CENTENARIO DI MARX
E’ VIVO MARX?

La teoria economica moderna, esangue, se non morta, vuole seppellire l’analisi marxiana.
Marx, però, è ben vivo se si rispetta l’integrità del suo pensiero.
L’attualità della teoria del valore e i rapporti con Keynes.

Giorgio Lunghini[1]

Nel quadro dibattiti che hanno caratterizzato, nell’anno in corso, il centenario della morte di Marx, si è svolto a Saint Vincent il 24 e 25 marzo un convegno, organizzato dal “Centro Culturale e Congressi Saint Vincent”, dal titolo “È vivo Marx?”.

In questo ambito si è svolta una tavola rotonda a cui hanno partecipato Siro Lombardini, Giorgio Lunghini, Sergio Ricossa e Paolo Sylos Labini.

Qui di seguito riportiamo i due interventi particolarmente interessanti del prof Giorgio Lunghini.

Primo intervento

Conviene chiarire quale è la mia posizione, visto che ci viene fatta questa domanda: “Marx è vivo?”.

Io penso che Marx sia vivo, ben vivo, ma sepolto vivo dentro al resto della teoria economica, e in particolare della teoria economica moderna, esangue se non morta. In che senso è vivo? È vivo proprio perché ammette e pretende di non essere immortale. La storicità dell’analisi marxiana, che ripete la storicità del suo oggetto, il capitalismo, distingue Karl Marx da tutti gli altri economisti, classici e moderni (con l’unica grande eccezione di J.M. Keynes).

Ricorderò incidentalmente, che la risposta anagrafica alla morte di Marx è la nascita di Keynes, di Schumpeter e di Benito Mussolini: le risposte della teoria e della pratica politica a Marx e al marxismo sono infatti il fascismo, forme varie di socialdemocrazia e i vari keynesismi.

Mi permetterei una citazione, da una pagina finale del terzo libro del Capitale che chiarisce bene che cosa Marx intende per storicità (e quindi naturale mortalità) dell’analisi. Marx scrive:

“l’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico dimostra che esso è un modo di produzione di tipo particolare, specificamente definito dallo sviluppo storico; che, al pari di qualsiasi altro definito modo di produzione, presuppone un certo livello delle forze produttive sociali e delle loro forme di sviluppo, come loro condizione storica; condizione, che è essa stessa il risultato storico e il prodotto di un processo precedente, e da cui il nuovo modo di produzione prende le mosse in quanto suo fondamento dato; che i rapporti di produzione corrispondenti a questo specifico modo di produzione, storicamente determinato — rapporti in cui gli uomini entrano nel loro processo di vita sociale, nella creazione della loro vita sociale — hanno un carattere specifico, storico, transitorio; e che, infine, i rapporti di distribuzione sono in sostanza identici a questi rapporti di produzione, costituiscono il rovescio di questi ultimi, così che gli uni e gli altri hanno lo stesso carattere storicamente transitorio”.

La pagina è nota, ma va ricordata per correggere l’immagine di un Marx che prevede deterministicamente la successione dei modi di produzione. È questa una lettura frequente di Marx, ma non credo sia corretta. Marx non fa previsioni certe e, unico fra tutti gli economisti, non pretende che la “scienza” sia fondamento unico e sufficiente della politica (economica). Questo dipende, ovviamente, dalla sua particolare visione dal rapporto fra teoria e prassi.

