SCIENZA E TECNOLOGIA AL SERVIZIO DEL PIU’ FORTE[1]

Politiche che privilegino le macchine invece delle persone, che diano la priorità ai mezzi senza preoccuparsi delle finalità sviluppano, sotto le sembianze del progresso, una logica di competizione, di violenza e di esclusione. E solo rimanendo al servizio dell’uomo e scegliendo come cardine il principio di solidarietà, che si possono riconciliare innovazione e cultura

Riccardo Petrella

A ondate successive, da decenni ormai — il controllo della energia nucleare, la bomba atomica e il missile V2 risalgono ai 1942, il primo computer è stato messo in funzione nel 1943 — entrano in azione scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche che provocano trasformazioni profonde. Sconvolgono le strutture economiche e l’organizzazione della produzione, modificano i rapporti umani ed il tessuto sociale. A che scopo? Con quali fini? Qual’è il progetto culturale, progetto di società o di civiltà che ispira questa evoluzione? Considerate alla superficie degli eventi, le trasformazioni economiche e sociali si svolgono sotto la pressione dei mutamenti tecnologici, accelerati a loro volta dai rapidi progressi scientifici. Il fenomeno, del resto, non è nuovo. Come ieri, anche oggi l’influenza della tecnologia non è priva di fondamento. Non si può negare, se non si vuol essere tacciati d’ingenuità o di cecità, che i considerevoli progressi realizzati in questi ultimi decenni hanno segnato la storia recente e stanno, in grande parte, plasmando l’avvenire della società e della condizione umana. Sia che si tratti dell’ingegneria produttiva (macchine utensili a controllo numerico, robot, programmazione e produzione assistite da calcolato re, intelligenza artificiale...), dell’ingegneria biologica e delle biotecnologie, dei nuovi materiali compositi o della fotonica (laser, fibre ottiche, elaborazione dell’immagine...), del lo spazio (satelliti, telelocalizzazioni...) o delle nuove strumentazioni mediche (scanner, risonanza magnetica nucleare...), nessuna attività umana sfugge ormai all’impatto della scienza e della tecnologia.

Ne è testimonianza il nostro stesso linguaggio: si parla di analfabetismo informatico, di autostrade della comunicazione, di edifici intelligenti, di robot autoriproduttori, di bambini-provetta, di telematica rosa... Nel linguaggio spettacolare dei media e della politica, il riferimento alle “nuove tecnologie” è oramai un fatto ordinario.

Gli amministratori locali sognano solo di poter creare città delle scienze e poli tecnologici, di informatizzare il sistema viario, di aprire sportelli tecnologici. Ogni paese del mondo sviluppato si sforza di apparire come la “vetrina” più ricca e moderna nel campo delle realizzazioni scientifiche, e le grandi fiere tecnologiche continuano a moltiplicarsi. Tutto contribuisce a sviluppare il discorso incantatore su di un mondo a venire sbandierato come migliore, grazie a macchine sempre più efficienti e sofisticate.

Un doppio rovesciamento

Ma sotto questa parte visibile e rassicurante dell’iceberg, si mette in moto un doppio rovesciamento dei valori culturali che potrebbe farlo traballare.

Prima inversione: il passaggio accelerato da una cultura rivolta all’uomo e al suo divenire ad una cultura imperniata sulle macchine e i mezzi. In un mondo segnato da molte incertezze e caratterizzato da sistemi di crescente complessità, le prospettive future e le strategie d’azione a breve e medio termine sono sempre più ispirate dalla valorizzazione delle macchine piuttosto che delle persone, incentrate più sui mezzi che sui fini. Lo sviluppo delle macchine è anzi considerato quale condizione dello sviluppo umano, ed i mezzi assumono la funzione di fini. Questo passaggio è chiaramente riscontrabile, per esempio, nei settori dell’informazione e della comunicazione, cuore delle attuali “rivoluzioni”. L’introduzione del computer nelle scuole è stata finora motivata soprattutto da ragioni di politica industriale: offrire un mercato all’industria nazionale del settore. Tranne qualche rara eccezione di natura sperimentale e “locale”, non c’è stato nessun progetto pedagogico innovatore tale da ispirare l’elaborazione e lo sviluppo di un’informatica e di una telematica specifiche ed appropriate.

