IL VELO MONETARIO

Le analisi ambigue sul costo del lavoro, con una pretesa di scientificità, mascherano argomenti puramente ideologici

Lorenzo Rampa[1]

Non è sempre chiaro, al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti, di cosa si parli quando si citano dati ufficiali circa il costo del lavoro. Ciò deriva dal fatto che vi è una differenza fondamentale tra il significato corrente ed intuitivo del termine ‘costo del lavoro per unità di prodotto’ (d’ora in poi CLUP) ed il contenuto statistico di tale grandezza, quando essa viene impiegata con riferimento ad una intera economia e nei confronti internazionali.

E così che, nel dibattito in corso, sono nati numerosi equivoci se non veri e propri tentativi di sfruttare l’ambiguità del termine per far dire ai dati ciò che essi non possono di re. Un esempio clamoroso è costituito dall’affermazione, talora ripetuta, che il costo del lavoro italiano è il più alto tra quelli dei principali paesi industriali. Non sembra allora inutile vedere cosa si nasconda dietro al CLUP, per svelare la natura esclusivamente propagandistica di tali affermazioni. Tutto ciò che segue, inoltre, prescinde da operazioni al limite assai più fondamentali, quali la depurazione dei dati dalla cassa integrazione o le tendenze sistematiche a sottostimare il prodotto dell’Italia.

La misura “ufficiale” del costo del lavoro per unità di prodotto

Chiunque sarebbe d’accordo che il CLUP è il costo monetario sostenuto per pagare le ore-uomo necessarie a produrre una unità fisica di produzione. Esso può allora essere calcolato come rapporto tra monte salari, diciamo W, e la produzione fisica, diciamo P; o anche come rapporto tra salario per unità di lavoro e produttività fisica.

L’implicazione del secondo rapporto è che se il salario unitario cresce in proporzione maggiore della produttività fisica il CLUP cresce, dando luogo o ad una riduzione dei margini di profitto (se le imprese non trasferiscono sui prezzi l’aumento) o ad un innalzamento dei prezzi (se lo trasferiscono). Tutto ciò è chiaro soltanto fino a quando si ragiona come se l’economia producesse solamente un bene o, il che fa lo stesso, quando ci si riferisce ad una sola impresa monoproduttrice. Quando ci si riferisce ad una intera economia, però, i contabili nazionali sostituiscono alla produzione vendibile la nozione di valore aggiunto (o prodotto lordo) che indicheremo con V. Tale nozione corrisponde alla differenza tra valore della produzione del Paese e il valore di quella parte di essa che viene reimpiegata come input produttivo (materie prime, semilavorati, energia, ecc.). La ragione di questa preferenza risale ad una vecchia tradizione, che qui non è il caso di discutere, e viene spiegata nei libri di testo dicendo che l’inclusione dei reimpieghi produttivi comporterebbe una duplicazione contabile. Giusta o sbagliata che sia la preoccupazione di evitare duplicazioni, la sua conseguenza è che il concetto di prodotto usato cambia totalmente, venendo a coincidere identicamente con il concetto di domanda finale (consumi + investimenti lordi + esportazioni nette) e di reddito (salari + stipendi + redditi non da lavoro + prelievo indiretto netto).

In questo modo però non solo il concetto di prodotto risulta variato, ma mutano di significato anche le misure della produttività e del CLUP. Si dirà che non vi è nulla di male in ciò, purché siano tutti d’accordo sulla convenzione contabile che si adotta. E ciò è vero, purché tutti rispettino l’accordo e non cerchino di distorcere il significato delle misure che derivano dalla convenzione adottata, attribuendo loro un valore che non hanno. Per chiarire tale punto vediamo qualche esempio di distorsioni che possono essere operate.

Confronti tra anni

Immaginiamo di considerare l’evoluzione del CLUP in un singolo Paese e supponiamo, per semplicità, che in esso i salari nominali siano cresciuti nella stessa proporzione della produzione vendibile per addetto. A questo punto occorre notare che, quando la produzione è composita, la sua misura è monetaria e non ha più nulla di fisico né di reale. Per dare qualche parvenza di fisicità o di indipendenza dal mutamento dei prezzi a tale misura bisognerà esprimerla ‘a prezzi costanti’ (e ciò si deve fare sia per P che per V). Supponiamo anche che questo problema, assai complesso, sia ben risolto.

Se è così, nelle nostre ipotesi il CLUP, misurato come rapporto tra W e P, dovrebbe rimanere invariato, mentre nulla si può dire circa le variazioni del CLUP misurato come rapporto tra W e V. Infatti se per caso le imprese avessero adottato, nel frattempo, dei metodi produttivi a maggiore intensità di inputs produttivi, ne risulterebbe un aumento del valore aggiunto per addetto inferiore a quello della produzione vendibile per addetto e dei salari nominali, e quindi un innalzamento del CLUP. Il fatto è che la dinamica di questa grandezza rimane identica, qualora si usi V o P, solo quando l’incidenza degli inputs non da lavoro rimane costante. In parole semplici, nel nostro esempio il costo unitario degli inputs produttivi (diversi dal lavoro) sarebbe aumentato a causa dei mutamenti tecnologici intervenuti nelle imprese, ma il calcolo ufficiale del CLUP farebbe apparire tale aumento come crescita del costo del lavoro.

Questo caso non è paradossale, ma sembra proprio ciò che è successo in Italia negli ultimi decenni (fino ai primi anni 80). L’economia italiana, soprattutto al di fuori dei settori manifatturieri, è diventata “più intensamente capitalistica” e ciò ha rallentato la dinamica di V rispetto a quella di P, con la conseguenza che, se il CLUP è calcolato come rapporto tra W e P, esso è pressocché in linea con i prezzi, cioè rimane invariato in termini reali, mentre se è calcolato come rapporto tra W e V risulta cresciuto più dei prezzi.