Che cosa vuole dire storicità dell’analisi marxiana? A mio parere vuole dire che non è vero, in generale, che il modello marxiano, ammesso che si possa parlare di un “modello” marxiano, condivida il concetto di razionalità generale che presiede sia alla logica degli economisti classici che a quella degli economisti moderni. Non dovremmo dimenticarci che la teoria marxiana è critica dell’economia politica, è critica dell’economia politica precedente ed è critica ante litteram della teoria economica moderna; e che lo è soprattutto per una ragione: che tutto il resto della teoria economica, classica o neoclassica, (sempre con l’eccezione di Keynes, ma non anche di Schumpeter), è dominata dal concetto di equilibrio, non solo come strumento analitico ma come norma di condotta sociale. L’idea classica è che al funzionamento dell’economia e della società presieda un “ordine naturale” al quale gli uomini si conformano spontaneamente; la visione neoclassica dell’equilibrio è quella di una norma cogente che, se trasgredita, darà luogo a punizioni, e che, perciò impone agli individui comportamenti “razionali”. Marx rifiuta e nega questa posizione, e critica con precisione la nozione normale di equilibrio. Il punto non è quello di credere nell’equilibrio o di analizzare mediante modelli di squilibrio la realtà capitalistica, il punto è quello di individuare le condizioni di riproduzione del sistema capitalistico. Il concetto centrale dell’analisi marxiana è il concetto di riproduzione:

“Qualunque sia la forma sociale del processo di produzione, questo o deve essere continuativo o deve sempre tornare a percorrere periodicamente gli stessi stadi. Come una società non può smettere di consumare così non può smettere di produrre. Quindi ogni processo sociale di produzione, considerato in un flesso continuo e nel fluire costante del suo rinnovarsi, è insieme processo di riproduzione. Le condizioni della produzione sono insieme condizioni della riproduzione. Se la produzione ha forma capitalistica, l’avrà anche la riproduzione.... Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altro l’operaio salariato.

Il rovesciamento del modo di produzione capitalistico rispetto a quelli che l’avevano preceduto è che il modo di produzione capitalistico non è produzione di merci a mezzo di merci, ma è produzione di denaro a mezzo di denaro. Il fine del processo capitalistico non è affatto il soddisfacimento dei bisogni umani, ma la creazione di plusvalore. Che poi nella fase storicamente determinata del capitalismo questo plusvalore venga accumulato, quando lo è, e che ciò consenta uno sviluppo delle forze produttive quale mai si era sperimentato in passato, è un altro discorso; che oltretutto funziona in maniera perfetta solo all’interno di modelli “dinamici” del tipo Walras-Von Neumann-Leontief, nei quali si dà per certo che i capitalisti accumulino tutto e regolarmente; e questa è una certezza pre marxiana, dovuta a un curioso ripescamento nell’economia moderna della legge di Say; di una “legge” che nega il ruolo della moneta all’interno del processo di produzione e riproduzione capitalistico, e soprattutto che propone una visione tranquillizzante del processo capitalistico come dominato dall’equilibrio.

La visione classica e borghese generale del sistema economico è che l’equilibrio è la norma e che la crisi è il caso. La posizione marxiana è che la crisi è la norma e l’equilibrio è un caso, un caso che si cercherà di produrre con interventi appropriati, i quali normalmente non saranno tanto di tipo economico quanto strettamente politici (e mai sufficienti a evitare la normalità della crisi).

Questo è un altro punto importante; Paolo Sylos Labini prima ricordava l’elogio che Schumpeter fa della visione dinamica di Marx, della sua consapevolezza che il “fenomeno” della crisi è interno all’organismo capitalistico: ma proprio per questo esso non può essere ricondotto ad una teoria del ciclo. Una teoria del ciclo dà l’idea di una fisiologica e regolare oscillazione fra alti e bassi. Le cose non stanno così: la crisi capitalistica è improvvisa, è il modo in cui si ricompone l’unità, è una rottura nelle condizioni di riproduzione. Condizioni di riproduzione che sono enunciate in quegli schemi della riproduzione, il cui fraintendimento, anche da parte marxista, è uno dei contributi più violenti alla demolizione dell’analisi marxiana. Precisamente perché sono stati letti, dalla socialdemocrazia, come dimostrazione dell’armonia del capitalismo o, da Rosa Luxemburg, come dimostrazione dell’impossibilità del capitalismo. Mentre la posizione di Marx è molto più semplice e insieme articolata: gli schemi della riproduzione dimostrano, contro Malthus e Sismondi, che il capitalismo è possibile; e che però, contro Ricardo e Say, il suo sviluppo procede di necessità attraverso crisi.

