I NUOVI COMPITI DELLO STATO[1]

Giorgio Lunghini

In realtà questa società possiede i mezzi umani e tecnici per abolire la miseria nella sua forma materiale più rozza. Non conosciamo alcuna epoca in cui questa possibilità sia stata grande come oggi. Alla sua attuazione si frappone solo l’ordinamento proprietario.

M. Horkheimer, Crepuscolo, 1926-1931

Premessa

Una questione di grande importanza, normalmente liquidata in maniera sommaria, è il ruolo dello stato e della politica nella situazione conseguente al tramonto del fordismo come forma di organizzazione dei rapporti materiali dell’esistenza. Per accompagnare la Postfazione di Michel Aglietta[2], di cui ho proposto all’Editore la traduzione italiana, in queste pagine sosterrò che la politica e lo stato avranno un peso decisivo nel contrastare, o nel consentire, la definitiva riduzione della società civile al mercato e del legame sociale al cash nexus.

            Nella dinamica dei sistemi capitalistici sono certamente intervenuti cambiamenti importanti, ma meravigliarsene è ingenuo. La capacità di mutare forma per conservare la propria sostanza è infatti la caratteristica principale del capitalismo. Dunque sarebbe altrettanto ingenuo dichiararsi disarmati di fronte a queste metamorfosi, rinunciare a quanto insegna l’economia politica circa il funzionamento e le possibili forme di governo delle economie capitalistiche, e considerare necessitato e salvifico il motto prepotente del laissez faire, di cui si dimentica l’origine e si tace un pronome, così oltretutto riducendo l’idea liberale al liberismo sfrenato. Secondo Benedetto Croce “l’idea liberale vuole la libertà per tutti”. Quando Colbert chiese al mercante Legendre “Que faut-il faire pour vous aider?”, la risposta di Legendre fu invece “Nous laissez faire”. La differenza è tra quel “tutti” e questo “nous”. In campo economico, tuttavia, la premessa è identica, ed è di questa premessa che occorre liberarsi: non è vero, come pretendono sia i liberali che i liberisti, che il funzionamento del sistema economico sia retto da un ordine naturale, al pari del movimento degli astri nella volta celeste e della circolazione del sangue nel corpo umano. Se non venisse impedito o turbato, si sostiene, questo ordine assicurerebbe la riproduzione regolare della ricchezza delle nazioni. Lo stato normale del sistema economico sarebbe dunque l’equilibrio, un equilibrio unico, stabile e ottimo; le crisi sarebbero delle eccezioni temporanee provocate da fattori esogeni; gli interventi di politica economica risulterebbero inutili se non dannosi[3]. È questa, in breve, l’idea di Pangloss: “In questo mondo, che è il migliore dei mondi possibili, ogni avvenimento è concatenato: se non foste stato cacciato per amore di Cunegonda a pedate sul didietro da un bel castello, se non foste passato sotto l’Inquisizione, se non aveste corsa l’America a piedi e non aveste perduti tutti i montoni del bel paese dell’Eldorado, non mangereste qui cedri canditi e pistacchi”.

            Se davvero vivessimo nel migliore dei mondi possibili, l’unica dottrina economico-politica sensata sarebbe proprio il laissez faire. Tuttavia la premessa è dubbia, e d’altra parte Lord Keynes e altri eretici hanno mostrato quanto poco solidi siano i princìpi metafisici e i presupposti economici sui quali questa dottrina si basa, e quanto tragiche ne sono le implicazioni: “Se lo scopo della vita è di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”[4]. Questo è precisamente quanto sta accadendo, e dunque si dovrebbe convenire con Adam Smith, quando nella Ricchezza delle nazioni scrive che “in ogni società progredita e incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo”; a meno che il governo non si prenda cura di impedire che “il salario entri a far parte del sistema”, per usare una espressione di Piero Sraffa, “sulla stessa base del combustibile per le macchine o del foraggio per il bestiame”. L’ordine sociale in cui viviamo certamente produce ricchezza materiale. Il lato negativo dell’ordine presente è però la contraddizione tra disoccupazione e distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito e bisogni sociali insoddisfatti, una contraddizione che l’ideologia del mercato tende a nascondere e che il mercato non potrà comporre, essendone invece la causa. Circa la funzione e i limiti del mercato è straordinariamente chiaro un liberale e liberista insospettabile, Luigi Einaudi[5]:

Badisi bene che, affermando essere il mercato lo strumento adatto per indirizzare la produzione nel senso di produrre beni e servigi, precisamente nella quantità e della qualità corrispondenti alla domanda degli uomini, non si afferma che il mercato indirizzi altresì la produzione a produrre beni e servigi nella quantità e nella qualità che sarebbe desiderata dagli stessi uomini. Questi fanno quella domanda che possono, con i mezzi, con i denari che hanno disponibili. Se avessero altri e maggiori mezzi, farebbero un’altra domanda: degli stessi beni in quantità maggiore o di altri beni di diversa qualità. Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni.

              La questione del rapporto tra stato e mercato torna dunque di grande attualità e qui dunque si apre lo spazio della politica, il cui compito è di governare i rapporti tra processo di produzione e processo di riproduzione, cioè i rapporti tra economia e società. Se non si vuole restare oppressi e soffocati dall’incubo del contabile (che necessariamente abita e agita i sonni del capitale, poiché “le condizioni di esistenza della borghesia la costringono a calcolare”), allora compito primario della politica è la messa in discussione non tanto dei mezzi quanto dei fini, la riaffermazione della centralità del lavoro, l’assunzione dell’obiettivo reclamato da Claudio Napoleoni: “non si tratta di uscire dal capitalismo per entrare in un’altra cosa, ma si tratta di allargare nella massima misura possibile la differenza tra società e capitalismo, di allargare cioè la zona di non identificazione dell’uomo con la soggettività capovolta”.

              In un inedito del 1988[6], Napoleoni rifletteva su un problema di straordinaria attualità, sul quale oggi disgraziatamente poco si ragiona: i rapporti tra efficienza e alienazione. Nel quadro della discussione allora in corso nell’allora P.C.I. (questo era allora il livello della discussione), Napoleoni rilevava che nella posizione del suo interlocutore[7] venivano intrecciati e qualche volta confusi due piani di discorso, che invece vanno tenuti distinti: l’efficienza del sistema e l’autonomia dell’uomo. Il primo piano è quello in cui si sottolinea l’inefficienza globale del sistema, cioè il fatto che accanto a un sistema di imprese che progredisce sul terreno della produttività vi è un sistema economico-sociale complessivo che introduce elementi gravi di inefficienza. Di qui, allora si diceva, la necessità di una ripresa e di una riqualificazione seria della politica di programmazione, in maniera che vi fosse un terreno nuovo e più avanzato di intervento pubblico che, anziché soffocare il mercato, costituisse la condizione del suo sviluppo nell’arena internazionale. Il secondo piano di discorso, più profondo, è quello dell’alienazione: alienazione intesa come perdita di soggettività, come consumismo inteso in senso forte (cioè quella situazione in cui il consumatore  è servo anziché sovrano). È il piano in cui si riprende la tematica dell’inclusione dell’uomo moderno dentro meccanismi, non importa se pubblici o privati, che lo dominano, ne espropriano l’autonomia, ne fanno l’elemento di una macchina. A questo proposito, Napoleoni rifiutava l’idea che si tratti di ‘nuove alienazioni’: si tratta sempre della stessa, vecchia cosa che il marxismo ha già analizzato: “È la vecchia cosa. Cioè la separazione tra il lavoro ed i bisogni, è il dominio del mercato come meccanismo impersonale, è insomma la fine dell’uomo e della sua soggettività”.

            Questi due piani, secondo Napoleoni, vanno tenuti distinti per una ragione tanto fondamentale da essere trascurata: “Noi potremmo avere un sistema, una situazione in cui il problema dell’efficienza globale del sistema sia sostanzialmente risolto o avviato a soluzione e, tuttavia, tutti i problemi attinenti al secondo piano siano ugualmente presenti con la stessa, medesima forza”. Una implicazione importante di questa tesi di Napoleoni è che i due problemi, l’efficienza del sistema e l’autonomia dell’uomo, non possono essere risolti insieme: “Non è affatto vero [...] che si possa risolvere contemporaneamente il problema di una maggior quantità di crescita e di una modifica della qualità dello sviluppo”. È invece vero che la risoluzione dell’un problema pregiudicherebbe la risoluzione dell’altro. Napoleoni concludeva dicendo questo:

noi da molto tempo, quasi vergognandocene un po’, abbiamo messo da parte una questione che è radicata nella nostra tradizione, che è quella del capitalismo come sistema storico che in quanto tale può avere una morte, così come ha avuto una nascita. Abbiamo messo da parte tale questione, d’altro canto, per una ragione non volgare che va riconosciuta in tutto il suo peso ed era il fatto che l’uscita dal capitalismo non si riusciva mai a definirla in termini positivi, ma soltanto in termini negativi. Ebbene, io credo che il processo storico sia giunto ad un punto in cui una definizione in positivo di questa uscita possa essere data e cito tre terreni su cui può essere data, in modo che questa questione, ma perciò la stessa tradizione del marxismo, possa essere ripresa senza paura di nessuno, senza che nessuno abbia gli strumenti concettuali per poterla contestare.

            I tre terreni sono quelli dell’uso della tecnologia non come fine ma come strumento di benessere reale; della questione femminile come questione di liberazione degli uomini; della questione della natura intesa in senso forte: “la questione della natura non è la questione dell’ambiente”. È questa una prospettiva non molto diversa da quella di Keynes, che pure marxista non era[8]:

Nel secolo XIX si sviluppò fino a un livello stravagante il criterio che, per brevità, possiamo chiamare del tornaconto finanziario, come criterio per valutare l’opportunità di intraprendere una iniziativa di natura sia privata che pubblica. Ogni manifestazione vitale fu trasformata in una sorta di parodia dell’incubo del contabile. Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, si crearono i bassifondi; e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo perché questi, secondo il criterio dell’impresa privata, ‘fruttavano’, mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto di follia che avrebbe, nell’imbecille linguaggio di stile finanziario, ‘ipotecato il futuro’. Ma nessuno può credere oggi che l’edificazione di opere grandi e belle possa impoverire il futuro, a meno che non sia ossessionato da false analogie tratte da una astratta mentalità contabile. [...] È la concezione del Cancelliere dello Scacchiere come presidente di una sorta di società per azioni che deve essere abbandonata.

Globalizzazione e saggio dei profitti

La diffusa credenza che i cambiamenti intervenuti nella dinamica dei sistemi capitalistici impongano un drastico ridimensionamento dei compiti dello stato nell’economia e nella società è una conclusione affrettata. Tali cambiamenti vengono sommariamente imputati alla cosiddetta ‘globalizzazione’, dimenticando che questa non è un fenomeno nuovo e che questa sua nuova fase è essa stessa (così come la finanziarizzazione dell’economia) una conseguenza della fine del ciclo fordista. ‘Globalizzazione’ è termine vago (e alcuni gli preferiscono ‘mondializzazione’), ma se con esso si vuole designare la vocazione internazionale del capitale si allude a un fenomeno già manifesto nel tardo Ottocento e ben chiaro a Karl Marx (e agli storici dell’economia, che lo fanno risalire al XVI secolo). Per Marx l’industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma di un processo di produzione[9]:

Vediamo dunque che il modo di produzione, i mezzi di produzione, sono costantemente sconvolti, rivoluzionati, che la divisione del lavoro porta con sé necessariamente una maggiore divisione del lavoro, l’impiego di macchine un maggiore impiego di macchine, il lavoro su vasta scala un lavoro su scala più vasta. È questa la legge che di continuo getta la produzione borghese fuori del suo vecchio binario e costringe il capitale a tendere sempre più le forze produttive del lavoro, perché esso le ha tese una prima volta; la legge che non gli concede nessuna tregua e gli mormora senza interruzione: Avanti! Avanti! [...] Se ci si rappresenta questa agitazione febbrile contemporaneamente su tutto il mercato mondiale, si comprenderà come l’aumento, l’accumulazione e la concentrazione del capitale hanno come conseguenza una divisione del lavoro ininterrotta, che travolge se stessa e viene introdotta su una scala sempre più gigantesca, un ininterrotto impiego di nuovo macchinario e il perfezionamento del vecchio. [...] La guerra industriale tra capitalisti ha come carattere specifico che le battaglie in essa vengono vinte meno con l’arruolamento di nuove armate di operai che con il loro licenziamento. I comandanti, i capitalisti, fanno a gara a chi può licenziare il maggior numero di soldati dell’industria. È vero che gli economisti ci raccontano che gli operai resi superflui dalle macchine trovano lavoro in nuove branche dell’industria. Essi non osano sostenere direttamente che gli stessi operai che vengono licenziati trovino un rifugio in nuovi rami di lavoro. I fatti gridano troppo forte contro questa menzogna. Essi si limitano a affermare che per altre parti costitutive della classe operaia, per esempio per quella parte della giovane generazione operaia che era già pronta a entrare nel ramo dell’industria rovinato, si apriranno nuovi campi di impiego. [...] Riassumendo: quanto più il capitale produttivo cresce, tanto più si estendono la divisione del lavoro e l’impiego delle macchine. Quanto più la divisione del lavoro e l’impiego delle macchine si estendono, tanto più si estende la concorrenza fra gli operai, tanto più si contrae il loro salario. [...] Nella misura in cui i capitalisti sono costretti da questo movimento a sfruttare su una scala più grande i mezzi di produzione già esistenti, e a mettere in moto per questo scopo tutte le leve del credito, nella stessa misura aumentano le crisi. Esse diventano più frequenti e più forti per il solo fatto che, nella misura in cui cresce il bisogno di mercati più estesi, i nuovi mercati da sfruttare si fanno sempre più rari, poiché ogni crisi precedente ha già conquistato al commercio mondiale un mercato fino ad allora non conquistato o sfruttato dal commercio soltanto in modo superficiale. [...] Si ha così la produzione progressiva di una sovrappopolazione operaia relativa, ossia di un esercito industriale di riserva. Questo costituisce la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico. Il meccanismo della produzione capitalistica fa in modo che l’aumento assoluto del capitale non sia accompagnato da un corrispondente aumento della domanda generale di lavoro. Se da un lato l’accumulazione del capitale aumenta la domanda di lavoro, dall’altro essa aumenta l’offerta di operai mediante la loro ‘messa in libertà’. Allo stesso tempo la pressione dei disoccupati costringe gli operai occupati a rendere liquida una maggior quantità di lavoro, rendendo in tal modo l’offerta di lavoro in una certa misura indipendente dall’offerta di operai. Il movimento della legge della domanda e dell’offerta di lavoro su questa base porta a compimento il dispotismo del capitale.

