VALORI E PREZZI, COL PASSARE DEL TEMPO

Giorgio Lunghini

            E' curioso che Piero Sraffa abbia prefigurato nel suo "manifesto" del 1926 (secondo la definizione di G. L. S. Schakle) lo stato in cui si trova oggi la teoria del valore e dunque della distribuzione. In Le leggi della produttività in regime di concorrenza[1] Sraffa scriveva:

            Un fatto che colpisce nella posizione attuale della scienza economica è il quasi unanime accordo che si è formato fra gli economisti intorno alla teoria del valore di concorrenza che trae ispirazione dalla fondamentale simmetria delle forze della domanda e di quelle dell'offerta ed è basata sull'ipotesi che le cause essenziali della determinazione del prezzo di particolari merci possano essere semplificate e raggruppate in modo da venire rappresentate da una coppia di curve intersecantisi di domanda e di offerta collettiva. Questo stato di cose è in così marcato contrasto con le controversie sulla teoria del valore le quali hanno caratterizzato l'economia politica del secolo scorso, che quasi si crederebbe che da quegli urti di pensiero sia finalmente sprizzata la scintilla di una verità definitiva. Gli scettici potrebbero forse pensare che l'accordo sia dovuto, più che alla convinzione di ciascuno, all'indifferenza che i più sentono oggi di fronte alla teoria del valore; indifferenza giustificata dal fatto che questa, più che ogni altra parte della teoria economica, ha perduto molta della sua importanza diretta per la politica pratica, e specialmente in rapporto a dottrine di cambiamenti sociali, che in altri tempi le era stata data da Ricardo, e poi da Marx, e contro di essi dagli economisti borghesi; essa si è trasformata sempre più in "una tecnica del pensiero" che non fornisce alcun "risultato concreto immediatamente applicabile alla pratica"[2]. E' in sostanza uno strumento pedagogico che, un poco come lo studio dei classici e al contrario dello studio delle scienze esatte o del diritto, ha scopi esclusivamente formativi della mente, e perciò è poco atto a suscitare le passioni degli uomini, anche se uomini accademici, e rispetto al quale non val la pena di dipartirsi da una ormai accettata tradizione.

            Comunque ciò sia, il fatto dell'accordo rimane.

            Nella riposante veduta che ci offre la moderna teoria del valore, una macchia che rompe l'armonia dell'insieme è rappresentata dalla curva di offerta, basata sulle leggi della produttività crescente e decrescente. Che le sue fondamenta sieno meno solide di quelle delle altre parti dell'edificio, viene generalmente riconosciuto. Che esse sieno addirittura così deboli da non poter reggere il peso che vien caricato su di esse, è un dubbio che sonnecchia in fondo alla coscienza di molti, ma che i più riescono silenziosamente a soffocare. Di quando in quando, qualcuno non resiste più alla pressione dei suoi dubbi, e li espone all'aperto: allora, per evitare il diffondersi dello scandalo, egli è prontamente tacitato, spesso con qualche concessione e ammissione parziale delle sue obiezioni, di cui, naturalmente, la teoria aveva implicitamente tenuto conto. Ora, col passare del tempo, le qualificazioni, le limitazioni, e le eccezioni si sono accumulate e si son divorata, se non tutta, certo la maggior parte della teoria: se il loro effetto complessivo non appare evidente è perché esse sono sparse nelle note a piè di pagina dei testi, e in articoli, e prudentemente isolate le une dalle altre.

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            A quasi settant'anni dall'articolo citato, a più di trenta da Produzione di merci a mezzo di merci[3], esaurita la controversia fra le due Cambridge che queste Premesse a una critica della teoria economica avevano suscitato, la moderna teoria del valore, almeno a giudicare dai manuali, ci offre di nuovo una "riposante veduta". La teoria del valore è ridotta, senza premesse sufficientemente esplicite e senza residui dichiarati, a una teoria dei prezzi. Alle teorie del valore sono al più concessi rinvii o trattazioni di carattere 'storico', fingendo che storia del pensiero e dell'analisi economica ed economia politica siano discipline distinte e separate. Gli scritti che compongono questo volume sono intesi a ricordare la variegata e vitale ricchezza di pensiero, di problemi e di analisi, e di conflitti intellettuali e reali, permanenti e sottostanti, nascosti sotto questa veduta tranquillizzante e apparentemente definitiva, ma che tale non è.

