OLTRE LA PIENA OCCUPAZIONE[1]

Lapo Berti

1. La nuova disoccupazione

Due milioni e cinquecentonovantaduemila persone in cerca di occupazione (di cui 1.521.000 donne) pari all’11,03% delle forze di lavoro totali (23.489.000): un punto in più rispetto a dodici mesi fa. Questo, nella sua scarna crudezza, il dato riassuntivo sullo stato della disoccupazione nel nostro paese reso noto dall’ISTAT negli ultimi giorni di dicembre sulla base dell’indagine trimestrale sulle forze di lavoro condotta ai primi di ottobre. Si tratta, è bene ricordarlo, di un dato ufficiale da cui è escluso il numero di coloro che si trovano in cassa integrazione e che, secondo stime del Ministero del Lavoro, dovrebbero aggirarsi, anche per iI 1985, intorno alle 400.000 unità di cosiddetti disoccupati “equivalenti”[2].

Se andiamo a guardare un po’ più da vicino dentro il dato complessivo, vediamo, in primo luogo, che il 74,4% dei disoccupati ha un’età compresa tra i 14 e i 29 anni, il che comporta che ben il 26,7% dei giovani in questa fascia d’età sia attualmente disoccupato. Il tasso di disoccupazione, secondo caratteristiche ormai consolidate, risulta più elevato nel mezzogiorno, dove tocca il 15,4%, rispetto al 9,2% del centro e all’8,8% del nord ed è notevolmente più elevato per le donne (18,1%) che per gli uomini (7,1%).

Queste sono le cifre, di per sé drammatiche, della Caporetto della nostra economia sul fronte dell’occupazione tradizionalmente intesa, ma sono anche le cifre di una débacle della teoria economica che oggi è muta di fronte al dispiegarsi massiccio e persistente di questa nuova disoccupazione. Nuova per la sua durata e per la sua relativa indipendenza rispetto agli andamenti ciclici dell’economia, nuova perché, come ha osservato Leontief[3], è in larga misura il portato di un progresso tecnologico che riduce il ruolo degli uomini quale più importante fattore della produzione e nuova, infine, per i soggetti che coinvolge.

Siamo di fronte, da un lato, ad una disoccupazione che è andata costantemente crescendo nel corso di un decennio, dal 5,4% del 1974 al 10,4% del 1984 e all’11,03% dell’anno appena concluso. E si tratta, d’altro canto, di una disoccupazione che tocca, in misura preponderante, i giovani e le donne. La disoccupazione nelle fasce d’età centrali, quelle che costituiscono il corpo pesante della forza lavoro del paese, è a livelli quasi fisiologici (4,1% delle persone con più di trent’anni nel 1985), delineando quindi un quadro ben diverso da quello della disoccupazione degli anni del primo dopoguerra che colpiva in prevalenza gli operai adulti dell’industria. Questo spiega, presumibilmente, i connotati sociali che attualmente riveste il fenomeno della disoccupazione e, in primo luogo, il fatto che esso non esploda come problema pubblico di governo della povertà, ma sia per così dire “internalizzato” dalle famiglie e con ciò stesso “metabolizzato” dalla struttura sociale. Giovani e donne in condizione di disoccupati ufficiali, infatti, possono essere più agevolmente assorbiti dentro la gestione di un reddito familiare “composito” e, su questa base, avviati nei mille rivoli dell’economia informale o della modularizzazione e segmentazione dei lavori, da cui eventualmente trarre spezzoni aggiuntivi di reddito, monetario o in natura. Sarà bene ricordare, inoltre, sulla scorta di una ricerca del CESPE di qualche anno fa[4], che il fenomeno della nuova disoccupazione non presenta un quadro statico e compatto, ma è il risultato netto di considerevoli flussi in entrata e in uscita dal mercato del lavoro, di mobilità tra lavori precari, di situazioni variamente assistite (dai disoccupati in senso proprio ai cassintegrati).

Siamo dunque di fronte, in larga misura, ad una disoccupazione “flessibile”, anche se persistente, dotata di notevoli capacità di adattamento al contesto economico e che quindi, proprio per questo, “ha effetti più logoranti che esplosivi sul tessuto sociale”[5]. Questa valutazione appare corroborata da un fenomeno, apparentemente anomalo, che da qualche tempo caratterizza la dinamica del mercato del lavoro: il contemporaneo incremento del numero degli occupati e delle persone in cerca di occupazione. Nell’anno passato, infatti, a fronte di una disoccupazione cresciuta di quasi un punto, si è avuto anche un contemporaneo aumento del tasso di attività, passato dal 41,1% al 41,6%[6]. Il fenomeno è in atto dal 1983 e si accompagna ad un parallelo aumento del numero delle persone che, pur non appartenendo alle forze di lavoro, si dichiarano disposte a lavorare a particolari condizioni di orario, di remunerazione, di localizzazione del posto di lavoro.

