NO/MADE: PRODUZIONE, ACCUMULAZIONE,
FLESSIBILITÀ E PRECARIZZAZIONE[1]
Andrea Fumagalli
No/Made Italy è
un libro importante. Per vari motivi.
Da un punto di vista metodologico e da un punto di vista analitico.
1. Del metodo
Partiamo dal
primo aspetto, non meno importante. Abbiamo di fronte un libro con
una messe di dati enorme. Dovrebbe essere normale in un’analisi
economica, ma non è sempre così. Nell’accademia nostrana, sempre più
servile ai dettami che vengono da oltreoceano e da oltremanica, i
dati statistici non vengono più considerati elementi su cui
imbastire uno straccio di analisi descrittiva dei fenomeni economici
per meglio comprenderne la dinamica, ma piuttosto la base per
sviluppare fantasmagoriche analisi econometriche tese a provare in
modo fittizio e spesso puramente ideologico tesi precostituite.
Basti un esempio solo: nei primi anni ‘90, nel pieno della campagna
a favore del sistema elettorale maggioritario, l’European
Economic Review
pubblicava un paper di Grilli (oggi al Fmi), Tabellini (consulente
di politica monetaria alla Bce), Masciandaro (docente all’università
L.Bocconi) in cui veniva presentato un esercizio econometrico per
mostrare l’esistenza di una correlazione positiva tra sistema
maggioritario uninominale e stabilità e crescita economica nel corso
degli ultimi 20 anni. Variabili e concetti inerente la sfera
politica come il tasso di democraticità e/o di rappresentanza
sociale, vale a dire concetti
antropomorfici,
venivano piegati a concetti
aritmomorfici,
attraverso proxies
quantitative. Il tutto era, ovviamente finalizzato, a dimostrare
l’efficienza capitalistica del sistema uninominale, senza prendere
in considerazione alcune divergenze strutturali nel campo economico
e politico tra i paesi analizzati
Stesso
procedimento viene usato per le analisi relative al mercato del
lavoro. In lavori più recenti, ricercatori affermati come Bertola
(Università di Torino) o Ichino (Istituto Europeo di Firenze)
presentano risultati econometrici in cui si afferma la
corrispondenza tra disoccupazione e rigidità del mercato del lavoro
o tra disoccupazione e esistenza di elevati sussidi al reddito che
impongono maggiori costi di licenziamento. Il tutto attraverso la
stima di una relazione funzionale, spesso senza alcuna analisi delle
caratteristiche e delle specificità dei diversi mercati dei lavoro o
dei diversi sentieri di specializzazione produttiva: analisi che
potrebbe rendere inutile qualsiasi tentativo di comparazione tra
realtà disomogenee.
Il primato
dell’analisi econometrica sull’analisi statistico-descrittiva
dipende dal fatto che la prima è normativa, la seconda puramente
analitica. Grazie a risultati costruiti ad hoc, ma presentati come
risultati oggettivi del linguaggio logico-formale, si giustificano
interventi normativi che poco o nulla hanno a che fare con la reale
situazione fenomenica che si pretende di analizzare. L’analisi
statistico-descrittiva, invece, è strumentale al linguaggio
argomentativo,
ovvero all’interpretazione storica dei fenomeni economici.
No Made in Italy
è un esempio riuscito di analisi statistico-descrittivo e
quantitativa che consente risultati interpretativi, che, seppur
soggettivi, sono di gran lunga superiori ad una semplice regressione
econometrica. La scienza economica, in quanto scienza sociale, è
arte dello studio, comprensione e interpretazione non riducibile a
puro calcolo quantitativo. A meno che non sia scienza servile.
2. Alcuni
fatti stilizzati
Veniamo ora alle
interpretazioni contenuto nel libro.
Oggetto
dell’analisi è la posizione dell’Italia all’interno dei processi di
internazionalizzazione selettiva produttiva. Per cogliere questo
aspetto è necessario una premessa sull’attuale fase del processo di
internazionalizzazione e sul ruolo dell’innovazione tecnologica e
dei saperi nel definire le gerarchie economiche.
