LA CRISI IRREVERSIBILE DELLA MICRO ECONOMIA

Lorenzo Esposito

“chi cerca non si vanta mai di non aver trovato nulla”

(Lev Trotskij)

Introduzione

Da oltre un secolo, la microeconomia è la base ideologica fondamentale della teoria economica borghese. Nelle sue diverse scuole e accezioni, questa dottrina rimane tuttora al centro delle giustificazioni scientifiche della legittimità del capitalismo quale ambiente “naturale” e comunque definitivo della vita cosciente sulla Terra.

Questo non significa, ovviamente, che la gran parte di chi in cuor suo giustifica il capitalismo conosce e ritiene fondata teoreticamente la microeconomia, proprio come non molti credenti conoscono per filo e per segno i testi sacri della propria religione. Ma rimane il fatto  che gli ideologi della borghesia non hanno ancora trovato di meglio per difendere in punto di teoria il proprio sistema.

Colpisce forse di più il fatto che gli stessi economisti, i sacerdoti più importanti di questa fede, abbiano perso ogni interesse nelle “microfondazioni”, come si definiscono in gergo, della loro teoria. Non è un caso. Ciò deriva dal fatto che è ormai emerso che il paradigma scientifico della teoria microeconomica sta miseramente fallendo. E questo fallimento, si badi bene, non è un fallimento empirico, determinato da eventi storici, o da una certa interpretazione di fatti storici. È un fallimento tutto interno alla costruzione logica della microeconomia. In questo breve scritto, per dimostrare tale fallimento non utilizzeremo la vasta letteratura pro e contro la teoria microeconomica, ma semplicemente un manuale di microeconomia; in particolare, utilizzeremo il manuale di Mas-Colell e altri[1]. Questo perché, innanzitutto, è il più rigoroso e completo matematicamente, in secondo luogo è il più usato o almeno rinomato tra i testi della categoria.

La base ideologica e teoretica della teoria microeconomica è l’individualismo metodologico. La microeconomia parte dall’individuo, fonda l’analisi dell’economia sulle preferenze, le scelte, i comportamenti dell’individuo e arriva alla società, ai mercati, alle imprese. Perché questo approccio funzioni è necessaria la prima condizione (partire dall’atomo); ma perché abbia una qualsiasi utilità, è necessaria anche la seconda (arrivare a leggi generali). Per dimostrare che il paradigma microeconomico è fallito bisogna dimostrare innanzitutto che la nostra idea di che cosa sia la microeconomia è corretta. Risolto preventivamente questo problema cercheremo di mostrare che il tentativo della microeconomia di arrivare alla società partendo dall’individuo naufraga miseramente.

La teoria della domanda

Per quanto riguarda il primo punto, siamo confortati dall’opinione degli autori che spiegano:

“Microeconomic theory as a discipline begins by considering the behavior of individual agents and builds from this foundation to a theory of aggregate economic outcomes” (p. xiii)[2]

Tanto dovrebbe bastare relativamente alla funzione che alla microeconomia è assegnata dagli stessi microeconomisti; concentriamoci ora sull’altro punto, ovvero il passaggio dall’individuo alla società. Questo percorso viene tentato discutendo di domanda aggregata[3]. Gli autori assegnano alla microeconomia la funzione di aggregare le posizioni dei singoli individui:

“For most questions in economics, the aggregate behavior of consumers is more important than the behavior of any single consumer. In this chapter, we investigate the extent to which the theory [of classical demand theory] can be applied to aggregate demand, a suitably defined sum of demands arising from all the economy’s consumers” (p. 105, corsivo aggiunto)[4]

Ma svolgendo l’analisi, arrivano alla conclusione che tale domanda aggregata non può derivare logicamente dalle funzioni individuali, ovvero che la funzione di domanda aggregata (walrasiana) si può costruire solo tenendo conto dell’interazione tra gli individui:

“aggregate demand depends not only on prices but also on the specific wealth levels of the various consumers” (p. 106)[5]

Questo implica che, nella pratica, l’unico modo per avere una funzione aggregata è che non ci siano effetti ricchezza (cioè, come si dice tecnicamente, le preferenze siano additive, omotetiche, la cosiddetta forma di Gorman). E gli autori capiscono che: “needless to say, this is a very restrictive condition on preferences” (p. 108)[6]. Come procedere dunque?:

