3. La forma di equivalente.

Abbiamo veduto che una merce A (la tela), esprimendo il proprio valore nel valore d'uso d'una merce B (l'abito) di genere differente, imprime a quest'ultima anche una peculiare forma di valore, quella dell'equivalente. La merce tela mette in luce il proprio esser valore per il fatto che l'abito, senza assumere una forma di valore differente dalla sua forma di corpo, le equivale. Dunque la tela esprime effettivamente il suo proprio esser valore per il fatto che l'abito è immediatamente scambiabile con essa.

La forma di equivalente di una merce è di conseguenza la forma della sua immediata scambiabilità con altra merce.

Se un genere di merci, come abiti, serve di equivalente ad altro genere di merci, come tela, e quindi gli abiti ricevono la proprietà caratteristica di trovarsi in forma immediatamente scambiabile con la tela, questo non vuol. dire affatto che sia data in qualche modo la proporzione nella quale abiti e tela sono interscambiabili. Questa proporzione, poiché la grandezza di valore della tela è data, dipende dalla grandezza di valore degli abiti. Che l'abito sia espresso come equivalente e la tela come valore relativo, o viceversa la tela come equivalente e l'abito come valore relativo, la sua grandezza di valore rimane determinata, prima e poi, dal tempo di lavoro necessario per la sua produzione, quindi è determinata in maniera indipendente dalla sua forma di valore. Ma appena il genere di merci abito prende nell'espressione di valore il posto dell'equivalente, la sua grandezza di valore non riceve nessuna espressione come grandezza di valore; ma figura anzi nell'equazione di valore solo come quantità determinata di una cosa.

Per esempio: 40 m di tela valgono - che cosa? n 2 abiti. Poiché il genere di merci abito qui rappresenta la parte dell'equivalente, perché il valore d'uso abito conta come corpo di valore in confronto alla tela, basterà una determinata quantità di abiti per esprimere una determinata quantità di valore di tela. Due abiti possono quindi esprimere la grandezza di valore di quaranta metri di tela, ma non possono mai esprimere la loro propria grandezza di valore, la grandezza di valore di abiti. La comprensione superficiale del dato di fatto che l'equivalente possiede nell'equazione di valore sempre e soltanto la forma di una quantità semplice di una cosa. d'un valore d'uso, ha fuorviato il Bailey come molti suoi predecessori e successori, facendo loro vedere nell'espressione di valore un rapporto soltanto quantitativo. Al contrario: la forma di equivalente d'una merce non contiene nessuna determinazione quantitativa di valore.

La prima peculiarità che colpisce nella considerazione della forma di equivalente è la seguente: il valore d'uso diventa forma fenomenica del suo contrario, del valore.

La forma naturale della merce diventa forma di valore. Ma si noti bene, questo quid pro quo si verifica per una merce B (abito o grano o ferro, ecc.) soltanto all'interno del rapporto di valore nel quale una qualsiasi altra merce A (tela, ecc.) entra con essa, e soltanto entro questa relazione. Poiché nessuna merce può riferirsi a se stessa come equivalente, né quindi può fare della sua propria pelle naturale l'espressione del suo proprio valore, essa si deve riferire ad altra merce come equivalente, ossia deve fare della pelle naturale di un'altra merce la propria forma di valore.

Ciò ci sarà reso evidente dall'esempio di una misura, conveniente ai corpi di merci come corpi di merci, cioè come valori d'uso. Un pan di zucchero, poiché è un corpo, è pesante e quindi ha peso, ma non si può vedere o toccare il peso di nessun pan di zucchero. Ora prendiamo vari pezzi di ferro, il cui peso sia stato prima stabilito. La forma corporea del ferro, considerata di per sé, non è certo forma fenomenica della gravità più di quanto sia quella del pan di zucchero. Eppure, per esprimere il pan di zucchero come gravità, noi lo poniamo in un rapporto di peso con il ferro. In questo rapporto, il ferro vale come un corpo che non rappresenta null'altro che gravità. Quindi, quantità di ferro servono come misura di peso dello zucchero e rappresentano nei confronti del corpo zuccherino pura forma di gravità, forma fenomenica di gravità. Il ferro rappresenta questa parte soltanto all'interno di questo rapporto nel quale lo zucchero, o qualunque altro corpo del quale si deve trovare il peso, entra con esso. Se le due cose non avessero gravità, esse non potrebbero entrare in tale rapporto, e quindi l'una non potrebbe servire come espressione della gravità dell'altra. Se le gettiamo entrambe sul piatto della bilancia, vediamo effettivamente che esse, come gravità, sono la stessa cosa. Come il corpo ferro come misura di peso nei confronti del pan di zucchero rappresenta solo gravità, così nella nostra espressione di valore, il corpo abito rappresenta, nei confronti della tela, soltanto valore.

Ma qui l'analogia finisce. Nell'espressione di peso del pan di zucchero il ferro rappresenta una proprietà naturale comune ad entrambi i corpi, la loro gravità, mentre l'abito nell'espressione di valore della tela rappresenta una proprietà sovrannaturale di entrambe le cose: il loro valore, qualcosa di puramente sociale.

Mentre la forma relativa di valore d'una merce, per esempio della tela, esprime il suo esser valore come qualcosa del tutto differente dal suo corpo e dalle sue proprietà, per esempio, come eguale ad abito, questa stessa espressione indica che in essa si cela un rapporto sociale. Per la forma di equivalente vale l'inverso. Essa consiste proprio nel fatto che un corpo di merce, come l'abito, questa cosa così com'è, tale e quale, esprime valore, cioè possiede per natura forma di valore. Certo questo vale soltanto all'interno del rapporto di valore, nel quale la merce tela è riferita come equivalente alla merce abito[21]. Ma poiché le proprietà di una cosa non sorgono dal suo rapporto con altre cose, ma anzi si limitano ad agire in tale rapporto, anche l'abito sembra possedere per natura la sua forma di equivalente, la sua proprietà di immediata scambiabilità, quanto la sua proprietà di esser pesante o dì tener caldo. Di qui viene il carattere enigmatico della forma di equivalente, carattere che non colpisce lo sguardo borghesemente rozzo dell'economista politico prima che questa forma gli si presenti di fronte bell'e finita, nel denaro. Allora egli cerca di eliminare a forza di spiegazioni il carattere mistico dell'oro e dell'argento, surrogando loro merci meno abbaglianti e recitando con sempre rinnovato compiacimento il catalogo di tutto il volgo di merci che a suo tempo ha rappresentato la parte dell'equivalente di merci. E non ha la minima idea che già la più elementare espressione di valore, come: 20 m di tela = 1 abito, ci dà da risolvere l'enigma della forma di equivalente.

Il corpo della merce che serve da equivalente, vale sempre come incarnazione di lavoro astrattamente umano ed è sempre il prodotto di un determinato lavoro utile, concreto. Questo lavoro concreto diventa dunque espressione di lavoro astrattamente umano. Per esempio, se l'abito conta come pura e semplice realizzazione, allo stesso modo la sartoria, che si realizza effettivamente in esso, conta come pura e semplice forma di realizzazione di lavoro astrattamente umano. Nell'espressione di valore della tela l'utilità della sartoria consiste non nel fatto ch'essa faccia gli abiti, quindi anche i monaci, ma ch'essa fa un corpo che basta vederlo per sapere che è valore, cioè coagulo di lavoro, che non si distingue affatto dal lavoro oggettivato nel valore di tela. Per fare da tale specchio di valore, la sartoria non deve rispecchiare null'altro che la sua proprietà astratta d'esser lavoro umano.

Nella forma della sartoria come nella forma della tessitura si spende forza-lavoro umana. Quindi l'una e l'altra posseggono la qualità generale di lavoro umano e quindi in casi determinati, per esempio nella produzione di valore, possono venire considerate soltanto da questo punto di vista. Tutto questo non è misterioso. Ma nell'espressione di valore della merce la cosa è stravolta. Per esempio, per esprimere che la tessitura costituisce il valore della tela non nella sua forma concreta del tessere, ma nella sua qualità generale come lavoro umano, le si contrappone come tangibile forma di realizzazione di lavoro astrattamente umano la sartoria, il lavoro concreto che produce l'equivalente della tela.

Dunque una seconda peculiarità della forma di equivalente è che lavoro concreto diventa forma fenomenica del suo opposto, di lavoro astrattamente umano.

Ma poiché questo lavoro concreto, la sartoria, conta come semplice espressione di lavoro umano indifferenziato, ha la forma dell'eguaglianza con altro lavoro, col lavoro inerente alla tela, ed è quindi, benché lavoro privato, lavoro in forma immediatamente sociale come ogni lavoro che produce merci. Appunto per questo esso si rappresenta in un prodotto che è immediatamente scambiabile, con altra merce. E' dunque una terza peculiarità della forma di equivalente che lavoro privato diventi forma del sito opposto, diventi lavoro in forma immediatamente sociale.

Le due peculiarità or ora svolte della forma di equivalente diventano ancor più comprensibili se risaliamo al grande indagatore che ha analizzato per la prima volta la forma di valore come tante altre forme di pensiero, forme di società e forme naturali: Aristotele.