2.1. Il
concetto di internazionalizzazione produttiva della produzione
Lo sviluppo
delle tecnologie flessibili basate sul paradigma
linguistico-telecomunicativo ha consentito il controllo della
produzione a distanza. Si è trattato non solo di una rivoluzione
tecnologica, ma anche e soprattutto organizzativa. Il venir meno del
modello disciplinare taylorista progettazione fi esecuzione fi
commercializzazione come unico paradigma di organizzazione d’impresa
e del lavoro ha liberato una poliedricità di opportunità di
produzione che ha il proprio referente nella struttura a rete e
nella definizione di diversi livelli di gerarchia. La restrizione
imposta dai modelli nazionali di produzione sulla base di differenti
modalità redistributive è stata abolita dai processi di
internazionalizzazione della produzione lungo precise coordinate
geo-economiche. Tra queste le più rilevanti sono le direttrici di
delocalizzazione ed esternalizzazione lungo gli assi:
• Nordamerica
versus Centroamerica e Sudamerica
• Nordamerica
versus Sud-Est asiatico
• Europa
Occidentale versus Europa Orientale, Medio Oriente, NordAfrica e
Sud-Est asiatico
•
Giappone versus Sud-Est asiatico.
L’incremento di
competizione nel controllo degli assi della sub fornitura e del
lavoro conto terzi, favorito anche dal minor sviluppo quantitativo
della produzione, ha portato alla ricerca spasmodica della riduzione
continua e costante dei costi di produzione (sia salariali che
ambientali) da un lato e all’accentramento del controllo tecnologico
e delle risorse strategiche dall’altro. Ciò che potrebbe apparire un
paradosso, vale a dire una produzione mercantile sempre più globale
e un processo di concentrazione del controllo produttivo sempre più
marcato tramite strategie di fusioni e acquisizioni (come mai si e
verificato in due secoli di capitalismo), in realtà non sono altro
che le due facce della stessa medaglia.
In questo
quadro, appare fuori luogo parlare di vera e propria globalizzazione
della produzione, in quanto tale processo non interessa l’intero
pianeta, bensì solo specifiche aree geografiche. Ad esempio, il
continente africano e alcune aree asiatiche, ne sono in parte del
tutto escluse. È più appropriato al riguardo parlare di
internazionalizzazione selettiva
della produzione.
2.2. La
tecnologia e i saperi
Il controllo
delle traiettorie tecnologiche rilevanti (informatica,
biotecnologie, farmaceutica, aerospaziale, robotica, logistica di
rete) è la variabile strategica per eccellenza per essere in grado
di competere su scala mondiale. Condizioni necessarie (anche se non
sufficienti) per stare sulla frontiera tecnologica sono:
• capacità
continua di generazione di nuove tecnologie (attività innovativa e
brevettibilità delle innovazioni);
• elevata
capacità di apprendimento e di controllo sul sapere tacito e sulle
competenze esclusive;
• elevata
disponibilità di risorse finanziarie e immateriali per l’attività in
ricerca e sviluppo.
Si tratta di
fattori che solo organizzazioni produttive complesse sono in grado
di garantire e sviluppare. Non è un caso, quindi, che più dell’80%
della spesa di ricerca e sviluppo per la creazione e generazione di
nuove tecnologie sia svolta da imprese di medio-grandi dimensioni.
Ciò non toglie che esistano piccole imprese schumpeteriane in grado
di “bucare” la frontiera tecnologica. Ma esse hanno di fronte due
alternative: crescere in fretta e divenire grandi oppure essere
acquisite da imprese concorrenti di grandi dimensioni. La piccola
dimensione, in seguito agli alti costi di apprendimento tecnologico
e alle nuove barriere all’entrata dettate dalle economie dinamiche
di scala, è quindi adibita alla diffusione dell’innovazione
tecnologica, all’interno di strutture produttive a rete, con diversi
livelli di gerarchia a seconda del grado di specializzazione della
subfornitura o della rete di appartenenza. Il comando sulla piccola
dimensione è essenzialmente comando tecnologico e finanziario, ai
quali la piccola impresa può ovviare con un elevato grado di
efficienza capitalistica, vale a dire costi di produzione più bassi
e maggiore produttività (alias maggior sfruttamento del lavoro). Ciò
implica una sorta di divisione internazionale della produzione che
vede il dominio tecnologico nelle grandi
corporations
del nord del mondo e l’attività produttiva materiale demandata agli
assi internazionali e/o nazionali della sub fornitura, in un
rapporto di interdipendenza comunque essenziali per gli assetti
produttivi. Non dimentichiamo che questi temi sono stati oggetto
dell’incontro internazionale dell’Ocse tenuto a Bologna il 14-15
giugno del 2000, non a caso aperto anche ai principali paesi sub
fornitori del terzo e quarto mondo
Ciò di cui
invece non si discusse in quella sede è il comando sui saperi e sui
brevetti detenuto dalle grandi imprese multinazionali.
