IL VECCHIO DIO INDIVIDUO

La ripresa della teoria individualistica è l’asse portante della cultura conservatrice in politica economica

Lorenzo Rampa[1]

Non si può non concordare con Giorgio Galli (Azimut, n. 2) circa il fatto che la cultura conservatrice esercita attualmente una egemonia che va al di là della sua forza intrinseca. Ma molto vi è ancora da riflettere su quali siano le cause di un così rapido affermarsi di tale egemonia e forse anche su quale sia lo spartiacque che divide la cultura progressista da quella conservatrice.

Circa il primo aspetto, ad esempio, sembra un po’ troppo sbrigativo e, per così dire, sovrastrutturale addebitare gran parte della responsabilità allo schematismo sessantottesco o all’opportunismo degli intellettuali. La cultura e la pratica della sinistra non sono state certo esenti da limiti ed il ruolo giocato da gli intellettuali all’interno della leadership politico - sindacale è rilevante. Ma l’uno e l’altro aspetto si accompagnano, e dipendono in parte da importanti mutamenti strutturali che è bene approfondire. Quanto al secondo problema, lo spartiacque tra le due culture, sembra utile delinearne meglio la natura, cosa che intenderci fare discutendo della teoria individualistica come asse portante della cultura conservatrice.

Che la ripresa del paradigma individualistico sia il nucleo essenziale del ritorno conservatore, con i suoi corollari di lotta senza quartiere all’intervento pubblico ed ai valori collettivi, è immediatamente evidente dalla quotidiana osservazione delle principali esperienze di destra, quella reaganiana e quella tatcheriana. Sarebbe tuttavia troppo semplicistico ridurre tale cultura al rozzo vetero - liberismo del presidente americano, giacché si assiste oggi a tentativi assai più articolati riaffermare il paradigma individualistico e la natura intrinsecamente cooperativa delle istituzioni del sistema economico capitalistico. Tali istituzioni sarebbero infatti capaci non solo di assicurare l’esercizio della razionalità economica individuale, ma anche di comporre, attraverso il mercato, i comportamenti individuali in una razionalità collettiva, tale da rendere superflue le più classiche opzioni della sinistra quali il controllo dell’economia, la programmazione, ecc.

Il modello vetero-liberista e le critiche da sinistra

Il modello vetero-liberista trova, in economia, la sua formulazione più compiuta nella teoria “neoclassica” dei libri di testo. Due sono i punti che di tale teoria sono rilevanti ai fini della nostra discussione.

Il primo è la centralità del comportamento dei singoli individui (imprenditori, lavoratori, consumatori) caratterizzato dal movente di massimizzare i propri obiettivi (profitti, salari, utilità), tenendo conto dei vincoli imposti dalla disponibilità (limitata) di risorse, dalla tecnologia conosciuta e dalla struttura dei gusti.

Il secondo punto è che, nella teoria neo classica standard, l’economia funziona come se qualche deus ex-machina esterno (tipo un banditore di borsa) pre-conciliasse le domande e le offerte degli agenti che si confrontano sul mercato, mettendoli in condizione di decidere sapendo con certezza quali saranno gli esiti delle loro azioni, senza bisogno di conoscere i comportamenti altrui.

Bisogna qui sottolineare tre conseguenze di quest’ultima semplificazione. Anzitutto l’esito del mercato assicura la conciliazione dei desideri dei singoli, ossia il soddisfacimento degli obiettivi individuali e, per somma, del benessere collettivo. In secondo luogo gli agenti possono agire in condizioni di certezza sicché la loro razionalità è piena e completa (in pratica vi sarebbe decisione razionale in presenza di totale informazione circa gli esiti dei propri comportamenti).

In terzo luogo, non c’è alcun bisogno di tener conto strategicamente dei comportamenti altrui, il che esclude tutti i fenomeni di interazione sociale quali conflitti, antagonismo, formazione di gruppi, coalizioni, comportamenti collettivi.