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            Alle categorie economiche occorre dare una determinazione storica indagandone la preistoria, il contenuto che esse avevano prima che l'economia politica si costituisse in disciplina autonoma e sistematica, in scienza del capitalismo. Ciò poteva avvenire e avvenne soltanto quando acquistò autonomia l'attività economica, quando da finalizzata ad altro (al consumo signorile, per esempio) divenne fine a se stessa e alla propria riproduzione. Lo scopo non è più la produzione di valori d'uso, ma di valori di scambio, non di beni ma di merci, non di utilità ma di profitti. In quanto il processo capitalistico di produzione e riproduzione economica e sociale è un processo circolare, fine a se stesso e serpentinamente avvolto su se stesso, una sua rappresentazione e analisi quantitativa richiede una teoria dei prezzi che consenta una contabilità adeguata delle grandezze rilevanti: prodotto sociale, capitale, consumo necessario, sovrappiù. Questa contabilità è una premessa necessaria ma non sufficiente per la seconda parte del discorso, l'analisi della distribuzione del prodotto sociale fra profitti, rendite e salari. Soprattutto questa seconda parte dello stesso discorso, la parte relativa alla distribuzione del prodotto sociale fra le differenti classi della comunità, per non essere astratta e storicamente indeterminata richiede non solo una teoria dei prezzi ma anche (e prima) un'indagine circa le cause della ricchezza e l'origine del valore. Questo è quanto fanno i Classici (da Petty a Ricardo), massimamente Marx, e i primi Neoclassici.

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            In Ricardo e in Marx, in maniere diverse, la teoria del valore è strumento per la determinazione del saggio dei profitti e quindi per l'analisi della distribuzione, dell'accumulazione e della crescita. Tuttavia anche prima di Adam Smith le teorie del valore e della distribuzione sono essenziali ai fini dell'analisi delle forme di accrescimento della ricchezza nazionale. Di questa prima fase della teoria del valore tratta il saggio di Gianni Vaggi, Teorie della ricchezza dal mercantilismo a Smith. La letteratura mercantilista non assegna grande importanza al problema dei prezzi relativi sul mercato interno. Con l'emergere e l'estendersi dell'attività manifatturiera il problema della relazione fra costi di produzione e prezzi di vendita, diventa invece centrale. D'altra parte, in quanto i costi di produzione includono i salari corrisposti nella cottage industry, vengono alla luce le relazioni distributive fra le diverse classi sociali. Nell'ambito delle teorie della ricchezza il ruolo di maggior rilievo spetta a William Petty, in considerazione dell'importanza che egli attribuisce alle tecniche di produzione nell'accrescimento della ricchezza nazionale e della centralità, nella sua analisi, del concetto di sovrappiù e di divisione tecnica e sociale del lavoro. Per Petty le fonti della produzione e quindi del valore sono la terra e il lavoro. Sostiene la stessa tesi Cantillon: "il valore intrinseco di una cosa è la misura della quantità di terra e lavoro che entra nella sua produzione". Ma poiché si può convertire il lavoro in terra, si può dire che il valore intrinseco di una merce è dato dalla quantità di terra direttamente e indirettamente necessaria per la sua produzione: è questa la teoria del valore-terra.

            L'autore cruciale, in questa fase della costituzione dell'economia politica, è François Quesnay, per il quale la ricchezza non può avere origine nello scambio; sono produttive (di sovrappiù) soltanto le attività agricole; la ricchezza non è un puro dono della natura, mentre è il frutto della grande coltivazione "capitalistica" che segna il passaggio dall'agricoltura feudale a quella moderna. Normalmente si sostiene che in Quesnay non vi sarebbe una vera e propria teoria del valore, mentre si deve notare che per Quesnay il "prezzo fondamentale" dipende da due ordini di circostanze: la tecnologia e la distribuzione del reddito. Riprenderà questo punto di vista lo Sraffa del 1960. Con Quesnay vi è dunque un superamento di Petty e di Cantillon, per i quali il valore intrinseco delle merci dipende soltanto dai costi tecnici di produzione e non anche dalla distribuzione del reddito. E' però soltanto con Adam Smith, grazie alla sua nozione di prezzo naturale, che si dà integrazione fra teoria del valore, teoria della distribuzione e teoria della ricchezza. Il concetto di prezzo naturale, d'altra parte, serve a sostenere una visione della crescita economica legata all'accumulazione del capitale.