Mi sembra si possa concludere, da questo insieme di indicatori, che le dinamiche del mercato del lavoro in Italia, in particolare dal lato dell’offerta, sono nella realtà assai più complesse di quanto risulta dal semplice computo degli occupati e dei disoccupati. Se poi si pensa al fenomeno censito ma non computato della cassa integrazione e a quello, non censito, dell’occupazione occulta, tale complessità ne risulta ulteriormente accresciuta, delineando un quadro generale in cui, sullo sfondo di un generalizzato sostegno assistenziale e familiare, l’universo occupazionale appare come un continuum in cui le diverse situazioni occupazionali, compresa la disoccupazione, si trovano intrecciate le une alle altre, senza fratture sociali di particolare rilevanza, se non in casi limitati (fasce giovanili, in particolare nel meridione). La chiave di volta di questa architettura dei rapporti con l’attività lavorativa risulta costituita dalla famiglia, la quale, in quanto luogo di combinazione e di gestione di una molteplicità di fonti di reddito, fornisce il fondamento sul quale si sta probabilmente costruendo una nuova flessibilità dell’offerta di lavoro, destinata a combinarsi, non senza conflitti, con la richiesta di flessibilità della prestazione lavorativa che proviene dalle aziende. Non è questa la sede per argomentare giudizi di valore sulla natura di questi processi, ma è certo che senza prenderli in considerazione è pressoché impossibile comprendere la portata e il senso delle trasformazioni in atto e delle sfide culturali e politiche che propongono.

2. La teoria economica e la nuova disoccupazione.

Chi oggi cercasse nella cassetta degli attrezzi della teoria economica uno strumento adatto a comprendere la natura e le cause della nuova disoccupazione, ne resterebbe profondamente deluso. Si troverebbe tra le mani solo strumenti spuntati, del tutto inadatti a trattare la realtà dei problemi o anche solo a suggerire soluzioni possibili.

La vecchia teoria neoclassica, oggi tornata in auge in seguito ai vistosi insuccessi pratici delle politiche economiche ispirate dal keynesismo, ha da sempre, come è noto, nell’analisi del mercato del lavoro il suo tallone d’Achille. Questo mercato, ammesso che lo si possa definire anche solo come astrazione teorica, su cui si tratta quella merce irriducibilmente anomala che è la capacità lavorativa degli uomini, sfugge da sempre alle asettiche elaborazioni analitiche della teoria neoclassica. Da sempre l’elegante formalizzazione matematica si scontra qui con gli aborriti fattori istituzionali, fonte ineliminabile di imperfezioni e vischiosità nel delicato meccanismo della domanda e dell’offerta. Neppure i trionfalistici schematismi del capofila del monetarismo, Milton Friedman, cui si deve il rilancio dell’impostazione più rozzamente liberista, riescono ad aver ragione della complessa realtà del mercato del lavoro. Per Friedman esiste in ogni momento un “tasso naturale di disoccupazione” che realizza l’equilibrio economico del sistema, tenuto conto delle “effettive caratteristiche strutturali dei mercati del lavoro e dei beni di consumo, comprese le imperfezioni di mercato, la variabilità stocastica delle domande e delle offerte, il costo delle informazioni circa i posti di lavoro disponibili, e così via”[7]. Come dire che, in pratica, ogni livello di disoccupazione sarà sempre “naturale”, in quanto ci sarà sempre qualcuna delle condizioni sopra enumerate a spiegarlo, ovvero, in generale, una qualche limitazione del mercato a giustificarlo. Ma non basta: nella pratica, come lo stesso Friedman riconosce, non c’è modo di stabilire qual è il livello di “disoccupazione naturale” che dovremo aspettarci in determinate condizioni. Non ci resta, quindi, che affidarci alle prescrizioni di politica economica dei monetaristi, le quali consistono sostanzialmente in questo: laissez-faire, laissez-passer, o, se proprio si vuole, tentare di rimuovere gli ostacoli al libero dispiegamento dei meccanismi di mercato, perché questo, secondo il credo monetarista, assicurerà che la “disoccupazione naturale” si attesti, comunque, al livello più basso. In ogni caso, il dogma che sta alla base del pensiero di Friedman come di tutti coloro che in anni recenti hanno riproposto l’approccio neoclassico, è che il settore privato dell’economia è sostanzialmente stabile e, se lasciato a se stesso, libero di funzionare secondo le proprie regole, è sempre in grado di portare il sistema economico nella posizione di equilibrio, in cui la disoccupazione è ridotta al suo “tasso naturale”, che corrisponde a quello della disoccupazione volontaria ossia alla percentuale di coloro che, alle condizioni date, non intendono lavorare. L’esperienza recente di quei paesi in cui l’applicazione dei principi monetaristi è stata più spinta ha largamente dimostrato, ancora una volta nella storia, la loro fallacia. Ma, come ben si sa, la fede non si lascia intaccare dalla cruda esperienza dei fatti.