Contro questa costruzione teorica, la critica di sinistra poteva esercitarsi agevolmente, valendosi di Marx e Keynes, sia contro il realismo delle ipotesi del modello (descrizione dei comportamenti, esistenza del banditore), sia contro le dimostrazioni di efficienza del mercato, indicando una certa quantità dicasi in cui l’equilibrio poteva non esistere oppure, pur esistendo, essere irrealizzabile, instabile e inefficiente.

La dimostrazione dell’intrinseca irrazionalità e instabilità del mercato e lo scarso realismo dei comportamenti individuali previsti dalla teoria standard sembravano confermare in modo definitivo sia la superiorità delle teorie alternative fondate su un paradigma non individualistico, sia la superiorità delle loro prescrizioni (le politiche keynesiane di controllo del mercato, o il piano socialista).

Se la storia delle controversie tra economisti potesse arrestarsi ai punti sopra citati, il rigurgito conservatore non potrebbe interpretarsi se non come provvisorio episodio ideologico, consentito dal puro e semplice mutamento dei rapporti di forza dovuto alla crisi economica, oppure dalla crisi dei modelli positivi della sinistra (lo stato keynesiano che degenera nello stato assistenziale o la pianificazione socialista che fallisce come strumento di impiego efficiente delle risorse). Ma sul piano delle controversie teoriche vanno segnalate almeno due ulteriori circostanze che hanno ridato vigore al paradigma individualistico: da un lato il modo non totalmente soddisfacente in cui si sono consolidate le dottrine assunte come base della cultura progressista (se i lettori me lo consentono, lascio questo primo punto allo stato di pura enunciazione per concentrarmi sul successivo); dall’altro lato è necessario tener conto di un fatto, generalmente piuttosto trascurato, cioè la capacità di sviluppo del paradigma individualistico, mediante incorporazione progressiva di molte delle critiche ad esso rivolte.

Alcuni sviluppi del paradigma individualistico

Bisogna ammettere che oggi solo i seguaci più dogmatici del monetarismo credono al modello vetero-liberista. Anche se tra questi vi sono molti consiglieri di Reagan e della Tat cher (il che chiarisce che tale modello non ha esaurito il suo ruolo ideologico), è tuttavia più interessante cogliere il fascino e la capacità di persuasione delle versioni più aggiornate e sofisticate del paradigma individualistico.

In effetti, anche tra gli economisti individualisti l’equilibrio efficiente del mercato è ormai riconosciuto da molti come un caso; in stabilità e crisi vengono ammesse come perfettamente possibili, se non normali; la possibilità di un comportamento razionale in senso tradizionale è generalmente negata. Addirittura all’interno del paradigma individualista si trova spazio per molte delle proposizioni marxiane e keynesiane circa le crisi ed il ciclo economico. Tuttavia l’individualismo sofisticato sostiene che, benché il mercato non funzioni come se un banditore preconciliasse i piani individuali, mettendo così gli agenti in condizione di agire razionalmente e con certezza, ciò non fa cadere il presupposto della razionalità. Ovviamente non si tratterà più di una razionalità completa, bensì limitata dall’incertezza, il che costringe gli agenti a prevedere (o quanto meno a tener in conto) le mosse dei partners e dei concorrenti, cioè a comportarsi in modo strategico (questa forma della razionalità sarebbe addirittura superiore, in quanto più impegnativa, di quella tradizionalmente prevista dalla teoria vetero - liberi sta). Certo, non vi è più nessuna garanzia che, in condizione di incertezza, strategie, ecc., il mercato funzioni in modo ottimale.

L’importante è però dimostrare che vi sia la possibilità che esso, attraverso i comportamenti strategici, realizzi situazioni migliori del puro e semplice conflitto di interessi. Ad esempio, soluzioni si possono trovare mediante la formazione di coalizioni tra gli individui (cioè sindacati, cartelli, gruppi, ecc.) capaci di trovare un equilibrio contrattuale nel comune interesse degli associati.

