LO STATO DELLA GLOBALIZZAZIONE:
VERSO UNA TEORIA DELLA TRASFORMAZIONE DELLO STATO

di Martin Shaw
(Università del Sussex)

in "Rewiev of International Political Economy" 4:3, Autumn 1997
estratto dal sito: www.intermarx.com/temi/temi.html

Questo articolo tratta la teoria dello stato nelle condizioni della globalizzazione. Si basa sull'idea che la globalizzazione sia molto più della liberalizzazione del mercato dell'ultimo quarto del ventesimo secolo e dei cambiamenti ad essa associati, nonostante l'importanza di questa nuova fase. Si assume qui che la globalizzazione non sia semplicemente o principalmente un fenomeno economico o storicamente recente, anzi che non si tratti affatto di un singolo processo. Esso può venire definito un insieme complesso di processi distinti ma correlati - economici, culturali, sociali e anche politici e militari - attraverso i quali i rapporti sociali si sono sviluppati sempre più su scala globale e con un'estensione globale, durante un lungo periodo storico. La globalizzazione si è andata sviluppando per alcuni secoli, nel senso che quello che Mann chiama il processo di civilizzazione originatosi in Europa ad opera di vari centri di potere occidentali[1] è arrivata a dominare più o meno tutto il mondo. La globalizzazione in questo senso include lo sviluppo di forme sia regionali e transnazionali che esplicitamente globali.

Anche l'attuale fase della globalizzazione, che si è compreso essere dominata da processi economici, ha molte radici in complesse trasformazioni politiche, militari e ideologiche. Il collasso del comunismo e la fine della guerra fredda non solo hanno simbolizzato e drammatizzato i cambiamenti socio-economici e culturali oggi in corso, ma devono avere un posto di primo piano in ogni spiegazione dell'attuale fase della globalizzazione. Questo articolo sfida il punto di vista convenzionale secondo il quale le recenti tendenze nella globalizzazione sono state guidate da processi economici, sociali e culturali, e ne propone una spiegazione storica sia politica che militare.

Se consideriamo la globalizzazione da questo punto di vista, cambierà anche il nostro modo di intenderla nel suo rapporto con lo stato. Questo articolo sostiene che è completamente errato contrapporre la globalizzazione allo stato, così come avviene in molti dibattiti sempre più sterili nell'ambito delle scienze sociali. La globalizzazione non mina lo stato, ma include la trasformazione delle forme di stato su cui si fonda o che essa stessa produce. La falsa contrapposizione fra stato e globalizzazione dipende dal fatto che la discussione si basa su teorie inadeguate dello stato, come cercheremo di dimostrare. Questo articolo è perciò diviso in due parti: prima di tutto cerco di individuare lo stato contemporaneo, quindi cerca di spiegarlo in termini di teoria dello stato.

1. Qual è lo stato della globalizzazione?

Una grande quantità di studi presume di sapere quale sia lo stato contemporaneo: lo stato-nazione in un sistema di stati-nazione. In realtà proprio perché gli stati non sono stati sempre stati-nazione, così le loro trasformazioni in tempi recenti hanno prodotto forme di stato che vanno ben al di là dello stato-nazione classicamente inteso. Così l'errore di fondo nei dibattiti sulla globalizzazione, che questo articolo cerca di correggere, è l'identificazione dello stato moderno con lo stato-nazione.

In contrapposizione alla grande quantità di studi che danno per scontata tale identità, si può mostrare abbastanza facilmente che anche nel momento più alto dello stato-nazione classico, nella prima metà del ventesimo secolo, la stato era ben lontano dal corrispondere a questo modello ideale. La forma prevalente di stato dal diciottesimo secolo a metà del ventesimo era l'impero europeo - cioè un impero globale o regionale centrato su varie forme di stato locale nelle zone europee centrali del capitalismo mondiale - piuttosto che lo stato-nazione in genere.

Dalle prime fasi della globalizzazione - dal XV secolo in poi - la crescita dell'influenza europea comportò la proiezione globale del potere europeo sia sotto il profilo militare e politico che quello economico e culturale. I primi tipici stati imperiali come la Spagna e il Portogallo non erano stati-nazione nel senso moderno del termine. E' vero che le successive fasi della globalizzazione, specialmente dalla fine del diciannovesimo all' inizio del ventesimo secolo, accentuarono il carattere nazionale degli stati imperiali europei. Considerando comunque l'esempio dell'impero britannico, il più grande dell'ultimo periodo, si rileva che era uno stato molto complesso che smentisce completamente qualunque semplice idea di stato-nazione sia dal punto di vista dell'unità nazionale che di quella politica. Lo stato imperiale britannico si basava sull'integrazione nello stato-nazione "britannico" nato dopo l'Unione del 1707 delle nazioni interne alle isole britanniche (particolarmente gli inglesi e gli scozzesi, benché avessero ruoli importanti anche gli irlandesi, sia protestanti che cattolici, e i gallesi). Incluse però anche una molteplicità di protonazioni, sia colonizzatrici sia colonizzate, che vennero a far parte della nazionalità britannica a differenti livelli. Lo stato imperiale era anche una struttura estremamente complessa in cui si sviluppava una grande gamma di istituzioni locali con un'autonomia ampia, ma molto variabile.

Solo con il crollo dello stato imperiale europeo durante il ventesimo secolo, lo "stato-nazione" è diventato una forma politica più o meno universale, che si è estesa prima al resto d'Europa, poi a quello che divenne noto come "Terzo Mondo" e infine ai resti dell'Unione Sovietica. Valutazioni di questo processo non riescono tuttavia a cogliere il fatto che mentre la forma dello stato-nazione diventava sempre più universale, veniva anche privata delle caratteristiche chiave della potenza statale autonoma.