Ciò che finora ho tentato di dire è semplicemente che il corpus teorico marxiano è irriducibile a qualsiasi “paradigma” dell’economia borghese classica e moderna; e che le diverse parti di questo corpo non sono separabili (così come dopo Sraffa si tenta di fare, tornando però non a Marx, ma a Ricardo e a Smith).

Secondo intervento

Vorrei tornare, dopo l’intervento di Sergio Ricossa, alla stoffa analitica di cui sono fatti i sogni, che condivido, di Marx e di Keynes. Spaventa anche me l’immagine del mondo che il professor Ricossa ha descritto; ma i sogni di Marx e di Keynes non mancano di ragioni. La stoffa analitica di cui sono fatti questi sogni è una stoffa robusta, e penso che dovremmo conservarla anche se non li condivi- diamo. C’è un esempio che vorrei fare, circa le differenze fra Marx ed i classici e fra Marx e i moderni che pure a Marx dicono di richiamarsi, ed è la questione della teoria del valore. Prima devo però rispondere a un’osservazione di Paolo Sylos Labini. Certo che l’analisi degli economisti classici borghesi è storicamente determinata; però hanno una curiosa prospettiva: la storia c’è stata fino a ieri ma non ci sarà più. La differenza di Marx è che la storia ci sarà anche domani, che c’è anche oggi, e che anche noi viviamo nella storia. C’è sempre stata e ci sarà sempre, mentre curiosamente gli economisti classici pensano che la successione dei modi di produzione si arresti allo stadio capitalistico.

La questione della teoria del valore - lavoro non si può sbrigare e ricostituire in tre minuti, ma dato che ormai è stata sbrigata e liquidata in tutta la letteratura teorica, vale la pena di ricordarla.

Qual’è i! punto?

Si dice che dopo Sraffa si è finalmente dimostrata l’inutilità di una teoria del valore - lavoro poiché è possibile calcolare un sistema di prezzi relativi che assicura l’equilibrio riproduttivo del sistema, senza passare necessariamente per il lavoro contenuto nelle merci. È sufficiente conoscere le condizioni tecniche di produzione. Questo è il punto delicato. Non c’è dubbio, sembrerebbe che il problema della trasformazione non ammetta soluzioni algebriche. Ma che cosa si perde abbandonando per questa ragione la teoria del valore-lavoro? Si torna a una visione strettamente deterministica e naturalistica delle condizioni tecniche di produzione, che vengono pensate come un dato, mentre in un mondo in cui si produce per lo scambio e per il profitto anziché per l’uso esse sono una variabile; e “rozzamente” si separano produzione e distribuzione, scambio e riproduzione.

In questo senso io tendo a leggere Marx nella sua integrità incompleta e incompiuta, non perché lo mitizzi come superuomo o massimo degli analisti, ma semplicemente perché se si separano le diverse parti di questo organismo di pensiero, che corrisponde all’organismo del sistema capitalistico reale (che è un organismo e non una macchina, così come gli economisti normalmente amano pensarlo). Allora non se ne capiscono più i nessi; separare Il Capitale significa buttarlo via: il che si può benissimo fare, ma sarebbe gentile spiegare perché. Chiudo ricordando una lettera di Marx a Kugelmann, una delle meno importanti dal punto di vista teorico, non per questo meno significativa: “Un libero docente di economia politica in un’università tedesca mi scrive che io l’ho completamente convinto, ma... la sua posizione gli impone, “come ad altri colleghi”, di non esprimere la sua convinzione. Questa vigliaccheria dei mandarini del mestiere da una parte, la cospirazione del silenzio della stampa borghese e reazionaria dall’altra, mi reca un grave danno. Meissner scrive che nella Fiera autunnale i conti sono andati male”.