Non meglio attrezzata per affrontare, analiticamente e praticamente, le manifestazioni della nuova disoccupazione appare oggi l’impostazione keynesiana. La teoria keynesiana, come è noto, nella forma che assume con la pubblicazione della Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta (1936), considera l’esistenza di fattori che tendono a mantenere l’attività economica al di sotto del livello atto ad assicurare la piena occupazione come connaturata al funzionamento del sistema capitalistico in regime di laissez-faire. Il flesso cruciale, nella dinamica economica che conduce alla sottoccupazione, è costituito dal comportamento degli investimenti ed in particolare dalla loro variabilità. Gli elementi da cui dipendono, nell’analisi keynesiana, le decisioni d’investimento possono far sì che, in determinati casi, l’atteggiamento speculativo che punta sulla forma finanziaria della ricchezza prevalga sulla scelta di dar luogo alla combinazione dei fattori produttivi per realizzare un processo di produzione. “La disoccupazione si sviluppa perché la gente vuole la luna: gli uomini non possono essere occupati quando l’oggetto del desiderio (cioè la moneta) è qualcosa che non può essere prodotto e la cui domanda non può essere facilmente ristretta”[8] Il rimedio, per Keynes, era chiaro. Non ci si poteva più affidare alle forze endogene di un’economia capitalistica auto- regolata per realizzare la piena occupazione ed occorreva, invece, ricorrere, piacesse o non piacesse, all’intervento esterno dello Stato per far sì che la domanda aggregata, ed in particolare la sua componente più volubile e al tempo stesso strategica, l’investimento, si mantenesse il più possibile prossima al livello che realizza la piena occupazione. Non interessa discutere qui i modi attraverso cui Keynes riteneva che si potesse raggiungere questo obiettivo. Resta il fatto che questo è il messaggio fondamentale che l’economista britannico ha voluto consegnare alla Teoria generale e a cui si sono a lungo ispirate, in questo dopoguerra, le politiche economiche dei governi occidentali.

Quella che Keynes prende in considerazione, dunque, è un’economia capitalistica matura in cui le occasioni. di investimento si rarefanno e in cui le strutture finanziarie non necessariamente funzionano in modo da assicurare il massimo impiego produttivo delle risorse disponibili. Prende in considerazione, in particolare, una situazione in cui l’investimento va sostenuto e incentivato a fronte di una propensione al consumo che tende a diminuire. La diagnosi keynesiana individua dunque una disoccupazione che ha sì carattere strutturale e permanente in quanto deriva dalla logica di funzionamento di un’economia capitalistica autoregolata, ma che può essere affrontato in una dimensione congiunturale tramite il governo della domanda aggregata. Keynes non prende invece in considerazione una situazione in cui gli investimenti, pur mantenendosi abbastanza sostenuti, producono disoccupazione, non in maniera occasionale ma strutturale. Che è, invece, la situazione cui ci troviamo confrontati oggi.

Non resta, nella cassetta degli attrezzi dell’economista, che il venerando armamentario di coloro che, a partire da Ricardo e passando per Marx, hanno visto nel progresso tecnologico la principale causa di disoccupazione intrinseca al funzionamento del sistema capitalistico. Si tratta, in questo caso, di una disoccupazione che ha carattere strutturale, in quanto è legata alla logica profonda dell’accumulazione capitalistica la quale punta a valorizzare il capitale tramite la formazione di plusvalore relativo, ovvero tramite l’intensificazione della composizione organica del capitale, il che significa, in definitiva, sostituendo progressivamente le macchine al lavoro vivo nei processi produttivi. Si ha così, nell’analisi marxiana, la formazione e la riproduzione di un “esercito industriale di riserva” che, pur attraverso oscillazioni determinate anche dagli andamenti demografici, delinea comunque una condizione di disoccupazione di massa, permanente, che connaturata al sistema capitalistico.

