LA CRISI DI REGOLAZIONE FORDISTA[1]

Le trasformazioni del rapporto salariale alla ricerca delle flessibilità

Enrico Wolleb

Il quadro congiunturale così stringatamente delucidato dal prof. Frey[2] non lascia grandi margini alla speranza. Io vorrei proporre, ad integrazione di tale analisi congiunturale, un’analisi sull’evoluzione delle relazioni industriali, in parallelo all’evoluzione della politica economica e della struttura produttiva. Credo che nei momenti di crisi economica bisogna sempre più, soprattutto da parte dell’economista, rivolgersi all’analisi storica per riceverne degli insegnamenti. Credo che, soprattutto nel caso italiano, una visione puntuale e, direi, ormai priva di quelle tensioni interpretative che derivano spesso da una vicinanza con i fatti, una visione, quindi, distaccata dell’evoluzione storica è un elemento indispensabile per poter capire quali possono essere le tendenze. Nel caso italiano questo discorso credo che sia ancora più attuale. Riferisco i risultati di un lavoro che abbiamo fatto, su scala europea, in un gruppo di economisti, dove abbiamo appunto cercato di studiare, in tutti i paesi della Comunità, come si sono evolute in parallelo le strutture economiche e le relazioni industriali. Devo dire che già il fatto di introdurre un tema istituzionale, cioè il tema dell’evoluzione dell’istituzione del rapporto salariale (laddove per rapporto salariale si intende l’insieme delle norme giuridiche che regolano l’inserimento del salariato nella società: quindi norme di consumo, norme di produzione, organizzazione del lavoro, ecc.) per la scienza economica è già un dato di enorme rilevanza. Spesso si discute di cifre aride, di politiche, ma non si fanno i conti con chi poi le politiche le deve gestire, con la struttura amministrativa, con la struttura politica e istituzionale che poi deve portare avanti quelle politiche.

La regolazione fordista

Qual è la nostra interpretazione dell’evoluzione delle relazioni industriali in Europa negli anni 60 e 70? Essa si centra su una definizione, quella della regolazione fordista. Con tale definizione s’intende evidenziare l’evoluzione analoga, in tutti i paesi europei, dei cinque elementi che definiscono il rapporto salariale, e cioè: i principi di formazione del salario diretto e indiretto (laddove per salario indiretto s’intendono i benefici del sistema previdenziale), l’utilizzazione del reddito disponibile, le norme che regolano la mobilità all’interno e all’esterno dell’azienda, l’organizzazione del processo del lavoro e la gerarchia delle qualifiche. Tutti gli economisti di questo gruppo, per quanto riguarda l’analisi dei loro paesi, con diverse sfumature, sono arrivati alla conclusione che la regolazione fordista ha assicurato ai loro paesi una crescita stabile. Come si è configurata questa regolazione, questo meccanismo di controllo dell’economia, sia della struttura che delle relazioni industriali? Si è configurata in questo modo: il salario diretto, nella regolazione fordista, procede in parallelo con i guadagni di produttività. Questo significa distribuzione del reddito che rimane costante tra profitto e salario.

Il salario indiretto cresce e copre tutti i possibili rischi cui può incorrere il salariato.

Riguardo all’utilizzazione del reddito disponibile, negli anni 50 c’è stata la più grande rivoluzione, cioè l’inserimento del salariato, del lavoratore, nel consumo di massa. In altri termini, l’enorme aumento della produttività che derivava dai metodi tayloristici, dalla catena di montaggio, dalle innovazioni legate all’inserimento del taylorismo, questi guadagni di produttività dovevano trovare uno sbocco e lo sbocco era l’aumento della capacità di consumo del salario.

Il terzo elemento di questo rapporto salariale è la stabilità del posto di lavoro. In quasi tutti i paesi industriali (non in Italia e poi vedremo perché) si era creato un regime di pieno impiego e questo era considerato come una norma, un accordo tacito tra le parti sociali. In quasi tutti i paesi si configurava, quindi, una sorta di scambio politico all’interno del quale il sindacato, diventato protagonista istituzionale di questo accordo politico, accettava il sistema tayloristico, accettava tutte le conseguenze di natura sociale che il sistema tayloristico portava con sé, per un aumento del consumo e per un inserimento sempre maggiore all’interno della società del lavoro dipendente. Questo sistema, questo scambio politico aveva creato una notevolissima stabilità che si accompagnava ad uno sviluppo estremamente rapido.

Il caso italiano

In Italia questo sistema fordista non si realizza. Non si realizza per diversi motivi, credo che per capirlo bisogna un attimo tornare indietro rispetto agli anni 70. Perché non si realizza? Innanzitutto, in Italia c’è un sistema di democrazia imperfetta: sin dal ‘48 non vi è alternanza delle forze politiche al potere e soprattutto vi è una esclusione, perlomeno negli anni 50 e 60, più o meno esplicita, del principale partito operaio dal governo. Ora, l’accordo fordista, lo scambio politico in tutti i paesi europei aveva avuto, come uno dei protagonisti d’obbligo, il principale partito operaio, sia esso laburista, sia esso socialdemocratico, sia esso socialista in alcuni paesi del Nordeuropa.