Come si può facilmente intuire, in questo modo appaiono nella nuova teoria individualistica i comportamenti collettivi, il che conferisce ad essa un grado di realismo assai superiore rispetto alla vecchia. Ciò che tuttavia rimane essenziale è che queste coalizioni si formino a partire da scelte degli individui come tali, spinti dal calcolo egoistico e dal perseguimento dei propri piani individuali a coalizzar si per ottenere il massimo risultato (in questo modo la teoria rimane radicalmente diversa da quella keynesiana classica e da quella marxista in cui gli agenti collettivi hanno comportamenti e motivazioni diverse, o comunque indipendenti da quelli degli individui che li compongono).

Certo, l’individualista più avvertito ammette l’anomalia di alcune motivazioni non riconducibili al presupposto della razionalità individuale; altruismo, solidarietà, coscienza di classe, motivazioni etiche o politiche. Ma egli non dispera di trovare, all’interno della sua teoria, giustificazioni anche a queste anomalie. In fondo, sosterrebbe — non senza una certa dose di provocazione — è stato proprio Marx il primo ad affermare che la base strutturale dei valori etici e culturali sta negli interessi economici.

Un esempio interessante è infatti costituito dal tentativo di dare una fondazione individualistica ai valori etici e politici. La giustizia può essere definita come costituzione e rispetto di alcune regole del gioco che, all’origine della competizione, gli individui decidono di darsi allo scopo di evitare una degenerazione catastrofica dei conflitti di interessi (come l’homo homini lupus di Hobbes). Caratteristica di questa costituzione o contratto sociale è quella di favorire almeno le soluzioni che migliorano la posizione iniziale dei più svantaggiati (onde evitarne la turbolenza, la rescissione del contratto sociale, e quindi comportamenti collettivi rivolti al sovvertimento delle regole fissate).

Gli svantaggiati o, parlando fuori di metafora, coloro che non possiedono altre risorse che il proprio lavoro, comunque esistono per ragioni su cui viene steso un velo di ignoranza.

A parte numerose obiezioni tecniche che esulano dalla presente discussione, si deve sottolineare l’ambizione del programma individualistico di spiegare in questo modo le istituzioni, come più sopra le coalizioni, generalmente lasciate sullo sfondo o come dati inspiegati o come fastidiosi ostacoli al funzionamento del mercato. Né le istituzioni né le coalizioni, tuttavia, sono interpretate in modo indipendente dalle motivazioni individuali: la coscienza di classe è una anomalia, la storia politica delle istituzioni non ha nulla da dire, e neppure vi è posto per tradizionali spiegazioni sociologiche secondo cui le organizzazioni vengono mosse da propri fini autoriproduttivi.

Qualche idea sull’origine e la ripresa della concezione individualistica.

Come si è detto, neppure l’individualismo sofisticato è esente da critiche tecniche. Né sembrerebbe avere grande capacità di persuasione sul piano del realismo: infatti gli stessi economisti, sociologi e filosofi politici che l’hanno sposato ammettono continuamente che gli effettivi fenomeni economici e sociali presentano notevoli deviazioni rispetto al loro modello. Come ha potuto dunque svilupparsi la teoria individualistica?

Possiamo dire, in generale, che le idee contenute in una teoria sono costruite sulla base delle esperienze di chi le formula. Ma chi mai vive la propria esperienza sociale come continuo esercizio della razionalità individuale, massimizzante, soggetta a vincoli, unicamente motivata da propri interessi economici? Non mi pare che ciò possa dirsi dei lavoratori. E vero infatti che questi hanno dei vincoli costituiti dall’esclusiva disponibilità della propria forza lavoro, ma le loro scelte razionali si limitano ad alternative piuttosto banali e poco rilevanti: certi tipi di consumo anziché altri, forse (ma non sempre) la scelta del tipo di lavoro, quasi mai la scelta tra essere dipendente o autonomo, oppure consumare o risparmiare per investire, ecc. E il modello non funziona neppure per la grande borghesia imprenditoriale la quale certamente esercita scelte razionali tra diverse alternative socialmente rilevanti (produrre questo o quel bene, espandere o meno l’impresa mediante l’investimento), ma non sempre e necessariamente è realmente vincolata. Essa ha infatti notevoli possibilità di modificare i propri vincoli: l’innovazione consente di andare oltre le precedenti conoscenze tecniche; la pubblicità modifica i gusti dei clienti; l’accesso al credito rimuove le situazioni di illiquidità finanziaria; e, infine, un notevole potere di pressione politica consente persino di ottenere (anche se non sempre) modifiche dei limiti istituzionali. Non a caso gli economisti concordano circa il fatto che la più pertinente teoria dell’imprenditore è quella di Schumpeter, secondo cui tale figura sociale ha il ruolo di rivoluzionare continuamente il quadro dei vincoli in cui si operano scelte economiche.