Il tema della disoccupazione tecnologica, è bene ricordarlo, ha anche una versione per così dire, ottimistica, che nella storia del pensiero economico ha il suo massimo esponente in Schumpeter, secondo il quale la disoccupazione provocata dall’innovazione tecnologica ha carattere transitorio in quanto viene, più o meno rapidamente, riassorbita dall’intensificazione dell’attività economica cui il progresso tecnico dà luogo.

Queste due versioni della disoccupazione tecnologica si sono entrambe variamente riproposte entro i tentativi recenti di comprendere l’impatto delle nuove tecnologie, quelle informatiche in particolare, sull’occupazione. Ora, anche se, a mio avviso, la versione “pessimistica” è quella che meglio mette a fuoco le cause tecnologiche della nuova disoccupazione, che tuttavia non sono tutte le cause di questo fenomeno, occorre dire che nessuna delle due versioni riesce a cogliere la natura del cambiamento tecnologico in atto, nel senso dell’affermazione di Leontief sopra ricordata. Neanche la prospettiva tradizionale della disoccupazione tecnologica, infatti, ci fa comprendere che siamo in presenza, oggi, di una “qualità” nuova e diversa delle tecnologie microelettroniche. Si tratta infatti di tecnologie la cui applicazione attraversa tutti i settori produttivi innovandone i processi e con ciò stesso espellendo generalmente forza lavoro, senza che parallelamente si costituisca un nuovo settore capace di trainare un nuovo sviluppo dell’occupazione. E si tratta, inoltre, di tecnologie che non mirano tanto a sostituire operazioni precedentemente svolte dall’uomo, accrescendone la capacità produttiva, ma sostituiscono l’uomo tout court (si pensi alle prospettive aperte dagli elaboratori di quinta generazione). Occorre dunque riconoscere che siamo sulle soglie di un mutamento sistemico del rapporto tra produzione e occupazione e che mancano, allo stato attuale, le condizioni culturali e istituzionali per governarlo.

3. Sulle cause della nuova disoccupazione

Non è possibile comprendere, nella sua complessità, il fenomeno della nuova disoccupazione se non sovrapponendo prospettive analitiche diverse che ce ne offrano, per così dire, una raffigurazione pluridimensionale. Si tratta, più specificamente, di combinare prospettive di breve, medio e lungo periodo con prospettive micro e macroeconomiche, sullo sfondo di una generale visione sistemica della realtà sociale.

In primo luogo, occorre tenere conto di una fase, non si sa quanto lunga, di profonda trasformazione dei sistemi produttivi e, almeno in parte, dei prodotti e del modo di fruirne, dovuta all’introduzione delle tecnologie microelettroniche e, più in generale, da tutte le nuove tecnologie. Molti autori sono inclini ad analizzare queste profonde trasformazioni delle attività produttive della società sulla base dello schema delle onde lunghe, di durata più o meno cinquantennale, elaborato originariamente da Nicolaj Kondrat’ev. Si tratta di uno schema interpretativo affascinante, che sembra in grado di render conto dei grandi ritmi della storia economica, scanditi appunto dalle innovazioni tecnologiche fondamentali, ma che mal si adatta all’analisi del presente essendo la sua una prospettiva più propriamente storica. L’indicazione di questa linea prospettica può nondimeno aiutarci a capire che i fenomeni che ci interessano si collocano, o possono collocarsi, sullo sfondo di un movimento sistemico di lungo periodo, il quale, giunto ad un suo punto di svolta, è probabilmente destinato a ridisegnare radicalmente la configurazione dei sistemi socio-economici in cui viviamo. Colta in questa prospettiva, la disoccupazione attuale va probabilmente letta come il portato e il sintomo, al tempo stesso, di un processo che riduce il tempo di lavoro di cui la società nel suo complesso ha bisogno per riprodurre le condizioni fondamentali della sua sopravvivenza e del suo sviluppo. Le trasformazioni tecnologiche in atto sembrano disegnare le linee di un nuovo modello di accumulazione che non solo risparmia lavoro, ma risparmia anche capitale, in quanto, in tutt’e due i casi, ne privilegia la qualità a scapito della quantità[9]. Da un punto di vista globale, si tratta di due processi che convergono nel ridurre l’ammontare di tempo di lavoro che la società è in grado di impegnare per la propria riproduzione nelle condizioni date. Dato l’assetto istituzionale esistente, ciò significa che queste dinamiche sono destinate di per sé a riprodurre disoccupazione. Solo un diverso assetto istituzionale, mosso da valori diversi, potrebbe tradurre questa “mancanza di lavoro” in disponibilità di tempo libero.