            Il processo di costituzione e crescita di un esercito industriale di riserva disponibile, nel quadro di “questa agitazione febbrile su tutto il mercato mondiale”, è in Marx l’altra faccia del processo di caduta tendenziale del saggio dei profitti, processo cui possono essere ricondotti prima il fordismo, poi la globalizzazione e la finanziarizzazione conseguenti al tramonto di questo. Questa legge, come tante altre ‘leggi’ dell’economia, è oggi dimenticata; mentre a me pare ancora utile per intendere le dinamiche di lungo periodo del capitalismo, a condizione di ricordare che non si tratta di una legge deterministica, come invece vorrebbe la vulgata lectio. L’argomentazione che la vulgata imputa a Marx è la seguente. Per definizione il saggio dei profitti è pari al rapporto fra profitti e capitale investito (costante e variabile). Se si dividono numeratore e denominatore per il valore del capitale variabile si ottiene che il saggio dei profitti è pari al saggio di sfruttamento (corrispondente al rapporto fra profitti e salari), diviso per il rapporto tra capitale costante e capitale variabile (la composizione organica del capitale), più uno. Data la distribuzione del reddito tra capitalisti e lavoratori, i primi cercheranno di comprimere i salari sostituendo lavoratori con macchine. La sostituzione di macchine a lavoratori produce disoccupazione, dunque concorrenza tra disoccupati e occupati, dunque diminuzione del salario. Questa pratica, per il singolo capitalista, è razionale: al singolo capitalista conviene che la forza lavoro sia pagata il meno possibile. Ciò che conviene al singolo capitalista non conviene però al complesso dei capitalisti, poiché i redditi che pagano le merci prodotte sono principalmente i salari. D’altra parte l’aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile, a parità di ogni altra circostanza, farà algebricamente diminuire il saggio dei profitti. A seconda dei punti di vista si potrà dunque sostenere che il sistema capitalistico è destinato a crollare, oppure che Marx ha torto poiché le statistiche dimostrerebbero che tale tendenza non si dà. Nel primo caso è il capitalismo come forma storica che sarebbe destinato a finire, nel secondo è la storia stessa che con il capitalismo sarebbe finita. Non è vera né l’una né l’altra prognosi, poiché non è vero che le circostanze restino ferme, e non sempre è vero che i capitalisti siano miopi. Henry Ford e il fordismo ne hanno dato dimostrazione. La ‘legge’ marxiana (secondo Sraffa) va intesa come ‘tendenziale’, in quanto descrive il risultato che si avrebbe in seguito alla accumulazione del capitale, se non operassero altre forze (scoperte, invenzioni, cambiamento tecnico).

Le cause antagonistiche, fordismo e postfordismo

Le circostanze non restano ferme poiché la ‘tendenza’ è contrastata da altre forze, da quelle che Marx chiama ‘cause antagonistiche’[10]. La tendenza a una disoccupazione crescente e a una caduta del saggio dei profitti

non è altro che una nuova espressione del progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro, che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo dell’impiego crescente di macchinario e di capitale fisso in generale, una maggiore quantità di materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotto da un eguale numero di operai nello stesso tempo, cioè con un lavoro minore. [...] La progressiva tendenza alla diminuzione generale del saggio generale del profitto è dunque solo una espressione peculiare al modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro. [...] Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioè ai mezzi di produzione consumati produttivamente), anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva in plusvalore dovrà essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto costituisce però il saggio dei profitti, che dovrà per conseguenza diminuire costantemente.

            Nella realtà questa diminuzione non è stata forte e rapida così come “la legge in quanto tale” indurrebbe a prevedere, dunque devono agire delle influenze antagonistiche che contrastano o neutralizzano l’azione della legge in generale, dandole il carattere di una semplice tendenza:

Qualora si confronti l’imponente sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale quale si presenta anche solo negli ultimi 30 anni [Marx scriveva verso il 1865] con la produttività di tutti i periodi precedenti, qualora soprattutto si consideri l’enorme massa di capitale fisso che in aggiunta al macchinario propriamente detto entra nel processo della produzione sociale nel suo insieme, si comprende come la difficoltà, che ha costituito finora oggetto d’indagine da parte degli economisti, di spiegare la diminuzione del saggio dei profitti, venga ora sostituita dalla difficoltà opposta, consistente nello spiegare le cause per cui questa diminuzione non è stata più forte o più rapida.

            Le più generali di queste cause antagonistiche, per Marx, sono l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario al di sotto del suo valore, la diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante, la sovrappopolazione relativa, il commercio estero, l’accrescimento del capitale azionario. L’elenco dovrebbe e potrebbe essere riveduto e allungato, ma la conclusione rimane. La contraddizione esistente nel modo capitalistico di produzione consiste nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive, che vengono continuamente a trovarsi in conflitto con le specifiche condizioni di produzione entro le quali il capitale si muove e può solo muoversi: “Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario, se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo conveniente e umano la massa della popolazione”.

            La letteratura sul postfordismo è ormai sterminata, ma essendone l’oggetto ancora indefinito (se non con la vuota etichetta di ‘nuova economia’) servirà piuttosto ricordare che cosa il fordismo è stato. Secondo Antonio Gramsci, che prontamente e meglio di altri ne aveva colto l’essenza, il fordismo risultava dalla necessità immanente di superare il vecchio individualismo economico per giungere alla organizzazione di una economia programmatica, appunto al fine di contrastare la caduta del saggio dei profitti[11]. Il programma fordista richiede che nell’economia e nella società funzioni la loi des débouchés di Say, secondo la quale è la stessa produzione, l’offerta, che crea il ‘fondo’ da cui scaturisce la domanda dei prodotti (dopo Marx e dopo Keynes sappiamo che in verità la cosiddetta ‘legge dei mercati’ è un caso particolare). La produzione fordista è produzione di massa di beni di consumo durevoli standardizzati e destinati prevalentemente al mercato interno. Sono necessari grandi investimenti, che hanno cospicui effetti moltiplicativi sul reddito e sull’occupazione. È possibile, e necessaria, una spartizione fra capitale e lavoro salariato dei guadagni di produttività generati dalla organizzazione tayloristica del lavoro. (Il salario, per riprendere la formulazione di Sraffa, non dovrà figurare soltanto come il combustibile per le macchine o il  foraggio per il bestiame, ma dovrà comprendere anche una parte del sovrappiù prodotto[12]). Imprese, famiglie, governo, la società tutta, nel mondo fordista dovevano avere orizzonti temporali lunghi. L’organizzazione tayloristica del lavoro nella fabbrica aveva bisogno di essere accompagnata da una appropriata organizzazione della società e da politiche economiche e sociali di sostegno.

            L’adattamento ai nuovi metodi di produzione e di lavoro non poteva avvenire soltanto attraverso la coazione sociale: l’apparato di coercizione necessario per ottenere il risultato voluto sarebbe costato più della politica di ‘alti salari’ che venne praticata. Se la produzione cresce come la produttività, e se il mercato è prevalentemente interno, soltanto con una politica di alti salari la produzione e dunque i profitti possono essere realizzati. Alti salari significano alti costi di produzione, ma d’altra parte rendono possibile che gli stessi lavoratori acquistino le merci da loro prodotte. La coercizione doveva dunque essere sapientemente combinata con la persuasione e il consenso e questo poteva essere ottenuto nelle forme proprie della società allora data mediante una maggiore retribuzione e altri benefici, che permettessero un determinato tenore di vita capace di mantenere e reintegrare le forze logorate dal nuovo tipo di fatica. L’altra faccia del benessere materiale era uno stretto controllo delle condizioni di vita in generale: “Ford dà 6 dollari al minimo, ma vuole gente che sappia lavorare e sia sempre in condizione di lavorare, che cioè sappia coordinare il lavoro col regime di vita”. Si trattava, insomma, di collocare tutta la vita del paese sulla base dell’industria, senza bisogno di tanti intermediari politici e ideologici. Gramsci pensava che il fordismo potesse essere il punto estremo del processo di tentativi successivi da parte dell’industria di superare la legge tendenziale della caduta del saggio dei profitti: “Non appena i nuovi metodi di lavoro e di produzione si saranno generalizzati e diffusi, appena il tipo nuovo di operaio sarà creato universalmente e l’apparecchio di produzione materiale sarà ancora perfezionato, il turnover eccessivo verrà automaticamente ad essere limitato da una estesa disoccupazione e gli alti salari spariranno”.

            La previsione di Gramsci circa la fine del fordismo (e degli alti salari) si avvera con la crisi dei primi anni ottanta. Il fordismo, tuttavia, non è “il punto estremo del processo di tentativi successivi da parte dell’industria di superare la legge tendenziale della caduta del saggio dei profitti”. Come risposta a quella crisi si apre infatti la fase attuale, nella quale si rompe il nesso tra produzione e occupazione e tra crescita della produttività del lavoro e crescita del salario, e nella quale, contro le promesse del liberismo, anziché la diffusione del benessere si afferma l’incertezza circa il futuro dei nuovi working poors e la prepotenza politica dei nuovi e sempre più ricchi rentier. Nessuna delle circostanze che avevano dato vita al paradigma fordista, tanto meno il loro insieme, può però ripetersi spontaneamente o essere l’obiettivo di politiche economiche credibili. Oggi non è sostenibile nessuna teoria della compensazione, e non è pensabile che la crescita del prodotto, ai tassi ai quali essa può effettivamente e durevolmente realizzarsi, comporti una crescita dell’occupazione in forme socialmente accettabili, cioè diverse da quelle della presunta ‘nuova economia’ americana. La base materiale del paradigma fordista è irripetibile nella sfera della produzione. Nella sfera della distribuzione è irripetibile una politica di alti salari. Il mercato delle merci non ha confini e non ha confini la domanda di lavoro. Il capitale non ha nazione e cerca forza lavoro là dove questa costa meno, mentre resta confinata al mercato nazionale l’offerta di lavoro. Il salario viene contabilizzato soltanto come costo di produzione, non anche come domanda effettiva. Un livello elevato di occupazione non è più redditizio. Sono cambiati i termini del rapporto tra capitale e lavoro salariato, sia esso di conflitto o di compromesso; e sono cambiati i termini del patto tra capitale e classe politica nazionale per quanto riguarda la configurazione dello stato sociale. Si potrebbe dire, con una ambigua espressione degli anni trenta, che si tratta di una forma di “razionalizzazione sbagliata”, una razionalizzazione che mentre abbassa i costi di produzione di una impresa singola eleva i costi di produzione sociale, “arricchendo così l’individuo e impoverendo la società”.

            Ora il mercato dei beni di consumo durevoli si è progressivamente saturato, l’innovazione di processo prevale sull’innovazione di prodotto, gli orizzonti temporali delle decisioni di investimento si sono accorciati, quelli geografici allargati. L’introduzione delle nuove tecnologie nei processi produttivi non si traduce più in grandi progetti di investimento capaci di effetti moltiplicativi che almeno in parte compensino il risparmio di lavoratori, bensì in una diminuzione generalizzata dei coefficienti tecnici. Il tempo di ritorno dei nuovi investimenti è più breve di quelli tradizionali, anche perché a ciò costringe il controllo dell’industria da parte della finanza. In condizioni di incertezza, e di incertezza crescente, ciò trattiene dall’assunzione contrattualmente duratura di forza lavoro e rende convenienti configurazioni ‘flessibili’ della fabbrica, del mercato del lavoro e dell’intera società. Alla assunzione di nuovi lavoratori si preferiscono l’intensificazione e il prolungamento dei tempi di lavoro e il lavoro straordinario nella fabbrica, e il decentramento nella società delle spese generali. Nella fabbrica la flessibilità viene predisposta mediante nuovi modelli organizzativi dei rapporti tra lavoratori e tra lavoratori e macchine, nuovi modelli organizzativi che incorporano la coazione nella forma di autoimposizione e autocontrollo, da parte dei lavoratori, dei ritmi di lavoro. Nella società la flessibilità viene introdotta mediante un uso ideologico del principio di efficienza e mediante un uso politico della disoccupazione e della precarietà. Il capitale, d’altra parte, spesso preferisce gli investimenti speculativi agli investimenti produttivi di sovrappiù. La rendita impedisce, nel senso ricardiano - keynesiano, l’accumulazione di capitale produttivo, e con efficacia la contrasta politicamente in quanto preferisce la disoccupazione all’inflazione da costi.

            I costi economici e sociali della disoccupazione, nel lungo periodo, sono maggiori di quelli di un’inflazione moderata[13]. Tuttavia l’accorciamento degli orizzonti temporali del capitale, della politica e dello stesso buon padre di famiglia, rende irrilevanti le prospettive di lungo periodo. È qui che la questione economica si manifesta come questione sociale e politica. L’esercito industriale di riserva acquista sempre più la funzione di esercito politico di riserva, che è la forma di coercizione più funzionale a questa fase. Mediante l’esercito industriale di riserva il capitale controlla la società sul mercato del lavoro, mediante l’esercito politico di riserva la controlla sul mercato politico. Così si afferma l’imperdonabile semplificazione per cui quel che va bene per le singole aziende, andrà bene per l’economia tutta e dunque per la società (scontando, con Margaret Thatcher, che “non esiste niente che possa chiamarsi società”, ma che esistono soltanto individui in lotta fra loro). Circa le conseguenze della tecnologia dell’informazione, i cui eventuali effetti sul benessere dell’umanità difficilmente saranno equidistribuiti, si deve infatti distinguere tra effetti microeconomici di breve periodo e effetti macroeconomici di lungo periodo. Per le singole imprese è ovvio che questo tipo di innovazione comporti aumenti di produttività, per il semplice fatto che si tratta di un cambiamento tecnico labour saving nel senso di risparmio di lavoratori. Ci si dovrebbe però chiedere se non si commetta un errore di aggregazione, quando si pretenda di usare gli stessi criteri contabili per stendere i bilanci aziendali e per valutare la ricchezza delle nazioni.