Dunque l’individuo che esercita la scelta massimizzante sotto vincoli non corrisponde alla coscienza che hanno di sé i lavoratori e gli imprenditori. Esso invece è la proiezione sulla società della coscienza di sé e dell’esperienza dei ceti medi, ed in particolare della piccola (media) borghesia professionale e intellettuale.

Questi ceti, a cui per inciso appartengono gli economisti accademici e professionisti, percepiscono la propria esperienza sociale come esercizio di scelta razionale. Ad essi manca la possibilità (concessa ai grandi imprenditori) di sovvertire vincoli e condizioni esterne, ma ad essi appartiene (a differenza dei lavoratori) la possibilità di scegliere tra alternative non banali: consumare o risparmiare, spostare i propri risparmi tra impieghi alternativi, lavorare alle dipendenze o esercitare in modo autonomo la propria professione, ecc.

A questi ceti sono, per molti aspetti, assimilabili i piccoli imprenditori agricoli e industriali, i protagonisti dell’economia sommersa, gli ex-lavoratori specializzati a cui sono stati decentrati processi produttivi fuori dalla media e grande impresa, ed ovviamente i commercianti. Per origine e cultura, nonché per le piccole dimensioni delle loro imprese, queste figure sono assai più costrette da quei vincoli che la grande impresa riesce invece a modificare. Perciò, salvo eccezioni, i loro comportamenti e le loro motivazioni sono assai vicini a quelli appena descritti.

I ceti medi sono anche il terreno più fertile per la formazione di coalizioni (gruppi professionali, sindacati autonomi) il cui unico obiettivo è quello di perseguire il massimo risultato economico per i propri associati, senza altri fini autonomi ed “emergenti”, senza spirito di classe, senza solidarismo, senza altruismo. E proprio questo aspetto della loro esperienza viene proiettato nelle versioni più recenti del paradigma individualistico. Essi infine hanno una collocazione fluttuante nelle scelte politiche, sensibile certamente a motivazioni ideologiche o etiche le quali, tuttavia, non sono comuni a tutto il ceto a cui appartengono. La variabilità e l’opportunismo degli intellettuali, di cui parla Galli, sono forse una delle manifestazioni di tale caratteristica.

Ma una volta individuata nella piccola (media) borghesia la radice del paradigma individualistico, rimane da spiegare perché questo abbia potuto prima tramontare e poi così rapidamente risorgere. Infatti l’ultimo quindicennio è stato caratterizzato in Italia da un sensibile spostamento dei ceti intellettuali e professionali a sinistra, con forme di fiancheggiamento o militanza soggettivamente disinteressate e molto esplicite. Le ragioni di ciò sono state sufficientemente esplorate: dalla progressiva proletarizzazione di molti di questi (si pensi agli insegnanti ed ai tecnici), alle aspettative di uno sbocco crescente per l’offerta di lavoro intellettuale creato dalle riforme, interpretate come produzione di servizi collettivi incorporanti progetti, ricerche, competenze.

Meno esplorate sono invece le ragioni dell’inversione di tendenza. A mio giudizio la crisi economica ha drasticamente ridimensionato le aspettative attraverso la disoccupazione intellettuale, il calo di progettualità della sinistra, i tagli alla spesa delle amministrazioni pubbliche, gli appiattimenti retributivi. In più l’inglobamento del lavoro intellettuale in strutture burocratiche ha fatto percepire il settore pubblico come mortificazione, anziché esaltazione, delle competenze professionali. Che queste frustrazioni abbiano generato controtendenze oltre misura, quale l’antisindacalismo come reazione agli appiattimenti retributivi o l’individualismo esasperato come reazione alle distorsioni della sfera pubblica, è sotto gli occhi di tutti.