In quella che forse è la definizione classica dello stato moderno, Max Weber specifica che: "Un'organizzazione politica di dominio, capace di operare in maniera continuativa, può essere chiamata 'stato' se il suo apparato amministrativo rivendica con successo il monopolio dell'uso legittimo della forza per imporre il proprio ordine"[2]. Seguendolo, Anthony Giddens definisce il moderno stato-nazione come "un contenitore di potere confinato"[3]. I confini degli stati non sono semplici divisioni amministrative ma, almeno potenzialmente, linee lungo cui può emergere la violenza. Gli stati sono tipicamente centri autonomi di potere politico-militare i cui conflitti possono evolvere in forme violente.

Se accettiamo questo come un carattere essenziale dello stato, lo stato-nazione imperiale prevalente del diciannovesimo e inizio ventesimo secolo - che era anche il classico stato militaristico - può dirsi "stato" a pieno titolo. Comunque la maggior parte degli "stati-nazione" contemporanei (intendendo il periodo successivo al 1945, in cui il numero degli "stati nazione" si è drammaticamente moltiplicato) possono difficilmente essere considerati stati in questo senso. Moltissimi sono piccoli, deboli, con problematica coesione nazionale e soprattutto minime capacità di ricorrere alla violenza e una limitata autonomia in ogni senso. All'altro estremo, anche molti dei più forti stati-nazione hanno perso o rinunciato alla capacità di ricorrere unilateralmente alla violenza, senza i loro alleati. I confini fra questi stati - all'interno dell'Alleanza nord atlantica, l'Unione europea e più ampiamente e imprecisamente in seno al blocco degli stati occidentali - non sono più confini di violenza.

Il paradosso è perciò che mentre attualmente la forma dello stato-nazione è diventata universale, la maggior parte degli stati-nazione non sono più autonomi in senso classico. La più recente fase della globalizzazione, nella seconda metà del ventesimo secolo, ha certamente implicato un declino dell'autonomia degli stati-nazione, come teorie semplicistiche della globalizzazione sottolineano. Ma questa autonomia è stata minata principalmente dai risultati delle proiezioni del potere militare degli stessi stati-nazione, piuttosto che dalla globalizzazione economica o anche culturale e sociale.

L'inizio della fine per gli stati-nazione è stata in realtà la Seconda Guerra Mondiale. La vittoria delle "superpotenze"- una nuova potenza mondiale, gli Stati Uniti, e una potenza regionale, l'Unione Sovietica - ha determinato la caduta non solo degli Imperi europei, ma dello stesso stato-nazione. Anche i più grandi stati-nazione imperiali, Gran Bretagna e Francia, sono sopravvissuti o sono stati restaurati come ombre di quel che erano stati in passato, per concessione della nuova potenza mondiale e con una reale perdita di autonomia politico-militare. Stati sconfitti come la Germania o il Giappone sono stati ricostruiti dai vincitori. Gli stati occidentali minori cedettero tutta l'autonomia politico-militare, riunendo i loro poteri sovrani in seno alle nuove istituzioni del blocco occidentale. Certamente, alcuni processi della globalizzazione economica negli ultimi decenni hanno reso più problematica la loro capacità di gestire l'economia, ma lo "stato-nazione" già non era più veramente tale.

E' stata la guerra, dunque, non la globalizzazione nella sua più recente fase di liberalizzazione economica, a sconfiggere lo stato-nazione classico. Ma se esso è stato superato, qual è stata la forma di stato prevalente negli ultimi cinquant'anni? Possiamo definirla il blocco di più stati, di cui sono esempi sia quello occidentale che quello sovietico. Nel caso sovietico, tuttavia, gli "stati-nazione" subordinati erano poco più che "satelliti". La natura coatta del blocco - sia a livello interstatale che sociale - ha significato che la sua coesione interna era tanto debole da poter essere difficilmente considerata uno stabile esempio di una nuova forma di stato. Il blocco ha incominciato a incrinarsi non appena sorto, alla fine degli anni '40: la violenza fra gli stati comunisti si profilò fin dalla separazione nel 1949 fra Stalin e la Jugoslavia di Tito, e scoppiò nella Germania dell'Est le settimane subito successive alla morte di Stalin nel 1953. Nei tardi anni '50 c'è stata una divisione fra le due più grandi potenze comuniste, l'Unione Sovietica e la Cina, le cui frontiere erano irte di armamenti militari e tensione intermittente. Più tardi queste tensioni sfociarono in una guerra fra la Cambogia e la Cina che l'assisteva, da una parte, e il Vietnam, assistito dall'URSS. Dalle rivoluzioni del 1956 in Ungheria e in Polonia fino alla "Primavera di Praga" del 1968 e al movimento polacco di Solidarnosc degli anni '80, un succedersi di rivolte ha costantemente minacciato la stabilità del blocco.

Il blocco occidentale, invece, si è sviluppato nell'ultima metà del secolo su una linea di crescente integrazione. Nonostante indubbie rivalità economiche e tensioni politiche fra i gruppi dirigenti dei vari paesi e profondi conflitti sociali, ciò non è mai sfociato in una seria forma di violenza. La coesione e la stabilità del blocco degli stati occidentali è stata problematica sia all'interno, nei rapporti fra i singoli stati e nelle loro relazioni con la società, sia all'esterno, nelle relazioni con gli altri centri di potere statale. Ma la sua coesione si è sviluppata e la sua stabilità è stata governata, complessivamente, con discreto successo.

Lo stato occidentale, come propongo di definirlo, si è sviluppato in un agglomerato di potere statale massiccio, istituzionalmente complesso e disordinato, concentrato nel Nord America, nell'Europa occidentale, nel Giappone e nell'Australasia, ma il suo ordine si è esteso durante la Guerra Fredda anche all'America Latina, a parti del Medio Oriente e dell'Asia, a molta parte dell'Africa assumendo per molti aspetti una portata autenticamente globale. Lo stato occidentale può essere definito come un singolo conglomerato statale perché all'interno di questo blocco i confini della violenza sono stati largamente aboliti e sono stati spostati alle sue frontiere. Durante la Guerra Fredda, è sorto un confine militarizzato altamente pericoloso con il blocco sovietico, e al di fuori dei blocchi c'erano confini con i vecchi stati-nazione, mentre movimenti di rivolta aprivano nuovi confini di violenza al loro interno.