“aggregate demand might be allowed to depend on both the mean and the variance of the statistical distribution of wealth or even on the whole statistical distribution itself” (p. 108)[7]

Quest’interessante proposta implica, ovviamente, la rinuncia a qualsiasi microfondazione della teoria economica: se si parte dall’individuo si rimane all’individuo, nulla è possibile dire circa le leggi di funzionamento sociale dell’economia. Dato che questo abbandono mina alla base la teoria della domanda (cioè la ragion d’essere della microeconomia), viene da chiedersi perché gli autori non abbiano rinunciato a questa ipotesi già dalla prima pagina. Visto che, alla fine, la domanda aggregata dipende dai prezzi e dalla ricchezza aggregata, perché non sbarazzarsi esplicitamente subito dell’individualismo metodologico? Ovviamente perché questo avrebbe implicato la sconfessione totale del nucleo ideologico della teoria microeconomica. La strada scelta è stava dunque un’altra e cioè una nuova robinsonata, l’agente rappresentativo: la funzione di domanda aggregata esiste se la consideriamo generata da un agente rappresentativo fittizio. L’agente rappresentativo è certo una soluzione: se tutti gli individui della società sono identici, la società è automaticamente rappresentabile da un individuo. Ma che non si tratti di una vera soluzione è ovvio: a che pro leggi sociali se la società è equivalente a un individuo? L’ipotesi di agente rappresentativo (IAR) è comunque necessaria (ma non sufficiente):

“For it to be correct to treat aggregate demand as we did individual demand functions…there must be a positive representative consumer.” (p. 116)[8]

Arriviamo dunque a questa conclusione: senza l’IAR non c’è aggregazione. Se si accetta l’esistenza di una pluralità di soggetti che compongono l’economia, si deve rinunciare, in generale, alla possibilità di costruire funzioni aggregate, a meno che non si ricorra a semplici criteri statistici, strada che però conduce fuori dall’individualismo metodologico:

“although aggregation can be deleterious to the preservation of the good properties of individual demand, it can also have helpful regularizing effects.” (p. 122)[9]

La teoria della domanda (e dell’offerta) fallisce dunque nel tentativo di descrivere leggi di funzionamento sociali del capitalismo. Naturalmente, questo fallimento si estende inevitabilmente alle parti della teoria che cercano di descrivere ricette pratiche, ovvero la teoria della politica economica. Anche in quel frangente la teoria è costretta a ricorrere all’IAR per costruire lo strumento teorico che descrive le scelte a disposizione della società (la cosiddetta funzione di benessere sociale). La dimostrazione migliore che il programma microeconomico giunge alla conclusione che il mercato non esprime i desideri sociali, in quanto non c’è nessun modo per aggregare le preferenze, sta nel fatto che per dire qualcosa su queste materie gli autori sono costretti a introdurre “a benevolent central authority”[10], un concetto antitetico al mercato e, peraltro, mancante di qualsiasi microfondazione. Quanto detto sin qui basta, a nostro giudizio, a dimostrare non solo che il passaggio da Robinson alla società non riesce, ma che non sta in piedi nemmeno il punto di partenza e cioè la microfondazione. Detto altrimenti: il povero Robinson è un prodotto della sua società e la teoria economica può spiegare il suo comportamento solo analizzando la società in cui questo tizio vive. In altre parole, se letto con attenzione, il più raffinato manuale di microeconomia del mondo pone una pietra tombale sull’individualismo metodologico.