            Molti promettono che gli effetti negativi sull’occupazione in alcuni settori saranno compensati da dinamiche di segno opposto in altri settori. Dal punto di vista dell’occupazione, questo sembrerebbe dimostrato dalla esperienza degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e (al contrario) dell’Europa continentale. Circa i meccanismi di compensazione, tuttavia, io resto dell’idea che tale compensazione sarà parziale, resto dell’idea del Ricardo On machinery[14]:

Sono stato dell’avviso che l’applicazione di macchine che avessero l’effetto di risparmiare lavoro a un qualsiasi ramo di produzione fosse un bene per tutti, accompagnato soltanto da quel poco di inconvenienti che nella maggior parte dei casi accompagna il trasferimento del capitale e del lavoro da un impiego all’altro. [...] Queste erano le mie opinioni, ed esse continuano inalterate per quanto riguarda il proprietario terriero e il capitalista; ma sono convinto che la sostituzione delle macchine al lavoro umano sia spesso assai dannosa agli interessi della classe dei lavoratori.

            Un’idea, questa di Ricardo, confermata dagli spostamenti nella distribuzione della ricchezza e del reddito tra paesi ricchi e paesi poveri, e tra ricchi e poveri all’interno dei paesi ricchi (sia in America che in Europa). È questa una dinamica minacciosa da un punto di vista etico e politico, ma anche da un punto di vista strettamente economico, poiché impone pratiche spietate, all’insegna del beggar-my-neighbour, sia questi un altro paese o un nostro compaesano, e prefigura coincidenti crisi da sproporzione, di realizzazione e da tesaurizzazione. Il rischio è moltiplicato dalla crescente dissociazione tra finanza e economia reale. Prima della fine di Bretton Woods, circa il 90% di tutte le transazioni in valuta estera servivano a finanziare il commercio o investimenti a lungo termine, solo per il 10% erano a breve termine. Oggi le percentuali si sono rovesciate: per oltre il 95% si tratta di transazioni a breve termine. Mentre si è tentati di pensare, secondo un giudizio di Sraffa raccolto da Samuelson, che ancora oggi è davvero produttivo soltanto quel lavoro fissato in beni materiali, “che si possono prendere a calci e assicurare”.

            Qualche dato Le conseguenze più importanti dei cambiamenti in atto nelle tecniche di produzione e nelle forme di organizzazione del lavoro sono quelle sull’occupazione e sulla distribuzione del prodotto sociale. Le prime, sulle quali tornerò più avanti, sono diverse nelle diverse aree; le seconde sono universali e conducono a una crescente ineguaglianza tra paesi e all’interno dei singoli paesi[15].

            Per quanto riguarda il divario di reddito tra paesi, basterà ricordare che - contro ogni aspettativa teorica e promessa politica di convergenza - negli ultimi trenta anni esso è più che raddoppiato. Il divario di reddito tra il quinto degli individui che vive nei paesi più ricchi e il corrispondente quinto dei paesi più poveri era di 30 a 1 nel 1960, superiore al 60 a 1 nel 1990 e del 74 a 1 nel 1997. (Un fenomeno analogo si era manifestato con la globalizzazione di fine Ottocento. Il divario era di 3 a 1 nel 1820, di 7 a 1 nel 1870, di 11 a 1 nel 1913.) Nel corso degli ultimi anni Novanta, il quinto degli individui che vive nei paesi a reddito più elevato ha raggiunto l’86% del PIL mondiale (il quinto più povero solo l’1%), l’82% dei mercati mondiali delle esportazioni (1%), il 68% degli investimenti diretti esteri (1%), il 74% delle linee telefoniche mondiali (1,5%). La concentrazione di reddito, di risorse e di ricchezze tra individui, imprese e paesi, negli ultimi dieci anni del secolo ha raggiunto livelli impressionanti. I paesi OCSE, con il 19% della popolazione mondiale, controllano il 71% del commercio mondiale di beni e servizi e il 58% degli investimenti diretti esteri. Le ricchezze dei tre miliardari primi in classifica sono maggiori della somma del PNL di tutti i paesi meno sviluppati e dei loro 600 milioni di abitanti. La recente ondata di fusioni e acquisizioni sta concentrando il potere industriale nelle mani di poche, gigantesche imprese: le prime 10 industrie di pesticidi e le prime 10 compagnie di telecomunicazioni controllano circa l’85% dei rispettivi mercati mondiali. Solo 10 paesi contano per oltre l’80% delle spese globali in ricerca e sviluppo. Questo è il risultato della concorrenza.

            L’ineguaglianza è elevata (e crescente) non soltanto tra paesi, ma anche all’interno dei paesi ricchi. Nella tabella sono riportati il PIL reale pro capite del 20% più povero della popolazione, il PIL reale pro capite del 20% più ricco, il PIL reale pro capite del 20% più ricco rispetto al 20% più povero. I dati si riferiscono alla metà degli anni Novanta e sono espressi in dollari a parità del potere d’acquisto (al tasso PPA, un dollaro ha lo stesso potere d’acquisto sul PIL interno, del dollaro statunitense sul PIL statunitense).

Reddito reale pro capite (dollari PPA)

 

20% più poveri

20% più ricchi

ricchi su poveri

UK

3.963

38.164

9,6

US

5.800

51.705

8,9

Francia

5.359

40.098

7,5

Italia

6.174

37.228

6,0

Germania

6.594

37.963

5,8

            Il reddito disponibile, tuttavia, non dice tutto sulle condizioni di vita dei singoli e della collettività. Qui torna utile un indicatore, l’indice di povertà umana (IPU), rozzo come tutti gli indicatori ma meno di quanto non sia il PIL, poiché oltre che del reddito pro capite tiene conto non soltanto di ciò che si può comperare, ma anche di ciò che non si ha. Esso raggruppa, in un unico indice composito, la deprivazione in quattro dimensioni di base dell’esistenza umana: una vita lunga e sana, la conoscenza, la disponibilità economica e l’inclusione sociale. Per i paesi industrializzati, le dimensioni comprese nell’indice di povertà umana (espresso in percentuale della popolazione) sono la percentuale di individui con speranza di vita inferiore ai 60 anni di età (in percentuale della popolazione), il tasso di analfabetismo funzionale degli adulti (tra i 16 e 65 anni, in percentuale della popolazione), il tasso di disoccupazione di lungo periodo (12 mesi o più, in percentuale della forza lavoro), la percentuale di individui che vivono al di sotto della soglia di povertà di reddito (50% del reddito medio personale disponibile). Tra i paesi industrializzati, la Svezia ha la povertà umana più bassa (7%), seguita dai Paesi Bassi e dalla Germania (rispettivamente 8,3% e 10,4%); mentre i paesi con la povertà umana più elevata sono gli Stati Uniti (16,5%), l’Irlanda (15,3%) e la Gran Bretagna (15,1%). Riporto qui i dati per Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania. I dati si riferiscono alla metà degli anni Novanta.

Indicatori di povertà umana

 

IPU

Speranza
di vita < 60

Analfabeti

Disoccupati

Poveri

U.S.

16,5

12,6

20,7

0,5

19,1

U.K.

15,1

9,8

21,8

3,3

13,5

Francia

11,9

11,3

16,8

4,8

7,5

Italia

11,6

9,0

16,8

8,1

6,5

Germania

10,4

10,7

14,4

4,3

5,9

U S

16,5

12,6

20,7

0,5

19,1

Un fatto stilizzato: produzione e occupazione

Il regime fordista era caratterizzato da due relazioni robuste e stabili: tra produzione e occupazione nella sfera della produzione, tra crescita della produttività e crescita del salario nella sfera della distribuzione. Entrambe sono venute meno, e tutte e due a seguito delle nuove forme del cambiamento tecnico e della organizzazione del lavoro.

            La prima discontinuità rispetto all’epoca fordista, circa il nesso tra produzione e occupazione, può essere riassunta nel seguente fatto stilizzato: è ancora vero che se la produzione cala l’occupazione cala, ma non è più vero l’inverso, che se la produzione riprende anche l’occupazione riprende. La disoccupazione viene cristallizzata mediante ristrutturazioni tecnologiche e organizzative e diventa tendenzialmente irreversibile (tendenzialmente: a meno che non intervengano politiche economiche appropriate). Fino a quando l’economia cresce durevolmente, le conseguenze delle ristrutturazioni tecnologiche e organizzative si avvertono poco. Quando la produzione cala, ogni singolo produttore riduce l’occupazione. Quando la produzione riprende, ma non ci si aspettano nuove onde lunghe e favorevoli, tutti i singoli produttori troveranno conveniente sfruttare i

cambiamenti tecnici e organizzativi che hanno consentito di risparmiare lavoratori, per non assumerne di nuovi. Va detto che questo ‘fatto stilizzato’ nulla ha a che fare con le profezie circa la fine del lavoro.[16]

            La rottura nella relazione fra produzione di merci e occupazione è il segno più vistoso della consumazione del paradigma fordista e dell’avvento di nuovi modelli di produzione, di consumo e di controllo della società, in un modo di produzione il cui fine è pur sempre la realizzazione di un sovrappiù appropriabile come profitto o come rendita. La dissociazione tra crescita della produzione e crescita dell’occupazione, d’altra parte, imporrebbe una analoga discontinuità nella concezione e nelle pratiche della politica economica, ma così non avviene. Se il numero dei lavoratori occupati dipendesse monotonicamente dalla quantità di prodotto, allora per una crescita dell’occupazione sarebbe necessaria e sufficiente la ricetta della sintesi neoclassica: diminuzione del salario reale e rilancio della produzione di merci. Venuta meno la relazione biunivoca e stabile tra occupazione e produzione, questa speranza è ingenua se non colpevole. Politiche intese a favorire l’accumulazione capitalistica potranno al più mantenere l’occupazione esistente (a condizione che esercitino un effetto anticiclico, riducendo gli scostamenti del ciclo economico dalla linea di tendenza). Gli anelli della catena causale keynesiana (così come è rappresentata nei manuali: aspettative > investimenti > domanda effettiva > occupazione) si sono allentati o aperti, e la bassa crescita del prodotto pone una barriera sulla curva di domanda di lavoro. L’occupazione dunque non crescerebbe in maniera significativa per effetto di una diminuzione del salario reale, diminuzione che d’altra parte, dopo Keynes, sappiamo essere (forse) condizione necessaria ma certamente non sufficiente per l’aumento dell’occupazione. In presenza di una barriera alla crescita del prodotto, la riduzione del monte salari può anzi generare crisi di realizzazione e dunque una diminuzione dell’occupazione. Ciò significa che provvedimenti intesi a spingere la produzione, come il taglio neoclassico del salario o il sostegno pseudokeynesiano della domanda di merci, hanno effetti piuttosto sulla distribuzione del prodotto sociale che non sull’occupazione. Possono servire a far aumentare i profitti e le rendite, ma non anche a far crescere automaticamente, in maniera sensibile e duratura, il numero degli occupati e i loro redditi da salario.

            Per quanto riguarda la seconda discontinuità rispetto all’epoca fordista (la dinamica salariale non è più commisurata alla dinamica della produttività), essa dipende dal fatto che la produttività del lavoro è sempre più una manifestazione del general intellect, nonché dalla crescita dell’esercito industriale di riserva (oggi composto dai disoccupati e dai lavoratori precari). Diventa perciò possibile continuare a pretendere “gente che sappia lavorare e sia sempre in condizione di lavorare”, senza più dover pagare “6 dollari al minimo”. È il punto di vista di Sir James Steuart: “Considero dunque le macchine come dei mezzi per aumentare il numero di persone industriose che non si è obbligati a nutrire”. I conseguenti cambiamenti nella distribuzione della ricchezza e del reddito tra le differenti classi della società, d’altra parte, sono funzionali al sostegno del saggio dei profitti. Questi cambiamenti costituiscono la principale causa antagonistica, nella sfera della distribuzione, alla caduta del saggio dei profitti altrimenti associata all’aumento della composizione organica del capitale[17].

            Una prospettiva storica    Secondo Eric J. Hobsbawm, che qui riprendo perché mette in una prospettiva storica l’argomento di queste pagine, “il vecchio secolo non è finito bene”[18]. Per Hobsbawm, l’età dell’oro del capitalismo fu il grande balzo in avanti delle economie di mercato dei paesi sviluppati, una ventina di paesi abitati da circa seicento milioni di persone negli anni Sessanta. Restano dunque da coinvolgere nell’economia mondiale gli altri seimila milioni: anche un pessimista congenito dovrà ammettere che per il mondo degli affari questa è una prospettiva incoraggiante. La prospettiva è però offuscata dall’allargarsi apparentemente irreversibile del divario tra paesi ricchi e paesi poveri. A meno di un improbabile calo del tasso di natalità nel Terzo mondo, che potrebbe essere causato soltanto da terribili epidemie, questo divario continuerà a crescere, smentendo così la tesi dell’economia neoclassica che un commercio internazionale libero e illimitato permetterà ai paesi più poveri di raggiungere quelli più ricchi. Una economia mondiale che si sviluppa alimentando diseguaglianze crescenti, quasi inevitabilmente genererà gravi problemi. Secondo Hobsbawm, tre aspetti dell’economia mondiale sono fonte di allarme. In primo luogo la tecnologia continua a espellere dalla produzione di beni e servizi il lavoro umano, senza procurare nello stesso settore abbastanza lavoro per gli espulsi dal circuito produttivo e senza neppure garantire un tasso di crescita economica sufficiente a assorbirli in altri settori. In secondo luogo, mentre il lavoro resta comunque un fattore importante della produzione, la globalizzazione dell’economia ha spostato l’industria dai suoi vecchi centri nei paesi ricchi, dove il costo del lavoro è elevato, ai paesi il cui vantaggio principale, a parità di altre condizioni, è che le braccia e le menti costano molto meno. Sotto la pressione della concorrenza universale, ciò determinerà lo spostamento del lavoro dalle regioni con alti salari a quelle con salari bassi, e il calo dei salari nelle regioni con salari più alti. I paesi industriali più vecchi, come la Gran Bretagna, potrebbero perciò avviarsi a diventare economie a basso costo del lavoro, ma ciò produrrà conseguenze sociali esplosive e non consentirà a questi paesi di diventare competitivi su questo punto con i paesi di nuova industrializzazione. Storicamente, pressioni simili sono sempre state controbilanciate dall’azione dello stato, per esempio nella forma del protezionismo. Tuttavia, e questo è il terzo minaccioso aspetto dell’economia mondiale, il suo trionfo e il trionfo di una ideologia liberista estrema hanno indebolito o addirittura rimosso quasi tutti gli strumenti che medicavano gli effetti sociali degli sconvolgimenti economici. L’economia mondiale è un motore sempre più potente e incontrollato, e Hobsbawm si domanda e ci domanda se sia possibile sottoporla a controllo e, se mai, da parte di chi. L’età dell’oro dei paesi sviluppati a economia di mercato si fondava sulla crescita dei redditi reali, per la semplice ragione, già notata, che le economie di consumo di massa hanno bisogno di una massa di consumatori che dispongano del reddito necessario per acquistare beni di consumo durevoli a alta tecnologia.