In primo luogo Aristotele enuncia chiaramente che la forma di denaro della merce è soltanto la figura ulteriormente sviluppata della semplice forma di valore, cioè dell'espressione del valore di una merce in qualsiasi altra merce a scelta, poiché dice:

" 5 letti = 1 casa "

 non si distingue da:

" 5 letti = tanto e tanto denaro "

Inoltre vede che il rapporto di valore al quale è inerente la espressione di valore porta con sé a sua volta che la casa venga equiparata qualitativamente al letto, e che queste cose, differenti quanto ai sensi, non sarebbero riferibili l'una all'altra come grandezze commensurabili senza tale identità di sostanza. Egli dice: " Lo scambio non può esserci senza l'identità, e l'identità non può esserci senza la commensurabilità . Ma qui si ferma, e rinuncia all'ulteriore analisi della forma di valore. " Ma è in verità impossibile che cose tanto diverse siano commensurabili ", cioè qualitativamente eguali. Tale equiparazione può esser solo qualcosa di estraneo alla vera natura delle cose, e quindi solo  un'" ultima risorsa per il bisogno pratico ".

Aristotele stesso ci dice dunque per che cosa la sua analisi non procede oltre: per la mancanza del concetto di valore.

Che cos'è quell'eguale, cioè la sostanza comune, che nell'espressione di valore del letto rappresenta la casa per il letto?

Aristotele dichiara che una cosa del genere " in verità non può esistere ". Perché? La casa rappresenta qualcosa d'eguale nei confronti del letto in quanto rappresenta quel che è realmente eguale in entrambi, nel letto e nella casa. E questo è: il lavoro umano.

Ma Aristotele non poteva ricavare dalla forma di valore stessa il fatto che nella forma dei valori di merci tutti i lavori sono espressi come lavoro umano eguale e quindi come egualmente valevoli, perché la società greca poggiava sul lavoro servile e quindi aveva come base naturale la disuguaglianza degli uomini e delle loro forze-lavoro. L'arcano dell'espressione di valore, l'eguaglianza e la validità eguale di tutti i lavori, perché e in quanto sono lavoro umano in genere, può essere decifrato soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare. Ma ciò è possibile soltanto in una società nella quale la forma di merce sia la forma generale del prodotto di lavoro, e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini come possessori di merci sia il rapporto sociale dominante. Il genio di Aristotele risplende proprio nel fatto che egli scopre un rapporto d'eguaglianza nella espressione di valore delle merci. Soltanto il limite storico della società entro la quale visse gli impedisce di scoprire in che cosa insomma consista " in verità " questo rapporto di eguaglianza.

A4. Il complesso della forma semplice di valore.

La forma semplice di valore d'una merce è contenuta nel suo rapporto di valore con una merce di genere differente, ossia nel rapporto di scambio con essa. Il valore della merce A viene espresso qualitativamente per mezzo della scambiabilità immediata della merce B con la merce A. Quantitativamente viene espresso mediante la scambiabilità di una quantità determinata della merce B con la quantità data della merce A. In altre parole:

il valore di una merce è espresso in maniera indipendente dalla sua rappresentazione come "valore di scambio". Quel che s'è detto, parlando alla spiccia, all'inizio di questo capitolo, che la merce è valore d'uso e valore di scambio, è erroneo, a volersi esprimere con precisione. La merce è valore d'uso ossia oggetto d'uso, e "valore". Essa si presenta come quella duplicità che è, appena il suo valore possiede una forma fenomenica propria differente dalla sua forma naturale, quella del valore di scambio; e non possiede mai questa forma se considerata isolatamente, ma sempre e soltanto nel rapporto di valore o di scambio con una seconda merce, di genere differente. Ma una volta che si sappia ciò, quel modo di parlare non fa danno, anzi, serve per abbreviare.

La nostra analisi ha dimostrato che la forma di valore o l'espressione di valore della merce sorge dalla natura del valore di merce, e che non è vero l'inverso, che valore e grandezza di valore sorgano dal suo modo d'esprimersi come valore di scambio. Eppure questa è l'illusione sia dei mercantilisti e dei moderni che ce li rifriggono come il Ferrier, il Ganilh, ecc.[22], sia anche dei loro antipodi, i commis-voyageurs moderni del libero scambio, come il Bastiat e compagnia. I mercantilisti pongono l'accento principale sul lato qualitativo dell'espressione di valore, e quindi sulla forma di equivalente della merce che ha la sua figura perfetta nel denaro: invece i rivenditori ambulanti moderni del libero scambio, che debbono liquidare a ogni prezzo la loro merce, mettono l'accento principale sul lato quantitativo della forma di valore. Di conseguenza per essi non esiste né valore né grandezza di valore della merce all'infuori dell'espressione data dal rapporto di scambio, cioè del bollettino dei prezzi correnti del giorno. Lo scozzese MacLeod, quando esercita la sua funzione di azzimare della maggiore erudizione possibile le intricate e confuse idee di Lombardstreet, è una sintesi ben riuscita di mercantilista superstizioso e di illuminato rivenditore ambulante del libero scambio.

La considerazione attenta dell'espressione di valore della merce A contenuta nel rapporto di valore con la merce B ha mostrato che all'interno di essa la forma naturale della merce A conta solo come figura di valore d'uso, e la forma naturale della merce B solo come forma di valore, figura di valore. L'opposizione interna fra valore d'uso e valore, rinchiusa nella merce, viene dunque rappresentata da una opposizione esterna, cioè dal rapporto fra due merci, nel quale la merce il cui valore deve essere espresso, viene espressa immediatamente solo come valore d'uso, e invece l'altra merce, in cui viene espresso valore, conta immediatamente solo come valore di scambio. La forma semplice di valore di una merce è dunque la forma fenomenica semplice del contrasto in essa contenuto fra valore d'uso e valore.

Il prodotto del lavoro è oggetto d'uso in tutti gli stati della società, ma soltanto un'epoca, storicamente definita, dello svolgimento della società, quella che rappresenta il lavoro speso nella produzione d'una cosa d'uso come sua qualità "oggettiva" cioè, come valore di essa, è l'epoca che trasforma in merce il prodotto del lavoro. Ne consegue che la forma elementare di valore della merce è simultaneamente la forma semplice di merce del prodotto del lavoro, e che quindi anche lo svolgimento della forma di merce coincide con lo svolgimento della forma di valore.

Basta uno sguardo per vedere l'insufficienza della forma semplice di valore, di questa forma germinale che matura fino alla forma di prezzo solo dopo una serie di metamorfosi.

L'espressione di A in una qualsiasi merce B distingue il valore della merce A soltanto dal suo proprio valore d'uso, e quindi pone la merce soltanto in un rapporto di scambio con un qualsiasi genere di merce singolo che sia differente da essa, invece di rappresentare la sua eguaglianza qualitativa e la sua proporzionalità quantitativa con tutte le altre merci. Alla forma semplice relativa di valore di una merce corrisponde la singola forma d'equivalente di un'altra merce. Così l'abito, nell'espressione relativa di valore della tela, ha soltanto forma di equivalente ossia forma di immediata scambiabilità in relazione a questo singolo genere di merci, alla tela.

Ma la forma singola di valore trapassa da sola in una forma più completa. E' vero che mediante essa il valore di una merce A viene espresso solo in una merce di altro genere. Ma è cosa del tutto indifferente di qual genere sia questa seconda merce, abito, ferro, grano, ecc. Dunque, a seconda che quella merce A entra in un rapporto di valore con questo o quell'altro genere di merci, nascono differenti espressioni semplici di valore di quell'unica e medesima merce22a. Il numero di queste sue possibili espressioni di valore è limitato soltanto dal numero dei generi di merci da essa differenti. Quindi la sua espressione isolata di valore si trasforma nella serie sempre prolungabile delle sue differenti espressioni semplici di valore.

B) FORMA DI VALORE TOTALE O DISPIEGATA.

z merce A = u merce B

oppure = v merce C

oppure = w merce D

oppure = x merce E

oppure = ecc.

(20 m di tela = n.1 abito, oppure = 1 kg di , oppure = 3 kg di caffè, oppure = 1 q di grano, oppure = 2 gr d'oro oppure = 50 q di ferro oppure = ecc.)

B1. La forma relativa di valore dispiegata.

Il valore di una merce, per esempio della tela, è ora espresso in innumerevoli altri elementi del mondo delle merci. Ogni altro corpo di merci diventa specchio del valore della tela[23]. Questo valore si presenta così per la prima volta, esso stesso, veracemente, come coagulo dì lavoro umano indifferenziato. Infatti il lavoro che lo costituisce è presentato ora espressamente come lavoro che equivale ad ogni altro lavoro umano, qualunque forma naturale possa avere, e sia che esso si oggettivi nell'abito o nel grano o nel ferro o nell'oro, ecc. Quindi la tela sta ora in un rapporto sociale mediante la sua forma di valore non più soltanto con un altro singolo genere di merce, ma con il mondo delle merci. Come merce, è cittadina di questo inondo. E allo stesso tempo è implicito nella infinita serie delle sue espressioni che il valore d'una merce è indifferente alla forma particolare del valore d'uso nel quale esso si presenta.

Nella prima forma: 20 m di tela = n 1 abito, può essere un fatto casuale che queste due merci siano scambiabili in un rapporto quantitativo dato. Nella seconda forma invece traspare subito uno sfondo essenzialmente differente dal fenomeno casuale, e determinante quest'ultimo. Il valore della tela rimane della stessa grandezza, che si presenti nell'abito o nel caffè, o nel ferro, ecc., in innumerevoli merci differenti, appartenenti ai più differenti proprietari. Cade il rapporto casuale di due proprietari individuali di merci. Diventa manifesto che non è lo scambio a regolare la grandezza di valore della merce, ma, al contrario, è la grandezza di valore della merce a regolare i rapporti di scambio di quest'ultima.

B2. La forma particolare di equivalente.