L’internazionalizzazione della produzione ha infatti comportato il
più grande processo di concentrazione tecnologica e dei saperi che
mai si sia verificato nella storia del capitalismo.
In particolare
la questione dei “saperi” ha assunto un valore strategico. Quando si
parla di saperi è necessario distinguere tra saperi “codificati” e
saperi “taciti”.
I primi si
riferiscono a tutte quelle nozioni e competenze che sono
trasmettibili da persona a persona grazie alle tecnologie
informatiche e che sono essenziali per lo svolgimento delle mansioni
produttive sia a livello materiale che immateriale. Costituiscono il
principale strumento per la diffusione delle tecnologie e variano in
funzione della specializzazione professionale. Sono l’essenza di ciò
che comunemente viene definita “formazione professionale”. Più essi
si diffondono, più coloro che ne sono portatori possono essere
interscambiabili e ciò, all’interno di un crescente
individualizzazione della prestazione lavorativa e contrattuale,
porta all’incremento di concorrenza tra i lavoratori e di
flessibilità ad esclusivo vantaggio delle imprese con effetti
depressivi sulle remunerazioni e sull’omogeneità del mercato del
lavoro. Essi riguardano in maggior misura i settori che non si
collocano sulla frontiera tecnologica e le prestazioni che meno
richiedono esclusività di competenze, con conseguente maggior
flessibilità di adozione e di dismissione[2]
I “saperi
taciti”, invece, si riferiscono a quelle nozioni e competenze che,
in quanto non codificati, rimangono patrimonio, per un tempo più o
meno limitato, dell’individuo che li possiede. Costui rappresenta
l’”elite” del mercato del lavoro ed è essenziale soprattutto per la
generazione e la creazione di nuove tecnologie nel campo della
ricerca, dei prodotti e delle metodologie di produzione. È questo il
sapere che è normalmente protetto da brevetti e non è scambiabile
sul mercato dell’informazione. Esso costituisce il “core” della
capacità tecnologica di un impresa e richiede continui investimenti
di supporto, che solo le grandi corporations sono in grado di
effettuare. È l’essenza del comando tecnologico e pertanto non
sottoposto a processi di globalizzazione e liberalizzazione.
L’aspetto del
controllo dei saperi taciti e, pertanto, della generazione di nuove
tecnologie è quello che viene meno citato dagli apologeti della
globalizzazione. E non può essere altrimenti, visto che tale
aspetto, il sapere e il lavoro immateriale legato ai processi della
conoscenza, è la chiave interpretativa principale per comprendere le
leve di comando imperiale delle imprese multinazionali del Nord del
mondo sugli assi della produzione materiale del Sud del Mondo.
L’unico aspetto che viene enfatizzato è, invece, la formazione
professionale, cioè la conoscenza “usa e getta”, che facilita la
flessibilità della produzione e la frammentazione del mercato del
lavoro e non mette in discussione le gerarchie di comando.
2.3.
