LO STATO SOCIALE: UNO STRUMENTO DEI PADRONI
CHE AI PADRONI NON SERVE PIÙ

Lorenzo Esposito[1]

I vari esperti che si guadagnano il pane e molto altro difendendo ogni misura antioperaia e ogni manovra che possa favorire in qualche modo il padronato ci presentano lo stato sociale come la fonte di ogni male. Da ogni trasmissione televisiva, da ogni articolo di giornale, da ogni libro, saggio o intervista vengono riversate su di noi tonnellate di attacchi forsennati a pensioni, sanità ecc. Ogni tanto, qualcuno di questi presunti esperti si degna di citare qualche cifra a sostegno della sua missione distruttiva, evitando però di fornire un quadro complessivo del funzionamento dello stato sociale. I dirigenti del Pds e del sindacato accettano questa campagna, accettano che lo stato sociale sia la causa di tutti i mali, soltanto che a una terapia shock preferiscono una morte dolce, per consunzione. Anche in questo dimostrano la loro natura di ceto parassitario a cavallo delle classi fondamentali di questa società. Più precisamente, come i parassiti, veicolano nel corpo che li ospita, in questo caso il movimento operaio, quanto si trova nell’ambiente circostante: la propaganda e l’ideologia borghesi. Agli attacchi a tutto campo di Fossa o altro dirigente padronale segue sempre una replica seccata di un dirigente sindacale che minaccia che questa o quella cosa non si tocca. Il giorno dopo la minaccia diviene un invito alla prudenza. Il terzo giorno si sta già trattando sull’eliminazione della cosa in oggetto. La settimana dopo si passa all’attacco successivo. Questo, beninteso, per dimostrare la modernità e la ragionevolezza del sindacato. In questo periodo svendere i diritti dei lavoratori appare moderno e ragionevole. Difenderli appare un’intollerabile residuo di mentalità preistoriche, oltre che uno sgarbo ai “mercati”, che potrebbero reagire, come fossero divinità del passato, punendo l’umanità per la sua impudenza.

Eppure, come cercheremo di spiegare, anche difendere non basta più. Certamente, se non si è in grado di difendere nemmeno i diritti che si hanno, mai si potranno fare nuove conquiste. Ma in questa epoca di crisi strutturale del capitalismo limitarsi a difendere le condizioni di vita della classe operaia significa al più rimandare il massacro per un certo periodo. Occorre invece invertire il processo. Non si tratta più di discutere su come dividersi quello che viene prodotto. Si tratta di porre la questione della proprietà e della gestione dei mezzi con cui si produce. Si tratta di analizzare se questa forma di produzione, in cui la gestione di colossali forze produttive è demandata a un pugno di ricconi cinici e senza scrupoli, sia arrivata al capolinea e debba essere sostituita da una nuova e superiore forma di produzione in cui i bisogni della classe operaia sostituiscano i profitti come motore dell’economia, in cui i lavoratori prendano in mano le immense risorse create dal capitalismo e le indirizzino al benessere della popolazione mondiale e non ad arricchire le tasche già traboccanti dei loro padroni.

Giustificazioni agli attacchi allo stato sociale

Lo stato sociale viene attaccato per svariate ragioni. Si dice che sia a causa dello stato sociale che il debito pubblico è senza controllo, la disoccupazione elevata. Si fa presente l’invecchiamento della popolazione, facendo presagire foschi scenari di masse di anziani che si contendono i contributi dei due o tre giovani rimasti. Si rimarca la scarsa crescita economica, l’internazionalizzazione dei mercati. Si fanno notare gli sprechi del settore pubblico. Infine, il che non guasta mai, si dichiara in tutta serietà che dopo il crollo del muro di Berlino tutto questo ciarpame socialista non trova più posto in un’economia moderna. Chi potrebbe obiettare a questi argomenti così forti? Cercheremo di mostrare quali siano i veri nessi causali tra stato sociale e tali fenomeni, rispondendo, per quanto è possibile, alla propaganda martellante della borghesia.

Risposte agli attacchi

1) “Lo stato sociale crea il debito pubblico”.

Questo è vero e non è vero. È vero che negli anni ‘80, per evitare un ulteriore recessione, molti paesi hanno speso soldi che non c’erano, gonfiando i debiti pubblici. Ma il punto è proprio che i soldi non c’erano perché l’economia andava male. Poi gli effetti sono diventati anche cause e le politiche “keynesiane” del disavanzo pubblico hanno accelerato il declino economico. Il punto è dunque che il capitalismo non sta crescendo a livello mondiale. Nessuna politica lo può salvare. Messa nel ripostiglio la politica “attiva” keynesiana, i governi sono tornati al classico monetarismo, al bilancio in pareggio tipico del secolo scorso. Si sono dimenticati che quelle politiche furono abbandonate per ben fondate ragioni! In ogni caso in Italia il debito pubblico è formato da titoli di stato e non da pensioni e servizi sociali. L’Italia ha accumulato circa due milioni di miliardi di debito pubblico a fronte del quale vi sono bot, cct, btp ecc. Come vedremo, la spesa per pagare i servizi sociali è ben poca cosa di fronte a questo debito. Il punto è che, come dimostra tutto il problema dei parametri di Maastricht, per quanto vogliano massacrare la spesa pubblica, poiché non c’è crescita economica, non si arriverà mai a un rapporto debito/Pil o deficit/Pil soddisfacente. L’Italia attraversa una sostanziale stagnazione economica dall’inizio del decennio. L’Europa complessivamente non se la passa molto meglio. Gli esperti fanno passare per “miracolo economico” la crescita statunitense che raggiunge a stento il 2,5-3%, un livello che vent’anni fa sarebbe stato considerato disastroso. La crescita impetuosa delle “tigri asiatiche” aumenta la competizione e le difficoltà delle economie Ocse. Questo declino epocale è la causa dell’insostenibilità di ogni concessione, anche minima, alla classe operaia. Che responsabilità hanno i lavoratori se il capitalismo è in declino? L’unica cosa da fare è prenderne atto e affrettarne la sepoltura, piuttosto che cercare di tenerlo in vita eliminando gli ultimi elementi di civiltà.

2) “Ci sono sempre più pensionati”.