            Il saggio di Riccardo Bellofiore, Per una teoria monetaria del valore-lavoro. Problemi aperti nella teoria marxiana, tra radici ricardiane e nuove vie di ricerca, affonta un problema centrale, e attualissimo, nella teoria e nella storia della teoria del valore, quello della validità (e dei limiti) delle teorie ricardiana e marxiana del valore, alla luce dello schema di Sraffa e della moderna teoria del circuito monetario. Dopo una rassegna critica dell'inesauribile dibattito sulla "trasformazione" dei valori-lavoro in prezzi di produzione, Bellofiore sottolinea la rilevanza di quella interpretazione della teoria marxiana del valore che vi vede non tanto una teoria dello scambio e dei prezzi di produzione, quanto una teoria "macroeconomica" dello sfuttamento nella sfera della produzione ed una teoria "microeconomica" del conflitto e dell'innovazione nel processo di lavoro capitalistico. Questa posizione, che attenua di molto la tesi prevalente circa le radici ricardiane della teoria marxiana e ne sottolinea invece le affinità con l'impostazione schumpeteriana (peraltro riconosciute dallo stesso Schumpeter), è stata oggetto di interessanti sviluppi a partire dalla fine degli anni settanta da parte di quegli autori che vedono il processo capitalistico come un circuito monetario attivato dal finanziamento bancario della produzione, ovvero, marxianamente, come un processo del tipo D - M - D' (anche se gli schemi del circuito monetario, in quanto schemi, hanno difficoltà a rendere conto del fatto che il processo si chiuda con un D' normalmente maggiore di D).

            Come si è appena detto, la questione della trasformazione e in generale della teoria del valore-lavoro è tutt'altro che chiusa. Da un punto di vista storico, tuttavia, negli anni intorno al 1870 essa fu considerata chiusa. Di questa fase della storia della teoria del valore e dei prezzi si occupa Fabio Ranchetti, nel saggio Dal lavoro all'utilità. Critica dell'economia politica classica e costituzione della teoria economica moderna. Così come il sistema teorico marxiano si fonda su una critica dell'economia politica classica, il pensiero economico "moderno", quello che nasce con la "rivoluzione marginalista" di Jevons, si fonda su una critica dello stesso pensiero economico classico, di Ricardo in particolare, e sopratutto del pensiero di Marx. I protagonisti di queste critiche alle teorie del valore di Ricardo e di Marx sono Walras, Wicksteed e Wicksell. Tali critiche, indipendentemente dagli argomenti specifici, hanno un comune fondamento epistemologico: una concezione dell'economia politica pura come scienza fisico-matematica, come quella "branca della matematica [secondo Walras] il cui oggetto è la teoria del valore di scambio". Una teoria siffatta, inoltre, non può prescindere dal ruolo che nella determinazione dei prezzi hanno i mercati: il mondo stesso non è altro che un mercato.

            Ranchetti chiarisce la portata e i limiti di questa visione "moderna" della 'scienza economica'. Se con gli economisti classici questa si costituisce come scienza autonoma, con la "rivoluzione marginalista" essa si costituisce come scienza speciale, rifiutando la forma letteraria, il linguaggio ordinario, e adottando invece la forma matematica. Ci si deve allora chiedere se la forma matematica consenta di trattare tutti i problemi economico-politici e metafisici davvero rilevanti. La risposta è ovviamente negativa e questo significa, per quanto riguarda le teorie del valore, la loro riduzione senza residui a una teoria dei prezzi. Più in generale ciò significa l'adozione, come canone, del precetto di Wittgenstein: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere". Mentre è proprio di questo che si dovrebbe parlare[4].