Era comodo per alcuni critici descrivere lo stato occidentale come un impero mondiale degli Stati Uniti, e così poteva apparire negli anni '50 e '60 quando la potenza USA era al suo apice. Ma l'egemonia statunitense, nel suo relativo declino, non è stata rimpiazzata da un vuoto egemonico bensì dall'egemonia dell'intero occidente. Mano a mano che gli Stati Uniti agiscono al di fuori della loro leadership politico-militare sul blocco occidentale, diventa sempre più chiaro - nonostante le proteste dei nazionalisti negli Stati Uniti - che il loro stato è inserito in un blocco di istituzioni occidentali e globali. La relativa importanza sia di altri centri nazionali di potere e delle stesse istituzioni multinazionali e globali è cresciuta nel corso dell'ultima metà del secolo e con loro l'interdipendenza e la legittimità dell'intero conglomerato.

Con la fine della Guerra Fredda, ulteriori cambiamenti nei confini della violenza hanno drammaticamente mutato il ruolo dello stato occidentale così come le altre forme di stato. I confini fra l'Occidente e i nuovi stati emergenti dall'ex blocco sovietico sono diventati altamente permeabili. Su scala mondiale, l'area pacificata è diventata molto estesa, nonostante nuovi confini di violenza si siano sviluppati all'interno dei vecchi cosiddetti stati-nazione (molti di questi come l'Unione Sovietica e la Jugoslavia erano in realtà stati multinazionali; altri come molti stati post-coloniali in Africa avevano un carattere assai poco autenticamente nazionale). Precedenti strutture amministrative sono diventati centri organizzativi di conflitti violenti, mentre nuovi confini caotici sono stati creati attraverso villaggi e città, separando vecchi vicini.

In tale contesto, il ruolo globale dello stato occidentale ha subito ulteriori importanti trasformazioni. In primo luogo, con la caduta del blocco e dello stato sovietico, lo stato occidentale è [diventato] l'unico centro globale e ha potuto utilizzare istituzioni globali riconosciute, particolarmente l'Onu, a sostegno della propria proiezione globale di potenza. In secondo luogo il ruolo politico-militare primario dello stato occidentale è cambiato dalla rivalità con un centro mondiale simile, se non più debole, alla gestione delle nuove spaccature di stati e società per limitare i danni al sistema statale e anche - spesso sotto la pressione dei media e della società civile - i danni sociali derivanti da nuove guerre e nuovi confini.

La globalizzazione della potenza statale occidentale è così entrata in una nuova fase. Paradossalmente essa si sta evolvendo nonostante l'assenza di una chiara volontà politica da parte dei leader occidentali di trasformare le loro istituzioni statali in chiari meccanismi di gestione e leadership globale. Certamente i leader occidentali hanno sviluppato una crescente retorica della responsabilità globale, ma c'è una grande riluttanza a impegnare reali risorse e idee nella creazione di istituzioni globali o di forme di cambiamenti sociali mondiali che potrebbero garantire una maggiore stabilità. L'intervento statale globale si sviluppa, comunque, nonostante ogni direttiva consapevole in questo senso da parte dei gruppi dirigenti, come risultato di pressioni esercitate da una larga varietà di forze.

Queste sono le condizioni che hanno permesso alla gran parte dello spazio globale, diviso nella prima fase della globalizzazione dagli imperi mondiali in competizione, stati-nazione e blocchi, di diventare uno spazio politico sempre più integrato. La sua unificazione è il risultato di un graduale processo durato alcuni decenni che ha portato alla istituzionalizzazione di forme e standard comuni e allo sviluppo di istituzioni internazionali. Non è difficile vedere, comunque, che l'unificazione politico-militare della maggior parte del mondo - il centro occidentale dominante del capitalismo mondiale insieme a gran parte della sua periferia, il cosiddetto "Terzo Mondo" - ha avuto una grande importanza per il processo di globalizzazione economica e culturale. Lo stato occidentale sviluppatosi attraverso la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda era la struttura politico-militare entro cui si è sviluppata la globalizzazione (nel senso della recente liberalizzazione economica).

Il 1945 - considerato come la fine della Seconda Guerra Mondiale e l'inizio della Guerra Fredda - è stato perciò il più importante punto di svolta nella storia della globalizzazione. Il gufo di Minerva vola al tramonto, ed è solo alla fine della Guerra Fredda che possiamo apprezzare il significato delle trasformazioni storiche che ha comportato. Il manifesto pericolo di un annientamento nucleare e la formale parità degli armamenti ha a lungo mascherato il latente sviluppo di un ordine globale dominato dall'occidente. L'importanza del 1945 nel condurre a una profonda riorganizzazione dello spazio globale politico-militare e perciò anche socioeconomico e culturale è pienamente visibile solo oggi.

Dopo il 1989 è possibile cominciare a vedere lo stato occidentale come una forma globaledi potenza statale. I cambiamenti politico-militari che ne sono risultati hanno comportato importanti processi di globalizzazione e hanno facilitato l'estendersi dei processi di globalizzazione su più vasta scala. Benché la Cortina di Ferro fosse già ampiamente permeabile, la sua rimozione ha posto fine alla divisione politico-militare dello spazio globale in due campi e ha aperto assai più ampiamente l'Est all'incorporazione nei processi di globalizzazione di ogni tipo.

2. Teorizzando l'emergente stato globale

Come possiamo comprendere le emergenti forme di stato globale centrate sul conglomerato dello stato occidentale? Finora, la teoria [dello stato] tendeva a considerare il contesto globale della potenza statale in uno di due modi limitati, che sottintendono entrambi la vecchia identità dello stato come stato-nazione. Da un lato, le proiezioni mondiali della potenza statale vengono classificate come "internazionali", il che assume il nazionale come unità fondamentale di analisi. Lo studio delle organizzazioni e dei sistemi internazionali, per esempio, le considera estensioni dello stato-nazione.