            La maggior parte dei redditi che consentivano insieme accumulazione del capitale e diffusione del benessere materiale veniva guadagnata grazie a un regime di ‘alti salari’. I salari elevati sono ora diventati a rischio, anche se la massa dei consumatori resta più essenziale che mai per l’economia. Nei paesi ricchi il mercato di massa era stato stabilizzato dallo spostamento dall’industria alle occupazioni del terziario e dai trasferimenti dello stato (per lo più nel settore dei servizi sociali e assistenziali). Questi fattori stabilizzanti vengono ora a essere minati. Con la fine del secolo breve, i governi occidentali e l’ortodossia economica concordano nel ritenere che il costo dei servizi sociali e assistenziali è troppo alto e deve essere ridotto. La riduzione in massa dell’occupazione nei settori fino a ora più stabili del terziario (pubblico impiego, banca e finanza, la grande massa dei lavori impiegatizi resi superflui dagli ammodernamenti tecnologici) è diventata comune. Secondo Hobsbawm, due ostacoli impediscono una visione lungimirante dell’economia. Il primo è l’assenza di una minaccia politica credibile al sistema capitalistico: l’URSS e la Germania nazista avevano fornito al capitalismo lo stimolo per riformare se stesso. Il secondo ostacolo alla riforma del capitalismo è proprio il processo di globalizzazione, i cui effetti sono accentuati dalla demolizione dei meccanismi nazionali intesi a proteggere le vittime di una economia mondiale di libero mercato dai costi sociali di ciò che viene spesso descritto come “il sistema di creazione della ricchezza considerato dovunque come il più efficiente che l’umanità abbia finora escogitato”.

            Quelli prefigurati da Hobsbawm non sono pericoli immediati per l’economia mondiale, almeno finché il declino dei vecchi mercati è compensato dalla espansione nel resto del mondo oppure finché il numero complessivo di coloro i cui redditi reali aumentano cresce più velocemente del resto. Se l’economia mondiale può abbandonare una minoranza di paesi poveri, in quanto economicamente non interessanti e privi di importanza, può operare allo stesso modo con le persone povere all’interno dei confini di ogni paese, finché il numero dei consumatori potenzialmente interessanti resta abbastanza grande. Osservando la situazione dall’alto e con brutale distacco, come fanno gli economisti e i contabili aziendali, è possibile affermare che nessuno ha realmente bisogno di quel 10% di popolazione statunitense le cui paghe orarie reali negli ultimi vent’anni sono calate del 16%. A questi problemi, una economia mondiale di libero mercato senza restrizioni né controllo non può offrire alcuna soluzione. Se mai, non può che peggiorare fenomeni come la crescita di una disoccupazione o di una sottooccupazione permanenti, dal momento che la scelta razionale delle imprese, in nome del profitto, è ridurre il più possibile il numero dei dipendenti, che sono più costosi dei computer, e far ridurre il più possibile tutte le imposte e tasse, in particolare quelle per la sicurezza sociale.

Il modello americano

Il modello americano e la cosiddetta ‘nuova economia’ esercitano oggi un pericoloso fascino su molti governi europei. Circa la nuova economia verrebbe da dire che in essa un vecchio economista avrebbe riconosciuto l’operare della desueta legge di Colin Clark: la saturazione dei mercati e la crescita della produttività, dunque la diversione delle iniziative imprenditoriali e degli investimenti verso attività ritenute più profittevoli, inducono un processo di evoluzione strutturale tale che nelle diverse fasi della crescita economica è via via dominante il settore primario (l’agricoltura), il settore secondario (l’industria), infine il settore terziario (commercio e servizi). Si tratta semplicemente di un processo di cambiamento nella scelta dei mercati, delle tecniche di produzione e delle forme di organizzazione del lavoro, non di una soluzione di continuità nel rapporto tra capitale e lavoro. Il quale non è meno salariato che in passato, se è vero, come io credo sia, che lavoro salariato è qualsiasi lavoro eterodiretto, qualsiasi lavoro che direttamente o indirettamente, nella fabbrica, negli uffici, a casa propria o nella società, sia prestazione d’opera la cui quantità, qualità e remunerazione dipende dalle decisioni del capitale circa le proprie modalità economiche e politiche di riproduzione, e in particolare circa la scelta delle merci da produrre, delle tecniche di produzione e delle forme di organizzazione del lavoro. L’apparente autonomia di molti ‘nuovi lavori’ in realtà nasconde il ritorno a forme di lavoro servile, prive di qualsiasi mediazione o protezione sindacale o istituzionale.

            Della robustezza e della desiderabilità del modello americano dubitano in molti, e non soltanto gli autori più radicali. Paul Samuelson, ad esempio[19], pone l’accento su due caratteristiche del modello americano: 1) L’economia americana è una economia spietata. 2) La forza lavoro americana è una forza lavoro spaventata. Le nuove forme della concorrenza, internazionale ma soprattutto interna, e lo spostamento a destra degli elettori della classe media, hanno evirato le organizzazioni sindacali. È vero che negli ultimi vent’anni del XX secolo ci sono stati 30 milioni di nuovi posti di lavoro, ma in prevalenza si è trattato di lavori mediocri. Dal 1977 i redditi medi delle famiglie americane sono stati stazionari o sono addirittura diminuiti. Dal 1980 la diseguaglianza, per effetto dei cambiamenti della tecnologia e nelle forme di mercato, è aumentata. I titolari di diritti di proprietà hanno acquisito una quota dei frutti del progresso economico maggiore di quella acquisita dai lavoratori, soprattutto dei lavoratori non specializzati e con un basso livello di istruzione. Lo spostamento a destra dell’elettorato, d’altra parte, ha ridotto gli effetti di compensazione assicurati in passato dai trasferimenti di reddito operati dallo stato: “C’è qualcosa di paradossale nel fatto che proprio quando la gente ha più bisogno di sicurezza sociale, ce ne sia di meno”. I lavoratori americani sono ora spaventati e insicuri, e poiché non possono contare su trasferimenti da parte dello stato, sono costretti a accettare salari di equilibrio anche bassi. La logica dei datori di lavoro non è cambiata, ma in una situazione di concorrenza spietata la domanda “ Lei che cosa ha fatto per me, negli ultimi tempi?” provoca inevitabilmente il torcibudella. Nelle forme attuali della concorrenza, il darvinismo sociale non è un credo, è la realtà.

            Samuelson osserva che governare in maniera accettabile un’economia che tende alla legge di Say, è più facile che governare un sistema caratterizzato da rigidità strutturali. Attualmente l’America si trova in una situazione prossima alla legge di Say. Questa è però una condizione fragile e temporanea, e dunque là si potrebbe riproporre la questione della distribuzione della ricchezza e del reddito come questione politica e di politica economica. In questo campo l’Europa ha una tradizione antica e illustre, che sarebbe colpevole abbandonare per inseguire e mimare un altro modello, soltanto perché nuovo.

Concezioni alternative della politica economica

Ci si deve ora domandare se, a fronte di questi cambiamenti strutturali, la teoria della politica economica offre strumenti che possano rimediarne le conseguenze sull’occupazione e sulla distribuzione del prodotto sociale. Ho già accennato alla probabile inefficacia di politiche di rilancio della produzione riconducibili al keynesismo ‘bastardo’ (come Joan Robinson definisce il tentativo di conciliare la teoria keynesiana con la tradizione neoclassica), ma questa è soltanto una delle possibili linee di intervento, e oggi nemmeno la più popolare. Può dunque essere utile un inventario della cassetta degli attrezzi, per vedere se nel corpo di princìpi dell’azione o inazione del governo rispetto all’attività economica, gli agenda o non agenda dello stato, come li chiamava Bentham, se ne possono trovare di efficaci o se invece si deve concludere che ne occorrono altri e diversi.[20] Gli economisti sono divisi circa la necessità o l’opportunità di un intervento dello stato nell’economia, e molti ritengono ancora, con Bentham, che esso sia generalmente inutile e generalmente dannoso. Tutti accettano però, come presupposto, il mantenimento della struttura capitalistica dell’economia. Si tratterà dunque di fare, o di non fare, in vista di uno stesso obiettivo: procurare che il sistema capitalistico funzioni al meglio. Il problema è che cosa significhi ‘al meglio’, e questo, ovviamente, è un problema politico, un problema che attiene alla discussione dei fini, prima che dei mezzi, della politica economica. È superfluo dire che la letteratura marxista non fornisce contributi di politica economica in senso stretto; mentre è vero che l’analisi marxista può contribuire, e contribuisce, a disegni di politica economica che appunto comincino da una discussione dei fini.

            La divisione circa i compiti dello stato, se attore o notaio, si produce immediatamente, non appena l’economia politica si dà come tema la ricchezza delle nazioni e i modi di aumentarla. Già due secoli fa le posizioni erano definite: l’interventismo burocratico dei mercantilisti, l’idea fisiocratica di uno stato che dovrebbe limitarsi a adottare misure in grado di sostenere la crescita del sovrappiù nel settore produttivo (che allora era l’agricoltura), il liberismo, più o meno temperato, dell’economia politica classica inglese (questa però ben consapevole, massimamente con Ricardo, del carattere conflittuale del capitalismo). Fino a qui, per i suoi sostenitori, il laissez faire non è un dogma di fede, ma un programma di politica economica. Dogma di fede lo diventerà con l’economia neoclassica, con la riduzione della political economy alla economics, della magnificent dynamics dei classici all’analisi statica di un sistema di mercato visto come un meccanismo, e come l’unico meccanismo in grado di assicurare la migliore allocazione delle risorse scarse disponibili. Il cambiamento di prospettiva è radicale: non più come aumentare la ricchezza di una nazione, ma come impiegare razionalmente, secondo una razionalità sovrumana, risorse scarse. È ovvio che in questa prospettiva qualsiasi intervento dello stato è potenzialmente dannoso, tutt’al più autorizzato dalla necessità di rimuovere gli ostacoli al pieno esplicarsi della libera concorrenza o dal desiderio umanitario di migliorare le condizioni di vita dei poveri, mediante carità anziché giustizia.

            La Grande Depressione costringe a dubitare del dogma e genera eresie. La cosiddetta rivoluzione keynesiana, pur non segnando un ritorno agli schemi dinamici di lungo periodo propri dell’economia classica, riprende l’obiettivo di massimizzare il livello del reddito e dell’occupazione (e quindi del benessere o ricchezza complessiva). Con Keynes la politica economica assume i suoi connotati moderni, chiamando il governo a intervenire sull’evoluzione del sistema nel breve periodo, ragionando sui nessi tra le grandezze macroeconomiche anziché sui comportamenti individuali, e finalizzando gli strumenti monetari o fiscali al raggiungimento dell’obiettivo primario del pieno impiego. In verità le preoccupazioni di Keynes, e le sue indicazioni di politica economica, non sono limitate al breve periodo: si vedano le Prospettive economiche per i nostri nipoti[21] e le Note conclusive sulla Filosofia sociale verso la quale la teoria generale potrebbe condurre, su cui tornerò. Così come la Grande Depressione aveva segnato il declino del liberismo neoclassico a favore dell’interventismo keynesiano, la stagflazione degli anni settanta e l’incapacità di dominarla da parte della teoria neokeynesiana americana (che aveva proclamato l’ambizioso proposito di poter raggiungere qualsiasi obiettivo) offrono il destro alla controrivoluzione monetarista, che mira a ristabilire la verità assoluta degli assiomi neoclassici circa le virtù di un libero sistema di mercato e la conseguente inutilità, se non addirittura la dannosità, dell’intervento pubblico nell’economia. Lo stato della controversia sui contenuti e sulle finalità della politica economica torna così al punto di partenza fissato dai neoclassici. I monetaristi suppongono che tutti gli agenti, compresi i lavoratori, siano razionali e ottimizzanti. Se si escludono frizioni, imperfezioni o ritardi di aggiustamento di vario tipo nei mercati o nei comportamenti degli individui, sembrerebbe impossibile sfuggire alla logica neoclassica per cui un libero sistema di mercato tende automaticamente a impiegare tutte le risorse disponibili in maniera ottimale. Se inoltre si assume, secondo la nuova macroeconomia classica, che le aspettative degli agenti si formino in maniera razionale, si potrà infine sostenere che qualsiasi politica ‘keynesiana’ di controllo della domanda è inutile prima ancora che inefficace. La rilevanza di queste conclusioni è ovviamente pari a quella degli assiomi su cui si fondano, ma la loro efficacia ideologica è infinitamente maggiore, come dimostra la storia delle idee economiche degli ultimi trent’anni.