In Italia questa esclusione, evidentemente, esacerba, rende più conflittuali i rapporti politici e fa leggere le relazioni industriali più in senso conflittuale che in senso collaborativo. La mancata alternanza al potere ha un altro effetto collaterale di non secondaria importanza, priva cioè le forze politiche al potere dello stimolo ad effettuare quelle riforme di cui la nazione aveva bisogno negli anni 50 e 60. Allora il ritardo di questa regolazione fordista, in Italia, nasce da questo ritardo nelle riforme e in particolare dal ritardo di una delle componenti centrali del fordismo: la creazione di questo sistema così ampio e diffuso della protezione sociale. In Italia questo sistema, in effetti, comincia a delinearsi nella metà degli anni 60, ma in realtà tutte le riforme vengono concentrate tra il ‘69 e il ‘75.

Questo è uno dei nostri problemi fondamentali, perché, mentre da un lato le innovazioni che riguardavano la diffusione del taylorismo avvengono tra il ‘64 e il ‘69, mentre il consumo di massa comincia a svilupparsi già dalla metà degli anni 50, abbiamo questo ritardo nella creazione del sistema dei servizi sociali.

Questo ritardo, poi, porta, come contraccolpo necessario, ad un eccesso di riforma; in questa mia ricostruzione ho voluto essere provocatorio. In che termini si deve parlare di eccesso di riforme in Italia? Sembrerebbe assurdo. A mio parere si può parlare di eccesso di riforme sotto una triplice chiave. La prima è quella che le riforme vengono concentrate tra il ‘69 e il ‘75, cioè in un periodo in cui sia la crescita nazionale, sia quella del mercato internazionale, ha un forte rallentamento. Quindi si può parlare di eccesso rispetto alle potenzialità di crescita del paese e dell’economia internazionale. C’è un secondo eccesso che, a mio parere, è ancora più grave: queste riforme sono prive di gradualità, sono poco pragmatiche e non fanno i conti con una capacità politica e amministrativa che non si è riformata, che non riesce a seguire il passo; cioè l’ideologia ha portato a proporre delle riforme, a imporre delle riforme estremamente avanzate in certi campi e, in alcuni casi, molto più avanzate rispetto alla gran parte dei paesi europei, i quali godevano di un sistema previdenziale assai più antico del nostro e di una struttura amministrativa assai più consolidata e capace della nostra. Quindi il secondo tipo di eccesso è questa mancanza di gradualità, questo scarso pragmatismo. Il terzo è un eccesso che deriva dal ritardo, e cioè queste riforme si concentrano nei periodi di maggiore forza, di maggiore capacità da parte dei lavoratori, da parte del sindacato ed evidentemente i contenuti di queste riforme vanno certamente al di là della possibilità, per questi soggetti, di sedimentarle e consolidarle.

I motivi del ritardo sono moltissimi, qui bisogna veramente un po’ guardare alla storia del dopoguerra. In primo luogo, la spaccatura del sindacato nel dopoguerra e la spaccatura tra cattolici e marxisti che indeboliva il sindacato. Poi, l’emarginazione del partito operaio; in terzo luogo, grave per il paese è il ruolo del Mezzogiorno, per il fenomeno dell’emigrazione, questo enorme eccesso di offerta di lavoro in un mercato del lavoro che non cresceva a ritmi adeguati. Ma il peso del Mezzogiorno va considerato in termini globali, per la produzione della funzione dell’assistenzialismo, per lo svilimento che l’assistenzialismo ha prodotto nella funzione dello Stato, nella gestione del bilancio dello Stato, nella gestione delle politiche industriali. Quindi, il Mezzogiorno, a mio parere, va preso come sfondo, come elemento centrale di questo ritardo; anche per la volontà di non creare uno sviluppo autonomo nel Mezzogiorno, ma di farne una sorta di riserva, di sbocco della produzione del Nord.

Il ruolo dello Stato

Infine, c’è un altro grave elemento di ritardo nell’economia italiana, che concerne il ruolo dello Stato. Se andiamo a vedere il ruolo del settore pubblico nei principali paesi europei, già negli anni 60 l’impiego pubblico ha uno status ben diverso, la capacità di gestione è ben diversa e si deve confrontare con le politiche keynesiane, con le politiche del controllo e della stabilizzazione del ciclo.

In Italia il sistema pubblico non è in grado di gestire queste politiche. Il sistema pubblico, e l’occupazione nel settore pubblico, ha un’altra funzione, ed emerge una responsabilità non secondaria nel suo non intravedere, in primo luogo, la necessità delle riforme negli anni 60 e nel non saperle gestire successivamente, quando queste riforme si accalcano una sull’altra: dal sistema previdenziale al sistema fiscale, al sistema pensionistico, alla sanità, alla creazione delle Regioni, per esempio.