Credo che questa sia molto spesso la posizione degli economisti non marxisti: “si, mi convinci in talune parti della tua analisi; ma solo in quelle parti dell’analisi che rispettano gli standard teoretici della scienza economica moderna”; i quali sono essenzialmente canoni positivistici e soprattutto formalistici: è scienza soltanto ciò che può essere detto o tradotto in matematica, tutto ciò che non è matematizzabile non è scientifico. Quindi Marx è da buttare, se non per quelle piccole parti che ne possono essere riscritte nel gergo dell’economia matematica.

Replica

Mi limito a due punti, Venuti fuori in diversi interventi: ancora la teoria del valore, e i rapporti fra Marx e Keynes. Non vorrei tornare troppo a lungo sulla questione del valore, e solo da un punto di vista molto particolare.

Siro Lombardini prima ha ricordato il contributo di Marco Lippi. Il libro di Lippi a me pare proprio la dimostrazione migliore di come sia indispensabile una teoria del valore: senza una teoria del valore è possibile un’analisi della produzione in generale, ma non è possibile un’analisi della produzione capitalistica. C’è un passo di Marx sul quale si fondano molte critiche moderne allo stesso Marx; è un passo dell’Introduzione del ‘57.

Parla di quelle determinazioni che valgono per la produzione in generale e che come tali possono essere isolate a condizione che non vada poi dimenticata la differenza essenziale. Mentre in questa dimenticanza consiste tutta la saggezza degli economisti moderni, che dimostrano l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti. Per cogliere le differenze della società capitalistica, si deve salire dall’astratto al concreto, non viceversa. E senza una teoria del valore si perdono i nessi fra produzione, scambio e riproduzione, si annullano le differenze specifiche delle produzione capitalistica rispetto alla produzione generale. Ed è per questo che si pensa alla naturalità e quindi all’eternità di un modo di produzione di merci a mezzo di merci.

Alla questione del valore è strettamente connessa la questione delle macchine e in generale della tecnica, della tecnologia, della stessa scienza per Marx. Gli economisti sono abituati a pensare che le tecniche di produzione, e certamente la scienza in generale, sono qualcosa che non è di loro competenza e che comunque non è determinata storicamente: è qualcosa che si dà, una sorta di dono della natura, che funziona come mediazione neutrale, fra l’uomo e la natura. Ma questo sarebbe vero soltanto se la produzione fosse produzione per l’uso, come si può pensare che sia in un’economia cooperativa; mentre l’economia capitalistica non è un’economia cooperativa, bensì un’economia monetaria; e in quanto vi si produce per lo scambio e non per l’uso, essa produce e riproduce tecniche e conoscenze scientifiche finalizzate al profitto. Non c’è da scandalizzarsi per questo; ma è questo il punto che ci consente di pensare le armi, l’inquinamento, la disoccupazione, non come fatti esterni, come parametri o accidenti dell’economia, ma come momenti ad essa interni. Quello che Marx riesce a fare con il suo metodo scientifico è precisamente di non scontare una separazione certa fra parametri e variabili.

Se non riusciamo a separare parametri e variabili riduciamo tutto a problemi di calcolo, li risolviamo elegantemente e produciamo nuovi teoremi; ma non diciamo niente su quelle che sono le vere variabili, da spiegare, poiché le vere variabili da spiegare sono i parametri. La scienza normale procede risolvendo puzzles, problemi più o meno semplici che consistono nell’assumere come parametri le cose difficili, nel porre come incognite le cose semplici.

Per quanto riguarda i rapporti fra Marx e Keynes, non vorrei forzarli; ci sono però alcune somiglianze che a mio parere vanno ricordate: la prima è la visione dell’economia capitalistica come economia monetaria. C’è un passo in cui Keynes dice: “Bisogna riconoscere a Marx un’osservazione pregnante: nel mondo reale, che non è un’economia cooperativa, la natura della produzione non è — come gli economisti sembrano spesso supporre — intesa a scambiare una merce contro denaro al fine di ottenere un’altra merce: il mondo degli affari si separa dal denaro soltanto al fine di ottenere più denaro”.