Per quanto riguarda l’invecchiamento della popolazione si nascondono due “piccoli” problemi. Il primo è che su basi capitaliste l’eplosione demografica distruggerà la vita sul pianeta. In ogni caso nel 2000, oltre metà della popolazione mondiale avrà meno di 20 anni. Molto vecchia davvero! Quando il sottosviluppo avrà creato venti o trenta miliardi di uomini, stare a discutere sull’aumento dell’età media di dieci o venti milioni di persone apparirà quantomeno ridicolo. In secondo luogo vi è la questione della produttività. Se anche la popolazione in pensione raddoppiasse in vent’anni, basterebbe un aumento della produttività media del 5% annuo e non vi sarebbe alcun aggravio di costi. Tale aumento non è affatto difficile. Per esempio la stessa Italia ha avuto aumenti di produttività annui anche maggiori per vent’anni, dal 1950 al 1970. Con il livello di sviluppo dell’economia attuale, se le risorse venissero pianificate coscientemente anziché sperperate dall’anarchia del mercato, aumenti del 15 o del 20% annui sarebbero facilmente ottenibili. Ancora una volta si imputa allo stato sociale un limite che è del capitalismo: l’incapacità di aumentare le forze produttive, la produttività. Se l’agricoltura africana avesse la produttività di quella europea, si potrebbero mandare in pensione i contadini di tutto l’occidente senza che la produzione agricola ne risentisse. Se poi si tiene conto delle decine di milioni di disoccupati che non hanno la possibilità di contribuire alla crescita economica per colpa del capitalismo, si vede che i pensionati non sono proprio la catastrofe del futuro che ci obbliga a distruggere gli avanzi di stato sociale in occidente. Nel medio periodo, la popolazione occidentale, che attualmente è “sbilanciata” dai pochi bambini, verrà bilanciata quando i pochi bambini diventeranno pochi anziani. O forse gli esperti pensano che vi sia una spirale per cui gli anziani saranno sempre di più? Delle due l’una: o i pensionati vengono da un altro pianeta, o, se l’umanità facesse sempre meno figli si estinguerebbe e dunque non si dovrebbe più porre il problema dello stato sociale.

3) “I pensionati vivono di più”.

Che l’aumento della vita delle persone sia una catastrofe per il sistema, dimostra già di per sé quanto irrazionale e insensata sia questa società. Ma il punto è chiaramente anche qui la produttività. Facciamo conto che nel 2020 l’età media arrivi a 90 anni (molto ottimistico!). Facciamo conto che nel 1970 fosse di 60 anni. Un aumento di un terzo in cinquant’anni. Basterebbe dunque un aumento del 3,5% annuo della produttività per annullare l’effetto “negativo” di questo aumento. Ma già sentiamo il gracchiare di qualche esperto che fa notare come una massa di ottantenni peserebbe enormemente sul sistema sanitario ecc. Il punto dunque non è l’invecchiamento, ma solo il fatto che i capitalisti non riescono a fare soldi con questo invecchiamento. E tutto ciò che non produce profitti nel capitalismo è inutile, dannoso. L’ideale sarebbe che i lavoratori, il primo giorno da pensionati, si buttassero giù da un palazzo, in modo da eliminare il proprio peso sulla collettività. Oppure, si potrebbe privatizzare la sanità in modo che per essere accuditi gli anziani dovrebbero sborsare fior di soldi. In questo caso l’invecchiamento sarebbe profittevole e dunque positivo per la borghesia. Poiché questa non è ancora riuscita a convincere i neopensionati a suicidarsi in massa, sta pensando bene di privatizzare la sanità per lucrarci qualcosa. Questo avrà lo stesso effetto della prima ipotesi su buona parte degli anziani, ma ovviamente non è affare dei padroni. In sintesi, è normale che i padroni protestino per le spese “improduttive” come curare gli anziani, ma questo non ha nessuna base economica, se si rifiuta il profitto come scopo della vita sulla terra. Per esempio tra la seconda metà del 1991 e l’inizio del 1995 le persone occupate in Italia sono diminuite di quasi 1.300.000 unità. Un esercito. Eppure, nello stesso periodo la produzione industriale italiana è cresciuta del 30%, più di ogni altro paese sviluppato. Con molti meno lavoratori si è prodotto quasi un terzo in più.

4) “Il settore pubblico spreca un sacco di soldi”.

È verissimo, e a chi vanno questi soldi buttati? Quando il costo di un foglio di carta o di un ponte raddoppia, i soldi delle tasse a chi vanno? Evidentemente alle aziende fornitrici dello stato. Dunque ai padroni di queste aziende che pagano belle tangenti per poter aumentare fittiziamente i propri costi. Che poi questa stessa gente venga a fare la morale sugli sprechi dello stato è veramente ridicolo.

5) “Lo stato sociale è indifendibile dopo il crollo del comunismo”.

Per quanto ci riguarda in Russia non c’era nessuna forma di comunismo o di socialismo. In ogni modo, se si dovesse accettare che quanto accade nell’ex Urss decide di quello che si deve fare qui, occorrerebbe riflettere sul fatto che il nascente capitalismo ha completamente annientato la vita della stragrande maggioranza del popolo russo. Non conviene proprio usare la Russia come “modello” da importare qui. Non conveniva quando era un regime stalinista e non conviene ora che è un regime monetarista.

Queste obiezioni rispondono agli attacchi propagandistici della borghesia. Ci sembra altrettanto utile, però, analizzare come funziona in concreto e nel suo complesso lo stato sociale italiano, in modo da chiarire alcuni punti che nei discorsi degli esperti rimangono sempre misteriosamente ai margini.