Infine, passiamo un attimo alla politica economica. Questa debolezza dello Stato, in Italia, ha portato, e porta e mantiene tuttora la Banca d’Italia al centro del campo per quanto concerne la determinazione della politica economica. Lo era ancora di più negli anni 60; e già la politica economica che la Banca d’Italia ha imposto dopo la crisi del ‘63, è una politica economica che ha impedito, che ha ritardato anch’essa la creazione di relazioni industriali stabili e collaborative. Perché? Per un semplice fatto: in Italia, la Banca d’Italia ha imposto un modello di sviluppo fondato sulle esportazioni, quando tutti gli altri paesi autocentravano su se stessi lo sviluppo, quando si sviluppavano estensivamente, quando sviluppavano la loro domanda interna e la fondavano sulla produzione interna, e non sulle esportazioni. Quando soprattutto il tasso di investimenti nei principali paesi nostri partner - e mi riferisco alla Francia e alla Germania - oscillava attorno al 30%. In Italia questo non succede, la Banca d’Italia, dopo il ‘63, ha timore della crescita di importanza dei sindacati. Sappiamo che nel ‘63 si verifica l’unica situazione in cui l’Italia si avvicina a una sorta di pieno impiego, e la deflazione del ‘63, così drastica, provoca una caduta della produzione, una caduta dell’occupazione che non si risolleverà più fino al ‘68-’69. Questa caduta dell’occupazione, assieme all’entrata sempre rapida di nuove leve, fa sì che dal ‘64 al ‘69 la distribuzione rimane in favore dei profitti; ma investimenti e occupazione non crescono.

Tutto questo insieme di cose, questo ritardo, questa insufficienza della domanda di lavoro, nonostante l’offerta sia pressante, nonostante lo sviluppo sia elevato, creano una sorta di frustrazione, una compressione nei lavoratori, che poi esplode nel ‘69 con quelle caratteristiche che conosciamo.

Una ipotesi di periodizzazione

Io dividerei quindi la storia degli anni 70 in tre fasi.

La prima fase può essere definita come la fase dell’ascesa, dell’istituzionalizzazione rapida dei rapporti e delle relazioni industriali. Un altro carattere che è emblematico in questa fase, assieme al ritardo e all’eccesso, è quel lo della partecipazione. La riforma del sistema delle relazioni industriali, in Italia, avviene per opera della base. Altro carattere distintivo, rispetto agli altri paesi europei: non si tratta di accordi a tavolino tra i vertici dei sindacati e delle istituzioni, non si tratta di scambio politico programmato, ma si tratta di risultato strappato, da parte dei lavoratori, in un rapporto che rimane fortemente conflittuale. Quindi, come vedete, per la stabilità del fordismo, questo accordo politico manca: lo Stato è latitante e la situazione delle relazioni industriali rimane sempre instabile.

In realtà, che cosa succede nel ‘69-’70? Lo Statuto dei lavoratori istituzionalizza, direi, le relazioni industriali, in modo estremamente più avanzato e più favorevole ai lavoratori di quanto non facciano tutti gli altri statuti di tutti i sindacati europei, seppure talora anche più forti del sindacato italiano.

Abbiamo, come dicevo, il ruolo della partecipazione, che diventa centrale con l’esplosione dei Consigli di fabbrica, e una continua attività di micro - contrattazione su tutti gli elementi dell’organizzazione del lavoro, dall’orario ai ritmi di lavoro, alla mobilità, al salario. Evidentemente, in questa fase, si registra un ritardo del sindacato centrale, che però viene recuperato, in modo positivo, attraverso un’opera di perequazione, di coordinamento di questi risultati che vengono strappati dai Consigli di fabbrica nei settori leader e che dal sindacato vengono estesi agli altri settori. Quindi, un altro elemento distintivo di questa fase è questa domanda di equità, questa domanda di perequazione, che si applica non soltanto alle rivendicazioni in fabbrica, ma che si estende, in questi anni, al sistema previdenziale. Se noi osserviamo i contenuti delle riforme del sistema previdenziale, dalla pensione alla sanità, noi vediamo che vi è un’enorme estensione degli aventi diritto, una perdita del rapporto tra pagamento per la prestazione e prestazione stessa; sia nel sistema sanitario, sia nel sistema pensionistico (si crea la pensione sociale) si allarga il campo degli aventi diritto. Da una parte esiste una pressione di natura politica, in termini di equità, ma dall’altra c’è anche il corporativismo, soprattutto se andiamo ad analizzare qual è poi la distribuzione dei pagamenti di queste prestazioni.

Allora vediamo che, da un lato, vi sono le categorie che pagano anche al di là di quello che ricevono, e numerose categorie che invece non pagano quello che ricevono. Vi è un misto di egualitarismo e di corporativismo, che è un fatto del tutto italiano e che risiede poi, in fondo, nella debolezza governativa, nella mancanza di una linea e nella necessità di dover trovare un consenso attraverso queste forme. Quindi, questa prima fase è quella dell’ascesa, dell’istituzionalizzazione marcata dei rapporti e delle relazioni industriali.