L’equilibrio economico generale

Una discussione sui meriti e i limiti della microeconomia non può prescindere dal tema dell’equilibrio economico generale (EEG), cuore della teoria economica almeno da dopo la Comune di Parigi a oggi. Si può dire che senza equilibrio generale è preclusa ogni discussione di merito sulla moderna teoria economica. Che ce ne facciamo, infatti, di un’analisi di equilibrio parziale se la teoria non può dedurre una situazione di ottimo generale dell’economia di mercato? Le migliori menti degli ultimi due secoli si sono dedicate a questo problema. Dire che la montagna ha partorito il topolino non renderebbe l’idea. Nel suo complesso, il programma di ricerca è stato un fallimento totale. Nonostante l’aiuto di topologi, statistici, algebristi, caosologi e ogni altro genere di specialisti, la teoria economica si ritrova con questa conclusione: l’equilibrio da qualche parte esiste, e quando ci siamo è tutto meraviglioso (in base ai due noti teoremi dell’economia del benessere), solo che l’equilibrio non è unico né stabile e non esiste alcun metodo che ci conduca ad esso. Per giungere a questo risultato occorre scomodare il teorema del punto fisso, o, in versioni più sofisticate, risultati ignoti persino alla maggior parte dei matematici (teorema di Filippov, disuguaglianza di Ky Fan ecc.[11]). Marx, ragionando da solo al British Museum aveva raggiunto le stesse identiche conclusioni (l’equilibrio esiste ma è un caso) senza scomodare simplessi e iperpiani. Ma gli economisti sono riusciti a fare anche peggio. L’ultimo grido in fatto di EEG è infatti davvero patetico; si tratta, come noto, del teorema Sonnenschein-Mantel-Debreu che viene così sintetizzato nel libro di Mas-Colell e altri:

“Anything satisfying the few properties that we have already shown must hold [ipotesi matematiche molto complesse come convessità, ecc. ecc.], can actually occur” (p. 598)[12]

Ovvero, “anything goes”.[13]

Sorvoliamo su cosa avrebbe detto il vecchio Popper di un simile modo di procedere (infatti si tratta, tra l’altro, di una teoria infalsificabile); il punto è che, come sottolineano molti critici di questa teoria, ricordiamo per tutti Garegnani, e come convengono gli autori,

“the essence of the negative point being made is, unfortunately, much more general” (p. 602),[14]

ovvero l’essenza della teoria microeconomica è che ci dice cosa non succede, cosa non vale, cosa non è vero. Non scopre mai nulla che si possa fare, e dunque:

“to derive further restrictions on Walrasian equilibria we will need to make additional (and, as we shall see, strong) assumptions.” (p. 604)[15]

Questi economisti, piegati alla necessità di giustificare matematicamente un’ipotesi ideologica (il mercato è efficiente), sono costretti a introdurre ipotesi, quali la sostituibilità lorda e altre amenità del genere, che mancano di ogni spiegazione economica, scientifica. Mas-Colell e soci non tentano, onestamente, nessuna difesa fattuale (e nemmeno teoretica) di queste ipotesi aggiuntive, limitandosi a constatarne la necessarietà tecnica. A questo ha condotto un secolo di analisi dell’equilibrio economico generale. La stessa teoria borghese non riesce dunque a dimostrare l’efficienza del mercato almeno in ipotesi caratterizzate da un qualsivoglia grado di generalità (non già di realismo, ché quello non c’è mai stato).

Il teorema di Arrow e le sue implicazioni

Il paradigma dell’EEG dal lato puramente strutturale (l’economia) è finito dunque in un fiasco clamoroso, in proposizioni che vietano di dire alcunché di utile e non descrivono nessuna situazione interessante anche solo logicamente, figurarsi sotto il profilo fattuale. Unendo il fallimento dell’aggregazione al fallimento dell’analisi di equilibrio generale arriviamo al fallimento sul versante dell’analisi politica.

