LA SINISTRA E L’ECONOMIA[1]

Dagli anni dello sviluppo agli anni 80.

Lorenzo Rampa

Anziché svolgere un’analisi sulla politica economica italiana dagli anni dello sviluppo agli anni ‘80, cercherò di dare risposte alla seguente domanda: “quali proposte di politica economica andava facendo, e a quale visione aderiva nel complesso la sinistra (largamente intesa), mentre l’economia ed i rapporti sociali nell’ultimo decennio andavano evolvendo come sappiamo?”. Credo che questo mutamento di oggetto possa rientrare nel tema del convegno che la rivista sta promuovendo per la fine di ottobre e, nello stesso tempo, evitare sovrapposizioni espositive con altre relazioni.

Comincerò con l’anticipare sinteticamente il mio punto di vista al riguardo. Mentre negli anni ‘60 la filosofia complessiva della sinistra era basata sull’idea di programmazione e regolazione del mercato dei beni associata a quella di piena libertà dei rapporti contrattuali sul mercato del lavoro, attraverso la crisi degli anni ‘70-’80 si è pervenuti ad un’idea di progressiva liberalizzazione e deregolazione del mercato dei beni associata ad una crescente centralizzazione della contrattazione collettiva.

I recenti accordi tra le parti sociali, con la temporanea rinuncia alla contrattazione aziendale nel primo e l’accettazione della logica dei tetti alla crescita delle retribuzioni nominali nel secondo, ne sono un chiaro esempio.

Se questa è, in sintesi, la mia idea descrittiva, il mio punto di vista, per così dire, normativo è che la regolazione è necessaria su entrambi i fronti. Ciò implica un giudizio di inadeguatezza sui recenti accordi i quali, in buona sostanza, si limitano a controllare (senza peraltro riuscirvi realmente) il prezzo che si fissa sul mercato del lavoro in un momento in cui si abbandona progressivamente la volontà di controllare i prezzi delle merci e dei servizi (sia pure per periodi limitati o su mercati limitati).

Mi rendo conto, nel sostenere ciò, di essere in qualche modo provocatorio, almeno rispetto a chi si richiama ad una forte tradizione contrattualista se non conflittualista. Ma, d’altra parte, questa è la tendenza di larga parte del sindacato al di là delle proprie tradizioni e, probabilmente, delle residue pratiche dei propri organismi intermedi, territoriali e di fabbrica.

Ritornando, dunque, agli anni ‘60, ricorderò che negli anni del centro-sinistra era sufficientemente generale l’accettazione di un funzionamento del mercato del lavoro che chiamerò liberistico-contrattualistico (salvo le posizioni dei Ministri del Tesoro che nelle congiunture avverse, quasi per atto dovuto e in congiunzione con la Banca d’Italia, richiedevano moderazione salariale).

Ad esempio l’idea lamalfiana della politica dei redditi incontrava opposizioni e perplessità non solo a sinistra e tra i sindacati, ma anche in ampi settori della Democrazia cristiana.

Quanto alla regolazione della produzione i teorici socialisti (penso a Ruffolo) avevano un’idea di programmazione come orientamento della produzione di servizi pubblici (quindi di beni collettivi), associato ad interventi, attraverso le partecipazioni statali, nei settori di base e tecnologicamente avanzati. Il luogo fondamentale della definizione del programma era, a parte gli organi istituzionali come il Ministero del Bilancio, la famosa contrattazione triangolare tra governo e parti sociali. Ma, si badi bene, si trattava di qualcosa di ben diverso dall’attuale concertazione triangolare, mancandovi qualsiasi spirito di scambio politico, di concessione salariale in cambio di atti di politica economica o fiscale. In un certo senso nei primi anni ‘70, la concezione socialista era molto più interventista, almeno nelle dichiarazioni di principio, di quella comunista, in quanto prevedeva un forte condizionamento dell’offerta. Il PCI infatti una volta abbandonata la strategia delle nazionalizzazioni (con il 13° congresso) concepiva la programmazione come orientamento dal lato della domanda. In ciò c’era una buona dose di realismo ma, anche, una riflessione molto critica sulle partecipazioni statali che da elemento propulsivo dello sviluppo si erano trasformate in luoghi di inefficienza e di spartizione clientelare tra partiti di governo.