            Le relazioni fra scarsità e valori o prezzi (qui, per le ragioni dette sopra, i termini sono considerati sinonimi) sono trattate da Aldo Montesano nel suo saggio Scarsità e prezzi. Questo scritto si lega ai precedenti prendendo le mosse dal paradosso del valore, per il quale non solo i beni più utili generalmente non hanno maggior valore, ma vi sono anche cose molto utili che hanno valore nullo. Come ricorda Montesano, nell'ambito della nozione di utilità qualitativa due sono state le vie seguite per risolvere tale paradosso. La prima assegna all'utilità unicamente il ruolo di prerequisito del valore e ricerca la determinazione di questo sulla base di un principio diverso dall'utilità. La seconda ricerca invece la determinazione del valore associando all'utilità un'altra proprietà dei beni: la loro scarsità, o rarità. La scuola classica, come si è visto nei saggi precedenti, ha seguito la prima via, determinando il valore naturale delle merci con la teoria del valore-costo di produzione o con quella del valore-lavoro, e indicando la scarsità come rilevante soltanto nella determinazione dei prezzi di mercato (Smith) e dei prezzi delle merci non riproducibili (Ricardo). La seconda via è stata iniziata, in maniera non analitica, da Galiani, da altri economisti italiani del Settecento, e da Walras padre. Sarà con la nozione quantitativa di utilità, introdotta con la funzione di utilità, e con l'impiego della derivata di questa funzione, l'utilità marginale, che la teoria soggettiva del valore acquisterà rilievo analitico. Dopo un'ampia trattazione del tema, inevitabilmente in forma matematica, Montesano giunge a una conclusione importante: che le tradizionali relazioni fra scarsità e prezzi valgono soltanto in condizioni particolari, poiché "le ipotesi dei teoremi che assicurano quelle relazioni sono sufficientemente forti da rendere il rapporto fra scarsità e prezzi non un fondamento assoluto della teoria economica, ma uno dei suoi numerosi campi di indagine".

            Come mostrano i rinvii presenti in tutti i saggi compresi in questo volume, il libro di Piero Sraffa del 1960, Produzione di merci a mezzo di merci, costituisce ancora oggi il riferimento sibillino e anche per questo irrinunciabile di ogni riflessione storico-critica o analitica circa lo stato attuale delle teorie del valore e dei prezzi. Di Sraffa e la teoria del valore si occupa nel suo saggio Ernesto Screpanti. Si troverà qui un "compendio" di Produzione di merci utile di per sé ma anche funzionale all'interpretazione che ne segue, circa la pars destruens e la pars construens dell'opera di Sraffa, e circa il significato del suo sottotitolo: Premesse a una critica della teoria economica. E' forse questo il punto di maggior interesse, dove si mostra che la critica sraffiana alla 'teoria marginale del valore e della distribuzione' non costituisce certo "uno sfondamento su tutto il fronte, il sistema teorico neoclassico nelle versioni più raffinate e astratte restando olimpicamente indifferente ad essa. Ma anche che le versioni più volgari e apologetiche, e più umane, e ancora oggi insegnate in molte università d'élite ne escono stroncate". Grazie a Sraffa, infatti, è divenuta tanto evidente quanto sottaciuta l'infondatezza di quelle proposizioni neoclassiche secondo le quali, dato l'impiego degli altri fattori produttivi, "un aumento dell'impiego di capitale fa diminuire la sua produttività marginale e quindi la sua remunerazione. Ma l'idea che il capitale sia un fattore di produzione in grado di 'produrre' la propria remunerazione dipende in maniera essenziale dalla possibilità di applicare biunivocamente le remunerazioni alle quantità d'impiego. E' questa idea che è dimostrata insostenibile: il saggio di profitto può variare in maniera del tutto indipendente dalle variazioni della quantità di capitale. E tutto quel che si può dire a questo proposito si riduce a ciò: dato il salario, il saggio di profitto può variare se varia la tecnica. Se aumenta, non è perché diminuisce l'intensità di capitale. Né perché aumenta la sua produttività". Si è aggiunto il corsivo per sottolineare l'attualità e la rilevanza di questo risultato sraffiano, a fronte dell'ingenuità analitica e politica dello slogan circa il salario come variabile indipendente, e le responsabilità del "capitale" quanto alla scelta, all'uso e alla forma stessa delle "macchine".

            L'obiettivo di Sraffa è, in un certo senso, lo stesso di Marx: la critica dell'"economia volgare". Secondo Screpanti Produzione di merci dovrebbe essere letto come un primo capitolo del Capitale quale lo avrebbe scritto Marx se fosse stato un po' meno ricardiano e un po' più marxista. Secondo altri[5] Produzione di merci è invece un capitolo dei Principî, risolto e riscritto da Sraffa. La differenza è però irrilevante, se si conviene che Produzione di merci viene dopo i Principî ma prima del Capitale. E sopratutto se si conviene che il valore è un rapporto sociale.

            Chiude il volume il saggio di Terenzio Cozzi su Distribuzione e crescita, che in fondo riprende il tema d'apertura: come spiegare l'aumento nel tempo del prodotto nazionale e la sua divisione tra coloro che hanno contribuito a produrlo.