Un mondo sempre più piccolo

Ancora un esempio: di recente l’industria delle telecomunicazioni e le Ptt hanno, più o meno apertamente, deciso di “imbarcarsi” nell’avventura della creazione, nei prossimi 15 o 20 anni, di un grande sistema nazionale ed europeo di autostrade della comunicazione a larga banda chiamato, in gergo tecnico, rete numerica a integrazione di servizi (Rnis), il cui costo di installazione è per ora valutato a più di mille miliardi di Ecu (oltre un milione e mezzo di miliardi di lire); senza avere ben chiaro, però, quali nuovi servizi di comunicazione un tale sistema sia in grado di assicurare e a quali bisogni dei cittadini risponda. Si può dire che la sigla Rnis corrisponda ad una rete numerica ad integrazione di supporti, più che di servizi! L’argomentazione classica “a difesa” di una situazione di questo tipo è la seguente: la supremazia dell’oggetto sulla natura del servizio è legata al momentaneo sotto-sviluppo del servizio. Si afferma che non si può stabilire a cosa servirà lo strumento finché la diffusione degli oggetti e dei supporti non è più estesa e la tavolozza degli usi meglio rifornita. Di qui il precetto: moltiplichiamo e diffondiamo gli oggetti, il resto verrà in seguito. Così l’innovazione e lo sviluppo di una società sono oramai (e sotto molti punti di vista, ancora) definiti in termini di offerta crescente (in quantità e qualità) di strumenti sempre più efficienti e complessi. La razionalità del fine e l’argomentazione sulle macchine legittimano i processi di allocazione delle risorse disponibili.

C’è però un secondo rovesciamento di prospettiva culturale. Nonostante i discorsi sempre più frequenti sulla mondializzazione dell’economia e della società, la comprensione e la visione del mondo sono sempre meno universalistiche. L’attuale esplosione delle nuove tecnologie ha provocato una notevole distorsione nella mappa del mondo così com’è vista, mentalmente, dai responsabili dei paesi avanzati, in particolare gli europei occidentali, i giapponesi e gli americani. Essi hanno infatti l’impressione che il mondo sia sempre più piccolo e unificato attorno ai loro propri poli. Sono convinti che il mondo che conta, sul piano dello sviluppo economico, sociale e culturale, presente e futuro, sia costituito dalla triade Stati Uniti, Giappone, Europa occidentale. Il problema più importante per i prossimi vent’anni è allora di sapere quale di queste tre entità avrà la supremazia mondiale (in Europa occidentale il problema si sdoppia al livello della leadership europea). Tutto il resto è solo brusio periferico.

Quando un ingegnere, un economista, un imprenditore, un burocrate o addirittura un intellettuale, “scientifico duro” o “pensatore morbido”, si riferisce a un processo o ad un prodotto innovatore, i termini che usa sono, nella stragrande maggioranza dei casi, relativi alla produzione e gestione di macchine e di sistemi tecnici. Le parole-chiave impiegate per descrivere una società innovatrice sono: produttività, competitività, efficienza, resa, ottimizzazione, flessibilità, controllo, adattabilità, misurabilità, gestione. Prese a prestito dal linguaggio dei tecnici, degli economisti e degli amministratori, queste parole-chiave sono state estese senza difficoltà agli altri campi dell’attività sociale ed umana. Nella misura in cui i supporti tecnici diventano parte integrante e insostituibile delle attività umane (è forse pensabile per il futuro una fabbrica senza computer?), ogni attività umana viene razionalizzata, tradotta in entrate e uscite, valutata in termini di costi e utili monetari, mercificata, scambiata come qualsiasi materia prima o prodotto industriale.