Ciò diventerà molto più chiaro verso la metà degli anni ‘70, quando sarà completamente esplicitata dalla pubblicistica comunista l’idea, contrapposta a quella socialista, secondo cui è perfettamente illusorio un orientamento dell’economia dal lato dell’offerta se contemporaneamente l’intervento pubblico non esercita un forte intervento di condizionamento della domanda. A questo punto devo segnalare un episodio politico-culturale, apparentemente molto limitato, ma destinato, a mio giudizio, ad esercitare un grosso impatto nel dibattito interno ed esterno al PCI. Alludo all’esperienza della Rivista Trimestrale di Napoleoni e Rodano, che, in un certo senso, ha elaborato le critiche più organiche ed originali alla programmazione del centro-sinistra, anticipando alcune idee-forza comuniste del periodo dell’”unità nazionale”.

Il punto di vista fondamentale della Rivista Trimestrale (a parte le divisioni successive dei suoi principali esponenti) era che gli interventi programmatori del centro-sinistra erano concepiti come puramente aggiuntivi, ovvero: nuova spesa pubblica, nuovi settori di intervento pubblico, in aggiunta alla domanda ed alla offerta privata preesistente.

In un certo senso una concezione “keynesiana”, propria di una economia senza scarsità, che Napoleoni e Rodano consideravano una descrizione inadeguata di una realtà dove le scarsità sono invece rilevanti e operanti, almeno nel breve periodo. La loro concezione era invece quella di una programmazione che, anziché aggiungersi, sostituisce domanda a domanda, produzione a produzione. La crisi di metà anni ‘70 che aveva imposto, attraverso gli aumenti dei prezzi delle materie prime, grosse redistribuzioni di risorse ai danni delle economie occidentali trasformatrici, sembrava suffragare questa filosofia di sinistra della scarsità (val comunque la pena di ricordare che lo stesso spirito veniva predicato, dal pulpito meno politico del Club di Roma, nella forma dei “limiti allo sviluppo”).

Una implicazione di questa concezione redistributiva, più che espansiva, della programmazione era che essa doveva produrre altresì un forte spostamento di risorse dai redditi e dai consumi improduttivi (l’idea delle rendite annidate soprattutto nei settori edilizio, finanziario e commerciale) a redditi e consumi produttivi (salari e profitti). Dal punto di vista macroeconomico ciò richiedeva altresì uno spostamento dai consumi privati dei percettori di rendite agli investimenti ed ai consumi pubblici. Così veniva data una versione di sinistra della lamalfiana politica dei redditi e delle ricorrenti predicazioni conservatrici contro l’eccesso di consumi.

A parte la reazione dei giovani e radicali economisti formatisi nello spirito di Cambridge (al cui keynesismo radicale ripugnava l’idea dell’economia della scarsità e l’implicito messaggio di politica dei redditi), queste idee erano destinate a trovare larga popolarità, seppure, talora, in forma volgarizzata.

Anzitutto all’interno del PCI l’idea berlingueriana di austerità, che ha ispirato il periodo dell’unità nazionale e la cosiddetta “linea sindacale dell’Eur”, traeva alimento dalla filosofia della scarsità. In secondo luogo il programma politico del nuovo quotidiano La Repubblica, fondato sull’alleanza tra ceti produttivi, tra forze borghesi moderne e classe operaia (comunista), si trovava in piena consonanza con questo spirito, al punto di diventare, nei suoi primi mesi di vita, la tribuna preferita di Napoleoni. In terzo luogo la fase “più politica” della Confindustria, quella della presidenza Agnelli, si ispirava ad una versione moderata della battaglia contro rendite e parassitismi (tutti rinvenuti, ovviamente, al di fuori della grande industria privata).

Un altro episodio che assumo come emblematico dell’evoluzione delle posizioni della sinistra, dopo la prima crisi petrolifera, è un documento sottoscritto, per iniziativa del CESPE e dopo l’avanzata nelle elezioni politiche del ‘76, da economisti di sinistra (di area comunista e socialista). In esso venivano fatti cadere molti tabù circa le compatibilità economiche: si riconosceva che la crisi petrolifera aveva determinato vincoli strutturali all’economia italiana dal lato della bilancia dei pagamenti; quindi si sosteneva la necessità di restituire competitività ai prodotti nazionali mediante la riduzione della dinamica dei costi e dei prezzi.

Visto con gli occhi di oggi quel documento appare un diligente esercizio di modellistica keynesiana in mercato aperto, da preferirsi alle terapie assai più brutali delle politiche monetariste. Allora tuttavia suscitò un acceso dibattito (soprattutto sulle colonne di Rinascita) in cui al punto di vista “compatibilista”, pienamente sposato da PSI e PCI, ed alla prescrizione della moderazione della dinamica del costo del lavoro, veniva contrapposta (occorre dire da posizioni molto minoritarie) quella del controllo quantitativo ed amministrativo delle importazioni. Oggi si può dire che, benché lo scarso successo dell’import control fosse un indice ulteriore dell’abbandono di una filosofia interventistica e regolativa, il segnale prevalente del documento era un forte squilibrio verso obiettivi di breve termine e di natura congiunturale, a danno di una ispirazione strutturale e programmatoria.