Se dalle prospettive secolari dei cicli di Kondrat’ev, scendiamo rapidamente a prospettive di medio periodo, dobbiamo riconoscere che uno dei fattori che maggiormente ha pesato nel produrre disoccupazione in Italia è stata la politica economica persistentemente perseguita dai governi che si sono succeduti alla guida del Paese. La scelta di combattere l’inflazione ricorrendo al metodo brutale, ma in qualche modo efficace, della recessione ha avuto, come negli altri Paesi dell’Occidente, un ruolo decisivo nel far sì che la disoccupazione di milioni di cittadini fosse il prezzo sociale da pagare ad una fase di restaurazione dei poteri e di trasformazioni produttive. Al di là delle dichiarazioni ufficiali dei governi, apparentemente preoccupati di combattere o quantomeno di contenere la disoccupazione, occorre riconoscere che le politiche messe in atto, nonché la filosofia politica ed economica che le ispirava, facevano della disoccupazione uno dei perni necessari della manovra di riaggiustamento. Si è cercato solo di governare, tramite l’istituto della CIG, - la disoccupazione in senso proprio prodotta dalla ristrutturazione delle imprese medio-grandi in considerazione dei costi politici e sociali che essa, intaccando il corpo centrale della classe operaia, avrebbe potuto presentare.

Le politiche recessive dei governi degli ultimi anni si sono dunque innestate su processi di lungo periodo che già producevano disoccupazione, sommando ad essi i loro effetti negativi sull’andamento dell’occupazione. Già questa sinergia perversa basterebbe da sola a spiegare l’elevato e persistente tasso di disoccupazione che caratterizza l’Italia in rapporto agli altri Paesi industrializzati, eccettuata la Gran Bretagna. Ma vi sono presumibilmente altri fattori che concorrono a mantenere basso in Italia il tasso di occupazione. Due, in particolare, mi pare debbano essere citati, uno riguardante la struttura produttiva, l’altro la configurazione del mercato del lavoro con particolare riguardo agli aspetti istituzionali.

La debolezza congenita della struttura produttiva italiana è un fatto noto. Esso consiste, in larga misura, nella particolare dipendenza dall’estero e nello scarso impegno nei settori propulsivi, due circostanze che concorrono a rendere assai limitati e vischiosi i vantaggi che possono venire da incrementi della domanda estera in termini di espansione della produzione e, quindi, dell’occupazione. Il fatto che una parte consistente del capitale italiano sia impegnato in settori protetti, per una ragione o per l’altra, dalla concorrenza internazionale, se ha effetti congiunturalmente positivi, nel senso che tende ad avere un’occupazione stabile, ha nondimeno effetti strutturali negativi in quanto tende a mantenere produzione e occupazione in condizioni stagnanti, puntando al pieno impiego del capitale piuttosto che del lavoro. Secondo questa interpretazione, in altre parole, i settori e le aree protette tenderebbero a mantenere la base produttiva costantemente al di sotto del livello necessario ad assorbire l’offerta di lavoro determinata dagli andamenti demografici.

Altrettanto note sono le caratteristiche del mercato del lavoro che accrescono la discrepanza tra domanda e offerta, agendo su quella quota di disoccupazione che potremmo definire, classicamente, “frizionale”. E’ chiaro, infatti, che in tempi di trasformazioni rapide e accentuate dei processi produttivi e quindi delle prestazioni lavorative, un mercato del lavoro in cui l’offerta è organizzata, fondamentalmente, intorno all’asse della rigidità della sua erogazione ed in cui mancano meccanismi di comunicazione efficace delle informazioni si trasforma, da luogo d’incontro della domanda e dell’offerta, in meccanismo di amplificazione delle discrepanze. A tutto ciò bisogna aggiungere, last but not least, la pressoché totale assenza di una politica della formazione professionale orientata al mercato la quale, congiunta alla proverbiale inadeguatezza del sistema scolastico italiano, concorre certamente ad accrescere le “frizioni” che si frappongono all’impiego efficiente della forza lavoro disponibile.