Nell'espressione di valore della tela ogni merce, abito, tè, grano, ferro, ecc., conta come equivalente, e quindi come corpo di valore. Ora la forma naturale determinata di ognuna di queste merci è una forma particolare d'equivalente accanto a molte altre. Così pure, ora i molteplici generi di lavoro determinato, concreto, utile contenuti nei differenti corpi di merce, contano come altrettante forme particolari di effettuazione o di manifestazione di lavoro umano senz'altro.

B3. Difetti della forma di valore totale o dispiegata.

In primo luogo, l'espressione relativa di valore della merce è incompleta, perché la serie che la rappresenta non ha termine. La catena nella quale un'equazione di valore si connette all'altra, rimane continuamente prolungabile mediante ogni nuovo genere di merci che si presenti e che fornisca il materiale di una nuova espressione di valore. In secondo luogo l'espressione relativa del valore costituisce un mosaico variopinto di espressioni di valore divergenti e di diverso genere. E infine, se si esprime, come non può non avvenire, il valore relativo di ogni merce in questa forma dispiegata, la forma relativa di valore di ogni merce è una serie infinita di espressioni di valore differente dalla forma relativa di valore di ogni altra merce. I difetti della forma di valore relativa dispiegata si rispecchiano nella forma di equivalente che le corrisponde. Poiché la forma naturale di ogni singolo genere di merci è qui una forma particolare di equivalente accanto a innumerevoli altre forme particolari di equivalente, esistono, in genere, soltanto forme limitate di equivalente, che si escludono reciprocamente. Così pure, il genere di lavoro determinato, concreto, utile, contenuto in ogni equivalente particolare di merci, è soltanto forma di manifestazione particolare del lavoro umano: particolare, quindi non esauriente. Il lavoro umano ha, è vero, la sua forma di manifestazione completa ossia totale nell'orbita complessiva di quelle forme di manifestazione particolari. Ma così non ha nessuna forma fenomenica unitaria.

La forma relativa di valore dispiegata consiste tuttavia soltanto di una somma di espressioni relative semplici di valore, o equazioni della prima forma, come:

20 m di tela = n 1 abito

20 m di tela = 10 kg di tè, ecc.

Ognuna di queste equazioni però contiene reciprocamente anche l'equazione identica:

n 1 abito = 20 m di tela

10 kg di tè = 20 m di  tela, ecc.

Di fatto: quando un uomo scambia la sua tela con molte altre merci, e quindi ne esprime il valore in una serie di altre merci, anche gli altri molti possessori di merci debbono necessariamente scambiare le loro merci con la tela, e quindi debbono esprimere i valori delle loro differenti merci nella stessa terza merce, in tela. Invertiamo dunque la serie: 20 m di tela = n 1 abito, oppure = 10 kg di tè, oppure = ecc.. cioè esprimiamo la relazione reciproca già contenuta, di fatto, nella serie, ed otterremo:

C) FORMA GENERALE DI VALORE.

 

n.1 abito
 
 
10 kg di                  
 
 
40 kg di caffè            
 
 
1 q di grano
=
20 m di tela    
20 gr d'oro
 
 
0,5 t di ferro   
 
 
x merce A
 
 
ecc. merce
 
 

C1. Carattere alterato della forma di valore.

Le merci presentano ora i loro valori:

1. in forma semplice perché in una merce unica;

2. unitariamente, perché nella medesima merce.

La loro forma di valore è elementare e comune, e quindi generale.

Le forme I e II pervenivano, l'una e l'altra, solo ad esprimere il valore di una merce come qualche cosa di distinto dal loro proprio valore d'uso o dal loro corpo di merce.

La prima forma dava equazioni di valore come: un abito = venti metri di tela, dieci chilogrammi di tè = mezza tonnellata di ferro, ecc. Il valore abito viene espresso come un qualcosa di eguale alla tela, il valore del tè come un qualcosa di eguale al ferro, ma questo qualche cosa, eguale alla tela e questo qualche cosa, eguale al ferro, queste espressioni di valore dell'abito e del tè, sono differenti fra loro come la tela e il ferro. In pratica questa forma si presenta soltanto ai primi inizi, nei quali prodotti di lavoro vengono trasformati in merci mediante scambio casuale e occasionale.

La seconda forma distingue il valore d'una merce dal suo valore d'uso in maniera più completa della prima, perché per esempio il valore dell'abito si contrappone in tutte le forme possibili alla forma naturale dell'abito, come un qualche cosa di eguale alla tela, o al ferro, o al tè, ecc., tutto meno che eguale all'abito. D'altra parte, qui è esclusa direttamente ogni espressione comune di valore delle merci, poiché nell'espressione di valore di ciascuna merce tutte le altre merci appaiono ora di volta in volta solo nella forma di equivalenti. La forma di valore dispiegata si ha di fatto la prima volta quando un prodotto di lavoro, per esempio, del bestiame, viene scambiato con differenti altre merci non più in via eccezionale, ma già abitualmente.

La nuova forma ottenuta esprime i valori del inondo delle merci in un unico e medesimo genere di merci, da esso separato, per esempio in tela, e così rappresenta i valori di tutte le merci mediante la loro eguaglianza con la tela. Come eguale a tela, il valore di ogni merce non è ora soltanto distinto dal valore d'uso suo proprio, ma da ogni valore d'uso, e proprio perciò viene espresso come ciò che è comune a quella e a tutte le altre merci. Quindi solo questa forma mette realmente le merci in rapporto reciproco come valori, ossia fa che esse si presentino reciprocamente l'una all'altra come valori di scambio.

Le prime due forme esprimono entrambe il valore di una merce, sia che l'esprimano in una singola merce di genere differente, sia che l'esprimano in una serie di molte merci differenti da essa. Tutte e due le volte, per così dire, è affare privato della merce singola darsi una forma di valore, ed essa lo fa senza che c'entrino le altre merci. Nei suoi confronti queste fanno la parte puramente passiva dell'equivalente. Invece la forma generale del valore sorge soltanto come opera comune del mondo delle merci. Una merce ottiene espressione generale di valore solo perché simultaneamente tutte le altre merci esprimono il loro valore nel medesimo equivalente, ed ogni nuovo genere di merce che si presenta deve imitarle. Con ciò viene in luce che l'oggettività di valore delle merci, dato che essa è la pura e semplice "esistenza sociale" di queste cose, può essere espressa soltanto mediante la loro relazione sociale onnilaterale, e che di conseguenza la loro forma di valore non può non essere forma socialmente valida.

Nella forma di eguali a tela si presentano ora tutte le merci, non solo come cose eguali qualitativamente, come valori in genere, ma, insieme, come grandezze di valore quantitativamente confrontabili. Poiché le merci rispecchiano in un unico e medesimo materiale, nella tela, le proprie grandezze di valore, queste ultime si rispecchiano a loro volta l'una nell'altra. Per esempio 10 kg di tè = 20 m di tela, e 40 kg di caffè = 20 m di tela. Dunque, 10 kg di tè = 40 kg di caffè. Ossia, in 1 kg di caffè sta soltanto un quarto di sostanza di valore, di lavoro, di quel che sta in 1 kg di tè.

La forma relativa generale di valore del mondo delle merci imprime il carattere di equivalente generale alla merce equivalente esclusa da quel mondo: alla tela. La forma naturale propria della tela è la figura comune di valore di quel mondo, e quindi la tela è immediatamente scambiabile con tutte le altre merci. La forma corporea della tela è considerata come l'incarnazione visibile, la crisalide sociale generale di ogni lavoro umano. La tessitura, lavoro privato che produce tela, si trova allo stesso tempo ad essere nella forma generalmente sociale, in quella dell'eguaglianza con tutti gli altri lavori. Le innumerevoli equazioni delle quali è composta la forma generale del lavoro identificano a turno il lavoro realizzato nella tela con ogni altro lavoro contenuto in altre merci e con ciò fanno della tessitura la forma di manifestazione generale del lavoro umano in genere. Così il lavoro oggettivato nel valore delle merci non è rappresentato solo negativamente come lavoro nel quale si astrae da tutte le forme concrete e da tutte le qualità utili dei lavori effettivi. La natura positiva del lavoro oggettivato qui spicca espressamente: la forma generale di valore è la riduzione di tutti i lavori effettivi al carattere a tutti comune di lavoro umano, a dispendio di forza-lavoro umana.

La forma generale di valore. che rappresenta i prodotti del lavoro come puri e semplici coaguli di lavoro umano indifferenziato, mostra d'essere l'espressione sociale del mondo delle merci, proprio mediante la propria struttura. Così essa rivela che entro questo mondo il carattere generalmente umano del lavoro costituisce il suo carattere specificamente sociale.

C2. Rapporto di sviluppo fra forma relativa di valore e forma di equivalente.

Al grado di sviluppo della forma relativa di valore corrisponde il grado di sviluppo della forma di equivalente. Ma, e questo va notato, lo svolgimento della forma di equivalente è solo espressione e risultato dello svolgimento della forma relativa di valore.

La forma relativa semplice o isolata di valore di una merce rende unico equivalente di essa un'altra merce. La forma dispiegata del valore relativo, espressione del valore d'una merce in tutte le altre merci, imprime loro la forma di differenti equivalenti particolari. Infine una merce particolare riceve la forma generale di equivalente, perché tutte le altre merci ne fanno il materiale della loro forma di valore unitaria, generale.

Ma nello stesso grado nel quale si sviluppa in genere la forma di valore, si sviluppa anche l'opposizione fra i suoi due poli, forma relativa di valore e forma di equivalente.