Dall'altro lato ci sono nuovi studi, generalmente più radicali, che vanno oltre le politiche che dall'internazionale vanno verso il globale, ma ritengono che la globalizzazione riduce l'elemento statale della governance. Le analisi della "governance senza governo"[4], in un "ordine mondiale post-statale"[5], si focalizzano su come oggi la regolazione si esercita attraverso le organizzazioni internazionali e la società civile così come attraverso gli stati-nazione. Mentre tali analisi colgono correttamente il fatto che la governance oggi comprende qualcosa di più dello stato-nazione, esse implicano erroneamente che ciò debba condurci a sostituire una prospettiva "statale" con una prospettiva di governance [senza stato]. Concludere dal relativo declino o superamento dello stato-nazione che lo stato in quanto tale è diventato meno importante vuol dire non capire il contesto centrale della globalizzazione discusso nella prima metà di questo articolo.

Ho spiegato prima che la forma di stato contemporaneo pevalente a livello globale deve essere considerato il conglomerato dello stato occidentale, che sta assumendo una sempre maggiore potere globale e legittimazione nel mondo del dopo guerra fredda. In modo forse provocatorio potrei andare oltre e sostenere che dobbiamo considerare tale forma di stato come uno stato globale emergente. Esso è indubbiamente frammentario e forse instabile ma costituisce, comunque, un complesso più o meno coerente di istituzioni statali con un qualche potere globale e legittimazione e funziona come uno stato nel regolare economia, società e politica su scala globale.

Una grande quantità di studi oggi riconosce la globalizzazione in senso economico, sociale e culturale, e con essa la "società globale".[6] Perché allora è così impensabile guardare alla globalizzazione del potere politico e militare e con essa allo stato globale? Il concetto è certamente insolito, ma molta di questa difficoltà dipende dal fatto che la cultura delle scienze sociali è impregnata dell'idea dello stato come stato-nazione centralizzato. In questo contesto uno stato globale può essere compreso solo in termini di "governo mondiale", che ovviamente non esiste né è probabile che esista. Qui si usa invece il termine in un modo piuttosto differente, come cerco di spiegare e motivare in seguito.

Un motivo che rende difficile cogliere gli sviluppi di uno stato globale è che essi si manifestano in forme complesse, in rapido mutamento e spesso molto contrastanti, tendono a evidenziare aspetti diversi di questi sviluppi. Marxisti e terzomondisti, per esempio, hanno visto nella guerra del Golfo una manifestazione dell'"imperialismo", finalizzata al controllo strategico del petrolio. In contrapposizione, l'azione militare occidentale per proteggere i rifugiati curdi, dopo la guerra, è stata considerata da molti studiosi delle Relazioni Internazionali una nuova forma di "intervento umanitario".

Questi e altri paradigmi competono fra loro nel tentativo di proporre una rappresentazione semplificata della potenza statale globale. In realtà, comunque, la potenza statale globale si cristallizza come "imperialista" e come "umanitaria" e in altre forme. La spiegazione di Mann secondo cui gli stati implicano "cristallizzazioni polimorfe" e che differenti cristallizzazioni dominano differenti istituzioni, è particolarmente importante in questo caso.[7] Egli fa l'esempio dello stato USA, che si cristallizza "una settimana come conservatore-patriarcale quando limita il diritto d'aborto, la settmana dopo come capitalista, quando controlla lo scandalo bancario dei crediti e dei risparmi, quella successiva come superpotenza, quando invia all'estero l'esercito per interessi diversi da quelli economici nazionali. Queste varie cristallizzazioni sono raramente in armonia o in opposizione dialettica l'una con l'altra, di solito sono semplicemente differenti. Mobilitano reti di potere diverse, anche se sovrapposte e intersecanti".[8]

Dobbiamo estendere questa analisi per comprendere l'emergente stato globale. Nella guerra in Iraq nel 1991, la potenza statale occidentale e globale si è cristallizzata come "imperialista" che "umanitaria", così come in altre forme, a seconda dei vari stadi della crisi[9]. All'interno di questo tipo di crisi globale, lo stato USA si è cristallizzato a volte come stato-nazione, altre come centro dello stato occidentale, altre ancora come centro della potenza statale globale. Senza capire questa diversità, cadremmo nell'unilateralità o in una confusione assoluta e non riusciremmo a cogliere i cambiamenti politici planetari.

Per poter comprendere lo stato globale che si cristallizza in queste diverse forme, dobbiamo prima di tutto definire lo stato. In particolare bisogna spiegare l'importanza che continua ad avere il potere politico-militare come criterio primario per l'esistenza di "uno stato". Molte discussioni sugli stati nelle scienze sociali hanno implicato uno slittamento da una definizione centrata sul militare a una definizione basata sul ruolo economico o giuridico. E' per questo slittamento che molti hanno concluso che lo stato è indebolito dalla globalizzazione. Io parto invece dal presupposto che la classica definizione [dello stato come centro] politico-militare sia ancora rilevante: che le relazioni militari continuino a definire le relazioni fra gli stati e quindi i parametri delle relazioni globali di potere.

Per capire cos'è uno stato - e viceversa quando uno stato non è uno stato - ritorno alla definizione di Weber citata sopra, che si centra sul monopolio della violenza legittima in un dato territorio. Prima del 1945, i capi di stato (e altri) spesso hanno agito come se la definizione di Weber fosse vera e infatti mantenevano il monopolio della violenza legittima. In un mondo di stati-nazione, la delimitazione di uno stato dall'altro era il modo potenziale per lo scatenarsi della violenza fra loro. Ma che cosa succede, come ci siano già chiesti, fra gli stati e della nostra concezione dello stato, quando questo potenziale viene rimosso, come è accaduto dal 1945 fra gli stati occidentali - e molto più probabilmente dal 1989 fra gli stati occidentali e la Russia?