Meno clamorosa e più sottile è la contro tendenza nei ceti intellettuali e nei membri delle leaderships politiche e culturali. Alla natura dell’intellettuale ripugnano infatti le virate clamorose, che denuncerebbero contraddizioni palesi. Qui l’individualismo penetra sotto le forme più sofisticate della teoria, si ammanta di modelli esteticamente eleganti, assume le sfumature delle riformulazioni critiche e dubitative. Ma, nel contempo, esercita influenze più insidiose, partendo da seminari esoterici sui più recenti contributi teorici (generalmente di provenienza statunitense), e stendendosi attraverso convegni che lanciano mode culturali ed infine traducendosi in messaggi politici. Il tutto garantito dall’autorevolezza intellettuale e dai passati meriti acquisiti dalla militanza politica.

La capacità di persuasione delle idee individualistiche travalica così i ceti medi, facendo leva sulle restrizioni che la crisi economica impone. La troppo lenta espansione del reddito e la riduzione dei posti di lavoro da distribuire esalta infatti la competizione e il perseguimento individuale delle finalità economiche anche all’interno della classe operaia; impone una concezione del sistema economico come regno della scarsità, che richiede esercizio di razionalità e coraggio di rischiare, meno garanzie per tutti e più elevate retribuzioni per chi possiede professionalità, informazioni, competenze. Non importa poi perché questo tipo di risorse siano inegualmente distribuite, poiché su ciò si stende il velo dell’ignoranza.

Il garantismo sul mercato del lavoro, le politiche redistributive e l’intervento pubblico vanno dunque smantellati, mentre si richiede la massima esaltazione del privato. Ma la penetrazione delle idee individualistiche non è solo facilitata dalla maggiore permeabilità della classe operaia dovuta alla crisi. L’espansione relativa del terziario, con lo sviluppo di nuove professioni, la diffusione del sommerso, il “fare da sé” come alternativa alla disoccupazione, se da un lato sono un segno di vitalità, dall’altro accrescono il peso sociale del ceto medio e quindi rendono più pervasiva la sensibilità individualistica.

L’ideologia conservatrice in politica economica: il monetarismo e le aspettative razionali

Il caso più clamoroso di ritorno conservatore nella politica economica è quello del monetarismo che ispira le politiche economiche dei paesi occidentali in questa difficile congiuntura. Ciò che qui intendo commentare è l’associazione tra monetarismo e le cosiddette aspettative razionali, circa la quale sussistono molte ambiguità.

L’idea di aspettativa è collegata alla consapevolezza che le decisioni economiche vengono prese in un mondo di incertezza e di informazione non perfetta. Keynes aveva infatti sottolineato tra i primi che in un sistema continuamente in squilibrio, gli operatori decidono sulla base di previsioni incerte che a loro volta danno luogo a risultati non previsti e ad ulteriori squilibri: perciò ricorrono a regole convenzionali tutt’altro che basate su calcoli razionali in senso neoclassico, quando addirittura non si fanno guidare da spiriti animali (è il termine keynesiano) dominati da complesse ragioni psicologiche, politiche, ecc.

Questa idea ha notevolmente influito sulla formazione intellettuale degli economisti di sinistra per quarant’anni; e su di essa (cioè sul l’intrinseca irrazionalità e volatilità delle aspettative) si è innestata una tendenza a rinnegare del tutto la rilevanza dei comportamenti soggettivi in favore di una spiegazione esclusivamente oggettivistica delle crisi. Il “piano del capitale”, la caduta tendenziale del saggio di profitto basata unicamente sulle tendenze tecnologiche del sistema capitalistico o altre i dee simili hanno infatti preso il sopravvento in campo marxista, grazie a questa concezione che lascia assai poco spazio non solo ai comportamenti individuali ma addirittura ai comportamenti collettivi.