Direi che i due episodi citati ed i dibattiti che essi hanno suscitato, definiscono il clima (dico clima, più che linea teoricamente e politicamente esplicitata in modo chiaro e univoco) in cui la sinistra si è mossa durante l’unità nazionale. Moderazione salariale nelle piattaforme sindacali, favorita dalla nuova scala mobile; ultimi rigurgiti riformisti consistenti però nella traduzione velleitaria di parole d’ordine un po’ troppo generiche, come quella della lotta alle rendite; produzione legislativa non all’altezza della situazione, nonostante il clima di collaborazione (si pensi alla legge sulla riconversione industriale, sull’occupazione giovanile, alla storia dei piani energetici).

Per fortuna esiti peggiori sul piano produttivo e occupazionale sono stati evitati dalla situazione dei cambi: un dollaro ancora debole e gli effetti sulla bilancia dei pagamenti di una svalutazione competitiva piuttosto secca Ma questa fase era destinata a finire per il congiurare di due fattori. Dal punto di vista economico, l’approssimarsi della seconda crisi petrolifera, associata ad una diversa politica statunitense circa le determinanti del cambio del dollaro.

Dal punto di vista politico, la consapevolezza da parte del PCI che l’unità nazionale non aveva pagato né politicamente nè in termini di risultati di politica economica.

Il primo aspetto ha reso assai più drammatico il problema dei vincoli e delle compatibilità sul fronte della bilancia dei pagamenti. Si deve ricordare che, tra il 1979 e il 1980, quintuplica improvvisamente il carico di interessi, in seguito all’indebitamento estero determinato dallo squilibrio delle partite correnti. Cioè dall’improvviso peggioramento della bilancia commerciale nella sua parte energetica, tamponato dall’indebitamento estero a breve. In secondo luogo viene alterato radicalmente un rapporto tra saldi che, negli anni ‘70, vedeva una situazione di sostanziale fifty-fifty tra passivo agro-alimentare e passivo energetico (pur tra andamenti congiunturali alterni).

Questa situazione consentiva, almeno in linea di principio, di pensare politiche di riequilibrio del primo, mediante combinazioni di politiche di cambio (tendenti a rendere meno competitive le importazioni alimentari) e politiche di controllo; puntando poi a riequilibrare il secondo mediante attivi nei settori tradizionalmente esportatori, come il meccanico, il tessile, ecc.

Ma quando negli anni ‘80 il deficit energetico diventa pari a 2/3 o 3/4 del passivo totale di parte corrente, tali politiche cominciano ad apparire inadeguate poiché le importazioni energetiche sono, in assenza di riduzioni strutturali del fabbisogno, rigide rispetto al cambio (anzi essendo fatturate in dollari aumentano in valore con le svalutazioni); ed inoltre solo in misura molto limitata possono essere sottoposte a vincoli amministrativi, data la loro natura prevalentemente intermedia.

In sostanza bisogna riflettere su questo fatto: se negli anni ‘70 si poteva con qualche plausibilità proporre una linea di import control in alternativa alle svalutazioni o alle drastiche riduzioni di costi (del lavoro) nei settori esportatori, negli anni ‘80 ciò diventa sempre più debole. Ciò che diventa veramente cruciale è invece una politica economica strutturale e programmatoria, al centro della quale la pianificazione energetica assume un ruolo predominante.

Pertanto la contrapposizione al modello export led di un modello di import control è ormai del tutto superata.

Ad esempio, la classica linea della sinistra del rilancio della domanda interna nel breve periodo non può essere dissociata dalla preoccupazione di un rilancio parallelo delle esportazioni, a meno di una esplosione autonoma e improvvisa del mercato internazionale (che significa però il tramonto dell’era reaganiana!). Nel lungo periodo poi l’immobilismo (anche della sinistra) sul piano energetico deve essere superato in qualche efficace scelta: il che significa o razionamento dei consumi finali, o qualche mediazione tra bisogno di sicurezza e pulizia e necessità di ridurre la dipendenza dal petrolio.

In sostanza siamo costretti a non avere, più paura del discorso dei vincoli o delle compatibilità. Qualcosa dello spirito dell’austerità e dell’economia della scarsità che ha ispirato le proposte comuniste del periodo dell’unità nazionale va recuperato senza temere di cadere in “trabocchetti antioperai” Certamente, tuttavia, non è il liberismo imperante a fornire delle indicazioni operative; né l’unilaterale tentativo di centralizzare, deindicizzandole, le sole dinamiche medie del prezzo del lavoro, mentre si liberalizzano progressivamente i prezzi dei prodotti privati e si indicizzano quelli dei servizi pubblici.