A questa fase, che termina press’a poco nel ‘73, succede una seconda fase, che io chiamerei di consolidamento, o almeno di tentativo di consolidamento, che va dal ‘74 al ‘76. Questa fase dell’azione sindacale è caratterizzata da due elementi chiave, che sono la Cassa integrazione guadagni e il sistema di indicizzazione a punto unico. A mio parere, dietro questa strategia c’è una qualche comprensione che la crisi può essere duratura: i vantaggi ottenuti nella contrattazione dal ‘70 al ‘73 sono vantaggi notevoli, soprattutto se rapportati al passato, per cui bisogna consolidare e mantenere questi vantaggi. Questo fa capire quale era la visione strategica dei problemi sia del sindacato che dei governi, perché questo tipo di reazione si riscontra ovunque in Europa. La Cassa integrazione guadagni, nel ‘74, era considerata come un provvedimento di breve periodo; adesso, dopo dieci anni, ci rendiamo conto che questa visione era decisa mente sbagliata. La si intendeva come provvedimento di breve periodo che veniva a coprire il salariato dai rischi della disoccupazione e soprattutto dai costi della ristrutturazione in termini di occupazione e di salario. Nello stesso tempo, la Cassa integrazione voleva spingere gli imprenditori ad attuare i necessari adattamenti, ad attuare le ristrutturazioni necessarie, senza quella conflittualità che altrimenti si sarebbe creata qualora questi avessero dovuto comportare il licenziamento. Quindi vi è una pressione comune del sindacato e dello stesso padronato nei confronti dello Stato per accollare al bilancio pubblico il costo della ristrutturazione. Nello stesso tempo, attraverso la Cassa integrazione, si crea un blocco nel mercato del lavoro, industriale soprattutto, sia in entrata che in uscita. I dati sono estremamente significativi, il turn-over in entrata e in uscita si dimezza rispetto al periodo precedente.

Anche la scala mobile è un altro provvedimento di natura difensiva della condizione operaia. Gli aumenti salariali nel ‘71 e nel ‘73 erano stati notevoli, se soprattutto vengono confrontati con la situazione di crisi che c’era. La indicizzazione cerca di coprire il salario da un’inflazione che cominciava già a diventare tendenzialmente in rapida ascesa. Essa ha un altro obiettivo, non so se e quanto chiaro nella sua dimensione quantitativa, che era quello egualitario che aveva ispirato il comporta mento del periodo ‘70-’73 (cioè una riduzione del ventaglio salariale dovuta al punto unico).

Gli incerti risultati

Direi che questi due provvedimenti chiudono la fase di prevalenza operaia, di prevalenza di natura culturale, di natura propositiva, rispetto al resto della società.

E apparentemente, se noi esaminiamo la situazione, sembra che i risultati siano estremamente positivi, che proteggano il lavoratore, il salariato rispetto ai problemi che si stanno adesso manifestando. Perché? Vediamo un attimo di scorrere le diverse istituzioni valutandone i termini di protezione. In primo luogo, lo Statuto dei lavoratori e gli accordi successivi hanno reso estremamente rigido il rapporto di lavoro. I licenziamenti individuali sono limitati alla giusta causa e anche quella è da motivare. La protezione che offre il sistema giuridico al rapporto di lavoro è superiore a quella che offre a qualsiasi altro cittadino, se solo pensiamo ai tempi di soluzione dei processi di lavoro rispetto agli altri.

I contratti part-tìme e i contratti a tempo determinato sono estremamente limitati a qualche settore; il part-time quasi non esiste, ci sono solo degli accordi in uno o due contratti collettivi. Le disposizioni in merito al controllo dell’organizzazione del lavoro, contenute nello Statuto dei lavoratori e nelle convenzioni collettive, irrigidiscono e comunque hanno un’enorme capacità di controllo dei ritmi di lavoro all’interno dell’industria. I licenziamenti collettivi presumono tutta una serie di pratiche istituzionali, tali che questi licenziamenti sono resi estremamente difficili; e in tutti i casi, soprattutto nel caso di crisi aziendale di ristrutturazione, viene a chiudere il ciclo della protezione la Cassa integrazione guadagni. Questo provvedimento, infatti, cerca di affrancare i lavoratori dai rischi delle ristrutturazioni e cerca di creare uno status quo all’interno della struttura occupazionale, status quo che in un paese come l’Italia può avere dei grossi rischi, tanto più che immediatamente, nel giro di pochi mesi, di pochi anni si crea una frattura tra occupati protetti e occupati non protetti. Il nostro è un paese purtroppo, che ha un ritmo di entrata delle forze di lavoro più rapido degli altri, e soprattutto per la gran parte è nel Mezzogiorno Quindi, in realtà, questa costruzione delle relazioni industriali ha un duplice difetto, un duplice debolezza, a mio parere. La prima debolezza deriva dal fatto che in realtà il padronato non ha mai accettato appieno i contenuti degli accordi avvenuti dal ‘70 al ‘75; li ha subiti, soprattutto per incapacità propositiva e per debolezza politica. Però era chiaro che sin dal ‘73, il tentativo del padronato era quello di aggirare questo sistema apparentemente così rigido e così fortemente protettivo. L’aggiramento di questo sistema è il primo elemento della debolezza che deriva, dicevo, da questa mancata accettazione da parte del padronato. In effetti, se andiamo ad esaminare che cosa è successo negli altri paesi ci rendiamo conto che gli accordi politici, gli scambi politici tra le parti erano mediati in gran parte dalli Stato, ma erano comunque accettati dai contraenti, perlomeno nel medio periodo. In Italia tutto questo non è avvenuto, si è trattato d una sorta di patto leonino, mai accettato da parte degli imprenditori.