Non è difficile immaginare come il secondo tipo di calcolo possa essere usato in termini propagandistici: ad esempio per dire che la riduzione dei margini di profitto è causata esclusivamente dalla crescita del costo del lavoro.

Confronti tra Paesi

Ma le distorsioni propagandistiche possono essere ancora più clamorose quando si impiega la misura ufficiale del CLUP nei con fronti internazionali Per comprendere questo punto conviene aiutarci con la tabella seguente.

Redditi da lavoro dipendente

V.A. a prezzi correnti (quota del lavoro)

Redditi da lavoro dipendente

V.A. a prezzi costanti

CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto),

 

ITA

FRA

GER

UK

ITA

FRA

GER

UK

1975

.5679

.5396

.5632

.6612

.5679

.5396

.5632

.6612

1976

.5551

.5439

.5568

.6380

.6549

.5747

.5982

.7414

1977

.5602

.5502

.5569

.6112

.7872

.5965

.6590

.8005

1978

.5605

.5475

.5534

.6104

.8981

.6161

.7201

.8820

1979

.5539

.5424

.5467

.6099

1.0231

.6322

.7913

1.0136

1980

.5450

.5529

.5550

.6220

1.2151

.6726

.8992

1.2310

1981

.5684

.5589

.5604

.6147

1.4903

.7089

1.0173

1.3615

Si è detto che per dare alla grandezza valore aggiunto (V), che sta a denominatore nel calcolo ufficiale del CLUP, un significato ‘reale’, cioè indipendente da variazioni di prezzi, conviene esprimerlo a prezzi costanti, riferiti cioè ad un anno base (si noti che mentre ciò è facile per un oggetto fisico per cui ha senso parlare di prezzo come, ad esempio, un’auto mobile, è assai problematico per un oggetto che non ha nulla di fisico come il valore aggiunto).

Nelle seconde quattro colonne della tabella troviamo dunque i valori del CLUP calcolati con i dati di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia espressi in monete nazionali, e usando il valore aggiunto (ai prezzi di mercato) in monete costanti del 1975. Come è agevole constatare, relativamente a questo anno base, la misura ufficiale coincide con la quota o percentuale del valore aggiunto distribuita ai lavoratori dipendenti. Si può anche notare che nel 1975 tale quota non è in Italia drammaticamente più elevata che in Francia e Germania, mentre è decisamente inferiore a quella della Gran Bretagna.

Ma che senso ha il CLUP, così calcolato, per gli anni successivi?

Non quello di costo monetario del lavoro per unità fisica prodotta, poiché il valore aggiunto non ha alcunché di fisico. Non quello di quota di reddito perché si tratta di un rapporto tra valori espressi in prezzi diversi (correnti a numeratore, dell’anno base a denominatore). Non quello di indicatore comparabile ai fini dei confronti internazionali, poiché i numeratori risentono di dinamiche inflazionistiche espresse in monete diverse.

In effetti il CLUP ufficiale ha senso non come livello assoluto, ma tutt’al più ai fini del calcolo di saggi di variazione da un anno all’altro. Invece affermazioni del tipo ‘il costo del lavoro italiano è il più alto tra i Paesi europei’, o simili, si basano proprio su dati quali quelli delle seconde quattro colonne della tabella.

Allora perché non confrontare l’incidenza del costo del lavoro su ogni unità prodotta a prezzi correnti (in ciascuna moneta nazionale)? Se si procede così, e si accetta il concetto di prodotto dei contabili nazionali, ovvero V, si ottengono i dati delle prime quattro colonne, da cui risulta che l’incidenza del costo del lavoro in Italia diminuisce, più o meno come in Germania; rimane superiore (ma inferiore nel 1980) a quello francese, ma per una differenza che decresce nel tempo, ed è sempre inferiore a quello inglese. Se poi si assume un concetto di prodotto coincidente con la produzione vendibile, come sembra più ragionevole ai nostri fini, essa è inferiore anche a quella francese.

Tutto ciò che il CLUP ufficiale, espresso in monete nazionali, può rilevare è dunque il differenziale nelle dinamiche dei salari nominali; e non è una gran scoperta che queste sono più elevate nei paesi a maggiore inflazione come, negli anni considerati, l’Italia e l’Inghilterra.

Alfine di ottenere significativi confronti internazionali bisognerebbe quanto meno esprimere il monte salari in qualche standard di potere d’acquisto che tenga conto delle variazioni dei tassi di cambio nel tempo: così facendo la dinamica del CLUP italiano sarebbe assai ridotta dal fatto che la lira si è svalutata rispetto alle altre monete; e quella, ad esempio, della Germania sarebbe assai accentuata dal fatto che il marco si è sensibilmente rivalutato. I risultati ottenuti mostrerebbero dinamiche relative del costo unitario del lavoro non dissimili da quelle accennate appena sopra.

Spesso gli economisti si sono preoccupati di depurare le grandezze economiche degli effetti dei mutamenti dei prezzi per rimuovere le false apparenze del ‘velo monetario’. Ma quando i contabili, o gli operatori dei centri studi, calcolano rapporti spuri tra grandezze depurate e grandezze non depurate, rischiano di coprire la realtà con un velo di confusione, fatto apposta per mascherare con una pretesa scientificità argomenti puramente ideologici.

NOTE


[1] AZIMUT– Rivista sindacale di economia politica e cultura – Milano via Tadino 23
n ° 3 gennaio- febbraio 1983