            La contrapposizione tra chi nega e chi afferma l’opportunità di un intervento dello stato è dunque antica, ed è impossibile uscirne con argomenti analitici o econometrici decisivi. Come si è detto, la politica economica presuppone comunque che l’economia abbia e mantenga struttura capitalistica, ma ciò non significa costringersi a pensare che questo sia il migliore dei mondi possibili, in quanto retto da un qualche ordine naturale. Proprio questa credenza in un ordine naturale è il vero fondamento del liberismo neoclassico, che nega la storia e postula l’equilibrio. Se si conviene che la storia conta e che le crisi non sono accidenti, allora il problema della politica economica come agenda si ripropone come problema politico ineludibile, quando sia così riformulato: quale stato, per quale economia e per quale società? L’unico autore che pone la questione in questi termini a me pare sia Keynes, in particolare il Keynes del capitolo sulla Filosofia sociale verso la quale la teoria generale potrebbe condurre. Capitolo poco frequentato e semmai letto come divagazione ‘filosofica’, mentre disegna un progetto di politica economica di lungo periodo, teoreticamente ben fondato e che potrebbe costituire il quadro di riferimento di un programma inteso a contrastare in maniera efficace le contraddizioni distruttive del nostro tempo: “l’incapacità a provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi”.

La fine del laissez faire

Lo studio della storia del pensiero, scrive Keynes, è una premessa necessaria alla emancipazione della mente: “non so che cosa renderebbe più conservatore un uomo, se il non conoscere null’altro che il presente, oppure null’altro che il passato”. Il saggio di Keynes su La fine del laissez faire[22] è infatti la prova migliore di come la conoscenza delle dubbie fondamenta di questo principio possa bastare a dubitarne. Qui Keynes ricorda come “quel modo di intendere gli affari pubblici che si compendia opportunamente come individualismo e laissez faire trasse il proprio sostegno da molte diverse  correnti di pensiero e fonti di sentimento”. Alla fine del secolo XVII il diritto divino dei monarchi dava luogo alla libertà naturale e al contratto sociale, e il diritto divino della Chiesa dava luogo al principio della tolleranza e al concetto che una chiesa “è una società volontaria di uomini”, i quali si riuniscono “in modo assolutamente libero e spontaneo”. Cinquant’anni dopo, l’origine divina e la voce assoluta del dovere davano luogo ai calcoli dell’utilità. Locke, Hume, l’etica come studio scientifico delle conseguenze di un egoismo razionale: ”Il solo disturbo che domanda la virtù è quello del calcolo esatto e una preferenza costante per la maggiore felicità”. Dunque l’etica più conveniente per i conservatori e per i giuristi, a sostegno del diritto di proprietà e della discrezionalità dei ricchi nell’uso dei loro beni. Contro questo individualismo, inteso a destituire il monarca e la Chiesa, ma di fatto efficace come giustificazione della proprietà, si levarono i difensori dell’utilità sociale. Paley, Bentham, Rousseau, riaffermano l’eguaglianza e l’altruismo come valore, derivandolo ora dalla volontà di Dio, ora da una legge matematica di indifferenza, ora dallo stato di natura. Di qui due filosofie politiche, la democrazia e il socialismo utilitario, che tuttavia si ricompongono all’inizio del secolo XIX, armonizzando l’individualismo conservatore di Locke, Hume, Johnson e Burke col socialismo e la democrazia egualitaria di Rousseau, Paley, Bentham e Godwin. Qui entrano in gioco gli economisti, con l’idea di una armonia divina tra il vantaggio privato e il pubblico bene. Si supponga che grazie a leggi naturali gli individui che perseguono illuminatamente il proprio interesse in condizioni di libertà tendano sempre a promuovere, nello stesso tempo, l’interesse generale. Le remore filosofiche potranno essere accantonate e l’uomo pratico potrà serenamente concentrare i suoi sforzi al fine di assicurarsi le necessarie condizioni di libertà:

Alla dottrina filosofica che il governo non ha alcun diritto di interferire e al miracolo divino che il governo non ha alcun bisogno di interferire, viene aggiunta una dimostrazione scientifica che la sua interferenza è inefficace. [...] Il principio del laissez faire aveva così conciliato individualismo e socialismo e aveva fatto tutt’uno dell’egoismo di Hume col massimo bene del massimo numero. Il filosofo politico poteva ritirarsi a vantaggio dell’uomo d’affari, giacché quest’ultimo poteva raggiungere il sommo bene del filosofo perseguendo semplicemente il proprio profitto privato.

            È precisamente quanto predicano oggi, senza nessuna preoccupazione filosofica, la maggior parte dei manuali di economia adottati nella maggior parte delle università; e quanto viene messo in pratica dai più pratici tra gli uomini di governo, che della filosofia non si curano. All’affermarsi del laissez faire contribuì, paradossalmente, il darvinismo: “Gli economisti insegnavano che la ricchezza, il commercio e le macchine erano figli della libera concorrenza, che la libera concorrenza aveva costruito Londra. Ma i darvinisti potevano offrire un risultato migliore di quello: la libera concorrenza aveva fatto l’uomo”. L’accettazione di questo principio, tuttavia, ha conseguenze importanti e gravi, che Keynes illustra così:

Gli economisti, come altri scienziati, hanno scelto l’ipotesi dalla quale partono e che essi offrono ai novizi perché è la più semplice e non perché sia la più vicina ai fatti. In parte per questa ragione, ma in parte, ammetto, perché sono stati influenzati dalle tradizioni in materia, essi hanno cominciato col presupporre uno stato di cose in cui la distribuzione ideale delle risorse produttive può essere ottenuta grazie a individui che agiscono indipendentemente secondo un metodo sperimentale, così che quelli che si muovono nella direzione giusta distruggano per mezzo della concorrenza quelli che si muovono nella direzione sbagliata. Ciò presuppone che non vi sia grazia né protezione per coloro che instradano il loro capitale o il loro lavoro nella direzione sbagliata. È un metodo che porta in alto i ricercatori di guadagno cui arride il successo, grazie a una lotta spietata per la sopravvivenza che sceglie il più efficiente per mezzo del fallimento del meno efficiente. Esso non bada al costo della lotta, ma solo ai vantaggi del risultato finale, che si suppongono definitivi. Se lo scopo della vita è di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto. [...] Così, se lasciamo le giraffe a se stesse: 1) si coglierà la massima quantità di foglie, giacché le giraffe dal collo più lungo, a forza di far soffrire la fame alle altre, arriveranno più vicine agli alberi; 2) ogni giraffa ricercherà le foglie che trova più succulente, tra quelle che può raggiungere; 3) le giraffe il cui desiderio per una data foglia è massimo protenderanno di più il collo per raggiungerla. In questo modo saranno ingoiate più numerose e più succose foglie e ogni singola foglia raggiungerà la bocca che la giudica meritevole del massimo sforzo. [...] Se abbiamo a cuore il benessere delle giraffe, non dobbiamo trascurare le sofferenze di quelle dal collo più corto, che sono affamate, né le dolci foglie che cadono a terra e che vengono calpestate nella lotta, né la supernutrizione delle giraffe dal collo più lungo, né il cattivo aspetto di ansia e voracità aggressiva che copre i miti visi del gregge.

            Considerato che il laissez faire non ha fondamenti scientifici, e che conduce a risultati socialmente rovinosi, Keynes ci invita dunque a liberarci dei princìpi metafisici o generali sui quali il laissez faire si è basato:

Non è vero che gli individui posseggano una “libertà naturale” imposta sulle loro attività economiche. Non vi è alcun patto o contratto che conferisca diritti perpetui a coloro che posseggono o a coloro che acquisiscono. Il mondo non è governato dall’alto in modo che gli interessi privati e sociali coincidano sempre. Esso non è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano. Non è una deduzione corretta dai princìpi dell’economia che l’interesse egoistico illuminato operi sempre nell’interesse pubblico. Né è vero che l’interesse egoistico sia generalmente illuminato; più spesso individui che agiscono separatamente per promuovere i propri fini sono troppo ignoranti o troppo deboli persino per raggiungere quei loro fini. L’esperienza non mostra che gli individui, quando costituiscono una unità sociale, siano sempre di vista meno acuta di quando agiscono separamente.

            Oggi, come ai tempi di Keynes, il compito principale degli economisti è di distinguere l’agenda del governo dal non agenda, e il compito della politica è di escogitare forme di governo che siano in grado di attuare l’agenda. A questo proposito Keynes suggerisce un criterio particolarmente rilevante: dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali. L’azione  più importante dello stato, secondo Keynes, si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano di già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio di azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo stato: “la cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno di già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.

In difesa del welfare state

Contro Bismark, Beveridge e lo stesso Keynes, lo stato sociale è stato ed è oggetto di numerose critiche, basate su argomentazioni teoriche e su circostanze di fatto[23]. Le argomentazioni più generali sono quelle della tradizione liberale, che denuncia i rischi di una riduzione della sfera dell’autonomia e delle libertà personali. Sono rischi che ovviamente vanno evitati, anche se minori di quelli che si corrono in una società ridotta a mercato. Sul piano più strettamente economico, le conseguenze negative dello stato sociale vengono indicate nei costi di amministrazione e negli effetti disincentivanti sul risparmio e sull’offerta di lavoro (come se la prosperità di un paese dipendesse dal risparmio e la disoccupazione dall’offerta di forza lavoro). L’esistenza di un trade off tra efficienza e equità è ammessa anche da economisti non pregiudizialmente ostili allo stato sociale. Di recente, tuttavia, è stato dimostrato che questa critica è logicamente incoerente, e si può anzi sostenere che lo stato sociale può invece accrescere l’efficienza, sia indirettamente, attraverso una maggiore coesione sociale, sia direttamente, attraverso la copertura di rischi non assicurabili e la capacità di risolvere situazioni di asimmetria informativa; accrescendo l’investimento in capitale umano e rendendo possibile l’intrapresa di attività rischiose; consentendo di superare i limiti alla crescita derivanti da indivisibilità, esternalità, da vincoli di bilancio e imperfezioni nel mercato dei capitali, e da stratificazione e segregazione sociale.

            Tra gli elementi economici di fatto, addotti a critica dello stato sociale, vengono spesso indicate le conseguenze negative sulla domanda di lavoro del finanziamento dello stato sociale attraverso contributi sociali che fanno aumentare il costo del lavoro, e d’altra parte le conseguenze negative sull’offerta di lavoro del riferimento a indicatori del reddito e della ricchezza ai fini della concessione dei benefici dello stato sociale (che costituisce un disincentivo all’offerta di lavoro da parte di lavoratori con un reddito o un patrimonio appena inferiore al limite massimo previsto per poter accedere ai benefici); la riduzione del tasso di attività e l’aumento del tasso di disoccupazione, che deprimono il livello di attività economica e peggiorano i conti pubblici; la pretesa necessità di ridurre la spesa pubblica (pretesa istituzionalizzata con i ‘parametri’ di Maastricht e con il patto di stabilità); infine la globalizzazione dei mercati e della produzione, che in nome della competitività imporrebbe flessibilità del lavoro e riduzione del suo costo. Su queste questioni sono state condotte numerose indagini empiriche, i cui risultati “costituiscono un argomento decisamente favorevole allo stato sociale sul piano dell’efficienza dinamica”. In questa prospettiva, dell’efficienza dinamica, va posto anche il problema della sostenibilità dello stato sociale. Seguendo ancora Acocella, si può dire che l’eventuale aumento del rapporto tra spesa sociale e prodotto interno lordo e un apparente aggravio del costo del lavoro per unità di prodotto comportano difficoltà per l’azione dello stato, e che però ci si deve chiedere se si tratta di vincoli di breve o di lungo periodo. La tesi prevalente è che si tratti di vincoli di lungo periodo, che potrebbero autoalimentarsi: lo stato sociale determinerebbe perdita di competitività, riduzione delle esportazioni nette, deflusso di investimenti diretti, dunque dell’occupazione e così via. Questi sono problemi reali, che vanno affrontati con politiche economiche adeguate. Tuttavia non se ne può trarre la conclusione che vadano abbattute la spesa sociale (magari in disavanzo) o le norme a tutela del cittadino e del lavoratore: “In assenza del ‘sistema della pertica’ o della ‘pratica dell’albero’ e di altre consuetudini simili con le quali alcune popolazioni risolvevano il problema degli anziani, si tratterebbe di trovare soluzioni, alternative allo stato sociale, per problemi e esigenze concrete”. Ma soprattutto si deve ricordare che un ridimensionamento dello stato sociale non implicherebbe affatto una  riduzione della spesa che la collettività deve sostenere per procurarsi le prestazioni corrispondenti: “Anzi, per certi versi tale spesa tende a accrescersi quando esse siano fornite in regime privatistico e su base volontaria, perché - come è ben noto agli specialisti, ma non emerge nel dibattito pubblico - lo stato sociale costituisce un modo notevolmente più efficiente del mercato di provvedere a certi bisogni. Le soluzioni alternative non sono meno costose né per la collettività nel suo complesso né per lo  stesso bilancio pubblico”.

            L’unica opportunità di contenere la spesa della collettività in presenza di produzione privata di certi beni e servizi sarebbe costituita “dalla compensazione dell’aggravio di costi che ne scaturisce, con una riduzione di costi dovuta al venir meno del carattere universale delle prestazioni: una parte dei cittadini, verosimilmente i meno abbienti, in difetto di potere di acquisto, sarebbero scacciati dal mercato e ridurrebbero i loro consumi sociali”. Questa constatazione invita a ricercare in altra direzione il contenimento dei costi connessi con lo stato sociale: tentando di rimuovere, o di contrastare, alcune delle cause  indicate come fattori di crisi dello stato sociale o introducendo variazioni nell’assetto dello stato sociale. Un ricorso oculato a soluzioni più tradizionali, aventi pari efficacia o con un più basso rapporto tra costo e efficacia, può contribuire a ridurre il costo dello stato sociale. Al ricorso a cure più sofisticate e più costose, ad esempio, non corrisponde necessariamente una maggiore efficacia terapeutica ed è soltanto il moral hazard del paziente e del medico che induce a preferirle. La globalizzazione, d’altra parte, costituisce una opportunità anche dal punto di vista della specializzazione produttiva in settori a alta intensità tecnologica e a alto valore aggiunto, che è facilitata da uno stato sociale ampio e funzionale, soprattutto nel campo della istruzione, della ricerca scientifica, dei servizi alla persona, dei lavori di cura[24].