Il secondo elemento di debolezza, di cui tuttavia nessuno può avere responsabilità specifica, in quanto ha caratterizzato la reazione in quegli anni, di tutti i paesi industrializzati, il fatto che nel ‘74-’75 la visione strategica, la visione del futuro è una visione ancora rosea. In realtà si pensava che l’interruzione della crescita fosse solo temporanea. Non si era capito, da parte di tutti i governi, quanto invece questa crisi fosse strutturale e di lungo periodo. Questo è semplicissimo da provare. In Italia ciò è evidente, nel ‘74-’75, con la Cassintegrazione e con l’indicizzazione, di cui abbiamo appena parlato, ma ciò non avviene solo in Italia. In Francia un governo di destra il governo Chirac, nei ‘74 porta aI 90% del salario la copertura in termini di sussidio di disoccupazione. C’è un’altra prova. Negli stessi anni tutti i paesi europei, prima la Germania, successivamente Italia, Francia e Inghilterra, reflazionano l’economia. È evidente che i paesi europei sono convinti che la strumentazione tradizionale, il rilancio keynesiano, il mantenimento dei livelli di domanda, l’insieme del sistema fordista, è ancora viabile, è ancora un sistema accettabile e affidabile.

I fatti nuovi

Due sono gli elementi che in particolari non vengono compresi, ma che solo adesso cominciano a fare la loro comparsa. In primo luogo la utilizzazione pressoché totale degli investimenti verso le razionalizzazioni, quindi non di estensione delle capacità produttive; secondariamente, l’aspetto centrale io credo che sia l’inizio della crescita dei tassi d’interesse, e il ruolo crescente che il capitale finanziario, la sua capacità di muoversi da una parte all’altra, acquista nell’economia.

In Italia, se noi ritorniamo un attimo indietro, si capisce già nel ‘76 che la Cassintegrazione guadagni, al centro di questo sistema protettivo, non ha più la funzione per la quale era stata concepita. D’accordo che garantisce il salario, d’accordo che spinge l’azienda a non licenziare, però due sono gli elementi cruciali cui la Cassaintegrazione doveva rispondere. Il primo è questo legame effettivo tra ristrutturazione e integrazione salariale. In realtà l’integrazione salariale veniva richiesta quando i progetti di ristrutturazione erano esili, in materia di riassorbimento occupazionale, quindi, di fatto, l’integrazione della Cassa è un’illusione. È evidente l’illusione di influire su un processo di ristrutturazione che in realtà sta avvenendo al di fuori del controllo sindacale.

A mio parere questo è l’elemento cruciale della Cassaintegrazione, dove è l’errore fondamentale di tutto questo sistema. Questo legame tra ristrutturazione e integrazione manca e, soprattutto, l’obiettivo delle ristrutturazioni era quello di risparmiare mano d’opera. Quindi, alla fine, che cosa è successo? È successo che si sono alimentate aspettative e frustrazioni. Si è creduto di potere controllare il processo di ristrutturazione, il processo di innovazione tecnologica, ma in realtà poi il sindacato ha accettato, assieme al padronato, di fare quest’operazione di pressione politica, per avere, in qualsiasi caso, questo tipo di integrazione.

Quindi, a questo punto, io credo che c’è stato un mutamento dei rapporti di forza tra sindacato e padronato, nel momento in cui il sindacato ha perso il controllo o non ha saputo, non ha potuto acquisire il controllo del processo di ristrutturazione che avveniva in vari modi.

La ricerca delle flessibilità

Vi sono state tre vie principali alla flessibilità che hanno caratterizzato questo periodo. Il Concetto di flessibilità è un concetto estremamente vago, tanto che in economia è un concetto che può prendere qualsiasi tipo di contenuto; ma prevalentemente si intende per flessibilità un rapporto, una correlazione più stretta tra il ciclo economico e l’occupazione.

In realtà vi sono poi altri tipi di flessibilità che vengono invocati. Per esempio il rapporto più stretto tra il salario e la capacità finanzia ria dell’impresa. La possibilità di poter rende re flessibile il tipo di contratto di lavoro, part-time, tempo determinato, riduzione dell’ora rio di lavoro. Quindi il concetto di flessibilità è un concetto estremamente vago e può assumere diversi contenuti. In Italia la ricerca della flessibilità è stata il primo obiettivo sia del governo, con le sue politiche macroeconomi che, sia del padronato.

Nella prima fase, la flessibilità è avvenuta attraverso un’operazione che io ho definito di arbitrato inflazionista. In che cosa è consistita? Lo Stato, il governo, ha cercato di mediare, di arbitrare il conflitto sociale e le richieste che non erano compatibili con i vincoli di bilancio (soprattutto per quello che riguarda il sistema previdenziale, ma anche per quello che riguarda le compatibilità macroeconomiche del sistema) attraverso l’inflazione. Cioè accettava domande che andavano al di là delle sue possibilità, sia di gestione che di finanziamento e nello stesso tempo con l’inflazione le faceva pagare a chi era meno protetto; Sono gli anni. in cui lo Stato accetta l’estensione del sistema previdenziale, smussa le conflittualità distributive, accettando sistemi di indicizzazione che diventano via via sempre più rapidi.

È il periodo in cui lo Stato assume in proprio i costi della ristrutturazione, è il periodo in cui lo Stato assume in proprio, acquista le imprese del settore privato in crisi. Il padronato riesce, in questi anni, a scaricare gran parte dei suoi costi e soprattutto gran parte dei suoi costi di ristrutturazione sullo Stato e ci rendiamo conto che gran parte di questi costi vengono pagati da chi poi paga le tasse e quindi dagli occupati dipendenti. Questo arbitrato inflazionista dura solo qualche anno e, alla metà degli anni 70, comincia a perdere colpi.

Perché? Per varie ragioni e soprattutto per il fatto che, se da un lato Io Stato accetta queste rivendicazioni, dall’altro, però, il sistema diviene sempre più indicizzato. Quasi tutti i compensi, tutti i salari sono indicizzati, le pensioni sono indicizzate, i profitti e comunque i prezzi industriali godono di una indicizzazione sui generis attraverso la svalutazione. È il periodo della svalutazione permanente della lira, che crea continuamente margini ai prezzi industriali in correlazione diretta con l’aumento dei costi. Quindi è il periodo della famosa spirale inflazione - svalutazione - deflazione. L’inflazione serve a permettere ai prezzi di inseguire i salari, la svalutazione allenta il vincolo esterno e la deflazione mira nel lungo periodo ad indebolire il sindacato e a ridurre le sue richieste in termini salariali. È un tipo di arbitraggio, un tipo di regolazione macroeconomica che nel paese ha potuto imporsi in virtù, anche, di una situazione internazionale del tutto particolare e favorevole, quale era quella derivante dalla svalutazione del dollaro, che permetteva alla lira di rimanere in parità col dollaro e di svalutarsi rispetto alle altre monete europee. Quindi si acquistava in dollari, si vendeva in marchi, c’era un risultato globalmente favorevole; però la progressiva indicizzazione di tutto faceva sì che chi pagava alla fine era il risparmio. Dal ‘70 al ‘75 il risparmio, la remunerazione del risparmio finanziario è al di sotto di sei punti percentuali rispetto all’inflazione. Quindi, le categorie più deboli, i disoccupati e i risparmiatori, erano quelli che in questa fase hanno pagato.

Però è successo che alla fine del ‘76 c’è un’inversione che probabilmente deriva anche dalla natura della crisi del fordismo, comunque dalla natura della crisi delle relazioni industriali stabili degli anni ‘60. Mi riferisco quella correlazione che c’era negli anni ‘60 tra aumento del consumo, cioè del salario, e aumento della produttività. Adesso il discorso diventa diverso. Tutti i principali paesi industrializzati, e in particolare l’Italia, devono fondare il loro sviluppo, la crescita della produzione, sulle esportazioni. A questo punto il salario non è più un elemento di stabilità del sistema, non è più un elemento che garantisce Io sbocco alla produzione crescente, ma diventa un peso, in termini di competitività rispetto al mercato internazionale.

Quindi, quanto meno il salario insegue la produttività, quanto più i costi salariali sono ridotti, tanto più la produzione è competitiva tanto più si riesce a esportare e si può ricreare un circolo virtuoso. Quindi la situazione è, in termini macroeconomici, totalmente mutata rispetto agli anni ‘60. Quanto più è elevata la differenza tra il prodotto interno e la domanda interna, tanto più permette di esportare tanto più la produzione è competitiva.

Produttività e disoccupazione

C’è un secondo mutamento strutturale di cui parlava anche il professor Frey, che è cominciato alla metà degli anni 70, precisa mente nel ‘76. Il mutamento strutturale è il rapporto tra la produttività e il ciclo. La forza delle relazioni industriali aveva fatto sì che nella crisi del ‘71 e nella crisi del ‘73, la diminuzione della produzione non fosse assorbita dall’occupazione, ma fosse assorbita da un diminuzione parallela della produttività. Se noi osserviamo invece la crisi del ‘63, lo choc della produzione viene totalmente assorbito dall’occupazione. La produttività addirittura cresce. Quindi, le relazioni industriali in questo periodo, dal ‘70 al ‘74, sono tali da permettere al sindacato di controllare la produttività e di scaricare sul profitto i costi delle due crisi recessive. Dopo il ‘76, il rapporto tra la produttività e il ciclo si inverte nuovamente torna a essere quello del ‘63; cioè nel ciclo depressivo del ‘78-’79 la produttività aumenta, mentre l’occupazione diminuisce.

E qui arriviamo ad un altro grave elemento strutturale, che poi è quello che caratterizza ed è alla radice dei problemi dell’occupazione.

Mentre, nella prima metà degli anni ‘70, gli incrementi della produttività, quindi anche della produzione, erano proceduti a ritmi leggermente più lenti degli incrementi dell’occupazione (l’occupazione era cresciuta più della produttività), dopo il ‘75 questo rapporto viene invertito, ma in modo drammatico: la produttività cresce a dei ritmi elevatissimi in tutti i settori industriali e nello stesso tempo l’occupazione, invece di crescere, anche a ritmi più lenti, diminuisce anche in valore assoluto. Questo è l’effetto, che arriva dopo qualche anno, degli investimenti di ristrutturazione e razionalizzazione che erano cominciati già all’inizio degli anni 70. E questo tipo di flessione porta alla seconda via della flessibilità: il recupero del potere in fabbrica. Il primo segnale di debolezza del sindacato, e quindi dei nuovi rapporti di potere all’interno della fabbrica, si fa avanti nel ‘76. Avevamo visto che, durante le crisi del ‘73 e del ‘75, la caduta della produzione era stata accompagnata addirittura da un aumento o dalla costanza dell’occupazione. Invece nel ‘76, per la prima volta, abbiamo un aumento della produzione di quasi il 6% e una caduta dell’occupazione di quasi il 2%. Quindi il rapporto tra occupazione e ciclo viene totalmente invertito ed è il frutto della nuova organizzazione produttiva, è il risultato del tipo di investimento. Il secondo segnale di debolezza che emerge in questo periodo, come corollario a quello che sta succedendo, è l’aumento della disoccupazione. La metà degli anni 70 registra un incremento particolarmente elevato delle nuove entrate del mercato del lavoro a fronte di un blocco dei livelli occupazionali e questo fa sì che la disoccupazione, che era rimasta attorno al 4% sino alla metà degli anni 70, salga all’8-9% nella seconda metà.

Ma c’è un terzo elemento che è ancora più grave, a mio parere, che è quello dell’indicizzazione, anzi della superindicizzazione del risparmio finanziario. Dicevo che l’arbitraggio inflazionista aveva scaricato parte dei suoi costi sul risparmio. Adesso la strategia monetarista della Banca d’Italia e il tipo di finanziamento del debito pubblico fanno sì che il risparmio finanziario viene remunerato a tassi d’interesse attivi, ma del 6-7%, a tassi reali del 6-7%. Questo fa sì che la debolezza dei lavoratori, che si era espressa in termini di un tasso d’incremento del salario fortemente rallentato dopo il ‘75, questa debolezza e questa diminuzione del salario reale, in taluni casi, non va che in minima parte ai profitti, ma va a remunerare principalmente il risparmio finanziario.

I mutamenti nella distribuzione del reddito sono tali da non incentivare l’investimento e sono tali da non incentivare l’occupazione. Questa è una situazione che, purtroppo, tende a perpetuarsi e tende a diventare sempre più grave, perché quanto più aumenta il deficit del bilancio dello Stato, tanto più aumenta la remunerazione del risparmio privato, che poi non viene impiegato nel settore produttivo, per cui il circuito economico tende a una spirale depressiva, soprattutto per quanto riguarda gli effetti sulla base produttiva e sul l’occupazione.

Il decentramento

La terza e più importante via alla flessibilità è quella del decentramento. Innanzitutto c’è da dire che il protagonista del decentramento, se andiamo a vedere attentamente, non è soltanto l’impresa, ma è tutta la società, tutta la società italiana e il lavoro in primo piano. Dal ‘73 all’80 vediamo un’enorme capacità di adattamento alle nuove condizioni da parte dell’offerta di lavoro; però quanto si è riusciti ad ottenere in termini di flessibilità e di capacità di adattamento del settore industriale, che è rilevante, si è pagato in termini di disoccupazione. Come diceva poco fa Frey, l’elemento caratterizzante (anche per responsabilità del sindacato) di questo processo di ristrutturazione è che questo è avvenuto a spese dello Stato, con notevole capacità di adattamento da parte della gente, ma senza contropartita. La Cassa integrazione ha le sue responsabilità, lo Stato soprattutto ha le sue responsabilità, in questo campo. Vediamo quali sono stati i caratteri del decentramento che, a mio parere, sono importanti per capire anche i mutamenti nella società italiana più recenti.

In primo luogo, la grande impresa. Negli anni 50 e 60 su che cosa era cresciuta? Era cresciuta sul processo di ricostruzione, era cresciuta sul ritmo elevatissimo della crescita, sul rapporto gerarchico e fortemente repressivo del territorio su cui si trovava, sul rapporto gerarchico e fortemente repressivo della forza lavoro e - diciamolo francamente - era stata mal tollerata politicamente. La reazione politica nei confronti della grande impresa, già negli anni 60, non era una reazione solo di chi vi lavorava dentro, ma era un po’ una reazione di tutta la società. Basta vedere le trasformazioni in negativo avvenute nelle grandi concentrazioni industriali. Quindi, la crisi della grande impresa non va vista, a mio parere, con dispiacere. Dall’altro lato, il decentramento su che cosa si è fondato? Si è fondato, in gran parte, su quelle che sono state le conquiste delle nuove relazioni industriali. Se andiamo a vedere quali sono le regioni in cui si sviluppa il decentramento più efficace, anche sotto il profilo economico - mi riferisco alle regioni del Centro e del Nordest - vediamo che sono le regioni in cui il sistema previdenziale, il sistema dei servizi, il tessuto sociale è più ricco, è più diffuso nel territorio, è più capillare. Quindi, in primo luogo, il decentramento si fonda sul sistema dei servizi sociali. Si fonda sulla politica dello Stato di adattamento all’inflazione, che ha consentito uno sviluppo più elevato di quanto vi sarebbe stato qualora la politica fosse stata di drastica deflazione. Ma si fonda anche su un nuovo, su un diverso rapporto impresa-ambiente, diverso rispetto a quello che era stato il rapporto della grande impresa. Evidentemente bisogna fare una distinzione tra il decentramento nel Mezzogiorno, in certe zone di grande depressione economica, e il decentramento di altre regioni dove questo è anche sinonimo di notevole efficacia, sotto il profilo dei risultati industriali e di capacità di adattamento da parte dell’impresa a quelle che sono anche le esigenze, in taluni casi, dell’offerta di lavoro e mi riferisco alle strutture familiari, al lavoro stagionale, agli interstizi di una occupazione che in alcuni periodi è nel settore del commercio, in altri si sposta sul turismo o sull’agricoltura e in altri periodi dell’anno si sposta sull’industria. Questo processo di decentramento non va evidentemente mitizzato, ma è chiaro che, se vi sono stati dei risultati economici favorevoli, questi vanno attribuiti, in gran parte, a questa capacità di adattamento; ma è necessario chiarire un equivoco della situazione attuale. È chiaro che il lavoro decentrato, il lavoro nero o grigio, sommerso o semisommerso, oltre a basarsi sul sistema previdenziale, si basa anche sul fatto che non ne paga i costi. Quindi, da un lato, c’è la tendenza a mitizzare, c’è la tendenza a vedere nella capacità di adattamento di questo tipo di impresa un tipo di uscita dalla crisi, dall’altro lato, ponendo l’occhio sul bilancio dello Stato, si parla di comprimere l’area dell’evasione. Ma è chiaro che questi due aspetti sono in profonda contraddizione. Questo tipo di decentramento industriale si basa anche pesantemente sull’assunzione, da parte dello Stato e dei lavoratori non in nero, dei costi previdenziali. Qualora questi costi fossero analoghi anche per le imprese decentrate, sono convinto che la loro redditività sarebbe pesantemente ridimensionata.

Lavoro autonomo e squilibri regionali

Altro fenomeno strutturale che è andato nel senso della flessibilità è, per esempio, l’aumento del lavoro autonomo. L’Italia ha già una percentuale di lavoratori autonomi superiore di almeno il 10-15% rispetto a quella del resto dell’Europa. L’Italia è il solo paese in cui il lavoro autonomo cresce a partire dalla metà degli anni 70.

Lavoro autonomo che diminuisce nell’agricoltura e che cresce fortemente nei servizi, più moderatamente nell’industria. Anche questo è un mutamento sociale e produttivo non secondario. Infine, l’elemento più grave - e qui concludo la mia relazione - è la dimensione regionale di queste trasformazioni; per quanto riguarda il decentramento e la ristrutturazione, processi che non coincidono, ma che sono fortemente correlati, è chiaro che questo tipo di movimenti sono esclusivamente avvenuti nel Nord Italia. Se noi osserviamo, invece, l’andamento dell’occupazione industriale, della produttività industriale nel Mezzogiorno, ci rendiamo conto che procede per dei binari suoi, quasi che il ciclo internazionale non lo avesse toccato. È evidente che si tratta di una situazione estremamente anomala, ma ancora più grave, se noi pensiamo che l’incremento delle forze di lavoro avviene oggi, in Italia, quasi esclusivamente, o per la maggior parte, al Sud; se vediamo che i settori in crisi, i settori che tendono a perdere e che perderanno inevitabilmente occupazione, sono i settori di base, che è poi la specializzazione maggiore del Mezzogiorno. Quindi, la dimensione regionale e territoriale di questo processo di trasformazione è un ulteriore elemento di preoccupazione.

NOTE


[1] Estratto da AZIMUT n° 18 rivista bimestrale di economia politica e cultura – luglio-agosto 1985

Sintesi di Redazione delle comunicazioni presentate dai due economisti Luigi Frey ed Enrico Wolleb al seminario “II diritto al lavoro”, organizzato dalla FIM di Milano, presso l’ICEI. svoltosi l’11 e 12 aprile 1985.

Testo non rivisto dall’autore

[2] Vedasi AZIMUT n° 18 – luglio agosto 1985 - Luigi Frey, La ripresa senza occupazione