Il più importante cambiamento è che il controllo della violenza sta cessando di essere diviso verticalmente fra i diversi stati-nazione e imperi. Invece, è stato diviso orizzontalmente fra i differenti livelli di potere, ognuno dei quali rivendica qualche legittimità e così frammenta la natura dello "stato". Da un lato, c'è l'internazionalizzazione della forza legittima. Dall'altro ci sono i processi di "privatizzazione" (o "riprivatizzazione") della forza, sempre più discussi negli anni '90, in base ai quali individui, gruppi sociali e attori non statali usano sempre più largamente la forza e rivendicano la legittimità del suo uso. Nello stesso tempo, alcuni stati-nazione per lo meno mantengono parte del loro classico controllo della violenza.

Questa situazione richiede una revisione della definizione di Weber. Fortunatamente Mann, nel suo studio degli stati del diciannovesimo secolo, ci ha già proposto una definizione più ampia. Secondo lui lo stato

(1) è una struttura differenziata di istituzioni e di funzionari

(2) incarna la centralità, nel senso che le relazioni politiche si irradiano verso e da un centro, per coprire una

(3) area demarcata territorialmente sulla quale esercita

(4) alcuni gradi di legiferazione autoritaria e vincolante, sostenuta da alcune forze politiche organizzate.[10]

Come Mann mostra, questa è una definizione istituzionale piuttosto che funzionale ed essa abbandona, cosa cruciale ai nostri fini, l'idea di un monopolio della forza legittima. Uno stato, suggerisce Mann, include semplicemente "alcuni gradi di legiferazione autoritaria" e "alcune forze politiche organizzate".

Questa definizione si adatta particolarmente alle forme di potere statale complesse e sovrapposte che esistono nel tardo ventesimo secolo nelle condizioni della globalizzazione. Proprio basandomi sui criteri proposti da Mann, ritengo che l'emergente stato globale possa essere considerato uno stato e che si debba aggiungere un quinto criterio se vogliamo spiegare il sovrapporsi di differenti livelli della potenza statale.

Gli stati, secondo il primo criterio esposto da Mann, implicano "una struttura differenziata di istituzioni e di personale": differenziato, intende dire, in rapporto alla società. La parola importante qui è "struttura". Mann chiarisce che gli stati non sono necessariamente istituzioni omogenee e strettamente integrate, ma consistono in apparati più o meno divisi e spesso disgiunti. "Sotto il microscopio gli stati si 'balcanizzano'", spiega, citando la chiara formula di Abram secondo cui "Lo stato è il simbolo unificato di una reale disunità".[11] Mann afferma che "Come i teorici del fallimento e del disordine, io credo che gli stati siano più confusi e meno sistematici e unitari di quello che ogni singola teoria spieghi".[12] L'idea che gli stati siano "confusioni" istituzionali piuttosto che strutture omogenee del tipo ideale è di centrale importanza per la comprensione dello stato globale.

Proprio come l'emergente società globale è tipica per la sua caratteristica di "includere" un gran numero di società nazionali, così per lo stato globale è insolito "includere" un gran numero di stati-nazione. Tuttavia, questa non è una situazione completamente senza precedenti. Gli stati multinazionali non sempre prendono le forme relativamente pulite del Regno Unito o (in un senso differente) dell'ex Unione Sovietica. Lo stesso Mann analizza le forme altamente complesse (e, da un punto di visto idealtipico, del tutto anomale) dell'impero Austro-Ungarico. Lo stato globale centrato nell'occidente, comunque, è un'aggregazione di istituzioni di un genere e su una scala senza precedenti. Se lo esaminiamo in azione, per esempio in Bosnia-Erzegovina, osserviamo una sorprendente pletora di istituzioni statali, occidentali, nazionali (politiche, militari e di welfare), integrate da un altrettanto complesso e sorprendente insieme di organizzazioni della società civile. Come questo esempio sottolinea, lo stato globale è davvero quello che presenta il più grande "disordine istituzionale".

La seconda questione è se lo stato globale corrisponda al secondo criterio di Mann secondo cui lo stato "incarna la centralità, nel senso che le relazioni politiche si irradiano verso e da un centro". Per mettere la questione in un altro modo, quando un disordine istituzionale è tale da non poter essere considerato una unica struttura di istituzioni? In che senso l'Onu, la NATO e le altre organizzazioni internazionali, insieme con gli USA e i vari stati-nazione occidentali, possono ritenersi una unica struttura di istituzioni?

Certamente non c'è un ordine costituzionale chiaro nello stato globale, ma un ordine c'è ed ha elementi di una costituzione. Il centro - Washington piuttosto che New York - sembra chiaro e il fatto che i rapporti politici si irradiino verso e da questo centro è confermato da tutte le serie crisi mondiali del periodo post-1989, dal Kuwait a Dayton. Ciò è confermato dalla costante centralità degli USA nel controllo della guerra e di tutti i più importanti tentativi di trovare "risoluzioni pacifiche" dal Medio Oriente alla Jugoslavia, al Sud Africa e anche all'Irlanda del Nord.

In questa situazione si notano due apparenti anomalie, che spiegano probabilmente buona parte della confusione teorica al riguardo. La prima è data dal fatto che il centro dello stato globale occidentale ed emergente è costituito primariamente dal centro di uno stato-nazione, gli USA. In secondo luogo, le relazioni politiche si irradiano verso e da questo centro attraverso differenti strutture istituzionali. Ci sono le stesse Nazioni Unite, che conferiscono legittimità globale allo stato USA (e in cui tale stato ha un ruolo costituzionale come membro permanente del Consiglio di Sicurezza e un ruolo de facto che va ben oltre). C'è la NATO, sempre più confermata come l'organizzazione effettiva del potere militare occidentale su scala sia globale che locale. Ci sono le numerose organizzazioni mondiali economiche guidate dall'Occidente, dall'esclusivo G7 al più ampio OCSE, al sempre più globale WTO. E, ultimo ma non ultimo, ci sono le relazioni bilaterali degli USA virtualmente con tutti gli altri stati-nazione.

