L’EREDITÀ DI SWEEZY: PERCHÉ MARX
E NON GLI SRAFFIANI E I POST-KEYNESIANI
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Joseph Halevi

La scomparsa di Paul Sweezy avvenuta all’età di novantatre anni genera in noi un grande vuoto dovuto principalmente a due ragioni. In primo luogo perchè egli era dotato di un’umanità eccezionale. Il suo comportamento e la sua moralità si fondavano sull’indipendenza di giudizio come criterio guida, quindi sul non asservimento a mode o ad improvvisi capovolgimenti di direzione così comuni agli ex-intellettuali di sinistra francesi e, per provincialissimo rimbalzo, italiani. A Paul Sweezy si può applicare una frase di Bertold Brecht in una poesia sul comunismo «è la semplicità che è difficile a farsi». Così era Sweezy tanto nella vita quotidiana quanto nella dimensione intellettuale.

In secondo luogo il vuoto che scaturisce dalla morte del grande intellettuale della critica al capitalismo, viene accentuato dalla povertà assoluta delle teorizzazioni che si erano candidate alla direzione della critica dell’economia politica dominante. Ci riferiamo in special modo allo sraffismo-ricardianesimo, il quale, come nel caso degli scritti di Ian Steedman, ha perfino prodotto un virulento e volgare antimarxismo mentre il resto dei seguaci sraffo-ricardiani è stato completamente incapace di proporre un’interpretazione teoricamente e storicamente robusta dell’evoluzione del capitalismo. L’altro ramo propostosi alla guida della critica alla dottrina dominanante è stato il pensiero post-keynesiano con cui le opere di Sweezy avevano peraltro una certa affinità. Tuttavia per Sweezy la strutturazione del potere capitalistico in grandi gruppi monopolistici e l’immanente tendenza a generare capacità produttiva eccedentaria, costituiscono contraddizioni non eliminabili nell’ambito dei rapporti sociali ed economici capitalistici. Invece per i post-keynesiani tali aspetti sono aggiustabili attraverso politiche economiche di sostegno alla domanda senza dover intaccare gli effettivi rapporti di potere. Se, nell’ambito capitalistico, delle politiche economiche sono possibili esse, secondo Sweezy, non possono che avere connotati volti a rafforzare il capitale monopolistico. In tale contesto primeggiano le politiche del keynesismo militare la cui fattibilità è legata alla concreta possibilità di mettere in atto strategie imperialistiche.

Ne consegue che negli scritti e nelle attività di Paul Sweezy non esiste alcun compromesso con le forme correnti del capitalismo. Molto giustamente, ed osservando il mondo dal cuore degli Stati Uniti, egli non dava importanza a modelli alternativi all’interno del capitalismo contemporaneo. Viceversa molti economisti e sociologi «di sinistra» hanno di volta in volta brandito questo o quel paese - Giappone, Svezia, Europa - come nuovi modelli di sviluppo non solo storicamente, cosa questa lapalissiana perchè ogni paese è diverso, ma anche normativamente. Nelle conversazioni che per quasi tre decenni ho avuto con Paul Sweezy mi sembra che le altre forme del capitalismo odierno fossero viste come dipendenti dallo stesso sistema statunitense e che in nessun caso avrebbero potuto costituire uno schema alternativo allargabile per esempio al Terzo mondo. Semmai le diversità tra i vari capitalismi avrebbe riportato a galla i conflitti interimperialistici come infatti sta accadendo.

L’assenza totale di compromesso con il capitalismo corrente derivava dall’integrazione delle concezioni marxiane dello sfruttamento e delle crisi con la natura del potere in mano alle grandi corporations americane. Il tutto si basava su una consocenza profondissima dei meccanismi istituzionali statunitensi e delle sue proiezioni internazionali. La lettura del capitalismo da parte di Sweezy andava dalla rivoluzione industriale britannica al New Deal rooseveltiano, alla riorganizzazione del mondo capitalistico già insita nella seconda fase del rooseveltismo quando, dopo la grande paura delle occupazione delle fabbriche, i famosi sit in, il padronato riprese il controllo del paese, alla formazione degli organismi monetari internazionali postbellici. L’esperienza rooseveltiana era lì a mostrare che il capitalismo non poteva essere sistematicamente riformabile e la sua trasformazione con Truman in un capitalismo militar industriale era la logica conseguenza di ciò che verrà definita come la politica di controrivoluzione globale. Valga come esempio di lucidità con cui sulla Monthly Review del 1954 Sweezy e Huberman condussero l’analisi del declino del maccartismo (in quell’anno Sweezy venne condannato dal tribunale del New Hampshire, sentenza che venne poi annullata nel 1957 dalla Corte Suprema Federale). Per Huberman e Sweezy la fine del maccartismo non derivava da un sussulto liberal democratico bensì dal fatto che il maccartismo aveva esaurito la sua funzione. Le grandi organizzazioni sindacali, essi sostenevano, erano ormai state addomesticate producendo in tal modo un consenso verso la politica di Guerra Fredda sul piano internazionale. L’estrema destra poteva pertanto uscire di scena mentre la direzione della Guerra Fredda sarebbe ormai passata nelle mani dell’establishment sia esso conservatore o liberale. Analisi lungimirante dato che continuiamo a subirne le conseguenze come ha dimostrato il consenso sia dei liberali (democratici) che dei conservatori (repubblicani) nei confronti delle guerra in Vietnam e delle guerre in Iraq ed Afghanistan.

La Guerra Fredda avrebbe potuto in effetti distruggere il marxismo come sistema di analisi economico-politica considerando anche che poco o niente in termini di materialismo storico veniva dall’Italia o dalla Francia ove, per converso, i partiti comunisti erano formalmente forti.

Paul Sweezy, sia attraverso i suoi scritti tra i quali ricordiamo La teoria dello sviluppo capitalistico (Einaudi, 1951), Il presente come storia (Einaudi, 1962) e con Paul Baran il celeberrimo Capitale monopolistico (Einaudi, 1968), sia attraverso l’indefessa attività di fondatore e direttore della Monthly Review ha contribuito in maniera determinante al mantenimento ed allo sviluppo del marxismo come teoria critica del capitalismo e come base concettuale della lotta politica.

NOTE


[1] Estratto dalla rivista Proteo n. 1, anno 2004.

Rivista quadrimestrale a carattere scientifico di analisi delle dinamiche economico-produttive e di politiche del lavoro, curata dal Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES-PROTEO) e dalla Federazione Nazionale delle Rappresentanze Sindacali di Base (RdB).

Il Direttore Scientifico della rivista è il prof. L. Vasapollo; il Comitato Editoriale e di Programmazione Scientifica di PROTEO è composto da molti professori universitari di rilevanza internazionale (italiani, spagnoli, messicani, brasiliani, statunitensi, ecc.) tra i quali A. Mazzone, R. Antunes, J. Arriola, A. Bianchi, R. Braga, G. Carchedi, M. Costa Lima, V. Giacchè, D. Guerrero, J. Halevi, H. Jaffe, R. Marquez, R. Martufi, J. Milios, J.Petras, A. Valle.

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