            Molti dubbi, a mio parere, è invece legittimo nutrire nei confronti della dilagante ideologia e pratica del ‘terzo settore’ o settore nonprofit, invocato come rimedio alla crisi dello stato sociale. Questo settore ha confini incerti, poiché comprende organizzazioni e attività che vanno dalle cooperative o fondazioni più grandi e potenti al volontariato più spontaneo e generoso. Puro volontariato a parte, queste organizzazioni e attività hanno un tratto in comune, celato dalla definizione eufemistica di nonprofit: in verità esse sono interdette dal distribuire i profitti, non dal perseguirli. Poiché ciò che caratterizza una organizzazione è il fine che essa persegue, al pari del settore mercantile il settore nonprofit soddisferà soltanto i bisogni sociali privatamente vantaggiosi, cioè quelli solvibili. Contro questa tesi (sul profitto come limite), oggi prevale l’idea che un governo aziendalistico del mondo, proprio in quanto ha per obiettivo la massimizzazione del profitto, sarebbe più efficiente anche al fine di soddisfare i bisogni sociali. Questo infatti predicano i manuali, ma il punto è teoricamente debole. Per brevità ricordo, oltre alla già citata definizione einaudiana dei limiti del mercato, quanto in proposito scrive Marx: “L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, ma in base [...] al profitto e al rapporto fra questo profitto e il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio dei profitti. Essa incontra quindi dei limiti a un certo grado di sviluppo, che sembrerebbe viceversa assai inadeguato sotto l’altro punto di vista. Si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo arresto”. Si potrebbe anche aggiungere, seguendo un suggerimento di Maurice Dobb circa la presunta sovranità del consumatore, che la scelta dei consumatori, quale si esprime sul mercato, è necessariamente limitata all’ambito delle alternative offerte dai produttori. Può perciò darsi che le scelte registrate sul mercato siano soltanto preferenze di secondo ordine, rispetto alle scelte che i consumatori farebbero se fossero disponibili altre alternative.

Attualità di Keynes: un sommario della Teoria generale

Alla proposta di una ripresa del pensiero keynesiano (intendo semplicemente, senza pretese ermeneutiche, il Keynes delle sue opere) si potrebbe obiettare che la politica economica keynesiana è una politica di breve periodo e riferita a un sistema chiuso, e che la situazione è cambiata. Circa il primo punto ho già accennato che oggi una politica ‘keynesiana’, così come viene intesa normalmente, probabilmente avrebbe effetti (perversi) piuttosto sulla distribuzione del reddito che non sull’occupazione. Più in generale, ricordo che lo stesso Keynes aveva dei dubbi, di cui dirò, sulle implicazioni di politica economica della Teoria generale. Circa la seconda questione, è certamente vero che la situazione economica e sociale è profondamente cambiata: il mio ragionamento muove proprio di qui. È però difficile negare che “i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo” continuino a essere “l’incapacità a provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi”. L’obiezione circa il sistema economico di riferimento (un sistema chiuso), infine, sarebbe stata dirimente fino a poco tempo fa, ma è miope dopo la costituzione dell’Unione europea.

            L’opinione comune circa le cosiddette ‘politiche keynesiane’ è che esse consistano in qualche generica forma di spesa pubblica, intesa a innalzare la domanda effettiva a un livello più alto di quello che altrimenti si avrebbe con i soli consumi e investimenti privati, a un livello possibilmente pari a quello che comporta la piena occupazione. A questa interpretazione spuria della lezione keynesiana hanno contribuito il keynesismo bastardo (nel senso di Joan Robinson, di riduzione della Teoria generale a caso particolare della teoria neoclassica dell’equilibrio economico generale), che riduce la ricetta keynesiana a un rilancio della domanda effettiva accompagnato da un taglio dei salari; e il keynesismo criminale (secondo la definizione di Marcello De Cecco), di cui il nostro paese ha avuto lunga e rovinosa esperienza. Converrà dunque ricorrere all’interpretazione autentica del pensiero keynesiano, servendosi dell’articolo scritto da Keynes nel 1937[25], un anno dopo la pubblicazione della Teoria generale, e nel quale Keynes espone le relativamente semplici idee fondamentali che sono alla base della sua teoria, quelle che più gli stanno a cuore: “Se le semplici idee basilari potranno diventare familiari e accettabili, il tempo e l’esperienza e la collaborazione di un certo numero di menti scopriranno il modo migliore di esprimerle”. Lo scopo, da un lato, è di chiarire la portata rivoluzionaria della Teoria generale, sottraendola ai pronti tentativi di ricondurla nell’alveo della teoria ortodossa, dall’altro di diffidare il lettore dal trarne ricette di politica economica in maniera meccanica.

            Al centro del ragionamento di Keynes sta l’idea che noi, nella realtà, abbiamo soltanto una percezione molto vaga delle conseguenze non immediate dei nostri atti. La nostra conoscenza, in generale e anche per quanto riguarda le decisioni economiche più importanti, è una “conoscenza incerta”. Il significato in cui Keynes usa questo termine è quello per cui si può dire che sono incerti la prospettiva di un’altra guerra in Europa, o il prezzo del rame e il tasso di interesse di qui a vent’anni, o l’obsolescenza di una nuova invenzione, o la posizione dei proprietari di ricchezza privata nel sistema sociale tra cinquanta anni: “Su queste cose non c’è alcuna base scientifica su cui fondare un qualsivoglia calcolo probabilistico. Noi semplicemente non sappiamo”. Anche se in condizioni di conoscenza incerta, tuttavia, dovremo prendere delle decisioni, e ciò faremo rimuovendo l’esperienza passata e dunque sottovalutando la possibilità di mutamenti futuri; oppure fingendoci che lo stato attuale dell’economia sia basato su una corretta ponderazione delle prospettive future (che è l’assunto epistemologicamente ingenuo della moderna teoria delle ‘aspettative razionali’); oppure ammettendo che il nostro giudizio individuale non vale nulla, e che perciò ci converrà ricorrere al giudizio del resto del mondo, che forse è meglio informato. La psicologia di una società di individui, ciascuno dei quali cerca di copiare gli altri, conduce a ciò che Keynes definisce un giudizio ‘convenzionale’.

            (La fragile convenzione su cui si regge oggi l’equilibrio capitalistico, ampiamente condivisa dai governi americani e europei,  si può riassumere in queste quattro proposizioni, formulate da J. P. Fitoussi: 1. L’economia di mercato è il miglior sistema che si possa concepire: essa racchiude in sé le chiavi del progresso materiale e del dinamismo economico e sociale. 2. Perché possa dare tutti i suoi benefici, l’economia di mercato deve essere opportunamente gestita e regolata. 3. Questa gestione deve sottostare a due princìpi: condurre una politica monetaria che produca la stabilizzazione dei prezzi e sia al riparo da cambiamenti politici; ricercare almeno il pareggio, e se possibile l’attivo del bilancio, al fine di ridurre in un secondo tempo il debito pubblico e le imposte. 4. Privilegiare le riforme strutturali che incentivino il lavoro, riducendo i redditi distribuiti dal sistema di previdenza e assistenza sociale. A queste quattro proposizioni, ne aggiungo una quinta: la distribuzione del reddito e della ricchezza è il portato dei meriti e dei talenti individuali, e dunque non va modificata.)

            Keynes, tuttavia, avverte che una siffatta concezione pratica del futuro, basata su una convenzione, su una qualsiasi convenzione, avrà una conseguenza importante:

Essendo basata su fondamenta così inconsistenti, essa è soggetta a improvvisi e violenti mutamenti. La pratica della calma e della immobilità, della certezza e della sicurezza, improvvisamente viene meno. Nuovi timori e speranze, senza preavviso, vengono a influenzare il comportamento umano. Le forze della delusione potrebbero improvvisamente imporre una nuova convenzione. Tutte queste piacevoli, elaborate tecniche fatte per una sala delle riunioni lussuosamente arredata e per un mercato appropriatamente regolato possono crollare da un momento all’altro. In ogni momento, vaghi timori panici e ugualmente vaghe e ingiustificate speranze non sono del tutto acquietati e giacciono solo di poco sotto la superficie.

            In altre parole, di G. L. S. Shackle, la stabilità del sistema si basa, finché dura, sul tacito accordo di supporlo stabile. Questa stabilità, una volta messa in dubbio, è distrutta e un disordine prorompente dovrà intervenire prima che lo smottamento trovi fondamenta in una nuova posizione, altrettanto casuale. Il fatto che la nostra conoscenza sia incerta, e massimamente incerta è la conoscenza nel mondo della finanza e della speculazione, ha dunque come conseguenza principale la fragilità, la precarietà dell’equilibrio del sistema. Una precarietà speculare, aggiungo, a quella cui viene condannato il lavoro in questo sistema.

L’incertezza ha conseguenze importanti anche per quanto riguarda il ruolo essenziale della moneta nel determinare questo equilibrio. Qui Keynes concede che a Marx si deve una osservazione feconda: “la natura della produzione nel mondo reale non è, come gli economisti sembrano spesso supporre, un caso del tipo Merce - Denaro - Merce, cioè inteso a scambiare una merce contro denaro al fine di ottenere un’altra merce. Questa può infatti essere la prospettiva del singolo consumatore, ma certamente non è quella del mondo degli affari: che dal denaro si separa in cambio di una merce soltanto al fine di ottenere più denaro, secondo un processo del tipo Denaro - Merce - Denaro”, cioè un processo inteso a ottenere più denaro per chi lo muove anziché al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. Keynes prende subito le distanze da Marx, sostenendo che di tale osservazione Marx farà un uso altamente illogico. Il punto di partenza, tuttavia, è lo stesso: noi non viviamo in una real-exchange economy, bensì in una monetary economy. A questa contrapposizione corrisponde quella fra le due grandi scuole di pensiero stilizzate da Keynes: “da una parte ci sono quelli che credono che il sistema economico esistente sia, nel lungo periodo, un sistema in grado di raggiungere automaticamente l’equilibrio. Sull’altra sponda ci sono coloro che rigettano l’idea che il sistema economico corrente sia, in qualche modo, in grado di autoregolarsi”. Questa, quella degli eretici, è la parte dalla quale si schiera Keynes; la cui Teoria generale si può riassumere cosi:

Data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell’occupazione complessive dipende dall’ammontare dell’investimento. Io la esprimo in questo modo, non perché l’investimento sia l’unico fattore dal quale dipende la produzione globale, ma perché è di norma in un sistema complesso considerare causa causans quell’elemento che è più soggetto a improvvise e ampie fluttuazioni. Più esaurientemente, la produzione totale dipende dalla propensione al tesoreggiamento, da come la politica monetaria influenza la quantità di moneta, dallo stato della fiducia circa il rendimento futuro dei beni capitali, dalla propensione alla spesa, e dai fattori sociali che influenzano il livello del salario monetario. Ma di questi diversi fattori, sono quelli che determinano il tasso dell’investimento quelli dei quali ci si può fidare di meno, perché sono quelli che sono influenzati dalle nostre previsioni sul futuro, del quale sappiamo così poco.

            Le determinanti degli investimenti privati, in particolare, sono tali che i progetti a redditività differita e contabilmente bassa, quali sono quelli in capitale sociale fisso, difficilmente saranno realizzati. Soltanto lo stato, uno stato che non sia il sottoprodotto delle attività di un casinò, è in grado di calcolare l’efficienza marginale dei beni capitali in una prospettiva di lungo periodo e in vista del vantaggio sociale generale. Nulla dunque garantisce che il mercato assicuri sempre e automaticamente un equilibrio di piena occupazione, mentre è probabile che il mercato, lasciato a se stesso e in assenza di un’azione deliberata, faccia sì che l’equilibrio pieno, anziché dettato da un ordine naturale, si dia soltanto by accident or design (per un caso o per un piano, secondo Marx). Quando si stabilisce un qualche equilibrio, esso normalmente non è di pieno impiego e dunque non è ottimo. La crisi è il fenomeno caratteristico delle economie nelle quali la moneta non è neutrale, e il sistema economico in cui viviamo “sembra capace di permanere in una condizione cronica di attività inferiore al normale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso completo. Una situazione intermedia, né disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale”. Keynes è convinto non solo che tale situazione sia indesiderabile, ma anche che la si possa emendare: “Il ‘problema economico’ [...] non è che un terribile pasticcio, un pasticcio contingente e non necessario. Infatti il mondo occidentale dispone già delle risorse, ove sapesse creare l’organizzazione per utilizzarle, sufficienti a relegare in una posizione di secondaria importanza il ‘problema economico’ che assorbe oggi le nostre energie morali e materiali”.

            La soluzione di questo problema, tuttavia, non è semplice, e lo stesso Keynes dubita che dalla sua Teoria generale si possano cavare meccanicamente ricette di politica economica:

Questa che io propongo è una teoria che spiega perché la produzione e l’occupazione siano così soggette a fluttuazioni; essa non offre una soluzione bella e pronta al problema di come evitare queste fluttuazioni e mantenere costantemente la produzione a livello ottimale. Ma essa è, propriamente parlando, una teoria dell’occupazione in quanto spiega perché in ciascuna circostanza, l’occupazione è quella che è. Naturalmente io sono interessato non solo alla diagnosi ma anche alla cura, e a questa sono dedicate molte pagine del mio libro. Tuttavia ritengo che, per quanto riguarda la cura, le mie proposte, le quali, lo riconosco apertamente, non sono sviluppate in modo compiuto, si collochino su un piano diverso da quello della diagnosi. Non pretendono di essere definitive. Dipendono da molte ipotesi particolari e sono inevitabilmente riferite alle condizioni del momento.

            La soluzione del problema economico va dunque cercata altrove, non tanto nelle politiche keynesiane secondo i manuali, ma in un disegno di politica economica e sociale che si ispiri al capitolo 24 della Teoria generale, sulla Filosofia sociale verso la quale la Teoria generale potrebbe condurre.

La Filosofia sociale

Quale può essere il ruolo dello stato nella attuale situazione economica e sociale, dopo l’esaurimento del fordismo e la conseguente globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia? Un principio di risposta si trova, io credo, proprio in Keynes, un autore tradizionalmente poco amato dalla sinistra e che invece delinea una prospettiva di grande interesse per una sinistra teoreticamente orfana e politicamente disorientata. Non è il Keynes del breve periodo e della spesa pubblica purchessia cui si dovrebbe guardare, bensì il Keynes dell’ultimo capitolo della Teoria generale. Il termine ‘filosofia’ non deve trarre in inganno: in verità si tratta di una lucida analisi dei ‘difetti’ del capitalismo e di un disegno di politica economica e sociale chiaro e teoreticamente robusto. Né si potrà dire che proprio la fine del fordismo rende obsoleto il pensiero keynesiano, posto che i problemi di oggi sono quelli che Keynes denuncia nel ‘36 (così come il crollo del Muro non seppellisce il pensiero di Marx).