Tuttavia tutti questi sistemi si sovrappongono, e il punto cruciale è dato dal fatto che il ruolo dell'amministrazione statunitense in ciascuno di essi è determinato non solo dai suoi interessi "nazionali" ma dalle esigenze di leadership globale. Certamente, anche altri stati-nazione, specialmente il Regno Unito e la Francia ma in modi diversi la Germania e il Giappone e anche la Russia e la Cina, così come organizzazioni regionali, in particolare l'UE, hanno ruoli molto importanti nello sviluppo dello stato globale. La sua struttura interna è incerta e in evoluzione. I ruoli dei vari stati e le reti di potere sono tutti contrastati, problematici e in cambiamento e, nei casi russo e cinese, specialmente instabili. Tuttavia il loro sviluppo è governato non solo dall'azione reciproca degli interessi nazionali ma dalle richieste della gestione della politica e della economia mondiale.

Anche il terzo criterio di Mann, che uno stato possiede "un'area demarcata territorialmente" sulla quale esercita un qualche grado di legiferazione autoritaria e vincolante, sostenuta da alcune forze politiche organizzate, è ovviamente problematico, ma non mi sembra che porti a negare il concetto di uno stato globale. L'area demarcata territorialmente dalle reti dei sistemi globali interdipendenti è, in linea di principio, il mondo. Il fatto che altre organizzazioni statali rivendichino giurisdizioni territoriali minori, regionali nel caso dell'UE, nazionali nel caso degli stati-nazione, sub-nazionali nel caso di autorità locali statali, non vi contraddice. L'idea di giurisdizioni territoriali sovrapposte non è nuova pur avendo un particolare rilievo oggi. C'è una sistematica condivisione di sovranità che sta relativizzando la precedentemente unica sovranità dello stato-nazione.

Questo ci porta al quarto criterio di Mann, l'esistenza di "alcuni gradi di legiferazione autoritaria, vincolante" sostenuta da "alcune forze politiche organizzate". La legiferazione globale autoritaria attualmente assume molte forme diverse. Ci sono le disposizioni istituzionali che legano fra di loro gli stati nelle varie organizzazioni interstatali, così che regolano la struttura interna dello stato globale e i ruoli degli stati-nazione al suo interno. C'è il corpo della legge internazionale che vincola gli individui e le istituzioni della società civile come le istituzioni statali. C'è la l'ampia gamma delle convenzioni e degli accordi internazionali che regolano l'economia mondiale e la società. Questa legiferazione è certamente incompleta e in alcune aree incoerente, ma sta procedendo velocemente. Il "qualche grado" di Mann sembra particolarmente indicato.

La legiferazione dello stato globale chiaramente ha l'appoggio di "alcune forze politiche organizzate": le forze armate di USA, Regno Unito, Francia, in alcuni casi Russia e molti altri stati sono state dispiegate in nome della NATO e dell'ONU. Sempre più anche la legge internazionale sta dotandosi di corti, tribunali, polizia, anche se resta pesantemente dipendente dagli stati-nazione e ha un'applicazione selettiva e una capacità di reale costrizione limitata.

Lo stato globale sembra rispondere alla definizione di stato proposta da Mann. Tuttavia, pur permettendo una concettualizzazione dei vari livelli sovrapposti della potenza statale, non ci dice niente di specifico riguardo alla situazione della sovrapposizione e a come i differenti "stati" si articolano in questo senso. Occorre aggiungere un nuovo criterio:

5. uno stato (particolare) deve essere inclusivo e costitutivo ad un livello significativo di altre forme o livelli di potere statale (ad es. di potere statale in generale in un particolare tempo e spazio).

Questo criterio è essenziale. Chiaramente gli stati-nazione, nel periodo presente, continuano ad essere generalmente inclusivi e costitutivi di forme sub nazionali, sebbene forse meno che nel recente passato (nell'UE, per esempio, stanno costituendo regioni sia dall'Unione Europea che da singole potenze statali nazionali). Anche gli stati-nazione costituiscono in grado considerevole forme di stato regionali e globali, così come (per definizione) internazionali. In contrapposizione, forme di stato locali e regionali all'interno degli stati-nazione sono in genere solo debolmente inclusive o costitutive.

Non è facile determinare l'inclusività e la costitutività delle varie forme di stato transnazionale. Chiaramente le istituzioni statali globali del sistema dell'ONU sono state, in linea di principio, inclusive dell'intera gamma degli stati-nazione, anche se in pratica stati importanti sono stati esclusi o si sono autoesclusi da tutto o parti del sistema. Fino ad oggi, comunque, il sistema dell'ONU è stato solo debolmente costitutivo degli stati-nazione suoi componenti. Lo stato occidentale, d'altra parte, è diventato altamente costitutivo degli stati-nazione suoi membri durante la Guerra Fredda, e in larga parte rimane così. Lo Stato Europeo (l'Unione Europea) ha gradualmente rafforzato sia la sua inclusività che la sua costitutività degli stati-nazione membri - nonostante ciò sia soprattutto oggetto di polemica - ma il suo rapporto con lo stato occidentale transatlantico è problematico.

In base a questo criterio, lo stato globale è evidentemente un livello problematico del potere statale. Per molti aspetti il suo nucleo occidentale rimane più forte della sua stessa forma globale. E' evidente, tuttavia, che lo stato occidentale opera globalmente, in risposta a imperativi globali e al bisogno di legittimazione globale. Lo stato occidentale ha cominciato a essere costituito all'interno di parametri più ampiamente globali piuttosto che strettamente occidentali. Il livello globale, piuttosto che strettamente occidentale sta cominciando anche ad essere costitutivo degli stati-nazione componenti. Tuttavia, è meglio definire lo stato globale una realtà emergente, ancora contingente e problematica, più di quanto lo siano una società e una cultura mondiali.