Già la prima forma - venti metri di tela = un abito - contiene questa opposizione, ma non la fissa. A seconda che questa equazione vien letta in avanti o all'indietro, ognuno dei due estremi di merci, tela e abito, si trova simmetricamente ora nella forma relativa di valore, ora nella forma di equivalente. Qui è ancora faticoso tener ferma l'opposizione polare.

Nella forma II può dispiegare totalmente il proprio valore relativo sempre e soltanto un genere di merci per volta; ossia, il genere possiede soltanto forma relativa di valore dispiegata, perché e in quanto tutte le altre merci si trovano nei suoi confronti nella forma di equivalente. Qui non si possono più trasporre i due lati dell'equazione di valore - come: 20 m di tela = n 1 abito, oppure = 10 kg di tè, oppure = 1 q di grano - a meno di alterare il carattere complessivo dell'equazione stessa, trasformandola da forma totale del valore in forma generale del valore.

L'ultima forma, la forma III, dà infine al mondo delle merci una forma di valore relativa generalmente sociale, perché e in quanto, con una sola eccezione, tutte le merci che gli appartengono, sono escluse dalla generale forma di equivalente. Una merce, la tela, si trova quindi nella forma di scambiabilità immediata con tutte le altre merci, ossia in forma immediatamente sociale, perché e in quanto tutte le altre merci non vi si trovano[24].

Viceversa, la merce che figura come equivalente generale è esclusa dalla forma unitaria e quindi relativa e generale di valore del mondo delle merci. Se anche per esempio la tela - cioè una qualsiasi merce che si trovasse in forma generale di equivalente - dovesse partecipare simultaneamente alla forma relativa generale di valore, essa dovrebbe servire di equivalente a se stessa. Allora otterremmo: 20 m di tela = 20 m di tela, cioè una tautologia, nella quale non sono espressi né valori né grandezze di valore. Per esprimere il valore relativo dell'equivalente generale, dobbiamo invece invertire la forma III. L'equivalente non ha nessuna forma relativa comune con le altre merci, ma il suo valore si esprime relativamente, nella serie infinita di tutti gli altri corpi di merci. Così ormai la forma relativa dispiegata di valore, ossia forma II, si presenta come la forma di valore relativa specifica della merce equivalente.

C3. Passaggio dalla forma generale di valore alla forma di denaro.

La forma generale d'equivalente è una forma del valore in genere. Quindi può spettare ad ogni merce. D'altra parte una merce si trova in forma generale di equivalente (forma III) solo perché e in quanto viene esclusa da tutte le altre merci, come equivalente. E solo dal momento nel quale questa esclusione si limita definitivamente a un genere specifico di merci, la forma unitaria relativa di valore del mondo delle merci ha raggiunto consistenza oggettiva e validità generalmente sociale.

Ora il genere specifico di merci con la cui forma naturale s'è venuta identificando man mano socialmente la forma di equivalente, diventa merce denaro, ossia funziona come moneta. La sua funzione specificamente sociale, e quindi il suo monopolio sociale, diventa quella di rappresentare la parte dell'equivalente generale entro il mondo delle merci. Una merce determinata, l'oro, ha conquistato storicamente questo posto privilegiato fra le merci che nella forma II figurano come equivalenti particolari della tela e nella forma III esprimono insieme in tela il loro valore relativo. Se dunque nella forma III mettiamo la merce oro al posto della merce tela, abbiamo:

D) FORMA DI DENARO.

 

20 m di tela
 
 
n.1 abito
 
 
10 kg di                 
 
 
40 kg di caffè            
=
20 gr di oro 
1 q di grano
 
 
0,5 t di ferro   
 
 
x merce A
 
 

Nel passaggio dalla forma I alla forma II, dalla forma II alla forma III hanno luogo cambiamenti essenziali. Invece la forma IV non si distingue dalla forma III se non per il fatto che adesso è l'oro ad avere la forma generale di equivalente, invece della tela. Nella forma IV l'oro rimane quel che era la tela nella forma III: equivalente generale. Il progresso consiste solo nel fatto che la forma della scambiabilità immediata generale, ossia la forma generale di equivalente ora s'è venuta identificando definitivamente con la forma specifica naturale della merce oro, per abitudine sociale.

L'oro si presenta come denaro nei confronti delle altre merci solo perché si era presentato già prima come merce nei confronti di esse. Anch'esso ha funzionato come equivalente, come tutte le altre merci: sia come equivalente singolo in atti isolati di scambio, sia come equivalente particolare accanto ad altri equivalenti di merci. Man mano esso ha funzionato, in sfere più o meno ampie, come equivalente generale; e appena ha conquistato il monopolio di questa posizione nell'espressione di valore del mondo delle merci, diventa merce denaro, e solo dal momento nel quale esso è già diventato merce denaro, la forma IV si distingue dalla forma III: ossia la forma generale di valore è trasformata nella forma di denaro.

L'espressione relativa elementare di una merce, per esempio della tela, in merce già funzionante come merce denaro, per esempio nell'oro, è forma di prezzo. La " forma di prezzo " della tela è quindi:

20 m di tela = 20 gr d'oro

oppure, se 10 Euro è il nome monetario di 20 gr d'oro,

20 m di tela = 10 Euro.

La difficoltà nel concetto della forma di denaro si limita alla comprensione della forma generale di equivalente, cioè della forma generale di valore in generale, la III forma. La III forma si risolve di riflesso nella II forma, la forma di valore dispiegata, e il suo elemento costitutivo è la forma I: 20 m di tela = n 1 abito, ossia x merce A = y merce B.

Quindi la forma semplice di merce è il germe della forma di denaro.

4. IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCANO.

A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d'uso, non c'è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. E' chiaro come la luce del sole che l'uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare[25].

Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d'uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica ch'essi sono funzioni dell'organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro: la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera addirittura tangibile. In nessuna situazione il tempo di lavoro che costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non interessare gli uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo[26]. Infine, appena gli uomini lavorano in una qualsiasi maniera l'uno per l'altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale.

Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L'eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale di eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d'un rapporto sociale dei prodotti del lavoro.

L'arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell'occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l'oggetto esterno, su un'altra cosa, l'occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un'analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.

Come l'analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci.

Gli oggetti d'uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l'uno dall'altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all'interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose.

Solo all'interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un'oggettività di valore socialmente eguale, separata dalla loro oggettività d'uso, materialmente differente. Questa scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato estensione e importanza sufficienti affinché cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sè come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall'altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato. L'eguaglianza di lavori completamente differenti può consistere soltanto in un far astrazione dalla loro reale disuguaglianza, nel ridurli al carattere comune che essi posseggono, di dispendio di forza-lavoro umana, di lavoro astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati rispecchia a sua volta questo duplice carattere sociale dei loro lavori privati, nelle forme che appaiono nel commercio pratico, nello scambio dei prodotti, quindi rispecchia il carattere socialmente utile dei loro lavori privati, in questa forma: il prodotto del lavoro deve essere utile, e utile per altri, e rispecchia il carattere sociale dell'eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del carattere comune di valore di quelle cose materialmente differenti che sono i prodotti del lavoro.

Gli uomini dunque riferiscono l'uno all'altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l'un con l'altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno[27]. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l'arcano del loro proprio prodotto sociale, poichè la determinazione degli oggetti d'uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto sono valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell'umanità, ma non disperde affatto la parvenza oggettiva dei carattere sociale del lavoro. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l'uno dall'altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva come il fatto che la scomposizione scientifica dell'aria nei suoi elementi ha lasciato sussistere nella fisica l'atmosfera come forma corporea.

Quel che interessa praticamente in primo luogo coloro che scambiano prodotti, è il problema di quanti prodotti altrui riceveranno per il proprio prodotto, quindi, in quale proporzione si scambiano i prodotti. Appena queste proporzioni sono maturate raggiungendo una certa stabilità abituale, sembrano sgorgare dalla natura dei prodotti del lavoro, cosicchè per esempio 1 qle di ferro e 20 gr d'oro sono di eguale valore allo stesso modo che 1 kg d'oro e 1 kg di ferro sono di eguale peso nonostante le loro differenti qualità chimiche e fisiche. Di fatto, il carattere di valore dei prodotti del lavoro si consolida soltanto attraverso la loro attuazione come grandezze di valore. Le grandezze di valore variano continuamente, indipendentemente dalla volontà, della prescienza, e dall'azione dei permutanti, pei quali il loro proprio movimento sociale assume la forma d'un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo. Occorre che ci sia una produzione di merci completamente sviluppata, prima che dall'esperienza stessa nasca la cognizione scientifica che i lavori privati - compiuti indipendentemente l'uno dall'altro, ma dipendenti l'uno dall'altro da ogni parte come articolazioni naturali spontanee della divisione sociale del lavoro - vengono continuamente ridotti alla loro misura socialmente proporzionale. perché nei rapporti di scambio dei loro prodotti, casuali e sempre oscillanti,trionfa con la forza, come legge naturale regolatrice, il tempo di lavoro socialmente necessario per la loro produzione, così come per esempio trionfa con la forza la legge della gravità, quando la casa ci capitombola sulla testa[28]. La determinazione della grandezza di valore mediante il tempo di lavoro è quindi un arcano, celato sotto i movimenti appariscenti dei valori relativi delle merci. La sua scoperta elimina la parvenza della determinazione puramente casuale delle grandezze di valore dei prodotti del lavoro, ma non elimina affatto la sua forma oggettiva.