Una simile concezione della società innovatrice si traduce di fatto, a livello delle strategie degli attori e delle modalità di comportamento, in due fenomeni di notevole rilevanza.

Essa alimenta in primo luogo un progetto di società tutta imperniata sull’apologia del migliore: “Che il migliore vinca”, “Si lasci ai migliori il compito di regolare i rapporti economici e sociali e di risolvere i conflitti”. Argomentazioni che agiscono come principi, servendo come criteri per l’allocazione delle risorse necessarie alla produzione e per la ripartizione dei redditi e delle ricchezze. In termini operativi “essere il migliore” significa sempre di più essere il più competitivo sul piano della resa economica. Il successo commerciale degli “attori” privati — le imprese — diventa quindi la misura di ciò che è prioritario, anche dal punto di vista dell’interesse generale. E prioritario, nella politica nazionale di un paese, tutto ciò che consenta di ottimizzare, massimizzare la competitività delle imprese.

Ci si può rendere conto dello spessore di questo progetto culturale osservando la struttura del mercato dell’occupazione e la funzione del lavoro nei paesi della Comunità per i prossimi dieci, quindici anni. Tra i vari scenari possibili, non solo verosimile ma anche il più probabile sembra quello della “occupazione per i migliori”. Agli altri non rimarranno che impieghi flessibili, precari, a basso reddito, o l’assistenza pubblica e la povertà.

Il secondo fenomeno rilevante è che un progetto culturale di questo tipo è portatore di una logica di violenza e di forza. Ne è prova il linguaggio utilizzato, tipico di un universo di guerra più che di una società che aspiri a risolvere i propri conflitti interni ed esterni per vie “pacifiche”: si parla, così, di “guerra dei telecom”, “guerre commerciali”, “guerre stellari”. Industriali e responsabili pubblici sono visti come generali che elaborano e portano senza sosta ad esecuzione strategie per la conquista dei mercati. Si preannuncia, per esempio nel campo delle telecomunicazioni, che a causa delle guerre già in corso e a venire vi saranno tra dieci anni ben pochi sopravvissuti e molti perdenti e dispersi. Scienza e tecnologia sono usate come armi al servizio del più forte. In tal senso, pur stimolando la cooperazione fra imprese per la sopravvivenza, esse agiscono come fattore di accentuazione dei conflitti e delle disuguaglianze tra gruppi sociali, regioni e paesi.

Una violenza crescente

Nel caso in cui un progetto del genere dovesse prevalere nel corso dei prossimi dieci, quindici anni, le nostre società vedrebbero molto probabilmente aggravarsi le forme attuali di violenza collettiva.

È quindi necessario, urgente e indispensabile che un’altra serie di parole-chiave, essa pure descrittiva di una società innovatrice, riprenda il posto che le spetta all’interno delle strategie e dei comportamenti dei responsabili. Gioia, bellezza, solidarietà, creatività, autonomia, stabilità, speranza, cooperazione, identità, ripartizione: questa serie di parole non è certo del tutto nuova. Essa ha già ispirata in passato, ed ispira tuttora in alcuni paesi e in alcuni campi, o all’interno di taluni gruppi sociali, l’azione individuale e organizzata. Gli esempi sono numerosi. È attualmente alla base della maggior parte delle innovazioni economiche e sociali: nella gestione e ristrutturazione delle città, nei rapporti della società con l’ambiente circostante, nella riorganizzazione delle imprese (è il caso del progetto Saturno della Generai Motors), nelle forme di ripartizione del lavoro, nelle relazioni economiche tra paesi (convenzione di Lomé), etc.