L’attività di ricerca e sviluppo in Italia
Nel periodo
1991-95 la ricerca finanziata dallo stato diminuisce in Italia con
ritmi più sostenuti (-2.5%) rispetto alla media europea (-1.7%),
statunitense (-1.2%) e giapponese (+6%). Il numero dei ricercatori
su 10 mila lavoratori è il 63% della media Ue e il 41% degli Stati
Uniti. Se poi nell’Unione la crescita del personale di ricerca è del
2.9% all’anno (e negli Usa addirittura del 6.2%), in Italia la
crescita è allo 0.3%. Nel decennio ’85-’95 in Italia la quota di
valore aggiunto prodotto dai settori high-tech sul totale del
manifatturiero passa dal 7.2% al 6.4%, mentre in Germania passa dal
10.6% all’11%, nel Regno Unito dal 13% al 13.9% e in Spagna dal 5.5%
al 7.6%. Interessante il dato sull’aumento dei dottorati di ricerca
scientifici per i giovani tra i 25 e i 34 anni: nella Ue aumentano
dello 0.6% all’anno, in Italia dello 0.2%. Gli ultimi in classifica.
Il rapporto dell’Unione Europea sottolinea con preoccupazione che il
gap fra Europa e Usa cresce: gli Stati Uniti spendono il 2.6% del
Pil, mentre l’Unione Europea l’1.9%. Meno dell’Italia spendono solo
la Spagna, il Portogallo e la Grecia, mentre la Svezia spende il
3.7%. L’aumento dei finanziamenti privati alla ricerca dal 1995 è
negli Usa dell’8.2%, nella Ue del 4.9%, in Italia del 3.8%.
L’incremento delle spese governative in ricerca e sviluppo dal 1995
sono per il Giappone del 6.3%, per gli Usa dell’1.5%, per la Ue
dello 0.6%; l’Italia, in controtendenza, le diminuisce dello 0.1%.
Nel 1999 negli Usa sono state presentate 144 domande di brevetti per
milione di abitanti, nella Ue 135, in Italia 61. C’è almeno un dato
positivo per l’Italia: i ricercatori italiani hanno 346
pubblicazioni ogni 1000 ricercatori, contro le 269 della media Ue,
le 200 Usa e le 104 giapponesi.
3.
Conclusioni ovvie ma non sempre dette
Sulla base di
quanto detto, il sentiero di specializzazione dell’industria
italiana è strutturalmente debole. È questa la tesi sostenuta dal
libro. Una tesi ovvia e scontata se il cd. “made in Italy” viene
inserito nell’analisi ben più globale delle filiere internazionali
della produzione. Due sono infatti i limiti strutturali
dell’industria italiana: l’aver perso qualsiasi competizione nei
settori che si collocano sulla frontiera tecnologica e
l’inadeguatezza della struttura formativa e di ricerca in seguito ad
una mentalità manageriale e imprenditoriale retriva. Nel primo caso,
nonostante la continua enfasi sulla supposta e tanto decantata
creatività imprenditoriale italiana, la responsabilità è tutta da
ricercare nell’insipienza e nell’incapacità storica della stessa
classe imprenditoriale italiana, più capace a creare imprese di
corto respiro e a struttura familistica che a competere sul piano
internazionale. Con poche ma lodevoli eccezioni (pensiamo ad esempio
al settore delle macchine utensili), non appena il grado di
competizione cresce, il posizionamento della grande impresa italiana
arretra. È il caso delle (dis)avventure europee post 1990 delle
grandi oligarchie capitalistiche italiane (Agnelli, Pirelli e De
Benedetti) ed è il caso emblematico della crescita e del rapido
declino del settore informatico italiano (cfr. Olivetti, dopo il
successo del M24).
Dove l’industria
italiana riesce a tenere, seppur con crescente fatica, sono i
settori a basso contenuto tecnologico, dove il costo del lavoro è
minimo e dove la competizione di prezzo, favorita dalle continue
politiche di svalutazione competitiva (o tramite la lira o tramite
l’euro), consente di mantenere quote stabili di mercato
internazionale.
Nel testo, la
strategia della delocalizzazione produttiva alla ricerca del costo
minore mette in luce tutta la sua debolezza, soprattutto oggi
all’interno della fase di internazionalizzazione selettiva della
produzione. Per un’economia fondata sul primato della piccola
dimensione e su una grande impresa incapace di reggere le sfide
tecnologiche del paradigma linguistico-comunicativo, la prospettiva
sempre più reale è quella del scivolamento progressivo verso la
fascia della sub fornitura internazionale, fuori dal
core
di nazioni che decidono le sorti dell’accumulazione capitalistica.