Sin dagli inizi del paradigma microeconomico, gli economisti hanno ammesso che l’efficienza del mercato, persino all’interno del loro quadro concettuale, era impossibile in presenza di “non linearità fondamentali”, termine tecnico che si traduce in esistenza di economie esterne (per esempio l’inquinamento, il traffico, la produzione congiunta di beni), o di beni pubblici (che la teoria economica identifica con i beni la cui produzione è “non escludibile e non rivale”[16], come la difesa ecc.). Se si ammette l’esistenza di questi “fallimenti del mercato”, occorre trovare un metodo sociale che aggreghi in modo efficiente le preferenze individuali. A questo serve la teoria della scelta sociale, elaborata negli ultimi cinquant’anni da Arrow e altri. La già citata funzione di benessere sociale dovrebbe sintetizzare il tutto, permettendo di veicolare le opinioni individuali in programmi politici. Essa sarebbe la giustificazione teorica delle istituzioni politiche borghesi, il rationale dei parlamenti e delle elezioni. Su questo versante, i risultati ottenuti sono forse ancora più scarsi di quelli descritti prima. La teoria tenta di studiare “the problem of aggregating individual preferences over any number of alternatives”[17] e giunge, nel caso generale, al noto Teorema di impossibilità di Arrow che dimostra come l’aggregabilità non sia possibile. Anche in tal caso, l’unico modo per aggirare il fallimento è allentare le ipotesi di partenza. Una delle modalità con cui si esce dall’impasse è, naturalmente, l’ipotesi di agente rappresentativo. Se c’è un solo individuo, le preferenze sono facilmente aggregabili, essendo necessariamente identiche. Ma basta pensare a questa soluzione per comprenderne la futilità: se c’è un solo individuo, che cosa c’è da aggregare? I teorici della microeconomia, dal canto loro, non sembrano dolersi eccessivamente per questi fallimenti:

“The result of Arrow’s impossibility theorem is somewhat disturbing, but it would be too facile to conclude from it that “democracy is impossibile”. What it shows is something else - that we should not expect a collectivity of individuals to behave with the kind of coherence that we may hope from an individual.” (p. 799, corsivo aggiunto)[18]

Si tratta davvero di una scoperta rivoluzionaria! Valeva la pena scomodare la matematica superiore per arrivare a simili portentose verità, che anche un ragazzino delle elementari considererebbe banali. Ma l’aspetto più rilevante di questa ammissione è la sua conseguenza sui punti da cui siamo partiti: l’analisi microeconomica non pone capo ad alcun risultato macro, sia esso legge puramente economica o analisi politica.

Si osservi che negli anni seguiti alla “scoperta” di Arrow il suo risultato distruttivo non è stato ribaltato (nonostante non meno del 60-70% degli economisti mai vissuti abbia lavorato dopo la scoperta di quel teorema e spesso proprio su questo teorema), ma è stato rafforzato, ad esempio dai teoremi di Gibbard-Satterthwaite che ci dicono: “for a very general class of problems there is no hope of implementing satisfactory social choice functions in dominant strategies” (p. 873)[19] e da quello di Myerson-Satterthwaite, che giunge a conclusioni simili, solo in un contesto stocastico, in cui si valuta la propensione al rischio dei diversi soggetti.

Conclusioni: la microeconomia è un cadavere puzzolente

“The goal of proving microfoundations for macroeconomics using general equilibrium theory is dead” (J. Hartley)[20]

“Zenone chiedeva al sofista Protagora: via dimmi – affermava – o Protagora, cadendo produce forse rumore un singolo grano di miglio o la sua decimillesima parte? Al suo dire che non ne produceva - ma lo staio - affermava – di miglio cadendo produce rumore o no? - Al suo rispondere che faceva rumore lo staio - e cosa dunque - affermava Zenone – non anche dei rumori ci saranno proporzioni reciproche, le stesse? Come in effetti stanno le cose che rumoreggiano, così anche i rumori, farà rumore anche il singolo grano di miglio e la decimillesima parte del singolo grano”.