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            Questo volume doveva comprendere un contributo di Claudio Napoleoni. Il 24 marzo 1988 Claudio Napoleoni mi scrisse la lettera che qui riproduco:

            Caro Giorgio,

                                               ti darei davvero volentieri lo scritto che mi chiedi (tanto più in quanto mi pare di averlo già in testa), ma negli ultimi tempi la mia malattia s'è aggravata e la mia capacità di lavoro si è ridotta drasticamente; cosicché non mi sento in condizioni di assumere impegni. La cosa più saggia è che io rinunci e che tu mi sostituisca con qualcun altro.

            Davvero me ne dispiace, ma penso che non si possa fare altrimenti.

            Molti cari saluti

                                                                                  Claudio

P.S. Se scrivessi quel contributo, lo organizzerei attorno a questa idea. La tesi secondo la quale in Sraffa il prodotto netto è l'effetto della "produttività del lavoro" e che, perciò, il profitto in tanto si dà in quanto il regime di proprietà e le connesse istituzioni sociali impediscono al salario di acquisire tutto il surplus, comporta la ripresa letterale di due concetti di Smith: quello, appunto, di produttività del lavoro e quello, che ne consegue, di deduzione dal prodotto del lavoro. Ora questi due concetti smithiani sono stati annientati dalla critica di Marx (malgrado alcune, anzi molte, apparenze in contrario: ma Marx era spesso contraddittorio col nucleo essenziale della sua stessa critica). Per rendersi conto di ciò, bisogna superare la dimensione naturalistica del pensiero di Marx, e acquisire, di lui, il punto essenziale, per cui la totalità della forza produttiva è trasferita dal lavoratore al capitale; il che comporta che la teoria dell'alienazione vada assunta in senso forte, cioé non come descrittiva di una condizione umana ma come rappresentazione dell'essenza di una storia data. Si vedrebbe allora che, fatta salva la reintegrazione del capitale variabile, ogni eccedenza del salario rispetto a tale reintegrazione è un "arbitrio", anche se è su quest'arbitrio che si fonda e si allarga la democrazia (ma non sapevamo già che capitalismo e democrazia sono tra loro incompatibili?). Dunque Sraffa andrebbe considerato come un sistema "chiuso", e la chiusura è proprio di tipo "neoclassico", nel senso che nessun reddito è residuale.

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            Col passare del tempo la questione del valore, dell'origine del valore, degli aspetti politici e filosofici della 'scienza' economica, è passata di moda e interessa ormai altri dipartimenti. Claudio Napoleoni era fra i pochi a collocare in questa dimensione più ampia la sua ricerca: "Io non avrei in vita mia affrontato mai una questione teoretica se non fossi stato spinto a farlo da un interesse politico". Spero che questo volume contribuisca a riportare quella questione e questo punto di vista all'attenzione degli economisti, sopratutto dei più giovani.

Università di Pavia, agosto 1992

NOTE


[1] Testo originale italiano dell'articolo pubblicato in inglese nell'"Economic Journal" del dicembre 1926 e riprodotto con il titolo Le leggi della produttività in regime di concorrenza nella Nuova collana degli economisti, vol IV, UTET, Torino 1937; poi in: Valore, prezzi e equilibrio generale, a cura di G. Lunghini, il Mulino, Bologna 1971.

[2] P.Sraffa rinvia qui a J. M. Keynes, alla "Introduzione" di Keynes ai Cambridge Economic Handbooks.

[3] Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica, Einaudi, Torino 1960.

[4] Su questo punto, che a parere di chi scrive è rilevante per una interpretazione dell'enigmatico Produzione di merci a mezzo di merci, sia consentito un rinvio a G. Lunghini, Introduzione a G. Lunghini (a cura di), Valore, prezzi e equilibrio generale, il Mulino, Bologna 1971, a G. Lunghini, Teoria economica ed economia politica: Note su Sraffa, in: G. Lunghini (a cura di), Produzione, capitale e distribuzione, ISEDI, Milano 1975, e a G. Lunghini, La crisi dell'economia politica e la teoria del valore, Feltrinelli, Milano 1977.

[5] Anche su questa questione sia consentito il rinvio a G. Lunghini, Marx prima di Sraffa, "Studi economici", 1984 n. 22.