SOTTO LA COPERTA DELL'IDEOLOGIA LIBERISTA
DATE AI RICCHI, I POVERI HANNO GIÀ IL PARADISO
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Ogni catastrofe «naturale» rivela, se ce ne fosse bisogno, l'estrema fragilità delle classi popolari, la cui vita e la cui sopravvivenza perdono valore. Peggio, la compassione per i poveri, ostentata di continuo, maschera malamente il fatto che, in ogni epoca, dei pensatori hanno cercato di giustificare la miseria - all'occorrenza colpevolizzando le sue vittime - e hanno rifiutato ogni politica seriamente diretta a sradicarla. Un testo attualissimo, scritto 20 anni fa.

John Kenneth Galbraith[2]

Vorrei esporre alcune riflessioni su un esercizio tra i più antichi della storia dell'umanità, intrapreso nel corso degli anni e dei secoli per liberarci da ogni rimorso di coscienza nei confronti degli indigenti. Poveri e ricchi sono sempre vissuti fianco a fianco: una convivenza sempre scomoda, e a volte pericolosa. Già Plutarco affermava che «lo squilibrio tra ricchi e poveri è la più antica e la più fatale di tutte le malattie delle Repubbliche». I problemi che derivano da questa convivenza - e più in particolare quello di giustificare le fortune di alcuni a confronto con l'altrui cattiva sorte - hanno dato, e continuano a dare filo da torcere agli intellettuali di tutti i tempi.

La prima di tutte le soluzioni è quella biblica: i poveri soffrono in questa valle di lacrime, ma saranno magnificamente ricompensati in un mondo migliore: risposta ammirevole, che consente ai ricchi di godersi il loro benessere, invidiando al tempo stesso i poveri per la fortuna che li attende nell'aldilà.

A distanza di vari secoli, nel 1776, agli albori della rivoluzione industriale inglese, esce la Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni di Adam Smith: pubblicazione postuma, dato che l'autore è morto nel 1759. Qui il problema, così come i tentativi per risolverlo, sono già rappresentati nella loro forma moderna.

Un quasi contemporaneo di Adam Smith, Jeremy Bentham (1748-1832), inventa la formula dell'«utilitarismo», che per circa mezzo secolo esercita un'influenza straordinaria sul pensiero britannico, e in qualche misura anche su quello americano. «Si deve intendere per principio di utilità - scrive Bentham nel 1789 - il criterio secondo il quale una qualsiasi azione è approvata, o al contrario disapprovata, in funzione della sua tendenza ad accrescere o a diminuire il grado di felicità della parte il cui interesse è in gioco». Non solo la virtù è autocentrica, ma è tenuta ad esserlo. Il problema della convivenza tra un ristretto numero di ricchi e una massa di indigenti era dunque da considerarsi risolto con il raggiungimento del «massimo beneficio per i più». La società faceva del suo meglio a vantaggio del maggior numero possibile di persone; e quindi bisognava accettare che da ciò risultassero situazioni purtroppo assai sgradevoli per tanti ai quali la fortuna non si era presentata all'appuntamento.

Nel 1830 nasce una nuova formula, tuttora molto in uso per rimuovere i rimorsi dalla coscienza pubblica. È la tesi associata ai nomi del finanziere David Ricardo (1722-1823) e del pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834): se esiste l'indigenza, la colpa è tutta dei poveri e della loro esagerata fecondità. La lussuria incontrollata li induce a proliferare oltre i limiti delle risorse disponibili.

Per il malthusianesimo, il letto è il solo colpevole della povertà, e i ricchi sono da considerarsi esenti da qualsiasi responsabilità in proposito.

Verso la metà del XIX secolo si fa strada una nuova forma di negazionismo, che riscuote grande successo soprattutto negli Stati uniti: il «darwinismo sociale», associato al nome di Herbert Spencer (1820-1903). Secondo la sua tesi, la suprema regola della vita economica è parallela a quella biologica della «sopravvivenza dei più adatti» (the fittest), espressione a torto attribuita a Charles Darwin (1822-1882). L'eliminazione dei poveri sarebbe il mezzo adottato dalla natura per migliorare la razza umana, che uscirebbe rafforzata dalla scomparsa dei deboli e degli sconfitti.

Tra darwinismo sociale e assistenza sociale In America, uno dei più noti propagandisti del darwinismo sociale fu John D. Rockefeller, il capostipite della dinastia, che dichiarò in un suo celebre discorso: «La varietà di rose American Beauty può acquistare lo splendore e il profumo che entusiasma chiunque la contempli solo attraverso il sacrificio dei primi boccioli che le crescono intorno. Lo stesso accade nella vita economica. Si tratta solo dell'applicazione di una legge naturale, una legge di Dio».

Nel corso del XX secolo si nota però un declino della popolarità di questa tesi, che qualcuno incomincia a trovare un po' troppo crudele.