In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l'analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro l'impronta di merci e quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme, che per essi anzi sono ormai immutabili, ma del loro contenuto. Così, soltanto l'analisi dei prezzi delle merci ha condotto alla determinazione della grandezza di valore; soltanto l'espressione comune delle merci in denaro ha condotto alla fissazione del loro carattere di valore. Ma proprio questa forma finita - la forma di denaro - del mondo delle merci vela materialmente, invece di svelarlo, il carattere sociale dei lavori privati, e quindi i rapporti sociali dei lavoratori privati. Quando dico: abito, stivali, ecc. si riferiscono alla tela come incarnazione generale del lavoro umano astratto, la stravaganza di questa espressione salta agli occhi. Ma quando i produttori dell'abito, degli stivali, ecc. riferiscono queste merci alla tela - o all'oro e argento, il che non cambia niente alla sostanza - come equivalente generale, la relazione dei loro lavori privati col lavoro complessivo sociale si presenta loro appunto in quella forma stravagante.

Tali forme costituiscono appunto le categorie dell'economia borghese. Sono forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti di produzione di questo modo di produzione sociale storicamente determinato, per i rapporti di produzione della produzione di merci. Quindi, appena ci rifugiamo in altre forme di produzione, scompare subito tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l'incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci.

Poichè l'economia politica predilige le robinsonate[29] evochiamo per primo Robinson nella sua isola. Sobrio com'è di natura, ha tuttavia bisogni di vario genere da soddisfare, e quindi deve compiere lavori utili di vario genere, deve fare strumenti, fabbricare mobili, addomesticare dei lama, pescare, cacciare, ecc. Qui non parliamo delle preghiere e simili, poichè il nostro Robinson ci prende il suo gusto e considera tali attività come ricreazione. Nonostante la differenza fra le sue funzioni produttive egli sa che esse sono soltanto differenti forme di operosità dello stesso Robinson, e dunque modi differenti di lavoro umano. Proprio la necessità lo costringe a distribuire esattamente il proprio tempo fra le sue differenti funzioni. Che l'una prenda più posto, l'altra meno posto nella sua operosità complessiva dipende dalla difficoltà maggiore o minore da superare per raggiungere il desiderato effetto d'utilità. Questo glielo insegna l'esperienza, e il nostro Robinson che ha salvato dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, comincia da buon inglese a tenere la contabilità di se stesso. Il suo inventario contiene un elenco degli oggetti d'uso che possiede, delle diverse operazioni richieste per la loro produzione, e infine del tempo di lavoro che gli costano in media determinate quantità di questi diversi prodotti. Tutte le relazioni fra Robinson e le cose che costituiscono la ricchezza che egli stesso s'è creata, sono qui tanto semplici e trasparenti che perfino il signor M. Wirth potrebbe capirle senza particolare sforzo mentale. Eppure, vi sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore.

Trasportiamoci ora dalla luminosa isola di Robinson nel tenebroso Medioevo europeo. Qui, invece dell'uomo indipendente, troviamo che tutti sono dipendenti: servi della gleba e padroni, vassalli e signori feudali, laici e preti. La dipendenza personale caratterizza tanto i rapporti sociali della produzione materiale, quanto le sfere di vita su di essa edificate. Ma proprio perché rapporti personali di dipendenza costituiscono il fondamento sociale dato, lavori e prodotti non hanno bisogno di assumere una figura fantastica differente dalla loro realtà: si risolvono nell'ingranaggio della società come servizi in natura e prestazioni in natura. La forma naturale del lavoro, la sua particolarità, è qui la sua forma sociale immediata, e non la sua generalità, come avviene sulla base della produzione di merci. La corvée si misura col tempo, proprio come il lavoro produttore di merci, ma ogni servo della gleba sa che quel che egli aliena al servizio del suo padrone è una quantità determinata della sua forza-lavoro personale. La decima che si deve fornire al prete è più evidente della benedizione del prete. Quindi, qualunque sia il giudizio che si voglia dare delle maschere nelle quali gli uomini si presentano l'uno all'altro in quel teatro, i rapporti sociali delle persone appaiono in ogni modo come loro rapporti personali, e non sono travestiti da rapporti sociali delle cose, dei prodotti del lavoro.

Non abbiamo bisogno, ai fini della considerazione di un lavoro comune, cioè immediatamente socializzato, di risalire alla sua forma naturale spontanea, che incontriamo sulla soglia della storia di ogni popolo civile[30]. Un esempio più vicino è costituito dall'industria rusticamente patriarcale d'una famiglia di contadini, che produce grano, bestiame, filati, tela, pezzi di vestiario, ecc. Per quanto riguarda la famiglia, queste cose differenti si presentano come prodotti differenti del suo lavoro familiare; invece per quanto riguarda le cose stesse, esse non si presentano reciprocamente l'una all'altra come merci. I differenti lavori che generano quei prodotti, aratura, allevamento, filatura, tessitura, sartoria, nella loro forma naturale sono funzioni sociali, poiché sono funzioni della famiglia che ha, proprio come la produzione di merci, la sua propria divisione del lavoro, naturale ed originaria. Le differenze di sesso e di età, e le condizioni naturali di lavoro varianti col variare della stagione, regolano la distribuzione di quelle funzioni entro la famiglia e il tempo di lavoro dei singoli membri. Però qui il dispendio delle forze-lavoro individuali misurato con la durata temporale si presenta per la sua natura stessa come determinazione sociale dei lavori stessi, poiché le forze-lavoro individuali operano per la loro stessa natura soltanto come organi dalla forza-lavoro comune della famiglia.

Immaginiamoci in fine, per cambiare, un'associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale. Qui si ripetono tutte le determinazioni del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente. Tutti i prodotti di Robinson erano sua produzione esclusivamente personale, e quindi oggetti d'uso, immediatamente per lui. La produzione complessiva dell'associazione è una produzione sociale. Una parte, serve a sua volta da mezzo di produzione, Rimane sociale. Ma un'altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell'associazione. Quindi deve essere distribuita fra di essi. Il genere di tale distribuzione varierà col variare del genere particolare dello stesso organismo sociale di produzione e del corrispondente livello storico di sviluppo dei produttori. Solo per mantenere il parallelo con la produzione delle merci presupponiamo che la partecipazione di ogni produttore ai mezzi di sussistenza sia determinata dal suo tempo di lavoro. Quindi il tempo di lavoro rappresenterebbe una doppia parte. La sua distribuzione. compiuta socialmente secondo un piano, regola l'esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni. D'altra parte, il tempo di lavoro serve allo stesso tempo come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro in comune, e quindi anche alla parte della produzione comune consumabile individualmente. Le relazioni sociali degli uomini coi loro lavori e con i prodotti del loro lavoro rimangono qui semplici e trasparenti tanto nella produzione quanto nella distribuzione.

Per una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente sociale consiste nell'essere in rapporto coi propri prodotti in quanto sono merci, e dunque valori, e nel riferire i propri lavori privati l'uno all'altro in questa forma oggettiva come eguale lavoro umano, il cristianesimo col suo culto dell'uomo astratto, e in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione più corrispondente. Nei modi di produzione della vecchia Asia e dell'antichità classica, ecc., la trasformazione del prodotto in merce, e quindi l'esistenza dell'uomo come produttore di merci, rappresenta una parte subordinata, che pure diventa tanto più importante, quanto più le comunità s'addentrano nello stadio del loro tramonto. Popoli commerciali veri e propri esistono., solo negli intermondi del mondo antico, come gli dei di Epicuro, o come gli ebrei nei pori della società polacca. Quegli antichi organismi sociali di produzione sono straordinariamente più semplici e più trasparenti dell'organismo borghese, ma poggiano o sulla immaturità dell'uomo individuale, che ancora non s'è distaccato dal cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini, oppure su rapporti immediati di padronanza e di servitù. Sono il portato di un basso grado di svolgimento delle forze produttive del lavoro, e di rapporti fra gli uomini chiusi entro il processo materiale di generazione della vita, e quindi fra loro stessi, e fra loro e la natura: rapporti che sono ancora impacciati, in corrispondenza a quel basso grado di svolgimento. Tale impaccio reale si rispecchia idealmente nelle antiche religioni naturali ed etniche. Il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in genere, soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra loro e la natura. La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano. Tuttavia, affinché ciò avvenga si richiede un fondamento materiale della società, ossia una serie di condizioni materiali di esistenza che a loro volta sono il prodotto naturale originario della storia di uno svolgimento lungo e tormentoso.

Ora, l'economia politica ha certo analizzato, sia pure incompletamente[31] il valore e la grandezza di valore, ed ha scoperto il contenuto nascosto in queste forme. Ma non ha mai posto neppure il problema del perché quel contenuto assuma quella forma, e dunque del perché il lavoro rappresenti se stesso nel valore, e la misura del lavoro mediante la sua durata temporale rappresenti se stessa nella grandezza di valore del prodotto del lavoro[32]. Queste formule portano segnata in fronte la loro appartenenza a una formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini, e l'uomo non padroneggia ancora il processo produttivo: ed esse valgono per la sua coscienza borghese come necessità naturale, ovvia quanto il lavoro produttivo stesso. Le forme preborghesi dell'organismo sociale di produzione vengono quindi trattate dall'economia politica press'a poco come le religioni precristiane sono trattate dai padri della Chiesa[33].

La noiosa e insipida contesa sulla funzione della natura nella formazione del valore di scambio dimostra, fra le altre cose, fino a che punto una parte degli economisti sia ingannata dal feticismo inerente al mondo delle merci ossia dalla parvenza oggettiva delle determinazioni sociali del lavoro. Poiché il valore di scambio è una determinata maniera sociale di esprimere il lavoro applicato alle cose, non può contenere più elementi naturali di quanti ne contenga per esempio il corso dei cambi.