Tale situazione non può che essere peggiorata dalla tendenza
dell’attuale governo di destra a perseguire strategie corporative e
nazionalistiche, strategia che come risultato immediato porta a
scaricare sul peggioramento delle condizioni del lavoro le
contraddizioni del depauperamento progressivo e relativo
dell’economia italiana (rispetto all’Europa e agli Usa). L’attuale
attacco allo Statuto dei Lavoratori ne è solo l’esempio più
eclatante.
4. Postilla
La discussione
che ha caratterizzato la presentazione del libro (5 Dic. 2001 al
CNEL) ha interessato in particolare due argomenti: i cambiamenti
strutturali avvenuti nel passaggio dal paradigma fordista a quello
dell’accumulazione flessibile e il ruolo della produttività. In
estrema sintesi, mi pare che si possano cogliere i seguenti elementi
strutturali (almeno nel medio termine), che cercherò di presentare
in modo sintetico e sotto forma di nuove contraddizioni (avvalendomi
del saggio di Andrea Tiddi,
Precari. Lavoro e non lavoro nel postfordismo,
di prossima pubblicazione nella collana Map., DeriveApprodi, Roma).
Prima coppia di
tensioni
Socializzazione del processo di
produzione contro individualizzazione del rapporto di lavoro
Le relazioni tra
i soggetti reali, la costituzione spontanea di legami comuni tra
questi soggetti, sono particelle elementari della produzione
sociale. Il postfordismo apre a una configurazione largamente
socializzata dei processi produttivi, ma a fronte di questa apertura
impone rapporti individualizzati, dettata dalle esigenze d’autolegittimazione
del rapporto di capitale - di confermare una propria legittimità in
crisi -. Rapporti individualizzati che funzionano da contenimento
della tensione alla comunanza che la produzione indica e mette in
atto, per affermare, attraverso il ricatto della necessità e
l’imposizione della legge della concorrenza, un’antropologia
individualistica ostacolando il processo d’autocostituzione dei
soggetti e della società. Questo processo di repressione delle
istanze autocostituenti della società attraverso la sottomissione
biopolitica alle leggi dell’economia di mercato è un dispositivo di
soggettivazione che produce
individui,
soggetti giuridicamente isolati e separati tra loro, soggetti
"proprietari", soggetti "privati", soggetti separati,
non-divisibili, perché solo chi è giuridicamente unico e
indivisibile può presentarsi in un rapporto di scambio come
proprietario, indivisibile come la proprietà che possiede: la legge
di mercato funziona solo su "individui" e sulla loro eguaglianza
formale.
L’individualizzazione dei contratti di lavoro persegue esattamente
questa modalità di governo della società, un governo realizzato
attraverso la separazione. I dispositivi della società di controllo
agiscono proprio sull’articolazione tra socializzazione dei processi
produttivi e persistenza dell’accumulazione privata della ricchezza,
gestiscono la contraddizione della produzione di valore nel momento
irreversibile della sua crisi, gestiscono la crisi permanente tra
capitale e lavoro vivo. La deterritorializzazione della produzione,
il suo dispiegamento sul territorio, ha come contropartita la
pretesa di localizzazione della forza lavoro dentro i limiti dei
tempi e degli spazi formali del lavoro. Una collocazione formale che
l’esistenza del precariato, come soggetto del non-lavoro, sta
mettendo in crisi. Con il precariato si è aperta la contraddizione
tra il lavoro sociale realmente dispiegato e il tempo di lavoro
formale, una contraddizione solo contenuta dalla pretesa
individualità del rapporto di lavoro.