Se si parla di darwinismo sociale, è in genere per condannarlo; si preferisce un tipo di negazionismo più amorfo. In America due presidenti, Calvin Coolidge (1923- 1929) e Herbert Hoover (1929- 1933) sostengono che la concessione di sussidi pubblici ai più indigenti ostacola l'efficienza economica. E arrivano a considerarla incompatibile con un sistema economico che aveva dimostrato di poter funzionare benissimo, al servizio di un gran numero di americani. Del resto, anche oggi c'è chi sostiene che l'assistenza pubblica ai più indigenti sia pregiudizievole all'economia. In questi ultimi anni, la ricerca del modo migliore per rimuovere ogni rimorso in proposito è assurta alla dignità di impegno filosofico, letterario e retorico di primaria importanza.

Ma è anche diventata un'impresa non priva di interesse economico.

Oggi sono d'attualità quattro o cinque metodi, il primo dei quali si fonda su un dato di fatto: il più delle volte le misure adottate contro la povertà dipendono, in un modo o nell'altro, da iniziative statali. Ora, in America è ormai un luogo comune deplorare l'intrinseca inefficienza dell'apparato statale - con l'unica eccezione della gestione del Pentagono e degli appalti per l'industria bellica e la produzione di armamenti. Stiamo vivendo in un'epoca di ripudio e condanna generale della burocrazia. Oggi negli Usa il razzismo è politicamente scorretto. Ma c'è una discriminazione autorizzata, anzi incoraggiata: quella che prende di mira i funzionari dello stato federale (ma sempre, non lo ripeteremo mai abbastanza, con l'eccezione di quelli della difesa). In particolare sono stigmatizzati i responsabili dell'assistenza sociale. Perciò, si argomenta, non è davvero il caso di affidare l'assistenza ai poveri agli organismi statali: non farebbero altro che creare scompiglio aggravando la loro sorte.

Viviamo in un'epoca in cui le prove d'incompetenza pubblica vanno di pari passo alla condanna generale dei funzionari, ad eccezione - non lo diremo mai abbastanza - di quelli che lavorano per la difesa nazionale. La sola forma di discriminazione sempre autorizzata - per essere più precisi, ancora incoraggiata - negli Stati uniti è quella verso gli impiegati del governo federale, in particolare nelle attività che si occupano di protezione sociale. Abbiamo imprese dagli immensi apparati burocratici rigurgitanti di burocrati, che però nessuno si sogna di criticare. Quelli, vanno benissimo; il biasimo è riservato esclusivamente ai burocrati del settore pubblico e ai funzionari.

In realtà, l'apparato statale degli Usa può contare su funzionari di altissimo livello, quasi sempre molto impegnati, intelligenti, onesti e poco inclini ad accettare fatturazioni gonfiate per le più diverse forniture pubbliche - dalle lampadine alle macchine da caffè o ai coperchi dei water. Curiosamente, ogni volta che casi di corruzione di questo tipo vengono alla luce, si tratta di forniture per il Pentagono...

In questi anni gli Usa hanno compiuto grandi progressi nel superamento della povertà della terza età, nella democratizzazione dell'accesso alle cure mediche, nell'esercizio dei diritti civili delle minoranze e nelle pari opportunità nel campo dell'istruzione. Un risultato sorprendente, se si pensa che è stato ottenuto da una massa di funzionari «inefficienti e incompetenti»... Ma ormai una cosa è chiara: la sistematica denigrazione dell'apparato statale fa parte di un disegno più vasto, che comporta il rifiuto di ogni responsabilità nei confronti delle fasce di popolazione meno abbienti. Il secondo metodo riprende il filo di una tradizione secolare, secondo la quale ogni forma di sussidio pubblico finirebbe per danneggiare i cittadini in condizioni di povertà. In questo modo, si è sempre detto, si abbatte il loro morale, distogliendoli da attività ben remunerate. Non solo: si rischierebbe addirittura di sfasciare le famiglie - dato che ad esempio una donna rimasta senza marito ottiene aiuti sociali per sé e per i suoi figli. Ovviamente, non esiste la minima prova che questi presunti danni siano peggiori della soppressione della pubblica assistenza; eppure si continua a ripetere ragionamenti di questo tipo, e con tanta insistenza che molti finiscono per crederci.

Delle varie fantasmagorie, questa è senza dubbio la più influente.