Poiché la forma di merce è la forma più generale e meno sviluppata della produzione borghese - ragion per la quale essa si presenta così presto, benché non ancora nel medesimo modo dominante, quindi caratteristico, di oggi - il suo carattere di feticcio sembra ancor relativamente facile da penetrare. Ma in forme più concrete scompare perfino questa parvenza di semplicità. Di dove vengono le illusioni del sistema monetario? Questo sistema non ha visto nell'oro e nell'argento che, come denaro, essi rappresentano un rapporto sociale di produzione, ma li ha considerati nella forma di cose naturali con strane qualità sociali. E l'economia moderna, che sorride con molta distinzione guardando dall'alto in basso il sistema monetario? Non diventa tangibile il suo feticismo, appena tratta del capitale?

Da quanto tempo è scomparsa l'illusione fisiocratica che la rendita fondiaria cresca dalla terra e non dalla società?

Ma, per non fare anticipazioni, basti qui ancora un esempio che si riferisce alla stessa forma di valore. Se le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d'uso può interessare gli uomini, A noi, come cose, non compete. Ma quello che, come cose, ci compete, è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre proprie relazioni come cose-merci. Noi ci riferiamo reciprocamente l'una all'altra soltanto come valori di scambio. Si ascolti ora come l'economista parla con l'anima stessa della merce: "Valore (valore di scambio) è qualità delle cose, ricchezza (valore d'uso) dell'uomo. Valore in questo senso implica necessariamente scambio; ricchezza, no”[34]. “La ricchezza (valore d'uso) è un attributo dell'uomo, il valore è un attributo delle cose. Un uomo o una comunità è ricca; una perla o un diamante è di valore... Una perla o un diamante ha valore come perla o diamante"[35]. Finora nessun chimico ha ancora scoperto valore di scambio in perle o diamanti. Gli scopritori economici di questa sostanza chimica, i quali hanno pretese speciali di profondità critica, trovano però che il valore d'uso delle cose è indipendente dalle loro qualità di cose, mentre il loro valore compete ad esse come cose. Quel che li conferma in ciò, è la strana circostanza che il valore d'uso delle cose si realizza per l'uomo senza scambio, cioè nel rapporto immediato fra cosa e uomo; mentre il loro valore si realizza inversamente soltanto nello scambio, cioè in un processo sociale. Chi non ricorderà qui il buon Dogberry, che ammaestra il guardiano notturno Seacoal: "Essere un uomo di bell'aspetto è un dono delle circostanze, ma saper leggere e scrivere viene per natura"[36].

NOTE


[1] KARL MARX, Zur Kritik der politischen Oekonomie, Berlino, 1859, p. 3

[2] " Desiderio implica bisogno; è l'appetito della mente, naturale anche esso come la fame per il corpo... La maggior parte (delle cose) hanno il loro valore dal soddisfare i bisogni della mente ". NICOLAS BARBON, A discourse concerning coining the new) money lighter, in answer to Mr. Locke's Considerations ecc., Londra, 1696, pp. 2, 3.

[3] "Hanno una virtù intrinseca (virtue è nel Barbon la designazione specifica per valore d'uso) le cose che in tutti i luoghi hanno la stessa virtù, come ha per esempio la calamita di attrarre il ferro " (ivi, p. 6). La proprietà della calamita di attrarre il ferro divenne utile solo quando fu scoperta per suo mezzo la polarità magnetica.

[4] "Il valore naturale (natural worth) di ogni cosa consiste nella sua attitudine a soddisfare le necessità e a servire i comodi della vita umana " (JOHN LOCKE, Some considerations on the consequences of the lowering o/ interest, 1691, in Works, ed. Londra, 1777, vol. Il, p. 28). Durante il secolo XVII troviamo ancora spesso negli scrittori inglesi worth per valore d'uso, e value per valore di scambio: proprio nello spirito d'una lingua che ama esprimere la cosa immediata con voci germaniche e la cosa riflessa con voci romanze.

[5] Nella società civile domina la fictio juris che ogni uomo, in quanto acquirente di merci, possegga una conoscenza enciclopedica delle merci.

[6] " Il valore consiste nel rapporto di scambio che si ha fra una cosa e l'altra, fra una data quantità d'un prodotto e una data quantità di un altro prodotto " (LE TROSNE, De l'intérét social, in Physiocrates, ed. Daire, Parigi, 1846, p. 889).

[7] " Nulla può avere un valore di scambio intrinseco " (N. Barbon, A discourse concerning coining ecc. cit., p. 6), o, come dice il Butler: "Il valore di una cosa è esattamente quanto essa renderà".

[8] " One sort of wares are as good as another, if the value be equal. There is no difference or distinction in things of equal value... One hundred pounds worth of lead or iron, is of as great a value as one hundred pounds worth of silver and gold " [Piombo o ferro per il valore di cento lire sterline hanno altrettanto valore di scambio che oro e argento per il valore di cento lire sterline]. (N. Barbon, ivi, pp. 53, 7).

[9] Nota alla seconda edizione. " The value of them (the necessaries of file) when they are exchanged the one for another, is regulated by the quantity of labour necessarily required, and commonly taken in producing them ". " Il valore degli oggetti d'uso (le cose necessarie alla vita), quando vengono scambiati gli uni con gli altri, è determinato dalla quantità di lavoro richiesta necessariamente e comunemente impiegata nel produrli". (Some thoughts on the interest of money in general, and particularly in the public funds ecc., Londra, p. 36). Questo notevole scritto anonimo del secolo scorso non ha data. Dal contenuto risulta tuttavia che è apparso sotto Giorgio Il, circa nel 1739 o nel 1740.

[10] "Tutti i prodotti dello stesso genere costituiscono propriamente una sola massa, il prezzo della quale si determina in generale e senza riguardo alle circostanze particolari ". (LE TROSNE, De l'intérét social, p. 893).

[11] K. MARX, Zur Kritik cit., p. 6.

11a Nota alla quarta edizione.Inserisco questo passo fra parentesi perché, per la sua omissione è sorto spesso il malinteso che in Marx ogni prodotto consumato da altri che non sia il produttore valga come merce.F. E.

[12] Zur Kritik cit., pp. 12, 13 e sgg.

[13] "Tutti i fenomeni dell'universo, siano essi prodotti della mano dell'uomo, ovvero leggi della fisica, non ci danno idea di attuale creazione, ma unicamente di una modificazione della materia. Accostare e separare sono gli unici elementi che l'ingegno umano ritrova analizzando l'idea della riproduzione: e tanto è riproduzione di valore (valore d'uso, benché il Verri qui nella sua polemica contro i fisiocratici non sappia bene neppure lui stesso di quale valore parli) e di ricchezze se la terra, l'aria e l'acqua nei campi si trasmutino in grano, come se colla mano dell'uomo il glutine di un insetto si trasmuti in velluto ovvero alcuni pezzetti di metallo si organizzino a formare una ripetizione " VERRI, Meditazioni sulla economia politica, pubblicate la prima volta nel 1773 nell'edizione degli economisti italiani del Custodi, parte moderna, vol. XV, p. 22),

[14] Cfr. HEGEL, Philosophie des Rechts, Berlino, 1840, p. 250, § 190.

[15] Il lettore deve notare che qui non si parla del salario o valore che il lavoratore riceve, per esempio, per una giornata lavorativa, ma del valore della merce, nel quale si oggettiva la sua giornata lavorativa. La categoria dei salario del lavoro non esiste in genere ancora, a questo grado della nostra esposizione.

[16] Nota alla seconda edizione. Per provare che " il solo lavoro è la misura definitiva e reale con la quale si può in ogni tempo stimare e comparare il valore di tutte le merci ", A. Smith dice: " Quantità eguali di lavoro debbono avere lo stesso valore per il lavoratore in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Nel suo stato normale di salute, forza e attività e col grado medio di abilità ch'egli può possedere, egli deve cedere sempre una identica porzione del suo riposo. della sua libertà e della sua felicità " (Wealth of nations, libro 1, cap. 5 [Ed. E. G. Wakefield, Londra, 1836, vol. I, pp. 104 sgg.]).Da una parte qui (non dappertutto) A. Smith scambia la determinazione del valore mediante la quantità di lavoro, spesa nella produzione della merce, con la determinazione dei valori delle merci mediante il valore del lavoro e di conseguenza cerca di dimostrare che identiche quantità di lavoro hanno sempre Io stesso valore. Dall'altra parte egli intuisce che. il lavoro, in quanto si rappresenta nel valore delle merci, conta soltanto come dispendio di forza-lavoro, ma poi torna a concepire questo dispendio soltanto come sacrificio di riposo, libertà e felicità, e non anche come attività normale di esseri viventi. Certo, ha in mente il salariato moderno. Molto più esattamente, l'anonimo predecessore di A. Smith, citato alla nota 9, dice: " un uomo s'è occupato una settimana nella produzione di tale oggetto necessario alla vita... e colui che gli dà in cambio un altro oggetto non può stimare quel che veramente è equivalente in modo migliore che cornputando quel che gli è costato altrettanto lavoro e altrettanto tempo; il che non è altro che lo scambio del lavoro che un uomo ha speso in un oggetto per un dato tempo, con il lavoro di un altro uomo, speso in un altro oggetto per lo stesso tempo " (Some thoughts on the interest of money cit., p. 39). Nota alla quarta edizione: La lingua inglese ha il vantaggio di avere due parole differenti per questi due differenti aspetti del lavoro. Il lavoro che produce valori d'uso ed è determinato qualitativamente, si chiama work. in opposizione a labour; il lavoro, che produce valore e viene misurato solo quantitativamente, si chiama labour, in opposizione a work. Cfr. nota alla traduzione inglese, p. 14. F. E.