Le entrate

Innanzitutto partiremo da un’analisi delle entrate su cui si basa lo stato sociale. A questo proposito sembra che valga una curiosa legge: tanto meno una classe sociale contribuisce al welfare state, tanto più i suoi rappresentanti sbraitano contro di esso. Così si assiste al ridicolo spettacolo di padroni, che nulla danno al fisco, urlare dell’esosità dello stesso, mentre i loro dipendenti, che non possono nascondere nemmeno una lira, fanno la parte di chi guadagna da questo sistema. Ma vediamo un po’ di cifre. Le entrate dello stato si dividono sostanzialmente in tre (trascurando gli introiti marginali). Ci sono le imposte dirette, le imposte indirette e i contributi sociali. Le imposte dirette, in teoria, sono commisurate al reddito e dunque molto più eque di quelle indirette, uguali per tutti. Per fare un esempio: chi guadagna 100 milioni paga molta più Irpef di chi guadagna 30 milioni, mentre la benzina, il biglietto del treno, la carne e l’elettricità (su cui gravano varie imposte) li pagheranno allo stesso modo. Tanto più è alta la proporzione di tasse indirette rispetto a quelle dirette, tanto più il sistema fiscale favorisce i ricchi. Ebbene in Italia la proporzione è scandalosamente alta. Le imposte indirette (220mila miliardi) sono quasi uguali a quelle dirette (287mila miliardi). A ciò aggiungiamo che le imposte dirette sono a carico dei lavoratori in misura ben superiore al reddto da essi percepito. Al lavoro dipendente va circa il 37% del reddito totale, ma esso paga almeno il 60% delle imposte dirette. Se lo Stato dovesse finanziare lo stato sociale contando su quanto dovrebbero pagare i padroni, avrebbe già fatto bancarotta da anni. L’Irpeg, l’imposta che grava sui profitti, rappresenta un magro 11% del totale delle imposte dirette, ma a chi vive di redditi da capitale compete almeno il 25% del reddito totale. Se poi pensiamo ai crediti di decine di migliaia di miliardi che lo Stato e l’Inps hanno con le imprese, e che sono soldi che non recupereranno mai, iniziamo a vedere quanto falsi siano i lamenti della borghesia. In secondo luogo, come è ovvio a chiunque conosca l’Italia, l’evasione fiscale raggiunge livelli inauditi. Secondo stime prudenti, l’evasione fiscale degli ultimi dieci anni ha superato il debito pubblico accumulato nello stesso periodo. Ma le cose non sono comunque così semplici. Per i dirigenti sindacali e i riformisti in genere l’evasione fiscale è la perfetta scusa per calarsi le braghe di fronte ai padroni. Di fronte a ogni nuovo cedimento basta inveire contro i “furbi” che evadono e tutto torna a posto. Ma l’evasione fiscale non è un caso. È una caratteristica necessaria del capitalismo italiano. La borghesia italiana, giunta in ritardo sulla scena storica, non è mai arrivata al grado di concentrazione di altri Paesi. La struttura produttiva italiana è molto frammentata e arretrata. L’industria italiana non può competere tecnologicamente con quella tedesca o giapponese. Così punta sulle armi classiche delle borghesie sottosviluppate: basso costo del lavoro, svalutazioni della propria valuta, aiuti dallo Stato. Questo si traduce in un enorme massa di lavoro nero (ormai almeno quattro milioni di lavoratori) e di lavoro autonomo anche se spesso fittizio, in una pressione per tenere la lira sottovalutata rispetto alle altre monete, soprattutto il marco, e infine in una necessaria evasione fiscale che ricostituisce i margini del profitto che la bassa innovazione tecnologica non permetterebbe altrimenti. Agli investimenti in tecnologia la borghesia italiana sostituisce il lavoro nero e l’evasione fiscale. Questo è un circolo vizioso in cui l’arretratezza dell’industria italiana viene aiutata dallo stato e finanziata lautamente. Al contempo, lo stato regala alle grandi imprese in ogni modo. Direttamente, con circa 50-60.000 miliardi di “contributi alla produzione” annui. Indirettamente con gli appalti e in tutti gli altri modi resi famosi dai vari scandali (vedi Tangentopoli, vedi affare Enimont e vedi, ultimamente, scandalo della sanità lombarda, in cui alcune imprese private frodavano al sistema sanitario pubblico centinaia e centinaia di miliardi). Ovviamente questi sono strumenti che usano anche le imprese di altri paesi, ma, come detto, in Italia sono particolarmente necessari, dato il ritardo dell’industria, soprattutto quella tecnologicamente avanzata.

Tutto ciò significa che in questo sistema non c’è nessuna possibilità di eliminare l’evasione fiscale senza eliminare la proprietà borghese delle fabbriche, delle banche e degli altri mezzi di produzione. Per quanti sforzi possa fare la guardia di finanza, in quei rari casi in cui non è d’accordo con i padroni, è come svuotare il mare con un cucchiaio. Invece, i riformisti spargono illusioni a piene mani che se solo veramente si facesse lotta all’evasione allora non sarebbe necessario attaccare la condizione di vita dei lavoratori. Alla fine, dato che non si ottiene nulla di sostanziale con quella lotta, si tratta sempre di attaccare le nostre condizioni di vita, di peggiorare in ogni modo le nostre esistenze.

L’evasione è scandalosamente alta anche per quanto riguarda i cosiddetti contributi sociali. Essi sono “i versamenti che le persone assicurate e i loro datori di lavoro effettuano agli organismi che erogano prestazioni sociali”. Anche in tal caso l’evasione è elemento necessario del sistema produttivo italiano. Ma giova ricordare che il salario di un lavoratore è costituito tanto dalla paga diretta, quanto da quella differita. Il TFR, le pensioni, i contributi sociali ecc., sono tutte componenti del salario che vengono fornite al lavoratore dopo anni (per esempio al momento del suo pensionamento ecc.). Invece per i padroni, naturalmente, tutto ciò che è di più rispetto al livello di sussistenza del proprio dipendente, è una uscita inutile. Chi metterebbe più olio negli ingranaggi di una macchina, oltre quello che serve per la sua lubrificazione? Sarebbe uno spreco inutile. Per i padroni il salario è come l’olio degli ingranaggi, è qualcosa di spiacevole che occorre per mantenere in efficienza un fattore produttivo, noi. Accettare questa logica significa imputare agli “alti” salari i problemi della propria borghesia. Significa, dunque, accettare di risolvere la crisi mortale di questo sistema rinunciando a ogni conquista seppur minima, per ripiombare al salario di mera sussistenza che prevaleva nel secolo scorso.