Dal punto di vista teorico le aspettative razionali rispondono all’esigenza di dire qualcosa di più circa il modo in cui gli agenti formano le previsioni su cui basare le loro decisioni, andando oltre la radicale semplicità della teoria keynesiana o l’oggettivismo esasperato del marxismo. Ma l’aggettivo razionale, in più, allude ad una concezione del sistema economico come capace di consentire l’esercizio della razionalità in senso tradizionale. Si suppone infatti che gli agenti siano capaci di formarsi un modello corretto del funzionamento dell’economia, tale cioè che le loro previsioni (in media) non si discostano da quello che sarà l’andamento effettivo dell’economia.

Come tale, questa idea non è necessariamente accettata dagli individualisti più sofìsticati, che anzi hanno frequentemente criticato l’ipotesi di aspettative razionali. Ma come spesso succede, quanto è coinvolta la politica economica, le idee diventano più facilmente esposte a distorsioni ideologiche, stanti gli interessi in gioco.

Infatti la conseguenza che viene tratta dall’ipotesi di aspettative razionali è che i soggetti, essendo completamente capaci, grazie al modello corretto che hanno in mente, di anticipare gli eventi futuri, rendono superflua ogni politica economica, cioè l’intervento correttivo dello Stato tout court.

Del fatto, a prima vista sorprendente, che sia assunta una “conoscenza corretta del modello” si sono date diverse giustificazioni, in parte teoriche ed in parte empiriche. La prima è che oggi gli agenti avrebbero a disposizione più informazioni che in passato: statistiche più adeguate ed aggiornate, previsioni di modelli econometrici e cosi via. La seconda è una concezione di selezione darwiniana che elimina gli operatori meno razionali e lascia sul mercato solo coloro che hanno imparato a prevedere bene.

Ma qual è il modello corretto a cui si allude? È quello del vetero-liberismo, cioè di un mercato capace di realizzare l’equilibrio e di permanervi sufficientemente a lungo da consentire agli agenti di capire il suo funzionamento. Tuttavia, poiché il sistema economico cambia frequentemente, giacché mutano rapidamente le tecnologie usate, i gusti dei consumatori, ecc., sarà piuttosto difficile che essi imparino a formarsi le aspettative in modo razionale. In secondo luogo se il modello corretto fosse diverso da quello vetero - liberista, si potrebbero avere risultati assai diversi, anche con aspettative razionali, e la politica economica tornerebbe ad essere efficace.

Dunque anche su questo terreno la cultura conservatrice sembrerebbe avere assai meno forza teorica di quella che in concreto si tende ad attribuirle. Ancora una volta tuttavia è possibile cogliere, sotto la specifica forma che essa assume in politica economica, le caratteristiche di una visione del mon do da ceti medi. Ciò non solo per l’idea di mercato propria della visione individualistica, ma soprattutto per la concezione della lotta darwiniana per la sopravvivenza, secondo cui prevalgono e sopravvivono le imprese che meglio imparano a conoscere il funzionamento di un sistema dato. Ciò non corrisponde affatto all’idea schumpeteriana dell’imprenditore, a cui si era più sopra accennato, e che sembra assai più pertinente. Non si tratta infatti di un imprenditore che si impone e prende il sopravvento sui concorrenti perché innova, cambia le tecnologie, introduce nuovi prodotti, influenza i gusti dei consumatori a suo favore. Le imprese dell’ideologia monetarista invece hanno di fronte a sé prodotti che non mutano, tecnologie che non cambiano se non lentamente, gusti invariati, vale a dire un mondo statico. E quelle fra di loro che per prime imparano a conoscere come funziona questo mondo statico si appropriano di aspettative razionali ed eliminano i concorrenti meno lesti ad imparare. Si potrebbe interpretare tale modo di concepire l’imprenditore come una sua professionalizzazione, nel senso di una sua descrizione che lo assimila ai ceti professionali.