I principi di razionalità e di legittimazione legati al progetto culturale espresso da questa serie di parole sono quelli della qualità del la vita e della solidarietà. Essi possono e devono ispirare ed orientare l’allocazione delle risorse materiali e immateriali disponibili per la produzione e la distribuzione dei beni dei servizi desiderati e desiderabili. In termini operativi, “mirare alla qualità della vita” e “essere solidale” significano assicurare la più grande capacità di autonomia (apprendimento e padronanza completa) ad ogni persona e a ogni gruppo sociale, nonché la più ampia possibilità di accedere ai beni e servizi di base, nell’interesse del maggior numero di persone e nel rispetto delle altre popolazioni mondiali e delle generazioni future. Significano anche prevenzione e controllo più sistematici della vulnerabilità dei sistemi tecnici ed organizzativi sempre più complessi con cui le nostre  società saranno obbligate a convivere.

La morale della ricompensa

Massima capacità d’autonomia, accesso più ampio possibile alla ricchezza di base, minor vulnerabilità delle nostre società: dovrebbero essere questi i criteri delle priorità, anche nel campo della scienza e della tecnologia. Mentre la prima serie di termini sbocca verosimilmente in uno scenario in cui l’occupazione sarà riservata ai migliori, la seconda serie potrebbe favorire altri due scenari: quello dell’occupazione per tutti e disoccupazione zero nell’anno 2000, o quello della separazione tra reddito e impiego mediante l’istituzione di un sussidio universale di base cui si avrebbe diritto non perché si ha un lavoro, ma per il semplice fatto che si esiste.

Anziché nutrirsi di una logica di violenza e di forza, il progetto culturale connesso alla seconda serie di termini è portatore di una logica di cooperazione, basata sull’uso dei più svariati dispositivi che consentano di ottimizzare l’interesse ben definito di ognuno grazie alla messa in sinergia di risorse, competenze e saperi. Sinergia questa che non è un’opzione, ma una necessità, tanto i sistemi attuali e l’organizzazione della società mondiale sono divenuti complessi, vulnerabili alla base e incerti nella loro evoluzione.

Principio di solidarietà e logica di cooperazione non rispondono soltanto ad una nuova ondata di generosità collettiva. In questo caso particolare, la generosità è dettata soprattutto della razionalità economica del sistema stesso. Contrapporre le due serie di termini auspicando, nello specifico, la vittoria della seconda sulla prima non è perciò un modo di procedere realistico sul breve e medio periodo. Ciò significherebbe dar prova di ingenuità. E dare prova d’ingenuità è anche il contrapporre le due serie considerando la seconda di natura moralistica e filosofica, mentre solo la prima è pragmatica e operativa. In realtà, anche la prima serie è ispirata da concezioni morali e si pretende moralizzatrice.

La logica del migliore

La morale che sottende è quella della ricompensa: il reddito, il potere, il prestigio, secondo la capacità di produzione e appropriazione della ricchezza nell’interesse particolare.

Nella seconda serie di parole-chiave, la risorsa umana cambia statuto. Non è più una materia prima, un fattore di produzione fra altri, il cui utilizzo varia con l’evoluzione tecnologica e la struttura del mercato. Essa diventa il soggetto dell’organizzazione e del controllo dei fattori di produzione materiali e immateriali, in un contesto naturale e sociale che sviluppa una rete densa di relazioni organizzate capace di unificare persone, regioni, paesi in una comunità planetaria divenuta realtà irreversibile. In tal senso, l’intelligenza degli uomini e delle società si misura oramai secondo la loro capacità di trasformare queste reti di relazioni in fonte di liberazione del potenzia le creativo degli individui e delle organizzazioni, di prospettive comuni e di solidarietà nella gestione della società mondiale.

Il secondo rovesciamento culturale operato dal culto delle macchine e dei mezzi si op pone ad una simile intelligenza. L’intelligenza della società mondiale espressa dalla logica del migliore è deformante, isterilente e mistificatoria. Mentre la popolazione mondiale, dal 12 luglio scorso, ha raggiunto la cifra di 5 miliardi, la comprensione e visione del mondo che dominano fra gli abitanti dei paesi industrialmente avanzati (europei occidentali, giapponesi e nordamericani) sono sempre più ridotte alla scala dei loro problemi, delle loro poste in gioco e dei loro interessi particolari, e interpretate unicamente in funzione della loro potenza e sopravvivenza.