              I difetti più evidenti della società economica in cui viviamo sono ancora l’incapacità a assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito. Oggi come ai tempi di Keynes, i più pensano che l’accumulazione del capitale dipenda dalla propensione al risparmio individuale, e che dunque in larga misura l’accumulazione di capitale dipende dal risparmio dei ricchi, la cui ricchezza risulterà così socialmente legittimata. Proprio la Teoria generale mostra invece che, sino a quando non vi sia piena occupazione, l’accumulazione del capitale non dipende affatto da una bassa propensione a consumare, ma ne è invece ostacolata. Il risparmio disponibile presso le istituzioni finanziarie, d’altra parte, è maggiore di quello necessario, così che una redistribuzione del reddito intesa a aumentare la propensione media al consumo, dunque a favore dei salari, potrebbe favorire l’accumulazione del capitale. Il luogo comune, secondo cui le imposte di successione provocherebbero una riduzione della ricchezza capitale del paese, è infondato. Oltre che garantire il principio (liberale) dell’eguaglianza dei punti di partenza, alte imposte di successione favorirebbero l’accumulazione di capitale, anziché frenarla. Il ragionamento di Keynes tende dunque alla conclusione che “l’aumento della ricchezza, lungi dal dipendere dall’astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, da questa è probabilmente ostacolato: viene così a cadere una delle principali giustificazioni sociali della diseguaglianza delle ricchezze”.

              Conoscendo il genere umano, Keynes aggiunge che alcune attività richiedono il movente del guadagno e la proprietà privata della ricchezza, affinché possano esplicarsi: “L’esistenza di possibilità di guadagni monetari e di ricchezza privata può instradare entro canali relativamente innocui pericolose tendenze umane, le quali, se non potessero venire soddisfatte in tal modo, cercherebbero uno sbocco in crudeltà, nel perseguimento sfrenato del potere e dell’autorità personale. È meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini; ma per stimolare queste attività e per soddisfare queste tendenze non è necessario che le poste del gioco siano tanto alte quanto adesso. Nella repubblica ideale verrebbe insegnato o consigliato agli uomini di non interessarsi affatto alle poste del gioco, tuttavia può essere saggia e prudente condotta di governo consentire che la partita si giochi, sottoponendola a opportune norme e limitazioni, sino a quando la media degli uomini, o anche soltanto una parte rilevante della collettività, sia di fatto dedita tenacemente alla passione del guadagno monetario”.

              Il secondo passo del ragionamento di Keynes riguarda il saggio di interesse. La giustificazione normalmente addotta per un saggio di interesse moderatamente alto è la necessità di incentivare il risparmio, nell’infondata speranza di generare così nuovi investimenti e nuova occupazione. È invece vero, a parità di ogni altra circostanza, che gli investimenti sono favoriti da saggi di interesse bassi; così che sarà opportuno ridurre il saggio di interesse in maniera tale da rendere convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta reddività sociale. Di qui la cicuta keynesiana, di straordinaria attualità: “l’eutanasia del rentier e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale”[26]. Oggi il rentier non è più soltanto il finanziere e il banchiere, ma anche e forse soprattutto il proprietario della tecnologia. Per restare a Keynes, tuttavia, si deve notare che l’interesse non rappresenta il compenso di alcun sacrificio genuino. Il possessore del capitale può ottenere l’interesse perché il capitale è scarso, ma a differenza delle risorse naturali non vi sono ragioni intrinseche della scarsità del capitale. In ogni caso sarà possibile, per il tramite dello stato, far sì che il risparmio collettivo sia mantenuto a un livello che permetta l’accumulazione di capitale sino al punto al quale esso non è più scarso:

Potremmo dunque mirare in pratica (non essendovi in tutto ciò nulla di irraggiungibile) a un aumento del volume di capitale finché questo non sia più scarso, così che l’investitore senza funzioni non riceva più un premio gratuito; e a un progetto di imposizione diretta tale da permettere che l’intelligenza e la determinazione e l’abilità del finanziere, dell’imprenditore et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con una ricompensa a condizioni ragionevoli.

              Keynes aggiunge qui un corollario oggi blasfemo: “Rimarrebbe da decidere in separata sede su quale scala e con quali mezzi sia corretto e ragionevole chiamare la generazione vivente a restringere il suo consumo in modo da stabilire, nel corso del tempo, uno stato di benessere per le generazioni future”. Oltre che teoricamente fragile, d’altra parte, la mozione degli affetti nei confronti delle generazioni future è commozione ipocrita. Come ha notato R. M. Solow, coloro che ritengono prioritario non infliggere povertà al futuro dovrebbero spiegare perché non attribuiscono analoga priorità alla riduzione della povertà oggi.

              Tutto sommato, i tempi di Keynes dovevano essere molto più vivaci e progressisti dei nostri, se Keynes giudicava la teoria che ho riassunto sopra “moderatamente conservatrice nelle conseguenze che implica”. Essa infatti comporta la necessità di stabilire alcuni controlli centrali in materie ora lasciate in gran parte all’iniziativa individuale, anche se non tocca altri campi di attività. Lo stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione al consumo, in parte attraverso il fisco, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Sembra però improbabile che l’influenza della politica monetaria e creditizia possa essere sufficiente a determinare un ritmo ottimo di investimento:

Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci alla piena occupazione, sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi con i quali la pubblica autorità collabori con l’iniziativa privata. [...] Non è la proprietà degli strumenti di produzione che è importante che lo stato si assuma. Se lo stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo dei mezzi dedicati a aumentare gli strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione per coloro che li posseggono, esso avrà compiuto tutto quanto è necessario.

              Keynes sapeva bene che il suo manifesto era, se non rivoluzionario, oltraggiosamente radicale: “Suggerire un’azione sociale per il bene pubblico alla City di Londra è come discutere L’origine delle specie con un vescovo nel 1865”. Perciò spiegava che l’allargamento delle funzioni di governo da lui predicato, mentre sarebbe sembrato a un pubblicista dell’Ottocento o a un finanziere americano contemporaneo una terribile usurpazione ai danni dell’individualismo, era da lui difeso “sia come l’unico mezzo attuabile per evitare la distruzione completa delle forme economiche esistenti, sia come la condizione di un funzionamento soddisfacente dell’iniziativa individuale”. Timore che sembra evocare lo spettro della rovina comune prefigurato dall’altro Manifesto e prospettiva imposta da importanti e lungimiranti considerazioni politiche: “il mondo non tollererà ancora per molto tempo la disoccupazione che è associata, inevitabilmente associata, con l’individualismo capitalista d’oggigiorno”. L’assunzione di questa stessa prospettiva sarebbe inoltre più favorevole alla pace di quanto non sia un sistema teso alla conquista dei mercati altrui. Se le nazioni imparassero a costituirsi una situazione di piena occupazione mediante la loro politica interna, non vi sarebbero più ragioni economiche per contrapporre l’interesse di un paese a quello dei suoi vicini: “il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è ora, ossia un espediente disperato per preservare l’occupazione interna forzando le vendite sui mercati esteri e limitando gli acquisti - metodo che, se avesse successo, sposterebbe semplicemente il problema della disoccupazione sul vicino che ha la peggio nella lotta - ma sarebbe uno scambio volontario e senza impedimenti di merci e servizi, in condizioni di vantaggio reciproco”.

              Nella chiusa della Teoria generale Keynes si chiede se l’avverarsi di queste idee sia speranza visionaria o se gli interessi che esse frustreranno non saranno più forti di quelli che esse promuoveranno. Ammirevole ottimista, Keynes si risponde che il potere degli interessi costituiti è sopravvalutato, rispetto alla capacità di contaminazione delle idee. Non però immediatamente ma dopo un certo periodo di tempo, poiché nel campo della filosofia economica e politica non vi sono molti sui quali le nuove teorie fanno presa prima di venticinque o trent’anni. “Presto o tardi, tuttavia, sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”. Fatto il conto delle generazioni tra il 1936 e oggi, è dunque tempo che gli uomini della pratica, i quali si credono liberi da qualsiasi influenza intellettuale, scoprano come vivo questo economista defunto. Vi troveranno almeno una risposta analoga a quella che il gatto dà a Alice nel paese delle meraviglie. Alice aveva chiesto al gatto: “Vorresti dirmi, di grazia, quale strada prendere per uscire di qui?” “Dipende soprattutto da dove vuoi andare”, disse il gatto, che aveva un’aria affabile ma anche artigli molto lunghi e una grande quantità di denti, ragion per cui Alice pensò che era il caso di trattarlo con rispetto.

Le difficoltà politiche

A un disegno come quello tracciato qui si oppongono molti ostacoli, non tanto e non solo di ordine economico, che potrebbero essere superati, quanto di ordine politico. Mi limito a ricordarne due, uno presunto, la fine degli stati nazionali, l’altro reale, gli aspetti politici della piena occupazione.

            Un argomento spesso addotto contro ragionamenti come quelli esposti in queste pagine è che la globalizzazione condannerebbe lo stato nazionale alla obsolescenza, renderebbe impotente la politica e ridurrebbe la sovranità a un guscio vuoto. Oggi, si dice, il capitalismo avrebbe definitivamente sciolto tutti gli ormeggi nazionali. Sganciato da ogni vincolo territoriale, esso sarebbe ormai transnazionale, nomade, senza più limiti né identità. Saremmo giunti così a un deperimento dello stato nazionale moderno, ridotto a semplice gestore di vincoli economici imposti da altri, e che assisterebbe impotente al rovesciamento del rapporto di forze a vantaggio del mercato in generale e al conseguente svuotamento della sua sovranità. Perciò lo stato, si dice, non potrà più essere il luogo privilegiato dell’agire politico, ma soltanto un comprimario tra gli altri attori (privati) del sistema internazionale. Questa tesi, tuttavia, non regge a un esame della genesi della globalizzazione e delle sue conseguenze[27]. Lo stato americano, lungi dall’essersi autodissolto nella nuova utopia del mercato, ha consolidato la propria egemonia e affermato la propria sovranità in maniera spettacolare. In Europa il potere statuale si è ridispiegato per entrare nel gioco della globalizzazione e per realizzare l’unificazione economica (per via monetaria) del continente. L’Unione europea, sinora partecipe della ideologia mercantile, potrebbe almeno medicarne le conseguenze più terribili, potrebbe rappresentare una entità politica capace di misurarsi con gli Stati Uniti. A condizione che sappia darsi i mezzi necessari per affermare una propria sovranità, una sovranità che i singoli stati nazionali non erano più in grado di opporre alla globalizzazione del capitale. Una propria sovranità, intesa a liberarsi della signoria del denaro e a affermare invece la signoria sul denaro.

            I trasferimenti in materia di politica monetaria o di norme sulla concorrenza non comportano automaticamente una perdita di sovranità nazionale. Data la pressione esercitata sugli stati nazionali dai cambiamenti nelle regole del gioco economico mondiale, si può parlare piuttosto di una messa in comune delle sovranità, grazie alla quale gli stati si tutelano dal rischio di essere sommersi e hanno modo di riconquistare la sovranità minacciata sui rispettivi territori, mediante una più vasta aggregazione regionale. Non è vero che gli stati nazionali si ritroverebbero, impotenti, a gestire solo vincoli e condizionamenti. Questi stessi governi danno un contributo pieno, senza esservi stati necessariamente costretti, alla elaborazione e alla attuazione della nuova economia politica egemone, alla quale hanno cercato di partecipare e non soltanto di adeguarsi. Il problema è che ciò hanno fatto al fine di ridefinire le regole del gioco, in modo da farle coincidere con l’ideologia e con la prassi neoliberiste. Le crescenti diseguaglianze, tuttavia, oltre che essere inaccettabili costituiscono un freno allo sviluppo economico e minano la coesione sociale. Il contesto europeo potrebbe essere l’occasione di una armonizzazione sociale al livello più alto, attraverso un allineamento delle pratiche più civili in materia di lavoro, salari, occupazione e tutela sociale; potrebbe essere, se lo si volesse, lo spazio in cui realizzare quella filosofia di cui si è detto.

            A tal fine sarebbe necessario un diverso ordinamento sovranazionale, e è notevole che l’ordinamento stabilito alla fine della seconda guerra mondiale fosse più avanzato di quello attuale[28]. Vi era una visione unitaria delle Nazioni Unite e delle istituzioni di Bretton Woods, che operavano come parte del sistema complessivo delle Nazioni Unite. I diritti economici e sociali erano gli obiettivi fondamentali. La Carta delle Nazioni stabiliva che per instaurare relazioni pacifiche e amichevoli tra le nazioni sono necessarie condizioni di stabilità e di benessere, e che tutti i membri si impegnano a intraprendere azioni congiunte e separate in cooperazione con l’organizzazione per promuovere standard di vita più elevati, piena occupazione e condizioni di progresso economico e sociale e di sviluppo. Il disegno di Keynes era ancora più coraggioso, troppo per quei tempi (per non parlare dei nostri). Keynes proponeva un fondo con accesso a risorse pari alla metà delle importazioni mondiali, mentre il Fondo monetario internazionale, attualmente, controlla una liquidità pari a meno del 3% delle importazioni mondiali. Keynes, inoltre, concepiva il FMI come una banca centrale mondiale, che emetteva una propria valuta di riserva (il Bancor). L’onere dell’aggiustamento era distribuito sia sui paesi in attivo che su quelli in deficit, prevedendo un tasso di interesse di penalizzazione pari all’1% al mese sui surplus commerciali scoperti. Nella realtà i paesi in deficit, quelli sottosviluppati, hanno dovuto sopportare il peso maggiore dell’aggiustamento; mentre gli Stati Uniti possono evitare l’onere dell’aggiustamento poiché il loro deficit serve a fornire i dollari necessari per la liquidità del sistema globale. L’International trade organization immaginata da Keynes aveva funzioni molto più ampie di quelle dell’attuale Organizzazione mondiale per il commercio (WTO). L’ITO di Keynes non doveva soltanto mantenere la libertà degli scambi, ma anche favorire la stabilizzazione dei prezzi mondiali dei beni di consumo attraverso una appropriata politica delle scorte. I prezzi internazionali di lungo periodo dei beni di consumo, d’altra parte, per Keynes dovevano essere fissati in relazione sia alle condizioni economiche necessarie per una produzione efficiente, sia ai requisiti nutrizionali e di altra natura necessari per garantire standard di vita decenti per i produttori di beni primari.