Seconda coppia
di tensioni
Relazioni spontanee dello scambio
tra soggetti sociali contro relazioni strumentali dello scambio di
mercato
Questa prima
dualità contraddittoria interna al rapporto di produzione, e
formalizzata dall’imposizione di un rapporto contrattuale
individualizzato, introduce una seconda coppia antagonistici che si
crea tra contenuti sociali della produzione e rapporti formali del
mercato, tra rapporti di scambio sociale e rapporti di scambio di
mercato, tra la spontaneità dei primi e la strumentalità dei
secondi. I contenuti sociali del lavoro immateriale, dell’attività
di relazione, che altro non sono che sintesi di una materia grezza
composta di sentimenti, pensieri, affetti, logiche, estetiche,
pratiche, cioè sintesi del lavoro sociale spontaneo, non hanno più
nemmeno l’apparenza di una proprietà privata. Possono essere parte
della nostra intimità, ma di un’intimità che è ormai assolutamente
scoperta,
esteriore, comune a una moltitudine, che si costruisce dentro la
ricchezza della moltitudine.
La produzione di
questa moltitudine crea continuamente aggregati di senso,
comunicazione, particelle di densità immateriale che sono gli
elementi di base su cui si realizza il valore nel capitalismo della
sussunzione reale, della sussunzione della vita comune. Un contenuto
proprio dell’attività di relazione la quale, in sé, non potrebbe
darsi come strumentale senza essere necessariamente scissa.
L’investimento gratuito di passioni e d’attenzioni, come per esempio
nel lavoro di “cura”, è continuamente contraddetto dalle relazioni
strumentali dell’economia di mercato. Il mercato pretende per sé il
ruolo di mediazione tra società e produzione, tra consumo e società,
tra società e società. Ma il mercato non è che il luogo di un falso
movimento, mediatore di momenti che la sua stessa istituzione
formale ha separato. Il ciclo della produzione - che possiamo
esprimere nella serie
produttività-prodotto-consumo
- non presenta se non stadi differenti della materia sociale, il
mercato assume il ruolo di mediatore dei passaggi di stadio dall’uno
all’altro. La produttività di particelle libere del lavoro sociale
si cristallizza in una forma prodotto, così torna alla fluidità del
consumo sociale che a sua volta si condensa in ulteriori particelle
di senso che rideterminano i parametri per la produttività. Sono
passaggi di stadio della materia sociale, il primo, tra produttività
e prodotto, è mediato dal mercato del lavoro, il secondo, tra
prodotto e consumo, è mediato dal mercato della merce inanimata. In
sé questi passaggi appaiono come movimenti interni alla cooperazione
sociale (nella dinamica di concrezione e dispersione del sapere
sociale, di espansione, saturazione e sintesi). Il mercato è il
rapporto formale attraverso il quale questi movimenti vengono
riconosciuti dell’economia finanziaria, come movimenti di denaro,
che sono "falsi movimenti" per l’economia reale.
Terza coppia di
tensioni
Partecipazione orizzontale alla
produzione contro verticalizzazione gerarchica dei processi
decisionali
Socializzazione
dei processi vuol significare orizzontalizzazione delle dinamiche di
decisione, vuol dire stimolazione a
partecipare.
Nel postfordismo si aprono per la forza lavoro possibilità di
autodeterminazione cooperativa delle procedure operative, nonché
possibilità di partecipazione attiva alla ricerca delle soluzioni,
in maniera più ampia di quanto fosse consentito nei processi
meccanizzati del fordismo. Produrre per progetti, per esempio, vuol
dire che alla forza lavoro precaria è consentito autodefinire le
modalità di realizzazione degli obiettivi produttivi, essa è
stimolata a collaborare e cooperare. L’operatore precarizzato dei
servizi stabilisce una relazione organizzativa permanente con i
propri colleghi, con i quali ridefinisce i processi produttivi in
ogni momento, ma anche con gli utenti, con i quali interagisce
acquisendo informazioni e possibilità di miglioramento
dell’attività, operando complessivamente per una maggiore efficienza
del servizio.
Questa
orizzontalizzazione dei processi e questo invito a partecipare sono,
in realtà, di nuovo frenati da dispositivi di contenimento e di
comando, in particolare dalla verticalizzazione dei processi
decisionali. L’orizzontalità, quando si tratta di decidere, non più
dei processi immediati del lavoro, ma di quelli finanziari, delle
commissioni e della direzione d’impresa, finisce. L’impresa qui non
è più democratica, ma scopre il suo volto autocratico e dispotico.
La verifica del progetto sugli standard di produzione non è cosa da
lasciare ai "collaboratori", bisogna imporre una
gerarchia
nelle decisioni, una verticalità dei processi di governo.
La forza lavoro
è dislocata su queste traiettorie quantomeno ambigue, soggetta a una
doppia referenza operativa che da un lato le chiede di partecipare
alla produzione "perché siamo parte di una stessa famiglia e si
lavora tutti per il bene comune dell’impresa", dall’altra la spinge
fuori dai consigli d’amministrazione perché lì solo pochi hanno il
diritto di partecipazione. All’astrazione reale del lavoro che si dà
nel divenire generale della cooperazione si contrappone
un’astrazione trascendente del comando, a misura di tutto il potere
di decisione e autogoverno sottratto al lavoro vivo. Un comando
dietro il quale si cela la volontà di dominio dell’impresa, il
dispotismo delle dinamiche di mercato, del capitale circolante sulla
produzione reale e sul lavoro vivo. Ma a questo punto si dimostra
anche il carattere solamente parassitario di queste gerarchie, che
vincolano una cooperazione che viaggerebbe anche senza di esse, a
dimostrare dell’inutilità del rapporto di capitale per la
produzione, del suo carattere parassitario e depotenziante.
Quarta coppia di
tensioni
Flessibilità del lavoro rispetto
alle esigenze della vita contro flessibilità della vita rispetto
alle esigenze del lavoro
Abbiamo visto
gli antagonismi del lavoro precario prodursi su tutti momenti
d’attività della forza lavoro. Abbiamo anche visto che questi
antagonismi si danno sempre dentro la crisi tra lavoro e non lavoro,
tra prestazione formale e contenuti sociali della produzione.
Abbiamo visto la crisi trapassare oltre il lavoro e invadere lo
spazio di vita nel punto stesso in cui il lavoro coinvolge i
processi della vita associata dentro le dinamiche della produzione.
Abbiamo visto la flessibilità. Una flessibilità che è intesa, nel
rapporto di capitale, come flessibilità della vita rispetto alle
esigenze del lavoro e del profitto, come dispositivo di sussunzione
della produzione sociale.
Eppure è su
questo punto, sulla flessibilità, che il precariato mostra avere una
tensione concreta al ribaltamento del rapporto con il lavoro, perché
se ora flessibilità vuol dire sottomissione alle discontinuità, essa
potrebbe voler anche indicare un’apertura oltre il lavoro. Una
flessibilità del lavoro rispetto alle esigenze della vita è un
possibile ribaltamento del rapporto di sottomissione e di
sfruttamento. La flessibilità può essere ribaltata e pensata a
partire dalle esigenze della vita, questo i precari lo percepiscono.
Difficilmente, soprattutto i giovani, sentono di poter realizzare la
loro vita dentro le dinamiche lavorative, anzi ritengono il lavoro
continuato una specie di oppressione e una violenza in qualche modo
maggiore di quanto lo sia un lavoro discontinuo. La discontinuità
che essi temono non è quella del rapporto di lavoro, ma quella del
rapporto con il reddito, cioè con la fonte del loro sostentamento
materiale. Difficilmente pensano di voler tornare al posto fisso, di
tornare a quanto la forza lavoro aveva già rifiutato nel fordismo.
Il problema è che, nei periodi d’inattività, non esiste per loro una
copertura, in questi periodi viene negato loro il diritto
d’esistenza, perché senza lavoro non solo non si percepisce reddito,
ma si è anche esclusi dai diritti civili, per esempio senza un
contratto di lavoro solido (cioè continuato) non si può prendere un
prestito in banca, come è altrettanto difficile affittare un
appartamento. Il contratto di lavoro è un lasciapassare per la vita,
uno strumento di discriminazione sociale, un
apartheid
su base sociale. Non è vero che i giovani non vogliono il posto
fisso perché, come si dice, "non hanno ancora fatto i conti con la
vita" o perché "hanno ancora la famiglia alle spalle". È proprio
perché vogliono vivere che non vogliono più essere soggiogati dal
lavoro, ma vogliono che siano loro riconosciuti tutti i diritti di
piena cittadinanza che sono riconosciuti a coloro che hanno un posto
fisso (che per altro sono sempre meno). La variabilità delle
esperienze di lavoro è ormai un fattore da loro accettato di
crescita della propria soggettività, una possibilità di
sperimentarsi, di arricchirsi, senza dover annoiare la propria unica
vita nella routine delle mansioni e nella ripetizione degli orari. E
sanno che il lavoro priva di occasioni la propria socialità, quindi
indebolisce più che rafforzare. In questo i giovani precari del XXI
secolo sono davvero i figli del rifiuto del lavoro degli anni
Settanta.
Queste quattro
tensioni contraddittorie non riguardano tutta la forza-lavoro oggi
presente nell’economia sviluppata. Riguardano soprattutto le fasce
dei nuovi soggetti che entrano nel mercato del lavoro. È il secondo
lato della medaglia della delocalizzazione produttiva lungo filiere
internazionali selezionate. Se nei paesi in via di
industrializzazione, il lavoro è dipendente, taylorista, senza
diritti, da noi è lavoro precario, senza diritti, a fronte di un
nucleo di lavoratori dipendenti che sempre più vengono precarizzati,
perdendo man mano le loro garanzie sindacali conquistate in anni di
lotta. La precarizzazione diventa fattore di omogeneità tra i
lavoratori, seppur non immediatamente percepita, perché assume
connotazioni contrattuali contrastanti fra loro, spesso vissute come
situazioni lavorativi concorrenti.
In questo
contesto, anche se le statistiche non la misurano, si assiste ad un
incremento di produttività reale del lavoro. Nel Sud del mondo, dove
la produzione materiale fordista è dominante, l’analisi quantitativa
della produttività vede un forte incremento, in quanto legata
all’aumento della produzione industriale. Nel Nord del mondo, dove
il contributo (o forse sarebbe meglio dire lo sfruttamento) del
lavoro assume aspetti di tipo qualitativo-cognitivo-immateriale,
l’incremento di produttività non viene percepito da indici meramente
quantitativi. Mancano in proposito indici qualitativi che misurino
il crescente coinvolgimento cerebrale e quindi la crescente
produttività immateriale che ne consegue. Forse, un indicatore più
appropriato potrebbe essere l’allungamento dell’orario di lavoro,
orario di lavoro che, dopo una secolare riduzione, ha cominciato ad
aumentare in coincidenza con il dispiegarsi del paradigma
dell’accumulazione flessibile.
NOTE
[1]
Estratto dalla rivista PROTEO n 3 anno 2001 versione on line.
Rivista
quadrimestrale a carattere scientifico di analisi delle
dinamiche economico-produttive e di politiche del lavoro, curata
dal Centro Studi
Trasformazioni Economico Sociali (CESTES-PROTEO)
e dalla Federazione
Nazionale delle Rappresentanze Sindacali di Base (RdB).
Il Direttore
Scientifico della rivista è il prof.
L. Vasapollo; il Comitato Editoriale e di
Programmazione Scientifica di
PROTEO è
composto da molti professori universitari di rilevanza
internazionale (italiani, spagnoli, messicani, brasiliani,
statunitensi, ecc.) tra i quali
A. Mazzone,
R. Antunes,
J. Arriola,
A. Bianchi,
R. Braga,
G. Carchedi,
M. Costa Lima,
V. Giacchè,
D. Guerrero,
J. Halevi,
H. Jaffe,
R. Marquez,
R. Martufi,
J. Milios,
J.Petras,
A. Valle.
PROTEO è distribuito da Jaca Book nelle migliori librerie
italiane
[2]
Il sapere codificato riguarda anche i settori ad alta tecnologia
ed è estremamente flessibile. Al riguardo, risulta emblematica
la vicenda dei numerosi tecnici richiesti dalle grandi imprese
multinazionali dell’informatica e della logistica della
comunicazione via rete (Intel, Cisco, Microsoft, ecc.) e poi
facilmente rispediti a casa. Sul tema del lavoro cognitivo, cfr.
F.Berardi (Bifo), La fabbrica dell’infelicità. New Economy e
movimento del cognitariato, DeriveApprodi, Rapprodi, Collana Map,
Roma, 2001
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