Perciò, ai loro occhi, il mondo non conta 5 miliardi di persone. Così come, fra trentatre anni (2020), non ne conterà circa 7,2 (di cui più di 5 miliardi nelle regioni tropicali e subtropicali).

Moltitudini affamate

Il mondo che conta per loro è costituito oggi da circa 750 milioni di consumatori (gli abitanti dell’Europa occidentale, dell’America del Nord e del Giappone) e fra trentatre anni da un po’ meno di un miliardo (i consumatori degli stessi paesi).

Poco importa che il mondo sembri destinato ad essere sempre più popolato da moltitudini affamate, in lotta contro le malattie e la cui speranza di vita non supera i cinquant’anni, e minacciate inoltre di rimanere escluse per sempre da qualsiasi speranza di progresso umano e sociale. Per il momento, ciò che conta per gli abitanti delle tre zone più sviluppate e ricche del mondo è essere competitivi ed arricchirsi sempre più fra di loro. Come ammette Carlo De Benedetti, presidente dell’Olivetti[2], lo sviluppo tecnologico attuale renderà le nazioni ricche ancora più ricche e le nazioni povere ancora più povere. Fra dieci o quindici anni, bisognerà pensare allora ad un nuovo piano Marshall.

La proposta che la triade Europa occidentale, Giappone e Nord America fa al resto del mondo è duplice.

Da una parte, ci si presenta il problema di riavviare la crescita e regolare la questione della leadership mondiale tra di noi; lasciatecelo risolvere, e poi ci occuperemo di voi. Dall’altra, disponiamo di macchine e potenziali tecnologici formidabili (robot, satelliti, computers, biotecnologie, nuovi ceramici...); impossibile, ahimé, arrestare il nostro progresso tecnico. Cercheremo comunque di fare in modo che le sue ricadute siano vantaggiose anche per voi, grazie al trasferimento tecnologico, ai prezzi e alle condizioni che la nostra economia di mercato e il nostro bisogno di potenza consentiranno.

Perciò, lasciamo fare ai grandi complessi finanziari e industriali sovranazionali: conoscono il loro mestiere, sono già mondializzati, dispongono delle risorse finanziarie ed umane necessarie, preparano il futuro di tutto il mondo, per tutto il mondo.

Le molle di una società innovatrice

Quale visione delle cose? Pessimismo, sì, nella misura in cui si può constatare ogni giorno che l’intelligenza degli uomini e delle società è sempre più investita in guerre economiche e di potere, in particolar modo per l’interposizione della tecnologia e della scienza, invece dl essere maggiormente investita nella costruzione di una società mondiale organizzata sul principio della solidarietà. Pessimismo, no, nella misura in cui credo alla crescita continua, al di là dei periodi di piena tal volta drammatici e devastatori, di una coscienza morale mondiale umanistica che ali menti il progetto culturale espresso dalla serie di parole-chiave che descrivono una società innovatrice. No, parimenti, nella misura in cui sono ancora incline a sperare che gli europei (fra gli altri) sappiano raccogliere la sfida far di nuovo traballare l’iceberg, permettendo così alla cultura delle persone e dei fini di ispirare e animare le strategie e i comporta menti degli uomini e dei gruppi organizzati

Già per la sua diversificazione culturali interna, infatti, I’Europa sa fare cooperazione. Ha una cultura di sinergie tra popoli diversi. Sta inoltre vivendo, a sue proprie spese, l’esperienza dei costi enormi e degli sprechi irreparabili connessi alla divisione e alla debolezza delle prospettive comuni. Non è certo, tuttavia, che la sfida venga raccolta.

NOTE


[1] Estratto da AZIMUT n° 32 rivista bimestrale di economia politica e cultura – novembre-dicembre 1987.

L‘articolo qui pubblicato è tratto da Des societés malades de leur culture. Dossier di “Le Monde Diplomatique”: Manière de voir, n. 1, dic. 1987.

[2] Intervista concessa a “Fortune” febbraio 1987.