[17] I pochi economisti che si sono occupati. come S. Bailey, dell'analisi della forma dì valore, non sono potuti arrivare ad alcun risultato, in primo luogo perché scambiano forma di valore e valore, in secondo luogo perché essi, sotto il grossolano influsso del borghese praticone, tengon di mira esclusivamente fin da principio la determinatezza quantitativa. " Il poter disporre della quantità... fa il valore " (Money and its vicissitudes, Londra, 1837, p. 11, di S. BAILEY).

17a Nota alla seconda edizione. Uno dei primi economisti che, dopo William Petty, abbia penetrato la natura del valore, il celebre Franklin, dice: " Non essendo il commercio in generale altro che lo scambio di lavoro con lavoro, il valore di tutte le cose... è esattissimamente stimato in lavoro " (The works of B. Franklin ecc., editi da Sparks, Boston, 1836, vol. Il, p. 267). Franklin non è consapevole del fatto che stimando il valore di tutte le cose " in lavoro " fa astrazione dalla differenza dei lavori scambiati - e così li riduce a lavoro umano eguale. Tuttavia lo dice, anche senza saperlo. Parla prima de " l'un lavoro ", poi de " l'altro lavoro " e infine di " lavoro " designazione,come sostanza del valore di tutte le cose.

[18] In certo modo all'uomo succede come alla merce. Dal momento che l'uomo non viene al mondo con uno specchio, né da filosofo fichtiano (Io sono io), egli, in un primo momento, si rispecchia in un altro uomo. L'uomo Pietro si riferisce a se stesso come a uomo soltanto mediante la relazione all'uomo Paolo come proprio simile. Ma così anche Paolo in carne ed ossa, nella sua corporeità paolina, conta per lui come forma fenomenica del genus uomo.

[19] L'espressione " valore ", come - detto fra parentesi - è già accaduto qua e là in altri punti prima di questo, viene usata per valore determinato quantitativamente, cioè per grandezza di valore.

[20] Nota alla seconda edizione. Questa incongruenza fra la grandezza di valore e la sua espressione relativa è stata sfruttata con l'abituale acume dalla economia volgare. Per esempio: " Ammettete che A scenda perché B, con il quale è scambiato, sale, sebbene per A non sia speso meno lavoro, e il vostro principio generale del valore cade a terra... Egli [Ricardo] ammettendo che, perché il valore di A sale relativamente a B, il valore di B scende relativamente ad A, s'era tolta di sotto i piedi la base sulla quale poggiava la sua gran proposizione che il valore di una merce è sempre determinato dalla quantità del lavoro in essa incorporata; poiché se una variazione nei costi di A non cambia soltanto il valore di A in rapporto a B, con il quale viene scambiato, ma cambia. anche il valore di B relativamente a quello di A, benché non abbia avuto luogo nessuna variazione nella quantità di lavoro richiesta per la produzione di B, allora cade a terra non solo tutta la dottrina che assicura che la quantità di lavoro spesa per un articolo ne regola il valore, ma anche la dottrina che i costi di produzione di un articolo ne regolano il valore " (J. BROADHURST, Treatise on political economy, Londra, 1824, pp. 11, 14).Il signor Broadhurst poteva dire anche: consideriamo le frazioni 10/20, 10/50, 10/100 ecc. Il numero 10 rimane immutato, eppure la sua grandezza proporzionale, la sua grandezza relativa ai denominatori 20, 50, 100, diminuisce costantemente. Così cade a terra il gran principio che la grandezza di un numero intero, come 10, sia, per esempio, " regolata " dal numero delle unità in esso contenute.

[21] Queste determinazioni della riflessione sono in genere una cosa strana. Per esempio un dato uomo è re soltanto perché altri uomini si comportano come sudditi nei suoi confronti. Viceversa, essi credono di essere sudditi, perché egli è re.

[22] Nota alla seconda edizione. F. D. A. FERRIER (sous-inspecteur des douanes), Du gouvernement considéré dans ses rapports avec le commerce, Parigi, 1805; e CHARLES GANILH, Des systèmes de l'éconornie politique, 2. ediz., Parigi, 1821.

22a Nota alla seconda edizione. Per esempio in Omero il valore d'una cosa viene espresso in una serie di cose. differenti.

[23] Per questo possiamo parlare del valore di abito della tela quando si rappresenta in abiti il valore di questa, e del suo valore di grano quando lo si rappresenta in grano, ecc. " Poiché il valore di ogni merce designa il suo rapporto nello scambio [con una qualsiasi altra merce], noi possiamo parlare di esso come... valore di grano, valore di panno, e così via a seconda della merce con la quale essa viene comparata; quindi ci sono mille differenti generi di valori, tanti generi di valori quante merci esistono, e tutti sono egualmente reali ed egualmente nominali" (A critical dissertation on the nature, measure and causes of value; chiefly in reference to the writingivritir of Mr. Ricardo and his followers. By the author of Essays on the formation ecc. of opinions, Londra, 1825, p. 391. S. Bailey, l'autore di questo scritto anonimo che a suo tempo fece molto rumore in Inghilterra, s'illude di avere annullato ogni determinazione concettuale del valore con questo suo accenno alle variopinte espressioni relative dello stesso valore di merce. Del resto, che egli, con tutta la sua miopia mentale, avesse toccato punti deboli della teoria ricardiana, è stato mostrato dalla intensità con la quale la scuola ricardiana l'ha attaccato, per esempio nella Westminster Review.

[24] Difatti, non si può affatto scorgere a prima vista che la forma della scambiabilità immediata generale è una forma antitetica di merce, inseparabile dalla forma della scambiabilità non immediata, come la positività di un polo di magnete è inseparabile dalla negatività dell'altro polo. Ci si può quindi immaginare di poter imprimere simultaneamente a tutte le merci il marchio della scambiabilità immediata soltanto come ci si può immaginare di poter far papi tutti i cattolici. Per il piccolo borghese che scorge nella produzione di merci il non plus ultra della libertà umana e dell'indipendenza individuale, sarebbe naturalmente cosa assai desiderabile d'esser dispensato dagli inconvenienti connessi a questa forma. e in ispecie dalla non immediata scambiabilità delle merci. Il socialismo del Proudhon costituisce l'illustrazione di questa utopia filistea; e come ho dimostrato altrove, non ha neppure il merito della originalità, anzi era stato svolto molto meglio, molto tempo prima del Proudhon, dal Gray, dal Bray e da altri. Ciò non impedisce che tanta sapienza imperversi col nome di " science " in certi ambienti. Nessuna scuola è stata mai prodiga della parola " science " più di quella proudhoniana, poichè " là dove mancano i concetti, s'insinua al momento giusto una parola ".

[25] Ci si ricorda che la Cina e i tavolini cominciarono a ballare quando tutto il resto del mondo sembrava fermo -- pour encourager les autres.

[26] Nota alla seconda edizione. Presso gli antichi germani la misura di un Morgen di terreno veniva calcolata sul lavoro d'una giornata, e quindi il Morgen veniva chiamato opera di una giornata (iurnale o jurnalis, terra jurnalis, jurnalis o diornalis), opera di un uomo, forza di un uomo. mietitura di un uomo, tagliatura di un uomo, ecc. Cfr. GEORG LUDWIG VON MAURER, Einleitung zur GeschichtE der Mark-, Hof-, usw. Verfassung. Monaco, 1854, p. 129 sgg.

[27] Nota alla seconda edizione. Quindi, quando il Galiani dice: Il valore è un rapporto fra persone - " La ricchezza è una ragione fra due persone " - avrebbe dovuto aggiungere: rapporto celato nel guscio di un rapporto fra cose. (GALIANI, Della Moneta. P. 220, vol. III della raccolta del Custodi, Scrittori Classici Italiani di Economia Politica, parte moderna, Milano, 1803).

[28] "Che cosa si deve pensare di una legge che può trionfare solo attraverso rivoluzioni periodiche? E' per l'appunto una legge di natura, che poggia sull'inconsapevolezza degli interessati " (FRIEDRICH ENGELS. Umrisse zu einer Kritik der Natioloekonomie in Deutsche-Franzoesische Jahrbuecher, herausgegeben von Arnol Ruge und Karl Marx, Parigi, 1844).

[29] Nota alla seconda edizione. Perfino il Ricardo ha la sua robinsonata. " Egli fa scambiare al pescatore primitivo e al cacciatore primitivo pesce e selvaggina, come se fossero possessori di merci, immediatamente, nel rapporto del tempo di lavoro oggettivato in questi valori di scambio. Questa volta, egli cade nell'anacronismo di far consultare al cacciatore e al pescatore primitivi, per calcolare i loro strumenti di lavoro, le mercuriali in uso nel 1817 alla Borsa di Londra. Sembra che i " parallelogrammi del signor Owcn" siano l'unica forma di società conosciuta dal Ricardo all'infuori dì quella borghese " (KARL MARX,Zur Kritik cit., pp. 33, 39).

[30] Nota alla seconda edizione. " E' un pregiudizio ridicolo, che s'è diffuso negli ultimi tempi, che la forma della proprietà comune naturale e spontanea sia una forma specificamente slava, anzi addirittura esclusivamente russa. La forma della proprietà comune è la forma originaria, che possiamo dimostrare esistente fra i romani, i germani, i celti, e della quale anzi si trova ancor sempre, se pure in parte allo stato di rovina, un intero campionario con saggi di vario tipo, presso gli indiani. Uno studio più preciso delle forme di proprietà comune asiatiche, e specialmente di quelle indiane, dimostrerebbe come dalle differenti forme della proprietà comune naturale e spontanea risultino forme differenti della sua dissoluzione. Così, Per esempio, i differenti tipi originali di proprietà privata romana e germanica si possono dedurre da forme differenti della proprietà comune indiana " (KARL MARX, Zur Kritik cit., p. 10).