Il fatto che lo stato occidentale si comporti come uno stato globale è dovuto alle molteplici pressioni e contraddizioni del governo globale. Queste includono non solo minacce agli interessi occidentali (come il petrolio del Kuwait o il pericolo di una più vasta guerra balcanica), ma anche gli imperativi dei principi legittimati a livello globale, le richieste dei gruppi ribelli e vittimizzati (come i kurdi e i bosniaci), le contraddizioni delle campagne di informazione dei media e le richieste di una emergente società civile globale. Il fatto che l'occidente abbia continuato in genere ad essere unito, nonostante la fine della Guerra Fredda, e che abbia assunto ruoli globali nonostante la manifesta riluttanza dei principali stati occidentali a perseguire un ruolo di leadership globale, testimonia l'importanza fondamentale di queste tendenze nella società globale.

In rari momenti, come in occasione della guerra del Golfo, degli interventi in Somalia e ad Haiti o della risoluzione di Dayton, i governi occidentali sembrano aver scelto un ruolo di leadership. La scarsità di questi momenti rispetto alle occasioni in cui sembravano voler rinunciarvi, induce tuttavia a ritenere che tale leadership sia stata loro imposta. Alla fine è la logica della nuova situazione politico- militare globale, incluso il legame delle politiche interne con problemi globali, che ha costretto l'occidente e soprattutto gli USA ad agire come centro di un emergente stato globale.

Queste pressioni hanno l'effetto di tenere insieme, più o meno, uno stato globale centrato nell'occidente, proprio come le pressioni della guerra mondiale e della Guerra Fredda hanno costituito il contesto delle prime fasi di sviluppo di uno stato occidentale coeso. Il fatto che queste pressioni siano più diffuse non significa necessariamente che siano inefficaci, nonostante questo sollevi un punto di domanda sullo sbocco di questo processo. Se le crisi globali accelerano il processo di formazione dello stato globale e lo rendono visibile, mettono anche a nudo la sua debole coesione e le sue contraddizioni, compresi i conflitti interni del nucleo occidentale. Pur essendosi mostrato relativamente stabile durante la Guerra Fredda, è possibile che le sfide derivanti dal suo nuovo ruolo globale possano in definitiva minacciare la sua stabilità. E' dunque possibile su un piano teorico che lo stato globale possa semplicemente frammentarsi, e che il mondo possa tornare nel medio periodo quanto meno a una anarchia di istituzioni statali regionali e nazionali in sostanziale contrasto con la globalizzazione dell' economia, della società e della cultura. Un tale esito è comunque improbabile, ma riconoscerne la possibilità significa rimarcare l'incertezza e l'incoerenza delle attuali forme di stato globale. Può anche implicare la necessità di una teoria costitutiva relativa al loro sviluppo.

Finora tutto sommato le tendenze di cui abbiamo parlato hanno lavorato per mantenere la coesione generale dello stato globale-occidentale. Nonostante importanti disaccordi temporanei, sembra che gli interessi comuni alle varie forme di stato nazionali e regionali che compongono l'occidente favoriscano la sua stabilità a lungo termine. Le maggiori contraddizioni dello stato globale che ha il suo centro nell'occidente sono la sua relativamente debole capacità di controllare la violenza e la sua relativamente povera legittimazione rispetto a gruppi dirigenti statali e società non occidentali. Il legame fra lo stato occidentale e le NU come istituzione legittimante è manifestatamente fragile. Nel lungo periodo, potrà sopravvivere solo se riesce ad ottenere maggiore efficacia e legittimità, il che richiederà una sostanziale trasformazione sociale come pure la creazione di istituzioni.

Ci sono, inoltre, seri problemi nel rapporto dello stato globale con gli stati regionali e nazionali che in parte include e costituisce. Queste relazioni sono plurali e variabili. Un'analisi completa dello stato contemporaneo deve considerare queste forme di stato, insieme al potere statale occidentale globalizzato.

Per spiegare la natura degli "stati-nazione" contemporanei e le loro relazioni con il potere statale globale, occorre cogliere la grande differenza esistente fra i vari "stati". Robert Cooper ha proposto di dividerli in tre categorie: "postmoderni", "moderni" e "pre- moderni".[13] Se questa terminologia ha implicazioni teoriche discutibili propone tuttavia una divisione utile per la nostra analisi.

In primo luogo, all'interno dell'Occidente, gli "stati-nazione" non sono più gli stati nazione classici. Sono "postmoderni" nel senso che sono davvero pienamente collegati con le reti di potere transnazionali occidentale e globale. Ovviamente gli stati variano moltissimo nella misura in cui imitano le caratteristiche degli stati nazione classici. Sia gli USA, sia la Gran Bretagna postimperiale, sia la Francia, conservano una buona la capacità di condurre in alcune circostanze una significativa azione militare indipendente - sebbene anche nel caso statunitense la dipendenza dalla più ampia struttura delle reti di potere occidentale e globale sia aumentata. All'altro estremo il Canada, il Benelux e gli stati scandinavi hanno ampiamente ceduto la loro capacità di azione indipendente alla NATO e all'ONU. Gli stati occidentali sono anche diversamente inseriti, in posizioni più o meno dominanti, nell'ampia varietà di istituzioni economiche mondiali, che rafforzano fortemente l'integrazione politico-militare degli stati occidentali.