L’ideologia individualistica nelle vicende politico-sindacali

Ma dove l’ideologia individualistica si di spiega completamente, penetrando nel senso comune, senza bisogno di eleganti teorie né di sofisticati linguaggi, è il campo dei rapporti politico - sindacali. Qui la crescita quantitativa dei ceti medi è da anni all’attenzione dei partiti, che di recente hanno addirittura accentuato le loro blandizie con iniziative legislative e culturali (la nuova segreteria del Partito Socialista è quella che, in particolare, si è segnalata in questa direzione).

Studi sociologici, articoli e convegni teorizzano oggi esplicitamente che è finita sia l’epoca dell’operaismo (etichetta dispregiativa ora usata per bollare l’ispirazione classista di una parte del sindacato) sia quella del capitalismo “rampante e selvaggio”.

In mezzo a capitalisti-imprenditori e lavoratori dipendenti, si dice, vanno moltiplicandosi ceti nuovi, corporazioni, professioni. Ma i teorici dei ceti emergenti vanno al di là di questa osservazione di fatto, auspicando che lo spirito “professionale” si diffonda anche tra le imprese e i sindacati. E ciò non solo nel. senso (condivisibile) di diffusione di competenze individuali e informazioni tra imprenditori e quadri sindacali, ma soprattutto nel senso di una assimilazione di quello spirito in tutti i comportamenti sociali. A questo clima, tra l’altro, non è estranea la competizione tra i due maggiori partiti di governo nel dare di sé un’immagine “laica” e “professionistica” esente dalla concezione della politica come servizio o come esercizio e rappresentanza di valori morali, ideali, di classe (con il corollario di una legittimazione delle pratiche più spregiudicate, al limite dell’immoralità).

In campo sindacale l’aspetto più sintomatico di tutto ciò è la teorizzazione di un nuovo clima nelle relazioni industriali, spogliato dello spirito di classe dei “vecchi” rapporti conflittuali e invece ispirato ad una concezione efficientista e “riformista” della contrattazione. Ma anche qui, un’esigenza giusta di arricchire di informazione e competenza i rapporti contrattuali viene usata in modo ideologico per rappresentare in modo mistificato la reale natura delle vicende sindacali. Ad esempio è del tutto evidente che la rigidità confindustriale, prima e dopo il recente accordo, testimonia che l’obiettivo degli imprenditori era ed è quello di modificare la distribuzione del reddito a favore dei profitti; mentre il cosiddetto massimalismo di una parte del sindacato è chiaramente il tentativo (forse l’ulti mo?) di resistere a tale modifica. Qui le motivazioni sono chiaramente motivazioni di classe; giacché, se l’unico obiettivo della vertenza fosse stato una razionale politica di decelerazione dell’inflazione, le parti avrebbero dovuto convenire su una contemporanea desensibilizzazione di tutti i redditi, e dunque un controllo rigoroso di retribuzioni e prezzi, con tanto di obiettivi vincolanti e sanzioni, ed una buona dose di violazione del mercato tanto caro alla cultura individualistica.

Di tutto ciò l’accordo ha solo molto pallide sembianze. Inoltre sembra chiaro, dalle prime autorevoli previsioni sui suoi effetti, che il risparmio di inflazione sarà piuttosto limitato mentre la futura crescita del costo del lavoro sarà inferiore a quella dei prezzi, il che significa un ulteriore aumento della quota dei redditi non da lavoro.

Cosa abbia a che fare tutto ciò con la razionalità, la professionalità, la cultura riformista non è proprio chiaro. L’unica cosa certa è che i ceti medi da cui questi valori mistificati provengono sono i soli a non aver preso impegni antinflazionistici. E quella parte di essi che, lavorando alle dipendenze, devono contrattare i propri redditi, sono stati i primi a rilanciare alto, oltre i tetti stabiliti, nelle rivendicazioni contrattuali.

NOTE


[1] AZIMUT – Rivista sindacale di economia politica e cultura  - Milano via Tadino 23
N° 5 –  MAGGIO –GIUGNO 1983