L'altro lato dell'economia dell'offerta Il terzo ordine di argomentazioni, che si collega a quello precedente, accusa l'assistenza pubblica di disincentivare la propensione al lavoro. Trasferendo agli sfaccendati una parte del reddito di chi lavora, si scoraggerebbe la popolazione attiva, incoraggiando invece l'ozio e la pigrizia. L'espressione più moderna di questa tesi si ritrova nella cosiddetta economia dell'offerta. Secondo questa concezione, se in America i ricchi non lavorano è perché il reddito delle loro attività è insufficiente; se dunque toglie denaro ai poveri per darlo ai ricchi, si stimolano gli sforzi di questi ultimi, con il risultato di stimolare il progresso economico. Ma chi potrà mai credere seriamente che la grande maggioranza dei poveri preferisca l'assistenza pubblica a un buon posto di lavoro? O che i titolari delle grandi imprese, personaggi emblematici del mondo di oggi, preferiscano passare il tempo a girarsi i pollici perché non sono abbastanza remunerati?

Sarebbe peraltro un'accusa scandalosa per i manager americani, che sono, come tutti sanno, lavoratori indefessi.

Passiamo al quarto metodo per mettersi a posto la coscienza: si tratta di porre in evidenza il danno che si infliggerebbe ai poveri confiscando la loro responsabilità. Se la libertà è il diritto di ciascuno di spendere liberamente e a modo proprio quanto più denaro possibile, la cosa giusta da fare è ridurre al minimo il denaro prelevato e speso dallo stato (ma naturalmente, sempre con l'eccezione del bilancio per la difesa nazionale). Come ha perentoriamente dichiarato il prof.Milton Friedman[3], «la gente deve avere il diritto di scegliere».

Questa, tra le diverse trovate, è senza dubbio la meno sostenibile.

Si ammette generalmente che non c'è alcun rapporto tra la condizione di chi non ha mezzi di sussistenza e la libertà di spendere. (Ma anche qui il prof. Friedman costituisce un caso eccezionale, visto che attraverso l'imposta sul «reddito negativo» si garantirebbe un reddito universale minimo.) Chiunque ammetterà che nulla può opprimere, e al tempo stesso mobilitare la mente e stimolare lo sforzo, quanto il fatto di trovarsi senza un soldo in tasca. Si parla molto di quanto le imposte riducano la libertà dei contribuenti più facoltosi, incidendo sui loro redditi.

Ma chi può descrivere gli straordinari spazi di libertà che si aprirebbero ai poveri se potessero disporre di un po' di denaro da spendere?

Al confronto - se vogliamo parlare di libertà - quella che il fisco sottrae ai ricchi è ben poca cosa... Infine, quando tutti gli altri metodi si dimostrano vani, possiamo sempre ricorrere alla rimozione psicologica: una tendenza che ci accomuna tutti, anche se si manifesta nei modi più diversi. Grazie a questo meccanismo, spesso si evita di pensare alla corsa agli armamenti, che ci sta trascinando verso la probabile estinzione dell'umanità.

Lo stesso processo di rimozione scatta per consentirci di non pensare ai tanti che vivono nell'indigenza, in Etiopia come a Los Angeles o nel Bronx meridionale. Spesso ci consigliano di coltivare pensieri positivi...

Questi i metodi moderni per evitare di preoccuparci dei poveri. Tutti coloro che ci hanno suggerito questi espedienti - da Bentham a Malthus e a Spencer - tranne forse l'ultimo, hanno dato prova di una grande inventiva. Evidentemente, nel nostro tempo uno spirito autenticamente compassionevole, e un conseguente sforzo dei pubblici poteri, rappresenterebbe una norma di comportamento e d'azione molto più scomoda e difficile.

Eppure è questo l'unico atteggiamento compatibile con una civiltà degna di questo nome. Ed è in definitiva, tra tutte le norme di comportamento, la più prudente e «conservatrice». Non è un paradosso. Il soddisfacimento dei bisogni è infatti antitetico al malcontento sociale, con tutte le sue temibili conseguenze. Se saremo in grado di applicare questo concetto, trasformandolo il più possibile in norma universale, difenderemo e rafforzeremo la pace sociale e politica. Non è questa la prima aspirazione di ogni conservatore?

NOTE


[1] Estratto da “Le monde Diplomatique” edizione italiana – ottobre 2005.

Questo testo è stato pubblicato per la prima volta da Harper's Magazine nel suo numero del novembre 1985.
(Traduzione di E. H.)

[2] Presidente del Consiglio direttivo dell'associazione Economists Allied for Arms Reduction, direttore del Progetto sulle disuguaglianze all'Università del Texas, docente alla Lyndon B. Johnson School of Public Affairs dell'Università del Texas ad Austin, responsabile della ricerca al Levy Economics Institute.

[3] L'economista Milton Friedman è, insieme a Friedrich von Hayek, uno dei pilastri della scuola di Chicago. A partire dagli anni '60, i «Chicago boys» hanno diffuso nel mondo le idee neoliberiste, dagli Stati uniti di Ronald Reagan al Regno unito di Margaret Thatcher, passando per il Cile di Augusto Pinochet. Il libro di riferimento del professor Friedman è Capitalismo e libertà, Studio Tesi, 1995.