All'interno dell'Occidente, è importante notare il posto particolare occupato dallo stato europeo, che è una forma statale unica e una componente chiave dello stato occidentale in generale. Anch'essa risponde, in alcuni casi meglio dell'intero stato globale-occidentale, a tutti i criteri di Mann tranne uno. La questione è che l'UE ha limitate forze sia militari che politiche e una debole capacità di iniziativa militare, per affrontare questioni militari. La situazione europea è l'esempio più evidente dell'organizzazione dello stato moderno di cui abbiamo parlato. Nel prossimo futuro è verosimile pensare in Europa a numerosi distinti livelli di organizzazione statale, a livello nazionale, europeo, occidentale (transatlantico) e globale, per non dire di forme statali regionali subnazionali.[14]

Oltre lo stato occidentale si estende una terra di nessuno costituita da stati minori, come gli stati dell'Europa centrale e dell'Est, i più piccoli stati dell'Est asiatico e molti stati dell'America Latina e dell'Africa, che hanno anch'essi uno scarso potere autonomo. Benché alcuni - specie quelli che solo recentemente hanno dichiarato l'indipendenza - si vantino del loro status di "stato-nazione", non sono realmente tali nel senso classico. Vivono al riparo della potenza occidentale: anche se attualmente sono meno integrati in essa degli stati occidentali, non hanno altra scelta che rafforzare le relazioni con lo stato globale occidentale. Nel contesto europeo, questa realtà si traduce nell'aspirazione degli stati più piccoli centrali e dell'est a entrare nell'UE, nella NATO ecc.

I rapporti dei paesi europei e degli "stati-nazione" alleati con le forme di stato regionale, occidentale e globale sono sempre più istituzionalizzati. Mann ha definito il periodo successivo al 1945 "l'epoca degli stati-nazione istituzionalizzati" in parte perché gli stati si basano su compromessi istituzionalizzati fra classi e anche - cosa più rilevante ai fini del nostro discorso - perchè sono fortemente istituzionalizzati i rapporti fra loro.[15] Il ruolo di ciascuno stato-nazione è definito da una complessa struttura di accordi e sistemi di regolazione in seno a tutto l'Occidente.

Il secondo principale gruppo di stati è costituito da centri di potere statale indipendenti maggiori, che corrispondono meglio al classico modello degli stati-nazione "moderni". Oltre l'occidente e la sua periferia vi sono i grandi stati non occidentali: India e Brasile, Russia e Cina e potenze minori come l'Iraq, l'Iran e la Serbia. Questi stati riconoscono la realtà del dominio globale occidentale soprattutto attraverso una parziale incorporazione nelle istituzioni globali guidate dall'occidente ed evitando potenziali confronti militari con esso. Dall'altro lato, molti di questi stati hanno un consistente potere militare che potrebbero usare in scontri fra loro e con stati minori o con movimenti di rivolta interni, e che potrebbero quindi metterli in conflitto con il centro occidentale-Onu. Sul lungo periodo i problemi più gravi per lo stato globale emergente a occidente sono i rapporti con tali stati. La loro piena integrazione nelle istituzioni dello stato globale neutralizzerebbe ogni pericolo di una seria guerra interstatale.

Il terzo gruppo di paesi è costituito da territori dove lo stato non raggiunge neppure il livello di uno stato-nazione stabile e tanto meno pienamente integrato nelle istituzioni globali. Qui le condizioni per forme stabili di stato di qualsiasi tipo sono scarse. Il potere statale è frammentario, si basa spesso su una crudele violenza e la sua legittimità è logora. In alcuni casi è degenerato in una dittatura militare e nel gangsterismo. Questo è un modello sempre più comune in parti dell'Africa e dell'ex Unione Sovietica (per non parlare della Jugoslavia). Cooper etichetta questi stati come "pre-moderni", benché si tratti di un termine inadeguato. Nonostante in essi sia possibile mobilitare "antichi" odi etnici o tribali, ciò avviene spesso servendosi delle tecnologie della comunicazione e degli armamenti più avanzati, o sfruttando reti di potere globale basate sulla diaspora. Negli anni '90, gestire la violenta disintegrazione di stati di questo gruppo ha costituito un'enorme sfida che ha generato pressioni per procedere allo sviluppo dello stato globale.

Questa spiegazione del rapporto dei diversi tipi di "stati-nazione" con gli sviluppi dello stato globale, mostra l'interdipendenza continua e la mutua costitutività di queste due forme principali. Questo è il problema che la teoria dello stato del ventunesimo secolo dovrà trattare e che la teoria della globalizzazione avrà bisogno di capire se vuole uscire dalla sterile contrapposizione fra globalizzazione e stato.

(trad. Ariele Agostini, Anna Desimio)

NOTE


[1] Michael Mann, The Sources of Social Power, vol.1 (Cambridge: Cambridge University Press, 1986).

[2] Citato nello stesso, pag. 55.

[3] Anthony Giddens, The Nation-State and Violence (Cambridge: Polity, 1985).

[4] James N. Rosenau e Otto Czempiel, Governance without Government: Order and Change in World Politics (Cambridge: Cambridge University Press, 1992).

[5] Richard N. Falk, "State of siege: will globalisation win out?", International Affairs 73 [1] gennaio 1997:125.

[6] Vedi Martin Shaw, Global Society and International Relations (Cambridge: Polity, 1994).

[7] Vedi Mann, The Sources of Social Power, vol. II, pp. 75-88. Mann identifica sei cristallizzazioni di "livello superiore" nelle sue analisi degli stati occidentali del diciannovesimo secolo, come capitalisti, ideologico-morali, militaristi, patriarcali al punto da continuare rappresentatività e nazionalità. Questa categorizzazione ha bisogno di essere ampliata per spiegare le grandi complessità delle cristallizzazioni statali della seconda metà del XX secolo.

[8] Lo stesso, pag. 736.

[9] Ho analizzato questo fenomeno in Civil Society and Media in Global Crises (Londra: Pinter, 1996).

[10] Mann, The Sources of Social Power, vol. II., pag. 55.

[11] Lo stesso, pag. 53.

[12] Lo stesso, pag. 88.

[13] Robert Cooper, The Post-Modern State and the World Order (Londra: Demos, 1996).

[14] La discussione su uno stato-nazione contrapposto alla concezione federale dell'integrazione europea è perciò mal posta da ambo le parti, dal momento che né la semplice interazione tra stati-nazione né una federazione di tipo classico sono presentate come possibili, ma piuttosto questa pluralità interdipendente di forme di poteri statali.

[15] Michael Mann, As the twentieth century ages, "New Left Review" n. 214 (novembre-dicembre 1995): 116.