Abbiamo visto che i risultati “generali” della microeconomia, che dovrebbero esserne il cuore, sono costituiti da divieti. I risultati in positivo, che stabiliscono cosa può essere fatto e detto, valgono sotto una quantità d’ipotesi impressionante, che li rende peggio che inutili per l’analisi di ogni forma di vita almeno in questa parte di universo. La cosa più interessante è che questo fallimento non è stato decretato da avversari (teorici e politici) della scuola neoclassica, ma dai suoi migliori rappresentanti. Così è stato Arrow, certo involontariamente, a mettere la parola fine alle speranze degli economisti ortodossi di fornire una spiegazione del funzionamento della politica a partire dall’EEG. Senza metodi di aggregazione delle preferenze, senza possibilità di conciliare i meriti del mercato e della democrazia, che cosa rimane di questo progetto? Ragionando secondo i canoni di una qualsiasi filosofia della scienza, la teoria dell’equilibrio economico generale andrebbe consegnata alla storia del pensiero economico. Il suo successo pratico, invece, non accenna a diminuire, perché la percentuale degli economisti interessati alla coerenza logica del proprio mestiere è bassa e, per giunta, in diminuzione. Ma il problema non è tanto la scarsa avvedutezza epistemologica degli economisti, ma la funzione pratica dell’economia. Le idee dominanti sono le idee della classe dominante. La borghesia non ha trovato né può trovare giustificazioni logiche alla sopravvivenza del capitalismo. Per questo i suoi rappresentanti scientifici, gli economisti, procedono come se nulla fosse con una teoria logicamente fallace. D’altra parte, anche quegli economisti che coraggiosamente abbandonano l’individualismo metodologico, non hanno alcuna alternativa organica da opporgli e forniscono contributi davvero deludenti, aiutando così, paradossalmente, il consolidamento della teoria dominante. Vi sono poi economisti che traggono invece con coerenza la lezione da noi esposta e cioè che, in definitiva, non c’è alcun modo di aggregare preferenze di soggetti distinti se i soggetti sono effettivamente diversi. D’altronde, l’utilità ordinale venne introdotta nell’economia proprio perché impediva l’aggregabilità delle preferenze, era questo il suo ruolo ideologico, come Pareto aveva ben capito (e del resto già Jevons scrisse: “ogni mente è imperscrutabile per le altre”). Così, i più conseguenti teorici dell’individualismo metodologico, ovvero gli economisti della scuola austriaca, sono giunti a proporre la lettura più spinta dell’individualismo filosofico, il solipsismo[21]. Che una teoria solipsista sia implicitamente inutile e insignificante va da sé. A che pro scrivere qualcosa se non c’è nessuno con cui condividerla? Così, la linea di coerenza massima nell’interpretazione della filosofia che sta alla base della teoria economica moderna prevede la riduzione della conoscenza alla disamina di se stessi, unici soggetti sicuramente esistenti.

Non sarà difficile per un futuro storico della scienza paragonare la situazione della teoria economica di questi decenni all’astronomia (e alla scienza in genere) dei tempi di Galileo, quando un’ortodossia tenuta in piedi con la forza della tortura venne sfidata da alcuni spiriti intrepidi che pagarono a caro prezzo questa opposizione ma che grazie al loro coraggio aprirono la strada al sapere e al futuro stesso dell’umanità.

La microfondazione in fisica

Giova forse un’ultima notazione concernente il rapporto tra teoria economica e fisica. Gli economisti credono di fare buona scienza imitando quella che loro ritengono essere l’attività dei fisici e che, quando va bene, è in realtà un’immagine stereotipata delle ricerche che si svolgevano ai tempi di Laplace e Newton. La cosa interessante è che proprio in ambito fisico (ma anche chimico e biologico), molte teorie hanno scoperto quanto l’equivalente naturale dell’ipotesi di agente rappresentativo sia inadeguata a spiegare i processi reali. Ad esempio nella fisica dei gas:

“Le singole particelle non sono né solide né liquide: gli stati gassoso, solido e liquido sono proprietà di insiemi di particelle.”[22]

O, ancora nella fisica statistica,

“Man mano che aumenta il numero degli incidenti presi in considerazione, cominciano però a delinearsi proprietà nuove; infatti si scopre che le variazioni individuali tendono ad annullarsi, mentre cominciano a evidenziarsi le regolarità statistiche. Pertanto, il numero totale di incidenti in una certa località in genere non cambia molto da un anno all’altro, e i cambiamenti che invece si verificano hanno spesso una linea di tendenza regolare.”[23]

Questo è il senso dell’uso che in fisica si fa del moto browniano che, in sostanza, ci dice: è impossibile conoscere il moto della singola particella, ma è facile prevedere le proprietà medie, complessive ovvero macroscopiche del sistema:

“questi valori medi dipendono quasi completamente dalle proprietà generali complessive delle molecole…che possono essere definite direttamente su grande scala [e dunque] diviene possibile ottenere relazioni regolari e prevedibili che coinvolgono il solo livello su grande scala. È chiaro che è giustificato parlare di un livello macroscopico che possiede un insieme di qualità relativamente autonome e che soddisfa un insieme di leggi causali macroscopiche” (Ibidem, p. 71)

Lo stesso discorso varrebbe considerando la teoria dei frattali di Mandelbrot, la teoria del caos ecc. Non è questo il luogo per una disamina di queste teorie; quello che interessa è semplicemente che anche i fisici hanno compreso come in molte circostanze la “particella rappresentativa” non rappresenti nulla, perché le sue proprietà derivano dal sistema e non viceversa. Gli economisti dell’Ottocento, da Smith a Marx, lo sapevano; quelli successivi sono stati costretti a dimenticarselo per continuare a servire fedelmente i loro padroni.