Personalmente intendo per programmazione l’intervento pubblico volto a ridurre l’estrema incertezza sul futuro corso degli eventi nei mercati concorrenziali. Ma fornire certezze alle imprese sui costi del lavoro, senza dare certezze ai lavoratori sui prezzi che le imprese (e i commercianti) praticheranno sui beni ed i servizi che essi devono acquistare, è una ben strana concezione programmatoria. Tanto più che dal lato delle quantità (importate, esportate, prodotte e domandate) o si dichiara esplicitamente che è meglio lasciar fare al mercato o, nella migliore delle ipotesi, si improvvisa con il più puro dilettantismo.

Io credo che non vi sia nulla da obiettare a qualche forma di controllo o di tetto alla dinamica dei salari nominali, a condizione che contemporaneamente siano definite delle norme, con relative sanzioni, anche per la dinamica dei prezzi; e che d’altra parte le quantità, almeno dei prodotti cruciali, siano inserite in qualche ragionevole quadro programmatorio. Ma concedere il primo senza i secondi è un déja vu, che una parte del sindacato e della sinistra vanno concedendo in nome di uno scambio che è proprio solo politico (nel senso che, al di là della propaganda, non ha alcuna chiara razionalità economica). Questo déja vu ricorda molto da vicino la vecchia tradizione liberista a cui ripugnava qualsiasi intervento sui mercati salvo che su quello del lavoro, dove in omaggio ai libri di testo si pretendeva di smantellare qualsiasi rigidità contrattuale o istituzionale.

Ma il panorama delle tendenze di una parte della sinistra non sarebbe completo se non si facesse cenno a tre slogan che,- nello stesso spirito più sopra citato, ne stanno pervadendo la teoria e la pratica. Alludo all’idea che “privato è bello”; all’ideologia “postindustriale”; alla troppo facile critica al “keynesismo”. Tutte e tre sono diventate bagaglio obbligato degli improvvisati propagandisti del nuovo e moderno riformismo contrapposto al vecchio (massimalista, operaista, statalista e via dicendo).

La prima idea confonde l’amara ma realistica consapevolezza dell’inefficienza del settore pubblico con l’illusione che il mercato sia sempre più,efficiente ed equo delle sue alternative (o correzioni); la seconda confonde l’attuale fase innovativa, e la parallela creazione di nuovi ruoli professionali e “terziari”, con l’apologia del terziario tout court, tendendo così a relegare nel cassetto le ipotesi redistributive degli anni ‘70 dai settori improduttivi a quelli produttivi. La terza parte da una corretta critica ad un certo “keynesismo” semplicistico, diciamo da modello di un’economia chiusa senza vincoli esteri, per negare la rilevanza di quasi tutta la tradizione keynesiana rispetto alla natura dei problemi attuali. Con ciò si rischia di non vedere che persino la recente crescita dell’economia americana è assai più frutto della spesa pubblica (soprattutto nei settori tecnologicamente avanzati) che non dell’iniziativa privata (per questo ritengo che i keynesiani, pur con tutte le revisioni del caso, possano con tranquillità continuare a sostenere che la spesa pubblica, opportunamente riqualificata, sia il motore dello sviluppo).

Non trovo in questi slogan nulla che possa realmente convincere la sinistra al totale abbandono di alcune sue idee-forza sul terreno della politica economica. Più programma e non meno programma continua ad essere la condizione per un funzionamento ordinato e non recessivo dei mercati. Controllo di tutti i prezzi e di tutti i redditi continua ad essere un’idea razionale per affrontare situazioni inflazionistiche di emergenza. Si dirà che alla prova dei fatti tutto ciò non ha funzionato, rovesciandosi in risultati contrari agli obiettivi. Ma il fatto è che tutto ciò non è mai stato realmente proposto e sperimentato con coerenza.

Il mio punto è, perciò, che il rischio maggiore non consiste nella incapacità della sinistra di attuare una politica economica di sinistra, ma nella tentazione di una sua parte di scordarsene del tutto.

NOTE


[1] Estratto da AZIMUT n° 18 rivista bimestrale di economia politica e cultura – luglio-agosto 1985.

Si tratta di appunti per il convegno sulla politica economica e l’occupazione, che si è tenuto a Milano nei giorni 25 e 26 ottobre 1985, organizzato dalla rivista AZIMUT.