            Circa gli aspetti politici della piena occupazione, M. Kalecki indica tre ragioni dell’opposizione dei dirigenti industriali alla piena occupazione realizzata mediante la spesa pubblica[29]: 1) l’avversione per l’interferenza pubblica nel problema dell’occupazione in quanto tale; 2) l’avversione per l’orientamento della spesa pubblica (investimenti pubblici e sussidi al consumo); 3) l’avversione per i mutamenti sociali e politici risultanti dal mantenimento della piena occupazione. Circa il primo punto, si deve ricordare che in un sistema di laissez faire il livello dell’occupazione dipende in grande misura dal cosiddetto ‘stato di fiducia’. Se questo si deteriora, gli investimenti privati diminuiscono e con essi la produzione e l’occupazione. Questo fatto mette i capitalisti in grado di esercitare un potente controllo indiretto sulla politica del governo: ogni cosa che può scuotere lo stato di fiducia deve essere cautamente evitata poiché potrebbe provocare una crisi economica. Se però il governo aumenta l’occupazione mediante la spesa pubblica, questo dispositivo di controllo perde la sua efficacia. È per questo, e per nessun’altra ragione, che il deficit di bilancio deve essere considerato pericoloso: “la funzione sociale della dottrina delle ‘finanze sane’ è quello di rendere il livello dell’occupazione dipendente dallo ‘stato di fiducia’”. Circa il secondo punto, gli uomini d’affari diffidano degli investimenti pubblici e dei sussidi al consumo perché i primi potrebbero danneggiare la profittabilità privata, e quindi potrebbe esserci un effetto di spiazzamento, e perché i secondi mettono in questione un principio morale della più alta importanza: “Il fondamento dell’etica capitalistica è questo: ‘Vi guadagnerete il pane col vostro sudore’ ... a meno che non vi accada di essere sufficientemente agiati”. Ancora più serio è il terzo punto. In un regime di piena occupazione permanente, il licenziamento cesserebbe di svolgere la sua funzione di misura disciplinare. La posizione sociale del capo sarebbe indebolita, e la forza contrattuale dei lavoratori e delle loro organizzazioni crescerebbe. È vero che i profitti sarebbero maggiori in condizioni di piena occupazione di quanto non siano in media in regime di laissez faire, tuttavia la ‘disciplina nelle fabbriche’ e la ‘stabilità politica’ sono apprezzate dai dirigenti industriali più dei profitti: “L’istinto di classe li avverte che la piena occupazione duratura non è salutare dal loro punto di vista e che la disoccupazione [e oggi il lavoro precario] è parte integrante del sistema capitalistico”.

            Sono queste tre questioni di grande importanza, da tenere ben presenti nel ridisegnare il ruolo dello stato nell’economia e nella società, magari contando su alcuni segni premonitori circa il futuro del capitalismo. In effetti non è scontato che il successo del sistema capitalistico duri in eterno, e ciò potrebbe rendere politicamente più seducenti e praticabili progetti di riforma centrati sull’intervento dello stato (sebbene sia incerto il segno politico di una eventuale reazione agli insuccessi di questo sistema). F. Hahn definisce ‘successo’ di un sistema economico quella certa sua condizione, nella quale non sia rilevante la quota di cittadini sufficientemente insoddisfatti, in media e per un periodo di tempo abbastanza lungo, delle condizioni economiche prevalenti[30]. Si potrebbe dire che il successo legittima un sistema, mentre la mancanza di successo porta a una diminuzione della sua legittimità. Il capitalismo ha ottenuto finora un successo innegabile grazie all’innegabile miglioramento del tenore di vita. Il successo ottenuto finora, tuttavia, non conferirà legittimità al sistema capitalistico ancora per molto tempo. I cittadini, che si sono abituati a un tenore di vita in costante aumento, si aspettano che questo continui a crescere e mentre non traggono molto conforto dal solo fatto di confrontare la loro ricchezza attuale con il tenore di vita che avrebbero avuto cento, o anche venticinque anni fa, si accorgono che esso non continua a crescere. Al crescere del reddito, d’altra parte, ne diminuisce la quota destinata a beni e servizi di prima necessità, mentre aumenta quella destinata ai beni di lusso. Non tutti i beni di lusso, tuttavia, sono beni privati. La salubrità dell’ambiente e la salute delle persone diventano beni sempre più preziosi, e per molti aspetti rientrano nella categoria dei beni pubblici. I beni pubblici, in generale, acquisiranno dunque un valore crescente, e ciò giustificherà un crescente intervento dello stato. Un’altra ragione di insuccesso ha a che fare con la preoccupazione per il futuro. L’economia capitalista è costituzionalmente incapace di garantire l’allocazione intertemporale delle risorse. Le generazioni future non possono fare offerte per risorse allocate sui mercati attuali. Di qui la necessità che sia lo stato a occuparsi del nostro futuro a lungo termine.

            Disoccupazione e precarietà, diseguaglianze e povertà, sono altre ragioni, in verità le principali, per dubitare del successo del capitalismo e dunque per concepire la filosofia sociale di Keynes come risposta ante litteram a domande che vanno crescendo e che non possono rimanere inevase a lungo. A metà degli anni Venti Keynes scriveva che la difficoltà sta nel fatto che “i leaders capitalisti nella City e in parlamento non sono capaci di distinguere i nuovi strumenti e le misure per salvare il capitalismo da quello che loro chiamano bolscevismo”.

Università di Pavia, giugno 2000

NOTE


[1] Tratto dal sito: http://cfs.unipv.it/scritti.htm. Testo corretto al 23 luglio 2000.

[2] M. Aglietta, Régulation et crises du capitalisme. Nouvelle édition revue et corrigée, augmentée d’une postface inédite, Editions Odile Jacob, Parigi 1997. Régulation et crises, la cui prima edizione è del 1976 presso Calmann-Lévy, è uno dei classici della teoria della regolazione. La teoria della regolazione muove dalla lezione marxiana in quanto rifiuta l’ipotesi neoclassica di una razionalità economica universale e indipendente da qualsiasi determinazione storica e sociale: i rapporti sociali non sono legami virtuosi e mutuamente vantaggiosi tra soggetti razionali, ma sono separazioni. La domanda cui la teoria della regolazione tenta di rispondere è questa: come è possibile che esista una coesione sociale in un mondo lacerato dai conflitti? La teoria della regolazione del capitalismo è dunque la teoria della genesi, dello sviluppo e del declino delle forme sociali, in breve della trasformazione delle separazioni costitutive di tali forme sociali. In questa prospettiva lo stato, scrive Aglietta, “ricapitola le norme sociali”, è “il totalizzatore delle tensioni sociali che attraversano le forme strutturali”.

[3] Rinvio alla mia voce Equilibrio nel “Dizionario di economia politica” (diretto da G. Lunghini con la collaborazione di M. D’Antonio, vol. 14, Bollati Boringhieri, Torino 1988).

[4] J. M. Keynes, La fine del laissez faire, in J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, a cura e con una introduzione di G. Lunghini, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

[5] L. Einaudi, Lezioni di politica sociale, con una nota introduttiva di F. Caffè, Einaudi, Torino 1964.

[6] Poi pubblicato nel manifesto del 19 marzo 1989 (e ripubblicato, con un commento, in “Economia e politica industriale”, n. 63 1989).

[7] Alfredo Reichlin, ma in verità tutto il partito.

[8] J. M. Keynes, Autosufficienza nazionale, in J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, op. cit.

[9] K. Marx, Lavoro salariato e capitale, a cura di V. Vitello, Editori Riuniti, Roma 1975.

[10] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro terzo, capitoli XIII e XIV, Editori Riuniti, Roma 1970.

[11] Vedi A. Gramsci, Scritti di economia politica, testi a cura di F. Consiglio e di F. Frosini e con una introduzione di G. Lunghini, Bollati Boringhieri, Torino 1994.

[12] Si vedano le considerazioni di L. Pasinetti: “Se il lavoro viene posto sul mercato senza protezioni e viene commerciato come una qualsiasi altra merce, possiamo solo attenderci che il meccanismo concorrenziale dei prezzi di mercato conduca esattamente a ciò che conduce nel caso di ogni merce: ossia conduca il “prezzo” verso il costo di produzione. Nel caso del lavoro, il costo di produzione è il salario di sussistenza: questo è ciò che il meccanismo competitivo dei prezzi di mercato conseguirebbe. Gli “imprenditori” otterrebbero quindi tutto quanto risulta al di sopra della sussistenza (“sfruttamento”). [...] La verità è che il lavoro potrebbe essere oggetto di commercio, come ogni altra merce, solo in una società di tipo schiavista. In un qualsiasi sistema economico moderno, il lavoro non è una merce, proprio perché le nostre istituzioni sono state concepite in modo tale da non consentire che il lavoro venga commerciato come una merce. [...] Nel caso dei salari, non desideriamo affatto un salario unitario che rispecchi il costo di produzione del lavoro. Desideriamo un salario unitario che attribuisca a ciascun lavoratore la sua quota di reddito nazionale.” (L. Pasinetti, Dinamica economica strutturale: un’indagine teorica sulle conseguenze economiche dell'apprendimento umano, il Mulino, Bologna 1993). La speranza di chiunque viva di lavoro salariato, d’altra parte, è descritta con grande semplicità dal recensore anonimo della traduzione inglese di Das Kapital (in The Atheneum, n. 3097, 5 marzo 1887): “Si rappresenti la giornata lavorativa come un segmento a - b - c, nel quale a - b rappresenta il tempo necessario a un lavoratore per guadagnare quanto gli occorre per una vita sana; allora b - c rappresenterà un pluslavoro, il cui valore va al capitalista. Il lavoratore invece vorrebbe una giornata di lavoro normale, così che il segmento b - c fosse una quantità che progressivamente si riduce. In tutto ciò, formulato in maniera semplificata, sembra non ci sia niente di nuovo, ma quello che c’è di nuovo è lo stile tranchant con cui Marx irrobustisce le sue proposizioni, le deduzioni che ne trae dopo averle enunciate, e la luce che proietta quando percorre i luoghi oscuri di un sistema economico di concorrenza sregolata, un sistema nel quale il lavoro è concepito come un fattore impersonale, e sfruttato a vantaggio dello speculatore e del capitalista straricco, dei membri oziosi e parassiti della società”.

[13] Vedi M. Blaug, Il nemico pubblico numero uno è la disoccupazione, non l’inflazione, Note Economiche del Monte dei Paschi di Siena, n. 2/3 1993.

[14] Vedi il capitolo XXXI di D. Ricardo, Sui princìpi dell’economia politica e della tassazione, con una introduzione di F. Vianello, ISEDI, Milano 1976.

[15] UNDP, Rapporto 1999 sullo sviluppo umano. La globalizzazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1999.

[16] Vedi G. Lunghini, Politiche eretiche per la piena occupazione, in Disoccupazione di fine secolo, a cura di P. Ciocca, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

[17] Ricordo che il saggio dei profitti dipende dalla distribuzione del reddito tra profitti e salari e, secondo una relazione inversa, dal rapporto tra macchine e lavoratori. Se quest’ultimo cresce, il saggio dei profitti diminuirebbe: a meno che non ci sia uno spostamento della distribuzione del reddito dai salari ai profitti.

[18] Vedi E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995.

[19] P. Samuelson, Wherein Do the European and American Models Differ?, Banca d’Italia, Temi di discussione del Servizio studi, n. 320, Roma 1997.

[20] Mi servo qui dell’Introduzione di C. Bianchi alla sua voce Politica economica nel volume già citato del “Dizionario di economia politica”. Questa voce è lo strumento migliore per orientarsi in un campo oggi apparentemente bene ordinato e monoculturale, in verità luogo proprio del conflitto politico.

[21] In J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, op. cit.

[22] In J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, op. cit.

[23] Riprendo qui uno scritto di N. Acocella, Il dibattito sul welfare state: le implicazioni per  l’Italia, relazione presentata al Convegno “Politiche pubbliche per il lavoro” nell’ambito del progetto strategico CNR “L’Italia in Europa: governance e politiche per lo sviluppo economico e sociale”, Pavia giugno 1999. Di N. Acocella (a cura di), si veda anche Globalizzazione e stato sociale, il Mulino, Bologna 1999, e In difesa del welfare state, dieci anni dopo, in “Saggi di politica economica in onore di Federico Caffè”, Volume III, Franco Angeli, Milano 1999. A questi scritti di Acocella rinvio anche per la bibliografia.

[24] Su quelli che io chiamo ‘lavori concreti’, come risposta alla disoccupazione e in vista del soddisfacimento dei bisogni sociali, rinvio al mio L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

[25] La teoria generale dell’occupazione, in J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, op. cit.

[26] Meno radicale, ma certamente ragionevole (e dunque parimenti rifiutata), è la proposta di J. Tobin di un tassa sulle transazioni finanziarie di breve periodo, che hanno natura essenzialmente speculativa. È significativo che la proposta di introdurre la ‘Tobin tax’ sia stata respinta dal parlamento europeo, o in nome del libero mercato o perché, come hanno spiegato i trotzkisti francesi, “Non siamo qui per migliorare il capitalismo”.

[27] Vedi N. Burgi e P. S. Golub, Il falso mito dello stato post-nazionale, in Le monde diplomatique - il manifesto, aprile 2000.

[28] Vedi il rapporto UNDP citato sopra.

[29] M. Kalecki, Gli aspetti politici della piena occupazione, in Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, Einaudi, Torino 1975.

[30] F. Hahn, Il futuro del capitalismo: segni premonitori, “La rivista milanese di economia”, n. 46 1993.