NOTE


[1] Intendiamo, ovviamente, Microeconomic Theory, di Mas-Colell e altri, 1995.

[2] la teoria microeconomia come disciplina comincia considerando il comportamento degli agenti individuali e mira a costruire partendo da questo fondamento una teoria che fornisca risultati economici aggregati

[3] Lo stesso discorso varrebbe discutendo dell’offerta aggregata, considerando la ben nota simmetria tra teoria del consumo e teoria della produzione. Basterà dunque, qui, discutere della teoria del consumo.

[4] “Per la gran parte dei problemi della teoria economica, il comportamento aggregato dei consumatori è più importante del comportamento di ogni singolo consumatore. In questo capitolo, analizziamo la misura in cui la teoria [classica della domanda] si può applicare alla domanda aggregata, una somma convenientemente definita di domande che sorgono da tutti i consumatori presenti nell’economia”

[5] “la domanda aggregata dipende non solo dai prezzi ma anche dagli specifici livelli di ricchezza dei vari consumatori”

[6] “non c’è bisogno di dire che questa è una condizione molto restrittiva sulle preferenze”

[7] “alla domanda aggregata dovrebbe essere permesso di dipendere sia dalla media che dalla varianza della distribuzione statistica della ricchezza o anche da tutta la distribuzione statistica stessa

[8] “perché sia corretto trattare la domanda aggregata come abbiamo fatto prima per le funzioni di domanda individuali…deve esistere un consumatore rappresentativo”

[9] “anche se l’aggregazione può essere deleteria per la conservazione delle proprietà positive delle domande individuali, può anche avere utili effetti regolarizzatori”

[10] una autorità centrale benevolente

[11] Si veda, ad esempio, Aubin J., Dynamic Economic Theory, Springer Verlag, Berlino, 1997.

[12] “ogni cosa che soddisfi le poche proprietà che abbiamo già mostrato debbano valere può effettivamente succedere”

[13] “va tutto bene”

[14] “l’essenza di questa considerazione negativa appena fatta è, sfortunatamente, molto più generale”:

[15] “per derivare ulteriori restrizioni sugli equilibri walrasiani avremo bisogno di fare addizionali (e come vedremo forti) assunti”

[16] Per “non escludibile” la teoria intende i beni il cui consumo non è appunto escludibile agli altri consumatori (come è il caso della difesa di un territorio: chiunque vi abiti riceve in misura uniforme quel bene); per "non rivale” s’intendono i beni che possono essere consumati da una qualunque quantità di individui senza che nessuno di loro ne risenta.

[17] il problema di aggregare preferenze individuali per un numero qualsivoglia di alternative

[18] “Il risultato del teorema di impossibilità di Arrow è qualcosa che disturba, ma sarebbe troppo facile concludere da questo che “la democrazia è impossibile”. Quello che dimostra è qualcos’altro – che non dobbiamo aspettarci che una collettività di individui si comporti con il tipo di coerenza che ci potremmo aspettare in un individuo”

[19] “per una classe molto ampia di problemi non ci sono speranze di trovare funzioni di scelta sociale soddisfacenti in strategie dominanti”

[20] “l’obiettivo di trovare microfondazioni per la macroeconomia usando la teoria dell’equilibrio generale è morto”

[21] Si veda: Barrotta P., Raffaelli T., Epistemologia ed economia, UTET, Torino, 1998, e anche  il lavoro di Barrotta Su un dilemma della scuola austriaca: il soggettivismo radicale e l’oggettività della scienza, Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa, 1998.

[22] Prigogine I., La fine delle certezze, Boringhieri, Torino, 1997, p. 44, corsivo aggiunto.

[23] Bohm D., Causalità e caso nella fisica moderna, CUEN, Milano, 1997, p. 34.