[31] L'insufficienza dell'analisi ricardiana della grandezza di valore - ed è la migliore analisi che abbiamo - si vedrà dal 3. e dal 4. libro del presente scritto. Ma per quanto riguarda il valore in genere, l'economia politica classica non distingue mai espressamente e con chiara coscienza il lavoro come si presenta nel valore, dallo stesso lavoro, in quanto si presenta nel valore d'uso del proprio prodotto. Naturalmente, l'economia classica fa di fatto questa distinzione, poiché la prima volta considera il lavoro quantitativamente, la seconda qualitativamente. Ma non le viene in mente che la distinzione puramente quantitativa dei lavori presuppone la loro unità qualitativa, ossia eguaglianza, e quindi la loro riduzione a lavoro astrattamente umano. Per esempio, il Ricardo si dichiara d'accordo col Destutt de Tracy che dice: " Poiché è certo che le nostre facoltà fisiche e morali soltanto sono la nostra ricchezza originaria, che l'uso di queste facoltà, un lavoro qualunque è il nostro solo tesoro originario, ed è sempre questo uso che crea tutte quelle cose che noi chiamiamo beni... è certo che tutti quei beni rappresentano solo il lavoro che li ha creati, e se essi hanno un valore, o addirittura- due valori distinti, essi possono averli soltanto da quello del lavoro dal quale emanano " ([DESTUTT DE TRACY, Eléments d'idéologie, IV e V parties, Parigi, 1826, pp. 35, 36] RICARDO, The principles of political economy, 3. edizione, Londra, 1821, p. 334). Accenneremo soltanto che il Ricardo attribuisce al Destutt la propria interpretazione più profonda. Certo, il Destutt dice di fatto, da una parte che tutte le cose che formano la ricchezza " rappresentano il lavoro che le ha create ", ma dice anche, d'altra parte, che esse ricevono i loro " due diversi valori " (valore d'uso e valore di scambio) dal " valore del lavoro ": e così ricade nella superficialità dell'economia volgare, che presuppone il valore di una merce (qui il lavoro) per poi determinare mediante esso il valore delle altre merci. Il Ricardo lo legge in modo da far rappresentare lavoro (non valore del lavoro) tanto nel valore d'uso quanto nel valore di scambio. Ma anche il Ricardo distingue tanto poco il carattere duplice del lavoro che ha duplice rappresentazione, da doversi dar da fare laboriosamente con le banalità di un J. B. Say per tutto il capitolo Ricchezza e valore, loro qualità distintive. Per questa ragione alla fine si stupisce ancora che il Destutt vada d'accordo con lui sul lavoro come fonte di valore, e tuttavia, d'altra parte, col Say, sul concetto di valore.

[32] Uno dei difetti principali dell'economia politica classica è che non le è mai riuscito di scoprire, partendo dall'analisi della merce e piú specificamente del valore della merce, quella forma del valore che ne fa, appunto, un valore di scambio. Proprio nei suoi migliori rappresentanti, quali A. Smith e il Ricardo, essa tratta la forma di valore come qualcosa di assolutamente indifferente, o d'esterno alla natura della merce stessa. La ragione non sta soltanto nel fatto che l'analisi della grandezza di valore assorbe completamente la loro attenzione; è più profonda. La forma di valore del prodotto del lavoro è la forma più astratta, ma anche più generale del modo borghese di produzione, la quale per ciò viene caratterizzata come forma particolare di produzione sociale, e così viene insieme caratterizzata storicamente. Quindi ritenendola erroneamente la eterna forma naturale della produzione sociale, si trascura necessariamente anche ciò che è l'elemento specifico della forma di valore e quindi della forma di merce e, negli ulteriori sviluppi, della forma di denaro, della forma di capitale, ecc. Quindi, in economisti che sono pienamente d'accordo sulla misura della grandezza di valore in base al tempo di lavoro, troviamo le più variopinte e contraddittorie idee del denaro, cioè della forma perfetta dell'equivalente generale. Questo spicca in maniera evidentissima per esempio nella trattazione sulle banche, dove non bastano più i luoghi comuni delle definizioni del denaro. Quindi, in opposizione a questo fatto, è sorto un sistema mercantilistico restaurato (Ganilh, ecc.), il quale vede nel valore soltanto la forma sociale, o piuttosto soltanto la parvenza di tale forma, priva di sostanza. Osservo una volta per tutte che per economia politica classica io intendo tutti gli studi economici, da W. Petty in poi, i quali hanno indagato il nesso interno dei rapporti borghesi di produzione, in contrasto con l'economia volgare; quest'ultima si aggira soltanto entro il nesso apparente, e torna sempre a rimuginare di nuovo, allo scopo di render comprensibili in maniera plausibile i cosiddetti fenomeni più grossi e di sopperire ai bisogni quotidiani borghesi, il materiale già da tempo fornito dall'economia scientifica: ma per il resto si limita a sistemare, render pedanti e proclamare come verità eterne le banali e compiaciute idee degli agenti di produzione borghesi sul loro proprio mondo, come il migliore dei mondi possibili.

[33] "Gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni, quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch'essi pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio. Così di storia ce n'è stata, ma non ce n'è più " (KARL MARX, Misère de la Philosophie, Réponse à la Philosophie de la Misère par M. Proudhon, 1847, p. 113). Comicissimo è il signor Bastiat, il quale s'immagina che gli antichi greci e romani vivessero soltanto di rapina. Ma se si vive di rapina per molti secoli, ci dovrà pur essere continuamente qualcosa da rapinare, ossia l'oggetto della rapina dovrà continuamente riprodursi. Sembra dunque che anche greci e romani avessero un processo di produzione, quindi un'economia, la quale costituiva il fondamento materiale del loro mondo esattamente come l'economia borghese costituisce il fondamento materiale del mondo contemporaneo. O forse il Bastiat ritiene che un modo di produzione poggiante sul lavoro degli schiavi poggi su un sistema di rapina? Allora si mette su un terreno pericoloso. Se un gigante del pensiero come Aristotele ha errato nella sua valutazione del lavoro degli schiavi, perché un economista nano come il Bastiat dovrebbe aver ragione nella sua valutazione del lavoro salariato? Colgo l'occasione per confutare brevemente l'obiezione che mi è stata fatta, alla pubblicazione del mio scritto Zur Kritik der politischen Oekonomie, 1859, da un foglio tedesco-americano. Diceva che la mia concezione che il modo di produzione determinato e i rapporti di produzione che volta per volta gli corrispondono. in breve, " la struttura economica della società, sia la base sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali di coscienza ", che " il modo di produzione della vita materiale, costituisce in generale la condizione del processo vitale sociale, politico, intellettuale " - diceva che tutto ciò certo è giusto per il mondo presente, nel quale dominano gli interessi materiali, ma non per il Medioevo, nel quale dominava il cattolicesimo, né per Atene e Roma, in cui dominava la politica. In primo luogo, è sorprendente che qualcuno si prenda l'arbitrio di presupporre che a chiunque altro siano rimasti ignoti questi notissimi luoghi comuni sul Medioevo e sul mondo antico. Ma questo è chiaro: che il Medioevo non poteva vivere del cattolicesimo, e il mondo antico non poteva vivere della politica. Viceversa: il modo e la maniera di guadagnarsi la vita, spiega perché la parte principale era rappresentata là dalla politica, qua dal cattolicesimo. Del resto basta conoscere un po', per esempio. la storia della Roma repubblicana, per sapere che la storia della proprietà fondiaria ne costituisce la storia arcana. D'altra parte, già Don Chisciotte ha ben scontato l'errore di essersi illuso che la cavalleria errante fosse egualmente compatibile con tutte le forme economiche della società.

[34] " V a l u e  i s  p r o p e r t y  o f  t h i n g s, riches of men. Value in this sense, necessarily implies exchange, riches do not ". (Observations on certain verbal disputes in political economy, particularly relating to value and to demand and supply, Londra, 1821, p. 16).

[35] "Riches are the attribute of man, value is the attribute of commodities. A man or a community is rich, a pearl or a diamond is valuable... A pearl or a diamond i s  v a l u a b l e  as  a  p e a r l  o r  a  d i a m o n d". (S. BAILEY, A critical dissertation cit., p. 125).

[36] L'autore delle, Observations e S. Bailey fanno colpa al Ricardo di avere trasformato il valore di scambio da semplicemente relativo in qualcosa di assoluto. Le cose stanno proprio a rovescio. Il Ricardo ha ridotto la relatività apparente posseduta dalle tali e tal'altre cose. per esempio, diamante e perle, come valori di scambio, al vero rapporto nascosto dietro la parvenza, l'ha ridotta alla loro relatività come semplici espressioni di lavoro umano. I ricardiani rispondono brutalmente ma non definitivamente al Bailey. soltanto perché non han trovato nel Ricardo stesso nessun punto che schiudesse loro il nesso interno fra valore e forma di valore ossia valore di scambio.

 

 AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del I libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1  negli esempi numerici, per facilitare la lettura, sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

2 –  diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle ed in grafici;

3 – in alcuni esempi numerici le cifre decimali indicate sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata ponendovi a fianco un apice ().

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si è invece mantenuto le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione e per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro,laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Delio Cantimori
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Delio Cantimori
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm