Il FUTURO DELL’ECONOMIA MONDIALE[1]

Negli ultimi 150 anni c‘è stata una tendenza all‘ascesa della forza complessiva dei movimenti alternativi nell’economia mondiale capitalista. Ci vorranno ancora molti anni e le conseguenze non sono inevitabili, ma per Wallerstein viviamo nella transizione storica mondiale dal capitalismo al socialismo.

Immanuel Wallerstein

I contrasti temporali (passato e futuro, vecchio e nuovo) e le caratterizzazioni temporali (il presente, la crisi, la transizione) sono argomenti di cui amiamo spesso parlare.

Il tempo è però una realtà sociale, non fisica, e la nostra concezione del tempo (o, per meglio dire, dello spazio-tempo) rispecchia non solo il sistema sociale cui appartiene, ma è un elemento costitutivo fondamentale di tale sistema.

Non possiamo discutere di quello che riteniamo sia il futuro del sistema mondiale moderno se non veniamo ad un accordo su qua le sia il passato cui ci stiamo riferendo. Per quanto mi riguarda, la risposta si è fatta via via più chiara. Il mondo moderno è un’economia mondiale di tipo capitalista, nata in qualche zona dell’Europa tra il 1450 ed il 1550 come risposta alla “crisi del feudalesimo” che aveva fatto tremare la stessa Europa nel periodo 1300-1450.

Essa ebbe origine come strumento repressivo della capacità sempre maggiore dimostrata, durante il periodo di crisi, dalla forza lavoro europea a sottrarre il sovrappiù (sur plus) di cui le classi signorile e patriarcale urbana si erano impossessate durante il sistema feudale. Il sistema capitalista che sostituì il sistema feudale si rivelò, sotto questo punto di vista, incredibilmente all’altezza ditale compito.

Il periodo compreso tra il 1450 e il 1600 registrò una sensibile caduta del reddito reale dei produttori diretti in Europa e, con il costante ampliamento geografico della sfera d’influenza dell’economia mondiale, questo processo di polarizzazione (ovvero, usando un’espressione ormai in disuso, di Immiserimento crescente) da allora non ha mai cessato di espandersi — e questo può essere dimostrato empiricamente qualora si misuri la polarizzazione considerando l’economia mondiale nel complesso e non stati particolari.

Per renderci conto dei reali cambiamenti che si verificano oggigiorno e che potrebbero aversi in futuro dobbiamo stabilire qua li sono i meccanismi strutturali mediante i quali il sistema si è finora riprodotto e quali sono le contraddizioni strutturali che lo hanno messo in crisi.

Tratterò questo argomento piuttosto brevemente perché desidero concentrarmi sulle risposte organizzative delle classi oppresse e sulla politica dei movimenti alternativi al sistema (antisystemic movements) che sono sorti nel corso dello sviluppo storico dell’economia mondiale capitalista, dal momento che sono proprio questi movimenti che rappresentano un flesso essenziale tra crisi e riproduzione del sistema.

Tutti i sistemi hanno una struttura e vanno incontro a trasformazioni, danno luogo a cicli e tendenze. Un’analisi intelligente deve essere sempre cauta nel porre maggiore accento su un aspetto a scapito dell’altro — nell’individuare solo il ripetersi di alcuni modelli e scoprire sempre ciò che è “nuovo”, in quanto gran parte del “nuovo” c’era da sempre e le ripetizioni, se così si possono chiamare, hanno un caratteristico andamento a spirale.

I meccanismi economici fondamentali dell’economia mondiale capitalistica si basa no sul fatto che l’assenza di una struttura politica unitaria e totalizzante rende possibile ai produttori che cercano di operare secondo l’imperativo dell’accumulazione continua di capitale, di eliminare dalla concorrenza, nel lungo periodo, coloro che gestiscono imprese economiche sulla base di altri principi normativi. Questo significa che i produttori/imprenditori tendono a prendere decisioni — r guardanti la produzione e gli investimenti — in base a ciò che può ottimizzare la probabilità, nel medio periodo, di ottenere profitti individuali.

La contraddizione fondamentale del sistema capitalistico sta nella separazione tra ciò che determina l’offerta e ciò che determina la domanda. Le decisioni riguardanti la produzione mondiale vengono prese su base individuale. La somma delle attività dei singoli produttori/imprenditori va ad aumentare costantemente la produzione mondiale, il che significa che la possibilità, per tutti loro, di realizzare continui profitti, è necessariamente funzione di una domanda mondiale in espansione. La domanda mondiale in espansione non è invece funzione delle decisioni dei singoli produttori/imprenditori. Semmai, la somma delle loro singole decisioni, nella misura in cui individualmente spingono a ridurre i costi dei fattori di produzione (e quindi a ridurre i costi del lavoro), serve in realtà ad abbassare la domanda mondiale. La domanda mondiale è determinata fondamentalmente da una serie di compromessi politici preesistenti all’interno dei vari stati che fanno parte dell’economia mondiale, e che più o meno fissano per periodi di media durata (circa 50 anni) la distribuzione modale del reddito tra i vari partecipanti al circuito del capitale. Si discute spesso di questo fenomeno in termini di esistenza di differenti “livelli storici dei salari”. I livelli salariali sono veramente basati su fattori storici, ma sono lungi dall’essere immutabili per questo motivo.

Un sistema economico in cui l’offerta mondiale si espande più o meno continuamente ma la domanda mondiale resta relativamente fissa per periodi di tempo medi è destinato a creare un modello di produzione di tipo ciclico. Da un punto di vista empirico, l’economia mondiale capitalista ha infatti conosciuto tali cicli di espansione e contrazione fin dal suo inizio (cioè per almeno 500 anni). Il più importante di questi cicli sembra essere il ciclo di espansione-stagnazione di 40-55 anni, spesso chiamato “ciclo di Kondratieff”.

Nella fase di stagnazione del ciclo, accelerata dall’eccesso di produzione mondiale rispetto alla domanda, i singoli imprenditori cercano di mantenere la loro quota di profitto o espandendo la produzione, o riducendo i costi (mediante la riduzione dei salari o mediante l’avanzamento tecnologico, che aumenta la produttività), oppure riducendo la concorrenza, o con una combinazione di questi tre metodi. Uno dei molti modi per abbassare i costi è quello di spostare il luogo di produzione in zone a salario inferiore (dalla città alla campagna, o dal centro alla periferia sia all’interno degli Stati che nel sistema mondiale nel suo insieme).

Contemporaneamente vi è la spinta a riorientare il flusso globale della forza lavoro (“verso l’esterno”, dal centro verso la periferia, piuttosto che “verso l’interno”, dalla periferia al centro, come accade invece nelle fasi di espansione).

Mentre i singoli imprenditori e le singole aree geografiche possono trarre beneficio proprio a motivo della stagnazione, globalmente l’effetto viene percepito come una “stretta” di cui risentono da un lato gli imprenditori più deboli (che si trovano ad affrontare la bancarotta ove vi sia una concentrazione di capitale), e dall’altro quei segmenti della forza lavoro mondiale precedentemente occupati stabilmente come lavoratori salariati. Quest’ultimo gruppo è distribuito irregolarmente in tutto il mondo. Ovunque vi siano lavoratori salariati in numero sufficiente, lotte di classe violente diventano la conseguenza visibile della fase di stagnazione. Ovunque settori della piccola borghesia vengano espropriati per effetto della stagnazione, essi entrano a far parte dei gravi conflitti sociali.

Durante questa fase di stagnazione, le violente lotte sociali all’interno dei vari stati portano, di solito, ad una riapertura dei precedenti compromessi storici che avevano determinato l’attuale distribuzione del sovrappiù estorto e appropriato. Inoltre le zone semiperiferiche sono in grado di ottenere o prezzi più elevati per i loro beni oppure una porzione più ampia del mercato mondiale, e così si appropriano di quantità maggiori del sovrappiù prodotto a livello mondiale.

Si determina così una ridistribuzione del sovrappiù — in quantità maggiori alla borghesia delle zone semiperiferiche e ai settori della forza lavoro presenti nelle aree centrali — che stimola l’espansione della domanda mondiale in termini monetari in maniera sufficiente a rianimare le tendenze espansionistiche dell’economia mondiale capitalista.

D’altra parte, come effetto della ridistribuzione del sovrappiù, la borghesia mondiale, in particolare il settore situato nelle vecchie aree centrali, si trova di fronte ad una diminuzione della sua quota di sovrappiù mondiale, a meno che non intraprenda due tipi di contromisure decisive: avanzamenti tecnologici, che portano a temporanei (ma significativi) sovrapprofitti derivanti da monopoli temporanei; e l’espansione dei confini esterni dell’economia mondiale per incorporare nuove aree con lavoratori a basso costo, non interamente proletarizzati.

In questo meccanismo ciclico possiamo osservare le spinte che portano alla creazione ed al rafforzamento delle quattro istituzioni fondamentali dell’economia mondiale capitalista: gli stati, le classi, i gruppi definiti secondo lo status (status groups) a livello etnico/nazionale, le famiglie. Indicheremo brevemente la funzione di ciascuna di esse.

È rafforzando e utilizzando l’organizzazione degli stati in cui risiedono che gli imprenditori/produttori possono meglio accrescere la loro capacità di produrre profitto (tenuto conto delle stravaganze del mercato, specialmente durante la fase di stagnazione), sia nei confronti di altri imprenditori che delle classi lavoratrici. La conseguente spinta a rafforzare l’efficacia della macchina statale non è contrastata da una spinta in senso contrario della classe lavoratrice.

Lungi dall’essere antistatale in se stessa, la classe lavoratrice in lotta contro la borghesia in un certo stato cerca, ciò nonostante, di rafforzare quella particolare macchina stata le (indipendentemente dal fatto che la sua tattica sia riformista oppure rivoluzionaria); la classe lavoratrice può essere più o meno politicamente osteggiata dagli elementi della borghesia nel controllo del regime vigente. Per questo in ogni tempo e specialmente nei periodi di stagnazione, le macchine statali in tutte le parti del mondo sono state di fatto sistematicamente articolate e rafforzate. Questo non significa però che la differenza iniziale tra la maggiore forza statale delle aree centrali e la minore forza statale delle zone periferiche sia diminuita. Al contrario, nonostante il fatto che tutti gli stati fossero divenuti più forti in relazione alle forze interne, e che vi fosse una tendenza complessiva verso l’instaurarsi sempre più chiaro di un sistema interstatale ben definito (che ha raggiunto il suo culmine ideo logico nella formazione delle Nazioni Unite basate sulla insistenza formale sul principio dell’eguaglianza, vi è stata, ciononostante una polarizzazione sempre crescente della forza degli stati.

Gli stati non sono le sole istituzioni create in tal modo dall’operare dell’economia mondiale: vengono create anche le classi. Ottiene così reale conferma e non viene sconfessata da fatti l’intuizione originaria di Marx secondo cui l’attività del sistema capitalista creava due classi definite e polarizzate.

Mentre, originariamente, la molteplicità degli ordinamenti sociali comportava che la maggior parte delle famiglie fossero parzialmente “gli espropriati” e parzialmente gli “appropriatori”, e quindi sia “proletari” che “borghesi”, la lenta ma costante mercificazione sia della forza lavoro che dei settori dirigenti ha di fatto abbassato il “velo sociale” che offuscava la struttura in classi.

La maggior parte delle famiglie attualmente ricade nettamente o nella categoria che riceve complessivamente come reddito totale meno del prodotto sociale che crea (e quindi è oggettivamente proletaria), oppure in quel la che riceve una parte del sovrappiù prodotto a livello globale (e quindi è oggettivamente borghese).

Ciò che è importante ai nostri fini è notare due cose: questo oggettivo chiarimento, ovvero abbassamento del velo sociale, è di fatto il prodotto delle fasi periodiche di stagnazione e delle conseguenti pressioni sia sugli imprenditori che sui lavoratori. I bisogni di entrambi i gruppi, specialmente nella misura in cui essi hanno voluto modificare a loro vantaggio le strutture statali, hanno condotto ad una crescente coscienza di classe, a livello sia nazionale che mondiale e storicamente dapprima da parte della borghesia e poi più tardi del proletariato.

La creazione delle classi va di pari passo con la creazione e ri-creazione di un gran numero di gruppi sociali omogenei (status groups) a livello nazionale, etnico, razziale, reIigioso o linguistico, che rappresenta la modalità con cui settori della borghesia e del proletariato difendono i loro interessi di breve periodo di fronte ai ritmi ciclici dell’economia mondiale.

Nei momenti di stretta economica (fasi B), i gruppi cercano una legittimazione extra economica all’accumulazione monopolistica dei privilegi (quali occupazione, istruzione, ecc.) Nei periodi di espansione (fasi A) i gruppi sociali superiori e medi cercano di evitare il potenziale declino del loro potere all’interno del mercato coprendo l’accesso a posizioni privilegiate con la sanzione legislativa dei diritti già riconosciuti a livello culturale; op pure i gruppi sociali inferiori perseguono i propri obiettivi di classe cercando di darsi una veste di “status”, in particolare nelle situazioni in cui gli strati sociali medi li hanno espropriati delle forme espressive proprie della classe lavoratrice. In tutti questi casi un rinnovato accento sulle distinzioni di status aiuta a portare avanti gli interessi di settori specifici dell’economia mondiale.

In ultima analisi, la formazione dei gruppi sociali, alla stessa stregua dell’attività dello stato, serve a delimitare e comprimere sia le forze di mercato che quelle di classe, a favore di uno o più gruppi che altrimenti nel medio periodo sarebbero destinati a scomparire.

Non dobbiamo infine ignorare che l’economia mondiale capitalista ha dato una struttura organizzativa particolare alla borghesia ed al proletariato, dove l’elemento distintivo è la raccolta dei redditi guadagnati in nuclei di tipo familiare. Nonostante il vantato individualismo dell’ideologia capitalista, i membri delle classi e dei gruppi sociali non sono singoli individui, ma famiglie. E queste famiglie sono creazioni dell’economia mondiale in quanto i confini delle unità economiche effettive sono il risultato di pressioni esercitate su gruppi consanguinei e/o coabitanti affinchè estendano o restringano i loro confini, in maniera tale da produrre la forza lavoro necessaria, con livelli salariali adatti a zone specifiche dell’economia mondiale.

In particolare la cosiddetta “famiglia estesa”, che spesso in effetti non è formata semplicemente da un gruppo di consanguinei, è una struttura indotta che ottimizza la fornitura di manodopera salariata impiegata per un periodo di tempo ad un salario inferiore al minimo, legando il mantenimento dei lavoratori a nuclei familiari il cui reddito è alimentato dal sovrappiù creato da altri membri del nucleo (o da essi stessi in altre fasi della vita), a favore del datore di lavoro.

Viceversa la cosiddetta “famiglia nucleare”, che può anche non essere necessariamente formata da un gruppo di consanguinei, ottimizza la creazione di domanda in termini monetari riducendo la quantità di beni di consumo non ottenuti attraverso il mercato. Le spinte contraddittorie delle forze economiche mondiali creano un modello ciclico in cui le strutture familiari variano a seconda della zona economica e delle fasi di espansione stagnazione.

Le stagnazioni cicliche periodiche dell’economia mondiale sono state essenzialmente risolte da una combinazione di 3 meccanismi. Innanzitutto alcuni produttori hanno utilizzato progressi tecnologici per creare prodotti nuovi e/o ottenuti in modo più efficiente, che permettessero una concorrenzialità adeguata con altri produttori che avevano precedente mente dominato il mercato di merci particolari. Questo ha prodotto nuovi, cosiddetti “dinamici” settori produttivi. In secondo luogo, alcuni settori delle famiglie che erano precedentemente “estese” e che ricevevano soltanto una piccola parte del reddito legato all’arco della vita dalle risorse salariali si sono ritrovate spostate, espropriate o comunque spinte a “proletarizzarsi”, cioè a diventare dipendenti in maggior misura dal mercato del lavoro salariato per quanto riguarda il reddito familiare nell’arco della vita. Per coloro che sono sopravvissuti al processo di transizione forzata, ciò ha di fatto significato un aumento del reddito monetario (anche se non necessariamente un aumento del reddito reale). In terzo luogo, nuovi produttori diretti sono stati incorporati nell’economia mondiale, spostando i precedenti confini di questa.

Questi produttori diretti appena incorporati hanno formato nuove fonti di lavoro salariato a basso prezzo e a tempo parziale; essi hanno anche naturalmente prodotto nuova offerta di materie prime per la produzione industriale mondiale necessaria alla fase d’espansione dell’economia di mercato.

Dei tre meccanismi — trasformazione tecnologica, proletarizzazione, incorporazione — la maggior parte degli autori indica nel primo il più lineare tra tutti i processi dell’economia mondiale capitalista. Di fatto è vero il contrario, se si analizza la tecnologia non in quanto processo autonomo ma a seconda del suo impatto sulla struttura del sistema mondiale in quanto tale. In misura maggiore rispetto ad altri meccanismi, l’impatto del mutamento tecnologico è il più ciclico e il meno secolare. Mi spiego: ciò che l’avanzamento tecnologico ha ottenuto soprattutto è di aver regolarmente permesso ad una serie di imprenditori di competere con successo con altri imprenditori. Questo ha avuto due conseguenze. La natura specifica delle merci ad elevato profitto ed elevato salario è ripetutamente mutata a favore delle merci in cui è stata introdotta la nuova tecnologia. Prodotti particolari che prima rientravano in questa categoria hanno subìto un abbassamento in termini di redditività complessiva e conseguentemente delle relative strutture salariali. In secondo luogo, è cambiata regolarmente anche la locazione fisica dei settori più “dinamici” sia all’interno che attraverso i confini tra gli stati. Quindi sia l’insieme delle merci implicate nello “scambio ineguale”, che l’ambito geografico in cui si svolgevano i processi economici centrali e periferici sono costantemente cambiati col passare del tempo, senza però trasformare in alcuna misura significativa la struttura mondiale dello scambio ineguale basato sulla divisione assiale del lavoro.

Da principio il grano veniva scambiato con i tessuti; più tardi fu la volta dei tessuti con l’acciaio, oggi è l’acciaio ad essere scambiato con i computers e col grano. Una volta Venezia era una zona centrale e l’Inghilterra una zona semi-periferica; più tardi la Bretagna fu il centro e gli stati settentrionali degli Stati Uniti i semi-periferici, ancora più tardi gli Stati Uniti costituirono una zona centrale e Russia e Giappone o molti altri paesi i semi- periferici; e domani! In questo modo, l’avanzamento tecnologico ha creato una situazione di costante ristrutturazione geopolitica del sistema mondiale, ma ne ha minato la vitalità? Ho l’impressione di no. E’ piuttosto negli altri due processi ciclici — la riorganizzazione delle strutture familiari e l’incorporazione di nuove zone nell’economia mondiale — che trovo la risoluzione delle contraddizioni essenziali del capitalismo come sistema mondiale, contraddizioni che stanno determinando l’attuale crisi del sistema in cui viviamo. Ogni volta che è stato riorganizzato un setto re delle strutture familiari mondiali, il numero relativo di quelle che possiamo chiamare le famiglie proletarizzate è cresciuto come par te della forza lavoro mondiale. Ogni volta che nuove zone sono state incorporate nei processi produttivi in atto nell’economia mondiale, è aumentata la quantità complessiva di territorio e di popolazione che è coinvolta diretta mente dall’operare dell’economia mondiale capitalista. Ma le porzioni hanno inevitabilmente un limite: il loro massimo è il 100%. Dunque questi due meccanismi — la proletarizzazione e l’incorporazione - che permettono il rinnovamento costante dell’espansione del sistema capitalista ne costituiscono anche l’elemento distruttore. Il loro successo ne rende meno probabile la futura utilità quali meccanismi di ripresa. Questo è un modo di tradurre operativamente il concetto delle contraddizioni del capitalismo come sistema. Queste tendenze secolari risultano dalla contraddizione fondamentale di combinare l’anarchia della produzione con la determinazione sociale della domanda.

I crescenti vincoli economici prodotti dalle tendenze secolari generano proprio a livello politico il sorgere dei movimenti antisistemici che fungono in modo cruciale da intermediari sociali nella trasformazione globale del sistema. Questi movimenti alternativi hanno assunto in genere due forme da quando, nel 19° secolo, sono emersi come forze importanti: il movimento sociale ed il movimento nazionale.

Mentre il malcontento dei contadini e dei poveri nelle città è stato una costante del sistema, periodicamente sfociata in rivolte contadine e tumulti per il cibo, è solo dopo la relativa concentrazione delle famiglie proletarizzate nei Paesi centrali dell’economia mondiale capitalista nel 19 secolo che il movimento sociale assunse la forma degli attuali sindacati, dei partiti socialisti ed altri tipi di organizzazione dei lavoratori. Il movimento socia le accentuò la crescita del polarismo borghesia/proletariato e richiese una trasformazione radicale del sistema dell’ineguaglianza.

Nel frattempo però alcuni movimenti specifici si organizzarono per ottenere quote di potere nello stato per promuovere gli interessi del proletariato. Il Manifesto Comunista, ad esempio, esemplificò chiaramente questo duplice approccio: da un lato la richiesta di una ristrutturazione radicale, dall’altro il perseguimento di obiettivi temporanei nella fase di transizione.

Mentre la ricerca di una maggiore forza, da parte degli stati più deboli, è stata anch’essa una costante del sistema, è solo dopo la riorganizzazione del sistema interstatale che seguì le guerre napoleoniche e la Santa Alleanza che ne risultò (con la propaganda crescente a favore di un’omogeneizzazione linguistico-culturale nonchè religiosa) che le zone periferiche e semi-periferiche dell’Europa innalzarono la bandiera del nazionalismo. Il movimento nazionale accentuò la crescita del polarismo centro-periferia e richiese una trasformazione radicale del sistema di disuguaglianza. Nella fase intermedia, tuttavia, i singoli movimenti rivendicarono la definizione di un’entità nazionale più precisa, col passaggio da zona assimilata a zona autonoma, da colonia ad entità indipendente, da stato debole a stato più forte. 111848 fu la primavera delle Nazioni come anche l’anno del Manifesto Comunista.

Sia il movimento sociale che quello nazionale hanno avuto dal 1848 uno sviluppo sorprendente. Il movimento sociale si è allargato dal centro alla semiperiferia e alla periferia. Oggi non vi è quasi un solo angolo della terra che non sia stato toccato da tali movimenti. Viceversa, il movimento nazionale, dopo aver percorso le zone semi-periferiche e periferiche del mondo, ha ora raggiunto il centro, con la recente esplosione dei gruppi etnici dell’Europa occidentale e del Nord America.

Nel processo di diffusione del movimento sociale dal centro alla periferia e del movimento nazionale dalla periferia al centro, i due movimenti si sono trovati riuniti in due mo di. In primo luogo, la loro storia è iniziata nel 19° secolo come rivali ideologici; ma al presente non vi è quasi un solo movimento sociale che non sia nazionalista e vi sono pochi movimenti nazionali che non siano socialisti. La sovrapposizione non è perfetta ma è abbastanza rilevante per affermare che un movimento sociale che non sia nazionalista e un movimento nazionale che non sia socialista è guardato con sospetto da larghi strati della popolazione mondiale.

In secondo luogo, e in maniera ancor più determinante, i due movimenti mondiali hanno seguito un percorso simile. L’ambiguità iniziale — la ricerca dell’uguaglianza da una parte mediante una radicale trasformazione e dall’altra mediante soluzioni temporanee — si è rivelata non come una scelta ideologica soggetta al cambiamento della volontà individuale o anche collettiva, ma come il risultato di una pressione strutturale del sistema mondiale come tale. L’economia mondiale capitalista è precisamente un sistema in cui i pro cessi economici di base hanno luogo in una zona di gran lunga più ampia di quella raggiunta da qualsiasi autorità politica, e quindi questi processi non risentono completamente delle decisioni politiche prese in qualunque stato — anche se egemone: a maggior ragione quindi di quelle di uno stato della periferia. Tuttavia, specialmente proprio per quanto riguarda i movimenti alternativi, i meccanismi che risultano più facilmente influenzabili sono queste stesse strutture statali di limitato potere. Sia quindi il movimento sociale che il movimento nazionale devono quasi necessariamente perseguire risultati nel medio periodo mediante il controllo, anche parziale, di una delle strutture statali. In più, per ottenere tale controllo, essi rafforzano queste strutture statali, il che a sua volta rafforza l’operare del sistema interstatale e perciò del capitalismo come sistema mondiale. Questo dilemma è centrale; vorrei esaminarlo anche nelle forme storiche sotto cui si manifesta: ciclo e tendenza. Il ciclo è molto semplice ed è stato ampiamente analizzato, molto spesso con cinismo. Esso viene descritto nel modo seguente: i movimenti che sono sorti hanno difeso obiettivi rivoluzionari; si sono affermati ed hanno ottenuto il potere. Una volta al potere hanno operato trasformazioni che sono state comunque meno radicali di quanto precedentemente rivendicato. Essendo scesi a compromessi, sono stati per questo accusati di “tradimento” o di “revisionismo”. Infine è stato imposto il Termidoro (fine del periodo del Terrore durante la Rivoluzione Francese, n.d.t.) o dalla controrivoluzione o dalla trasformazione interna del movimento. I seguaci, per quanto ne fossero sopravvissuti, sono stati disillusi e per la generazione che segui va, quelli che erano stati slogan rivoluzionari divenivano miti ideologici ed oppressivi.

E’ questo semplice ciclo ciò che si è storicamente affermato? Solo in parte: è vero naturalmente che i socialdemocratici dell’Europa nel 19° secolo sembravano aver seguito tale percorso quando pervennero (parzialmente, in realtà) al potere all’inizio del 20° secolo. E’ vero che si potrebbe fare lo stesso discorso per i vari partiti comunisti, a partire innanzitutto da quello russo e quindi da quello cinese; ed è vero che ogni rivoluzione anticolonialista è sembrata rientrare in questo modello.

Ma è tutto qui ciò che è realmente accaduto? Credo di no. Vi è stato prima di tutto l’impatto delle mobilitazioni iniziali. Molti movimenti riportarono complete sconfitte, mentre quelli che ebbero successo riuscirono perchè, per un certo periodo, seppero creare strutture organizzative che in qualche modo furono in grado di mobilitare i loro interlocutori potenziali secondo 3 livelli di intensità concentrici: un livello interno di quadri totalmente coinvolti, uno intermedio di attivisti ed uno esterno di simpatizzanti. Il processo vero e proprio di creazione di queste strutture nel tempo ebbe importanti conseguenze per la struttura politica del sistema mondiale, e primariamente rispetto ai rapporti di forza politici all’interno del particolare stato in questione.

Per tali movimenti, il possedere un potere anche solo parziale in certi stati rappresentò una “conquista” del potere, il cui vero e proprio ottenimento risultò non solo nelle specifiche riforme successivamente attuate, ma anche nella trasformazione della mentalità collettiva, che era anch’essa una derivazione degli eventi politici.. Non bisogna neppure condannare tanto facilmente le “riforme” stesse: possono essere sembrate insignificanti rispetto alle aspirazioni, ma è da chiedersi se questo sia un metodo di giudizio appropriato. Non andrebbero viste invece come un meccanismo, anche abbastanza riuscito, per rallentare la polarizzazione galoppante del sistema mondiale nel suo complesso, per mezzo del quale conservare le possibilità materiali di un’attività alternativa? Da questo punto di vista, tali “rivoluzioni” non sono state di fatto nè “false”, nè prive di effetti, ma hanno certamente dovuto essere “recuperate”, nel senso che l’ottenere potere politico ha spinto i movimenti ad adattarsi prima o poi alle norme del sistema internazionale e, più di quanto auspicassero, alla legge del valore che sta alla base delle operazioni dell’economia mondiale Capitalista. Il fatto è che, per quanto radicali fossero le riforme avviate da uno qualsiasi di questi movimenti, essi hanno scoperto che nessuna singola struttura statale può attuare una trasformazione sia del sistema internazionale che dell’economia mondiale, e che non esiste un modo semplice in cui il resto del mondo possa essere eliminato. Un certo stato guidato da un dato movimento può tentare di staccarsi dalle strutture politico-economiche del sistema mondiale. La Cambogia di PoI Pot è forse stata l’esempio più drammatico di tale tentativo. Ma a prescindere totalmente dal fatto che questa sia una tattica consigliabile dati i risultati, è risultato del tutto evidente che non sia stata una tattica praticabile, dal momento che il resto del sistema mondiale semplicemente non era pronto a che venisse attuato, anche in un settore poco rilevante della terra quale è la Cambogia.

Ovunque la realtà è stata che il fatto che un movimento proclami il distacco dei propri processi produttivi nazionali dall’economia mondiale integrata non ha mai di fatto determinato tale distacco. Esso può aver ottenuto un ritiro temporaneo che, rafforzando la produzione interna e le strutture politiche, ha permesso allo stato di migliorare la posizione nell’economia mondiale. In questo caso ciò ha solamente significato che, in pratica, determinati prezzi relativi sono stati imposti in scambi particolari cosicchè, all’interno dello stato che li fissava, alcuni riportassero dei guadagni ed altri delle perdite. Ma è proprio questo il modo in cui l’economia mondiale capitalista ha sempre operato e quindi la logica della posizione di Mao Tse Tung sulla lotta di classe permanente all’interno degli stati che hanno intrapreso una “costruzione socialista” è impeccabile. L’unica questione è cosa farne.

E qui dobbiamo fare ritorno ai movimenti. Arrivare ad un potere statale parziale o totale ha comportato sempre un parziale compromesso, e in molti casi ha significato in definitiva arrivare ad un compromesso totale, dato che i movimenti avevano smesso del tutto di essere movimenti alternativi al sistema. Noi dobbiamo però osservare questi movimenti da un punto di vista storico.

Dopo la fase di mobilitazione venne, per i movimenti alternativi, la fase del potere esercitato mediante la realizzazione di compromessi. Il potere mediante compromessi non coincise affatto col totale abbandono degli obiettivi alternativi. Fu proprio questa fase di potere attraverso compromessi che creò l’effetto a spirale e modificò quello che sembrava essere un fenomeno ciclico in una tendenza secolare del sistema mondiale nel suo complesso. L’ottenimento del potere da parte di alcuni movimenti ha avuto due conseguenze importanti, al di là delle riforme che tali movimenti poterono attuare in certi stati. Questi movimenti hanno innanzitutto chiaramente avuto il ruolo di ispiratori e rafforzatori di analoghi movimenti nei Paesi vicini, specialmente subito dopo la conquista del potere.

Non si può descrivere la storia politica del XX secolo senza tener conto di questo effetto di diffusione. La mobilitazione ha generato altra mobilitazione ed il successo dell’una è stato fonte di speranza per l’altra. In secondo luogo, il successo dell’una ha creato un maggior spazio politico per l’altra.

Ogni volta che un movimento alternativo ha ottenuto, parzialmente o totalmente, il potere, ha alterato l’equilibrio di potere del sistema interstatale in modo tale che si è creato più spazio per altri movimenti alternativi.

Ma se il giungere al potere di un movimento ha fornito sia l’ispirazione che lo spazio per gli altri, l’inevitabile compromesso che ha coinvolto i movimenti al potere non potrebbe avere ridotto sia l’ispirazione che lo spazio? Assolutamente no, perchè l’operare del sistema mondiale è più complesso di quanto tale semplice simmetria suggerirebbe. I movimenti sorti in seguito non sono stati solo ispirati, ma sono stati anche avviati: essi hanno appreso che parte della lotta politica mondiale prevede che essi facciano pressione su questi movimenti al potere, che sono scesi a compromessi ma la cui forza interna dipende in parte dal mantenersi fedeli con continuità all’ideologia.

I movimenti nella fase di sollevazione non hanno esitato a giocare questa carta per spingere i movimenti nella fase del potere a scendere a meno compromessi di quelli verso cui essi si sarebbero altrimenti orientati, sottraendo loro lo spazio ed anche l’ispirazione di cui necessitano, nonostante la loro riluttanza. Da cui, quello che sembra un semplice ciclo di ascesa e discesa dei risultati politici dei movimenti alternativi risulta essere stato, ad un esame più attento, una spinta in ascesa- discesa-ascesa.

Se si considerano complessivamente tali spinte triplici nell’economia mondiale e nel tempo, si vede subito che ci sarebbe, e c’è stata, negli ultimi 150 anni, una tendenza secolare all’ascesa della forza complessiva dei movimenti alternativi nell’economia mondiale capitalista, nonostante tutti i meccanismi politici “di recupero” che esistono all’interno del sistema. Ecco perché i profeti della rovina vanno ricercati non tra le forze alternative, quanto piuttosto tra i difensori del sistema. L’importanza dei movimenti alternativi non sta nelle riforme ottenute o nei regimi instaurati: molti di questi regimi sono infatti parodie dei loro obiettivi dichiarati. L’importanza di questi movimenti è valutabile sulla base dei cambiamenti da essi introdotti nel sistema mondiale complessivo. Essi trasformano in primo luogo non il sistema economico, quanto piuttosto il sistema politico dell’economia mondiale capitalista.

Unito alle tendenze più strettamente socioeconomiche precedentemente descritte, questo aumento secolare della forza dei movimenti alternativi mina alla base l’esistenza stessa del sistema mondiale.

Alla luce di questa analisi, diamo uno sguardo alla situazione attuale. In tutto il mondo il punto di svolta verso il basso del ciclo di Kondratieff nel secondo dopoguerra fu o nel 1967 o nel 1973 (è difficile stabilirlo ad una così breve distanza storica). Se lo fissiamo al 1967, cosa che al momento mi pare più plausibile, possiamo analizzare l’accentuazione della lotta di classe a livello mondiale avutasi nei primissimi tempi di questa fase B. L’instabilità dei mercati mondiali, relativa mente ai prodotti dei Paesi, al centro (dal mo mento che questi prodotti erano essenzialmente in eccesso rispetto alla domanda iniziale) fu segnalata dalla fine del periodo in cui il dollaro Usa teneva ancorato il sistema moneta rio mondiale.

In tutto il mondo e in varie forme, venne a prodursi una stretta sulla spesa sociale complessiva che si riflesse sia sui modelli di consumo familiari che nelle “crisi fiscali” de gli stati e di altre collettività.

Il fermento sociale si fece subito evidente. In Cina vi fu un violento conflitto interno noto come Rivoluzione Culturale.

In Cecoslovacchia, un movimento sociale sorto all’interno del partito comunista portò alle riforme di Dubček comportarono trasformazioni non solo a livello interno, ma nell’intero rapporto tra gli stati dell’Europa occidentale e la Russia.

Ad Ovest, il 1968/1969 segnò il culmine delle rivolte antiautoritarie degli studenti e dei lavoratori, che in molti Paesi si unì all’intensificazione delle richieste politiche dei movimenti etno-nazionalisti al loro interno ed a un nuovo “nazionalismo” nel movimento sociale (es. l’eurocomunismo).

L’indebolimento della solvibilità finanziaria e della stabilità politica degli stati del centro fece sì che gli Stati Uniti non poterono più offrire un’efficace opposizione, nell’Asia sud-orientale (ed allo stesso modo il Portogallo per quanto riguarda l’Africa), alla lotta tenace dei movimenti nazionalisti in queste aree.

Nel 1973 gli stati produttori di petrolio approfittarono della mutata situazione economica mondiale per incrementare nettamente il prezzo di questo loro prodotto così determinante.

Il risultato, naturalmente, fu non solo la riallocazione del sovrappiù mondiale, ma anche il porre vincoli alla produzione mondiale. (È per questo motivo che l’opposizione politica all’Opec negli stati del centro è stata solo simbolica).

In un certo numero di aree periferiche, la stretta economica mondiale fu avvertita sotto forma di gravi carestie che svuotarono al cune zone rurali dei produttori, costringendo molti dei sopravvissuti ad un’esistenza emarginata nelle aree urbane. (Ciò significa anche una riduzione della produzione agricola mondiale, a vantaggio dei settori produttivi e commerciali agricoli di alcune zone del centro).

Questa prima esplosione delle lotte politiche durante l’attuale stagnazione mondiale sembra essere stato bloccato: il rovesciamento della Rivoluzione Culturale, l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, la soppressione dei vari cosiddetti movimenti radicali nel Nord America e nell’Europa Occidentale, le “guerre socialiste” nell’Asia sud-orientale, le spinte per “regolamenti interni” nell’Africa meridionale, il riciclaggio dei petrodollari Opec. D’altro canto questa fase B è lungi dall’essere finita. Ci si possono ancora attendere, per tutti gli anni ‘80, tassi di disoccupazione relativamente elevati, ulteriori crisi fiscali e forse anche un sensibile crollo dei prezzi.

Uno Stato in cui è probabile un nuovo, profondo fermento sociale sono gli Stati Uni ti, i quali dovranno attraversare una fase di estesa riallocazione dei redditi, come conseguenza del loro parziale declino rispetto ad altri stati centrali.

Ne risulteranno probabilmente violente lotte di classe che si incentreranno sulle richieste dei negri e delle popolazioni di lingua spagnola. Questo sarà vero soprattutto se gli Stati Uniti aumenteranno il sostegno agli interessi degli insediamenti bianchi in Sud Africa. Po tremo forse assistere ad analoghe violente lotte in Urss.

La necessità di mantenere le restrizioni sui salari affinchè i prodotti sovietici siano competitivi sul mercato mondiale può portare allo spostamento delle popolazioni musulmano asiatiche verso le zone industriali ed accentuare così in pratica la stratificazione e etnica e di classe, che a sua volta potrà far sì che, negli anni a venire, le tensioni di classe in tali zone, analogamente a quanto avviene negli Usa, assumano una connotazione etnica.

Nelle numerose zone semiperiferiche del mondo, le pressioni interne create dal desiderio di ciascuna di esse di beneficiare della fase congiunturale porteranno molte di esse ad esplosioni interne. Ove si manifesteranno, esse elimineranno certamente quel particolare stato dalla competizione che gli stati periferici stanno conducendo l’uno contro l’altro e in cui vi possono essere sostanzialmente solo uno o due vincitori.

In Iran vi è stata la prima di queste esplosioni, ma altre simili nella pratica se non nella forma non sono da escludere in zone tanto diverse come Cina, India, Sud Africa, Brasile.

Infine, stiamo assistendo ad un profondo rimescolamento del sistema internazionale. Il riavvicinamento della Cina agli Stati Uni ti e, fatto ancor più significativo, al Giappone, può darsi che sia affiancato, negli anni a venire, da una revisione delle alleanze altrettanto spettacolare. Non escluderei a priori, per esempio, un’intesa russo-tedesca. Da ultimo, mi aspetto che l’economia mondiale intraprenda ancora un’altra fase ascendente negli anni ‘90. Il risultato degli sconvolgimenti e dei riallineamenti sarà infatti quello di aumentare la domanda mondiale ad un livello sufficientemente alto da stimolare un’ulteriore espansione della produzione mondiale. Vi sa ranno probabilmente significative innovazioni tecnologiche che permetteranno un risparmio nei costi e che saranno probabilmente concentrate sul fabbisogno energetico. Vi sarà un’t tenore significativa “proletarizzazione”, derivante da un lato dall’impatto causato dallo spostamento delle imprese industriali “tradizionali” nelle zone semiperiferiche e dall’altra dal rafforzamento delle strutture familiari dipendenti da reddito salariale nelle zone del centro.

Questo nuovo cambiamento delle strutture familiari centrali sarà determinato da un’enorme crescita del settore terziario, dal continuo ingresso delle donne nella forza lavoro salariata a tempo pieno e dalla ridefinizione dei ruoli sociali perseguita dai movimenti contro la discriminazione sessuale e razziale. Entreremo probabilmente nell’anno 2000 tra i rinnovati osanna degli ottimisti che prevedono un roseo futuro per il capitalismo. Questo vale soprattutto se sopravviveremo ai critici anni ‘80 senza alcun grave conflitto internazionale.

Ad un livello ancora più profondo, sia le contraddizioni strutturali del capitalismo che i movimenti alternativi che esso ha alimentato con tale energia continueranno a far fuori le viscere del sistema. impossibile anticipa re i dettagli, ma l’idea di massima è chiara: viviamo nella transizione storica mondiale dal capitalismo al socialismo. Ci vorranno indubbiamente ancora 100-150 anni per il suo completamento, e naturalmente le conseguenze non sono inevitabili. Il sistema potrà ancora attraversare diversi periodi di cammino all’indietro. Potranno di nuovo arrivare momenti in cui il capitalismo sembrerà fiorente, ma confrontando i cicli di vita dei sistemi sociali, il sistema mondiale moderno sembra trovarsi in una fase avanzata. Ciò che lo sostituirà non sarà certamente l’utopia, ma con la fine di questa particolare aberrazione morale che il capitalismo ha rappresentato, un sistema in cui i vantaggi per alcuni sono andati di pari passo con uno sfruttamento dei molti, in misura maggiore rispetto a tutti i sistemi sociali precedenti, la lenta costruzione di un mondo relativamente libero ed egualitario potrà infine iniziare. Così mi sembra, e solo questo può probabilmente permettere a ciascun individuo e all’umanità intera di realizzare le loro potenzialità.

NOTE


[1] Estratto da AZIMUT n° 26 rivista bimestrale di economia politica e cultura – novembre-dicembre 1986.. Tratto da A. Hopkins - I. Wallerstein, Process of the World-System, Sage Publications, New York. (Traduzione di Cristina Pinardi)