Purtroppo, aggiunge Keynes, Marx fece di questa pregnante osservazione un uso altamente illogico. Keynes doveva, per ragioni culturali e di altra natura, prendere la distanze da Marx, ma questo punto di partenza originario è centrale. Un secondo punto riguarda la questione dell’equilibrio: l’equilibrio capitalistico, talvolta ce ne dimentichiamo, è un curioso equilibrio, che ha come suo dato strutturale la disoccupazione. Il sistema capitalistico è un sistema in cui è possibile un equilibrio determinato e stabile di disoccupazione. Ci possono essere anche moltissimi disoccupati, ma si è “in equilibrio”, poiché sono in “equilibrio” mercato di lavoro, mercato della moneta e mercato delle merci.

Guarda caso, la nozione di disoccupazione nasce sia in Marx che in Keynes da un’asimmetria della società. La nozione marxiana di disoccupazione, quale esercito industriale di riserva prodotto ed ottenuto mediante un aumento della composizione organica del capitale, non rinvia affatto a un dato tecnologico ma ad una variabile strumentale, mediante la quale i capitalisti tentano di mantenere basso il saggio del salario.

A situazioni non radicalmente diverse pensa Keynes quando fa dipendere il livello dell’occupazione che i capitalisti decidono di dare dalle aspettative di questi circa il reddito che riceveranno. Che poi si sbaglino nel fare questo, e vadano incontro a crisi di realizzazione è un’altra questione: la fondamentale questione della crisi.

Anche sul tema della “politica economica” vi è una convergenza metateorica fra Marx e Keynes. Avevo anch’io in mente i punti ricordati ieri dal professor Mathieu. Sono però i punti del Manifesto; non proposte di politica economica, nel senso moderno del termine, ma di politica in generale.

La visione moderna dei rapporti fra analisi economica e politica economica vuole qualcosa di questo tipo: scoperta un’appropriata relazione causale,basterà invertirla per sapere che cosa si deve fare per ottenere il risultato dato. Vi sarebbe dunque una simmetria, una dualità garantita fra proposizioni “positive” dell’analisi e proposizioni “normative” della politica economica. Questo sarebbe molto comodo, e sarebbe anche vero se e soltanto se tutte le proposizioni di cui si occupa la scienza positiva fossero matematizzabili senza residui: se fosse vera quella visione, che è la visione egemone nel ‘900, dell’economia come scienza che si occupa dei rapporti fra mezzi scarsi e fini alternativi. Ma questo è soltanto un pezzo del “problema economico”: i problemi economici sono molto più numerosi e complessi di quelli riducibili ai rapporti fra mezzi e fini, e perciò la politica economica che semplicemente si limita ad invertire le proposizioni positive è o inutile, perché pleonastica, o riduttiva. Questo è l’elemento che hanno in comune Marx e Keynes, nella loro tecnica di teorizzazione: c’è un rapporto fra scienza ed azione che non è riducibile a quello fra teoria economica e ingegneria economica, c’è un momento in cui l’analisi si ferma e il resto è azione, è politica. Marx e Keynes sono tutti e due grandi retori. Il fatto di non essere ancora riusciti a convincerci tutti è la ragione per cui temiamo che siano ancora vivi. Se li leggessimo depurati delle scorie che molti marxismi e molti keynesismi hanno depositato sul Capitale e sulla Teoria generale avremmo lezioni importanti e terribili per capire il mondo in cui ancora oggi viviamo.

NOTE


[1] AZIMUT - Rivista sindacale di economia politica e cultura – Milano via Tadino 23 N ° 4 – maggio/giugno 1983