Per chiudere su questo punto, occorre ribadire che l’intero sistema fiscale è fortemente iniquo ed è uno strumento di redistribuzione di denaro dai lavoratori alla borghesia. Tutta la tariffazione è concepita per favorire le imprese sin nel minimo dettaglio (si pensi agli sconti sulle tariffe energetiche). A ciò, lo Stato italiano aggiunge una frammentazione di imposte che aumenta la difficoltà di accertamento fiscale e dunque facilita l’evasione. È facile sentire i padroni che si lamentano per la difficoltà di tener dietro a tutte le leggi sul fisco. Ma questo sembra proprio fatto apposta per giustificare le irregolarità, e così è. Infine, sempre in tema di sistema fiscale, occorre analizzare una tendenza che opera in tutti i paesi avanzati. Dall’inizio degli anni ‘90 si è giunti alla piena libertà di movimento dei capitali. Ciò significa che un investitore può trasferire qualsiasi somma in qualsiasi parte del mondo semplicemente spingendo un tasto di un computer. La concorrenza che gli stati si fanno per attirare capitali porta a una progressiva eliminazione delle tasse sui capitali. Poiché possiamo tranquillamente escludere che un operaio francese o giapponese o cileno possa spostarsi dove vuole per cercare un paese dove pagare meno tasse, questo significa che in ogni paese si eliminano le tasse che colpiscono i redditi dei borghesi e nel contempo si scaricano sui lavoratori. Negli anni ‘60 si trovavano aliquote di tassazione sul reddito perfino del 70 e 80%, in alcuni paesi europei. Questo significava che i contribuenti molto ricchi dovevano pagare una quota relativamente alta del proprio reddito. Ma con la crisi degli anni ‘70 la borghesia non si è potuta più permettere tutta questa giustizia sociale. Oggi in Italia l’aliquota massima è del 46%. Mentre le tasse sulla ricchezza finanziaria sono mediamente del 12-15%. Sembra ridicolo, ma un impiegato o un operaio hanno un’aliquota doppia, e dunque pagano relativamente il doppio di tasse, di un rentier che passa la sua vita a grattarsi la pancia ma possiede una fortuna in titoli ed azioni. E questo sarebbe lo Stato che “punisce” le imprese! Tra l’altro il sistema fiscale è concepito in modo da favorire sistematicamente la rendita rispetto al capitale di rischio. Non a caso, l’imperialismo, ovvero la fase monopolistica del capitalismo in cui viviamo, rappresenta il dominio del capitale finanziario su tutta l’economia. Questo significa che i padroncini italiani, che fino a pochi decenni fa prosperavano in santa pace, ora sono completamente soggiogati dal dominio delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie. Questo si riflette in un trattamento di favore che esenta sempre più il settore finanziario dal contribuire in alcun modo alle entrate dello stato e scarica tutto il peso sui lavoratori e, dove vi riesce, della piccola borghesia.

Le uscite

Dopo aver visto da chi vengono i fondi che alimentano lo stato sociale, andiamo a vedere dove e a chi vanno tali fondi. Si vedrà che le uscite configurano un sistema non meno iniquo e antioperaio delle entrate.

Nel ‘95 le uscite ammontavano a 954.000 miliardi. Di queste circa 200.000 pagavano gli stipendi, circa 300.000 erano prestazioni sociali, circa 200.000 erano interessi sul debito e circa 40.000 erano contributi alla produzione. Rispetto agli altri paesi europei principali, le cifre, in percentuale, sono del tutto analoghe, tranne per una voce: gli interessi sul debito pubblico, che sono circa tre volte quelle di Germania, Francia e Inghilterra. Quando la Confindustria si lamenta delle spese, non sta certo parlando delle decine di miliardi che lo Stato gli regala a fondo perduto, né della enorme mole degli interessi sul debito. Parla soprattutto dei 300.000 miliardi di “contributi sociali”, ovvero delle prestazioni varie che lo Stato da ai cittadini. Si da il caso che i lavoratori si paghino ampiamente questi contributi che invece favoriscono tutti. Come visto, infatti, le entrate da imposte dirette corrispondono circa a questa voce. Lo stato sociale italiano costa dunque 300.000 miliardi l’anno. È tanto, è poco? È tanto se si considera che l’economia italiana non ha vera crescita economica da anni. È tanto se si considera che buona parte di questi soldi sono sprecati per servizi inutili che arricchiscono i fornitori e gli appaltatori dello Stato. Ma è poco, se si considerano le potenzialità del sistema economico italiano liberato dell’inutile peso della gestione borghese della produzione. È una cifra che potrebbe essere raddoppiata, e se consideriamo l’eliminazione degli sprechi, quadruplicata in pochi anni se solo il Pil crescesse di un 5-7% annuo.

Il meccanismo del debito pubblico

Il meccanismo del debito pubblico è centrale nella spiegazione dei flussi di reddito in questa società. Da un punto di vista della “sana finanza” il livello di indebitamento tanto degli stati, ma anche delle famiglie, delle imprese, delle banche raggiunto negli ultimi decenni è una follia. È un tentativo di uscire con un salto mortale dall’impasse del sistema. Finirà, come già si è visto nell’87, in un crollo dei mercati finanziari di proporzioni titaniche. L’Italia ha un debito pubblico che supera il livello che si aveva dopo la seconda guerra mondiale! Da dove viene questa enorme massa di capitale fittizio? A cosa serve? Quando  la banca concede un prestito a qualcuno, in un certo senso crea denaro dal nulla confidando nelle capacità del cliente di ripagare, con il suo reddito futuro, che ancora non esiste, debito e interessi. Ma alla fine, se questo reddito non viene creato, il denaro prestato si rivela per quello che è: una scommessa andata male. Quando il quadro economico complessivo peggiora, sempre più clienti trovano problemi a ripagare i prestiti e il livello delle “sofferenze”, ovvero i crediti impossibili da recuperare, sale. Ora, il livello delle sofferenze è estremamente alto (erano circa 55.000 miliardi nel ‘92, sono oltre 123.000 miliardi nel ‘96). Ciò si aggiunge all’indebitamento statale, creando condizioni di estrema instabilità del sistema creditizio. Al fondo di questa colossale mole di debiti sta l’incapacità del capitalismo di sviluppare l’economia in modo “normale”, sano. Così negli anni ‘80, gli stati occidentali hanno comprato tempo e pace sociale permettendo al debito pubblico di schizzare verso l’alto. Hanno in questo modo bruciato l’arma fondamentale con cui, un tempo, si attenuava il peso delle recessioni. Infatti l’uso della spesa pubblica per rilanciare un’economia stagnante non è più possibile, dati i livelli del debito pubblico dei paesi Ocse. Sintetizzando, possiamo dunque dire che tali livelli riflettono un sostanziale declino del capitalismo. Ma ciò non basta. Non basta constatare a che folle livello è giunto il debito pubblico. Occorre anche analizzare il meccanismo con cui, tramite il debito pubblico, lo stato trasferisce una quantità spaventosa di denaro dai lavoratori alla borghesia. Lo stato italiano, primo tra i paesi occidentali, ha raggiunto una situazione di avanzo primario nel ‘91. Negli ultimi tre anni lo stato ha avuto un avanzo rispettivamente di 24.000, 74.000 e 68.000 miliardi. Questo significa che le entrate e le uscite sono equilibrate. Addirittura lo stato risparmia una certa quota. Sembrerebbe dunque che gli strepiti sull’insostenibilità della spesa pubblica siano pura propaganda. Eppure l’indebitamento finale, sempre in quei tre anni, è stato rispettivamente di 152.000, 123.000 e 127.500 miliardi. Dunque lo stato ha aumentato enormemente i suoi debiti pur risparmiando. Come è possibile? Semplice, lo stato deve pagare un interesse che approssimativamente possiamo valutare attorno al 10% su due milioni di miliardi di titoli del debito pubblico. Questo fa circa 200.000 miliardi. Così ogni anno lo stato prende la spaventosa somma di 200.000 miliardi e la regala ai possessori di titoli pubblici. Si può non vedere quale meccanismo di trasferimento sta dietro a questo sistema? Si è calcolato che il famoso Piano Marshall costasse agli Usa circa 100.000 miliardi l’anno. Questo significa che la amministrazione pubblica italiana potrebbe finanziare due piani Marshall l’anno!

“Già”, obietterebbero gli “esperti” della classe dominante, “ma i bot li hanno anche i vecchi e gli operai”. E con questa rassicurante verità viene zittito chiunque osa parlare di questo problema. Quando Bertinotti propose di tassare i bot sopra i 200 milioni, venne sepolto sotto una valanga di critiche. Eppure stava proponendo di colpire un 5-10% scarso della popolazione. Ma per l’appunto quel 5-10% che possiede le tv e i giornali, da cui ci vengono propagandate le lezioni di economia da manicomio. Il punto da valutare è chi ha i titoli pubblici? A chi vanno quei 200.000 miliardi annui, una massa di denaro in grado, ogni 7-8 anni di raddoppiare il Pil italiano? Nessuno lo sa! È un segreto da custodire ben stretto! Essendo i titoli pubblici al portatore, ovvero non soggetti a una registrazione personale, essi circolano come denaro contante. L’idea che si possa rendere nominativo il debito pubblico è uno dei classici sogni dei dirigenti riformisti. Ma lasciamoli a questi sogni e occupiamoci, per quanto possibile, di stabilire dove vanno questi soldi.

Con qualche calcolo un po’ approssimato si può concludere che almeno quattro quinti del debito pubblico sia in mano al capitale (vedi tabella per la scomposizione). Ciò significa che il meccanismo della redistribuzione opera a vantaggio della borghesia. Non meno di 150-170.000 miliardi l’anno vengono drenati dalla fiscalità generale, ovvero dai salari, alla rendita.

Il mercato del lavoro

“Flessibilità, ci vuole più flessibilità”. Il nuovo comandamento unico degli apostoli del capitalismo risuona in ogni angolo del pianeta. La disoccupazione, secondo gli economisti borghesi, sarebbe causata dalla scarsa flessibilità del mercato del lavoro. Per dimostrare questo nuovo credo utilizzano qualche dato sulla disoccupazione americana e si sentono in pace con la coscienza. Cerchiamo anche qui di vedere come stanno realmente le cose. Innanzitutto, per tutto il dopoguerra, fino all’inizio degli anni ‘80, la disoccupazione in Europa era estremamente più bassa che negli Usa. Nel 1972 la disoccupazione era al 2,8% in Francia, al 6,3% in Italia, allo 0,9% in Germania, al 3,1% in Gran Bretagna e al 5,5% negli Usa. Ora, negli anni ‘70 il mercato del lavoro europeo era più “flessibile” di quello americano? No. Era più flessibile di quello europeo attuale? No. Dunque la teoria della flessibilità riceve una totale smentita storica. Da un punto di vista capitalistico, l’ondata di lotte degli anni ‘70 “ingessò” il mercato del lavoro italiano ed europeo. Eppure la disoccupazione era un terzo o al più la metà di oggi, dopo quasi venti anni di sconfitte e dunque di flessibilizzazione. Per quanto riguarda il presunto basso livello di disoccupazione americana, occorre notare un semplice fatto. Come sanno bene anche i bambini, non si possono sommare pere e mele. Per fare confronti, occorre prima partire da dati omogenei, altrimenti ogni discussione è senza senso. Il punto è che i metodi di rilevazione della disoccupazione negli Usa non hanno nulla a che vedere con quelli europei. Innanzitutto negli Usa non c’è nessuna vera statistica della disoccupazione, ma solo sondaggi che sono molto meno realistici. I criteri per essere considerati occupati sono poi ben strani. Basta per esempio aver lavorato anche senza paga almeno quindici ore in un’attività di famiglia per essere considerato occupato (due ore al giorno ad aiutare un familiare e non si è più disoccupati!). Inoltre, in paesi come gli Usa e la Gran Bretagna almeno il 20-30% della forza-lavoro è costretta a lavorare part-time. È ovvio che questa forza-lavoro “vale” la metà di quella occupata a tempo pieno. Vi sono poi da aggiungere almeno sei milioni di persone che avrebbero bisogno di lavoro ma, rassegnati, non lo cercano più. Secondo Lester Thurow, un economista del Mit, il vero tasso di disoccupazione americano è del 10-14%, simile a quello italiano. Non solo, ma le condizioni di lavoro sono enormemente peggiorate. Secondo uno studio del Policy Institute di Washington dal titolo The State of Working America 1996-97, la perdita salariale per un lavoratore medio maschio non dotato di titolo di studio superiore, tra il 1980 e il 1995 è stata del 17,3%. D’altronde il minimo salariale legale, 4,75 dollari l’ora lordi, è il più basso del dopoguerra, il 41% in meno rispetto al 1969. Intanto l’orario di lavoro è aumentato di circa dieci ore all’anno. 500 top manager, riuniti l’anno scorso in un bell’albergo di San Francisco hanno già definito questa società come “società dei quattro quinti”. Ovvero un quinto di lavoratori pagati discretamente e quattro quinti di lavoratori precari, temporanei a paghe da fame. Questo è il modello che si vuole fare passare per vincente. Indubbiamente è vincente per i padroni americani che hanno fatto soldi a palate negli ultimi anni. Se c’è qualcuno che non vede l’ora di vivere nella “società dei quattro quinti”, c’è un aereo per gli Stati Uniti pronto per lui!

Veniamo ora al mercato del lavoro italiano. È proprio vero che i lavoratori sono così ben protetti? La prima cosa da notare è che lo Statuto dei lavoratori non si applica alle piccole imprese, ovvero alla maggior parte delle fabbriche italiane (quelle con meno di quindici dipendenti regolarmente assunti). Ma la questione fondamentale è il lavoro nero. Vi è qualcosa di più “flessibile” del lavoro nero? Di un rapporto di lavoro che neppure risulta? Neanche lo schiavismo è un sistema più flessibile del lavoro nero, perché il padrone doveva nutrire gli schiavi tutti i giorni, invece chi lavora in nero può trovarsi senza mezzi di sostentamento in ogni momento. Ora, nell’ultima relazione economica annuale del Governatore della Banca d’Italia si ammette che il lavoro nero ammonta a 2 milioni e mezzo circa di posizioni lavorative. Possiamo tranquillamente raddoppiare questa cifra, considerando ogni tipo di occupazione irregolare (falsi lavori autonomi, lavori in ritenuta d’acconto, “soci” di cooperative ecc.). Se consideriamo che nel suo complesso i lavoratori dipendenti in Italia sono circa 14 milioni e mezzo, stiamo parlando di oltre un terzo della forza-lavoro! Eppure questa “flessibilità di fatto”, come viene definita, non piace alla borghesia, perché? Perché è concentrata in settori tradizionalmente deboli e arretrati del movimento operaio. Il lavoro nero non ha ancora sfondato nei punti di forza della classe operaia, dove essa è concentrata, ha un livello di coscienza maggiore ed è più sindacalizzata. La flessibilità di fatto ha un ruolo evidente: tiene bassi i salari. Ma non ha ancora raggiunto la sua funzione primaria: scardinare il sistema di contrattazione nazionale collettiva, frutto della stagione di lotte degli anni ‘70 che pesa ancora sul morale e sulle tasche del padronato italiano. Il lavoro nero è, come spiegato, una componente ineliminabile del mercato del lavoro, data la realtà produttiva italiana, ma i padroni vogliono la possibilità di avere mano libera alla luce del sole. È un po’ come per il falso in bilancio. Qualsiasi esperto contabile sa bene che non c’è un solo bilancio che sia in regola e che tutte le imprese, soprattutto quelle grosse, scrivono nei bilanci quello che gli pare. Eppure il falso in bilancio è ancora un reato e se per qualche strano motivo a un magistrato girasse così, potrebbe pur sempre condannare qualche padrone, come è successo a Romiti. Poi, certamente, Romiti non farà un giorno di prigione che è uno, però sono seccature che alle soglie del duemila la borghesia non si può permettere. Deregolamentare totalmente il mercato del lavoro significa instaurare un regime del terrore in cui qualsiasi pretesto sarebbe buono per essere licenziati. Sebbene qualsiasi lavoratore capisca cosa significhi in concreto flessibilità, la disperazione è tale che, almeno in alcune regioni, ci sono settori di forza-lavoro che vedono in questa soluzione l’unica loro àncora di salvezza. Pur di lavorare sono disposti a subire ogni tipo di ricatto. Il punto è che la flessibilità non crea nuovo lavoro, semplicemente chi accetta condizioni peggiori sostituisce altri lavoratori. Il mercato del lavoro, come ogni altro mercato, funziona in modo che chi domanda la merce, la compra da chi la vende a minor prezzo. L’operaio che si vende a meno sostituisce operai con salari e condizioni migliori. Da un punto di vista dell’occupazione complessiva l’effetto è nullo. Nel breve periodo. Nel medio periodo, poiché i salari si abbassano, i mercati delle merci si troveranno ancora più depressi e dunque la produzione diminuirà e l’occupazione di conseguenza scenderà anch’essa. Così, nel lungo periodo, flessibilità significa salari più bassi, produzione minore e disoccupazione maggiore. L’occupazione non dipende dalla flessibilità, ma dagli investimenti. Nella già citata relazione annuale della Banca d’Italia lo si ammette: “La drammatica riduzione dell’occupazione è parallela alla caduta del tasso di investimento.” (considerazioni finali, pag. 21). Questo è il punto! I padroni europei non investono perché l’economia ristagna. Sono pessimisti sul futuro del sistema. Non vedono sbocchi. Solo nel settore automobilistico europeo si stima una produzione eccedente di tre milioni di vetture. Perché mai la Fiat o la Renault dovrebbero assumere qualcuno, fosse anche l’operaio più flessibile del mondo? Molto meglio speculare in borsa, scommettere su questo o quel mercato finanziario, anziché espandere la produzione reale. La cosa ridicola è che le politiche monetariste provocano un circolo vizioso recessivo. Tagliano i salari e la spesa pubblica, ciò riduce i consumi e dunque la produzione. Questo aumenta la disoccupazione e questo, nella mente degli economisti borghesi significa che i salari sono ancora troppo alti, così vorrebbero cominciare con un altro giro di vite alle condizioni di esistenza dei lavoratori. Purtroppo i dirigenti del sindacato e anche del Pds hanno accettato in questo come in altri campi, la propaganda reazionaria della Confindustria. Così vediamo i “Patti per il lavoro” e le altre misure che permettono ai padroni di ricattare sempre meglio il proletariato. Ma, si badi bene, il sindacato non vuole la flessibilità “selvaggia”, vuole concertare tutto. Anziché una bastonata molto forte il sindacato accetta tre bastonate meno forti a una certa distanza tra loro. L’idea che si possa fare a meno di prendere bastonate non rientra nelle politiche “moderne” dei dirigenti riformisti.

Le pensioni

In Italia si pagano pensioni da fame. La stragrande maggioranza delle pensioni non supera il milione. Gli economisti fanno notare che 35 anni di contributi al giorno d’oggi sono pochi, perché se si inizia a lavorare a 20 anni, si potrebbe stare in pensione per tanti anni quanti sono i contributi. Questo è falso da un punto di vista statistico, perché la maggior parte dei lavori a bassa qualifica distrugge le persone e ben pochi operai vivono a lungo. Ma anche qui la sostenibilità o meno delle pensioni non è un fatto “naturale” ma semplicemente di produttività del lavoro. In futuro si lavorerà anche meno di 35 anni. Già ora se lavorassero tutti i disoccupati si potrebbe lavorare almeno il 20% in meno (ovvero 30 anni). Sempre, le condizioni di vita dipendono in ultima analisi dallo sviluppo della produttività del lavoro, se il capitalismo non è più in grado di assicurarlo, è giunta l’ora che lasci il posto a un’altra società.

Per gli “esperti” la soluzione di tutto è creare fondi pensione privati, che per qualità magiche, aumenteranno il denaro di tutti e elimineranno il debito delle strutture pubbliche come l’Inps. Come? Ma ovviamente per via delle leggi del mercato! Vediamo un po’ come dovrebbe funzionare questo miracolo. Ogni anno una parte della paga del lavoratore viene incamerata dall’Inps che la usa per pagare i pensionati esistenti. Infatti in Italia vige il sistema detto “contributivo”. Molti altri sistemi pubblici e i fondi privati funzionano come un assicurazione: il lavoratore versa una certa quantità di soldi che alla fine del periodo contributivo gli verrà restituita con gli interessi. Dato che si tratta di centinaia di migliaia di miliardi è facile capire perché ai padroni luccichino gli occhi al solo pensiero di metterci le mani sopra. Il punto è: come fanno i fondi privati a restituire i soldi con gli interessi? Li investono. Ma perché non potrebbe investirli anche l’Inps? Il punto è che i padroni vogliono ovviamente avere la piena disponibilità di questi soldi per investirli come pare a loro. Il guaio è che i fondi pensione investono nei mercati finanziari, pensando, da bravi capitalisti, che la borsa crescerà sempre. Ma che cosa succede quando azioni comprate a 100 crollano e valgono 20? Per esempio, se fosse esistito un fondo pensione privato all’Olivetti avrebbe comprato ovviamente molte azioni Olivetti. Ma queste azioni nei mesi scorsi sono crollate di prezzo. Come avrebbe pagato le pensioni il fondo? E, a maggior ragione, quando inevitabilmente i mercati finanziari faranno esplodere l’enorme bolla speculativa che li ha gonfiati fin qui, che cosa faranno i fondi pensioni con tutta la carta straccia che si troveranno per le mani al posto del denaro con cui l’hanno comprata? Non è una domanda a cui è difficile rispondere: interverrà lo stato a ripianare tutto, come sempre accade quando i capitalisti combinano i disastri. Negli Usa, questa culla della libera impresa, durante gli anni ‘80 crollò tutto il sistema delle casse di risparmio. Cosa fece il governo del paese più liberale del mondo? Lasciò fallire in santa pace queste imprese? Ovviamente no. Intervenne con miliardi e miliardi di dollari (una cifra vicina al 25% del Pil dell’Italia), tutto a spese del sistema fiscale nazionale. Lo scenario che abbiamo fatto non è fantascienza, in realtà è quello che è già accaduto varie volte. Nel 1994 il fondo d’investimento delll’Orange County, una regione degli Stati Uniti, dichiarò la bancarotta. Tale fondo gestiva disponibilità di oltre 200 enti locali per un totale di quasi 20.000 miliardi di lire. Per risolvere i problemi vennero aumentate le tasse e si arrivò alla minaccia di sospendere i pagamenti ai dipendenti pubblici: “molti impiegati, spazzini e poliziotti temono che non arrivi lo stipendio alla fine del mese” (Il Sole 24 Ore 10/12/94). Un altro esempio clamoroso fu quello dell’impero finanziario di Maxwell.  Questo bravo gentiluomo, pcoo prima di scomparire dalla faccia della terra, per evitare la bancarotta del proprio impero, utilizzò colossali somme del fondo pensione per ricomprare azioni delle proprie imprese che andavano a rotoli. Con quali conseguenze è facile immaginarlo. Questi erano comunque casi circoscritti. Ma cosa succederebbe se al posto dell’Inps vi fossero fondi pensione che investono in Borsa e, come è inevitabile, ci fosse un crollo come dieci anni fa? Questo, gli esperti non ce lo dicono mai. Sono troppo occupati a sputare sull’Inps, che ha un enorme deficit, causato dal fatto che i padroni evadono decine di miliardi di contributi. Prima causano questo deficit e poi protestano. La disonestà di qualsiasi scippatore è molto minore. Infatti, il ladro dopo averti rubato il portafoglio, almeno non ti fa la morale sul fatto che non hai più una lira! I fondi pensione privati darebbero ai padroni la possibilità di gestire immani risorse per i propri scopi: scalare imprese concorrenti, speculare in borsa. Finché le cose andassero bene, le pensioni non rischierebbero nulla. Ma alle prime avvisaglie di crollo i grossi investitori comincerebbero a vendere precipitosamente i titoli, riducendo il valore del patrimonio dei fondi pensione alla metà, a un terzo, a un decimo. I fondi pensione sono dunque una grossa opportunità per i padroni, mentre rappresentano una ben misera soluzione per i loro dipendenti.

Effetti complessivi

Nel suo complesso, lo stato sociale così com’è trasferisce un’immane quantità di soldi, 200-400.000 miliardi l’anno dal proletariato al capitale finanziario.

Emerge così la vera funzione dello stato sociale. Esso è uno strumento molto sofisticato con cui la borghesia spilla soldi alla classe lavoratrice. Certo, lo stato sociale ha costituito un passo avanti rispetto alla situazione precedente. In ultima analisi è il frutto, anche se distorto, di decenni di lotte del movimento operaio. Ma non bisogna mai dimenticare la sua vera funzione. Lo stato sociale non ha nulla di progressista. Non redistribuisce le risorse sociali, ma le concentra ancor più nelle mani dei grandi capitalisti. Esso è un paravento dietro cui i padroni possono fare più agevolmente i propri comodi. Ci si potrebbe chiedere perché, allora, la borghesia lo attacca di continuo. Non è forse vero che quello contro cui lotta il nemico di classe deve essere in qualche modo “buono”? Il punto è che cosa vuole la borghesia al posto dello stato sociale. I padroni sono molto pragmatici. Lo stato sociale è, nonostante tutto, un compromesso tra borghesia e classe operaia, permesso dalla crescita economica del dopoguerra e a cui furono costretti dalle lotte operaie. Venute meno queste due cause, perché non cercare di sostituire al compromesso la pura e semplice legge della giungla? Engels una volta scrisse che “accettiamo tutto quello che ci concede il governo solo come un acconto, per il quale non ci sentiamo debitori della minima riconoscenza”. La borghesia segue questa massima al cento per cento. Qualsiasi concessione fatta dai sindacati, e dal governo di “sinistra”, la incamerano senza nessuna contropartita. Non c’è nessun bilancio delle entrate e delle uscite di una parte sociale con l’altra, c’è solo un’interminabile serie di cedimenti del sindacato di cui la borghesia, giustamente, dal suo punto di vista, non è mai stanca. Lo stato sociale, così pensano gli strateghi del padronato, è ormai inutile e inservibile. L’idea è di andare verso la privatizzazione di tutto. Chi vorrà avere una pensione, chi vorrà curarsi, chi vorrà avere luce, gas e trasporti, dovrà pagare, salato, a un gestore privato. Lo stato sociale, dicono ipocritamente, si occuperà solo dei “veri poveri”, ovvero di quella massa, che si va infoltendo proprio grazie alle politiche di tagli, di disperati che vagano per le metropoli occidentali e che ormai costituiscono il 10-15% della popolazione proprio nei paesi più ricchi della Terra. Lo stato sociale, come un guscio vuoto e marcio, non serve più. I padroni possono fare anche, e meglio, senza. Come abbiamo spiegato lo stato sociale è un mezzo per frodare la classe operaia. Ma a questo mezzo i padroni vogliono sostituire un sistema ancor più brutale e antioperaio, in cui le necessità delle imprese, ovvero il loro pugno di ferro, possa colpire senza limiti. Vi sono costretti, per altro, proprio dalla concorrenza mondiale. In particolar modo la borghesia italiana, con il suo ridicolo e antistorico sistema di piccole imprese, con la sua penosa infrastruttura per la ricerca innovativa, non può che sperare di rimanere a galla competendo con paesi del terzo mondo. Pochi lo sanno, ma l’Italia è praticamente l’unico paese europeo ad avere un avanzo commerciale con le “tigri asiatiche”, proprio per questa ragione. Distruggere lo stato sociale è la via per poter competere al meglio in un’economia stagnante. Ha ragione Bertinotti quando dice che il riformismo non ha più nessuno spazio. A questo punto si tratta di vedere se i dirigenti dei lavoratori accetteranno di lottare per trasformare la società o se accetteranno semplicemente il controriformismo.

Alla parola d’ordine perdente e reazionaria della “difesa dello stato sociale”, i lavoratori più avanzati e i comunisti devono sostituire la parola d’ordine dell’abbattimento di questa società. Non c’è nessun modo di salvaguardare le nostre condizioni di vita nell’ambito di questo sistema. La borghesia ci attacca in ogni modo, tagliando i salari, distruggendo i servizi sociali, arraffando le imprese migliori dello stato per due lire, aumentandoci le tasse. Non contenta, manda avanti i suoi scagnozzi, gli “esperti”, a dire che non si può fare altrimenti e che difendere lo stato sociale è “vecchio”. I dirigenti del Pds dichiarano apertamente che è “da conservatori” difendere lo stato sociale. Su questo unico punto possiamo essere d’accordo con loro. È da conservatori difendere lo stato sociale e con esso tutto lo stato borghese. Solo che questi dirigenti così “moderni” vorrebbero distruggere lo stato sociale per sostituirvi la barbarie. Noi vogliamo superare questo stato di cose per sostituire all’anarchia antistorica del capitale una gestione cosciente delle risorse produttive. Alla fine di questo secolo, come già alla fine di quello scorso, l’umanità si trova di fronte al bivio: socialismo o barbarie. Gli esiti della “riforma” dello stato sociale indicheranno verso quale alternativa si sta dirigendo la società.

Con questo schema proviamo a dividere il possesso dei titoli di stato per classe sociale

 

 

 

miliardi

 

percentuale

borghesia

società non finanziarie

 

45.995

0,023203548

2,32035475

 

autorità monetarie 

 

168.177

0,084841896

8,484189604

 

istituzioni finanziarie

 

148.529

0,074929877

7,492987731

 

altre istituzioni monetarie

 

335.899

0,169454254

16,94542538

 

assicurazioni

 

110.763

0,055877694

5,587769392

 

imprese individuali

 

61.151

0,030849443

3,084944305

 

“resto del mondo”

 

365.582

0,184428727

18,44287271

 

 

 

1.236.096

 

 

borghesia + classe operaia

famiglie

 

746.144

0,376414561

37,64145613

 

 

 

1.982.240

1

100

 

 

 

 

Adesso dividiamo l'unica voce "mista" nel seguente modo:

 

 

 

 

reddito da lavoro dipendente

768.358

questo è il totale guadagnato dai lavoratori

propensione al risparmio

28%

 

risparmio dei lavoratori

215.140

otteniamo questa cifra

pensioni pagate

250.000

vi aggiungiamo il risparmio sulle pensioni  

risparmio dei pensionati

70.000

titoli di stato in mano ai lavoratori e pensionati 

risparmio dei lavoratori + pensionati

285.140

 

 

461.004

titoli di stato in mano alla borghesia (per differenza)

 

 

 

alla borghesia:

1.697.100

85,61525143

 

ai lavoratori

285.140

14,38474857

 

Note alla tabella: abbiamo fatto le ipotesi più favorevoli a un'analisi antioperaia. Infatti non solo abbiamo ipotizzato che i lavoratori e i pensionati risparmino come la media della popolazione (cosa che ovviamente non è), ma che spendano tutti i loro risparmi in titoli pubblici.

I dati sono presi dalla relazione annuale della Banca d'Italia.

NOTE


[1] Tratto dal sito http://www.utenti.lycos.it/xepel/ (agosto 1997).