Il quadro del mercato del lavoro in Italia, e in particolare delle dinamiche che influiscono sulla disoccupazione, non sarebbe completo se non ricordassimo altri due fenomeni che certamente si sono intensificati negli ultimi anni. Da una parte, in conseguenza della diffusione internazionale della recessione, è venuta meno una classica valvola sfogo della disoccupazione e della sottoccupazione italiana: l’emigrazione all’estero Anzi si sono probabilmente avuti dei rientri che sono andati ad accrescere la pressione occupazionale nelle zone di origine, anche se bisognerà tenere conto del fenomeno parzialmente compensatorio dell’apertura di nuove attività da parte degli ex-emigrati.

Dall’altra parte, anche in risposta mille strozzature di cui si è sostanziato negli anni scorsi il percorso della crisi economica, è notevolmente aumentato il fenomeno del lavoro sommerso che, secondo valutazioni ufficiali dell’ispettorato del lavoro[10] interesserebbe, complessivamente (ossia comprendendo secondo e terzo lavoro, CIG ecc.), 3.564.500 persone, pari al 9,5% del totale degli occupati nel 1983. Fra questi, il numero di coloro che esercitano, come unica attività, il lavoro nero, si aggirerebbe intorno a 1.900.000 unità nel 1983, fra cui 500.000 immigrati. Come dire che 1.400.000 persone, pari al 6,13% del totale delle forze di lavoro nel 1983, era occupato nel settore sommerso dell’economia e da esso traeva un reddito. E’ chiaro che questi dati, per quanto approssimativi, contribuiscono, da un lato, a rendere meno drammatico il problema della disoccupazione e ne spiegano, almeno in parte, il carattere più “logorante” che “esplosivo” dal punto di vista sociale, ma, dall’altro, delineano un panorama dell’occupazione, e della disoccupazione, ancora più complesso, articolato, segmentato, di quanto normalmente si ammetta.

4. Oltre l’obiettivo della piena occupazione

Se quanto si è fin qui argomentato è anche solo approssimativamente vero, ne consegue in maniera del tutto lineare che il problema socio-economico della nuova disoccupazione non può essere affrontato lungo una sola linea d’attacco, tanto meno se di breve periodo, ma richiede di essere innanzitutto collocato in una più ampia, e lunga, prospettiva di trasformazione degli assetti socio-economici. In questo senso, per esempio, appare inappropriata la parola d’ordine della riduzione dell’orario di lavoro, intesa come strumento capace di incidere immediatamente sulla realtà della disoccupazione. La riduzione dell’orario di lavoro è piuttosto una tendenza di medio-lungo periodo, cui si tratta di dare strumenti di supporto e di attuazione, ma non lo strumento risolutore dei problemi occupazionali. Sarà, semmai, il risultato di un lungo processo conflittuale, non la chiave che apre, nel breve periodo, la porta di nuovi assetti occupazionali capaci di riassorbire tout court la disoccupazione.

Altrettanto inadeguate appaiono, in questa prospettiva, le misure di job creation variamente progettate e attuate, spesso con la mobilitazione di ingenti risorse. Non si vuol dire, ovviamente, che non debbano essere tentate esperienze di questo genere, che non si debbano promuovere e sostenere attività nuove, soprattutto se indirizzate nel solco delle innovazioni tecnologiche o, comunque, del riadeguamento degli apparati produttivi e dei servizi. Quello che si intende sottolineare è che queste misure, come anche i vari piani per l’occupazione giovanile (a carico dello Stato) rappresentano, nel migliore dei casi, una cura, per così dire, sintomatologica della disoccupazione. Non vanno alla radice del problema e non sono quindi in grado di risolverlo. Possono solo alleviarne gli effetti negativi. Da questo punto di vista, sarebbe perlomeno auspicabile che una politica attiva del lavoro si muova contemporaneamente su tutte le linee d’attacco sopra richiamate (e altre ancora) in modo da realizzare un mix di interventi capace di contenere al massimo la riproduzione della disoccupazione. E va qui riconosciuto che il piano presentato dal Ministro del Lavoro, De Michelis, nel settembre 1985 (La politica occupazionale per il prossimo decennio) ha perlomeno il merito di muoversi in questa direzione.

Ma la tesi che mi preme avanzare è che le trasformazioni in atto nell’organizzazione della produzione e dei servizi, la cui qualità è evidenziata anche dal fenomeno della nuova disoccupazione, offrono alle forze di sinistra un’occasione progettuale di vasta portata. La scelta della prospettiva entro cui collocare le azioni dei prossimi anni è decisiva. Una scelta di profilo basso, non sorretta da forti innovazioni ideali e teoriche, può risolversi in una mera ratificazione, per quanto duramente contrattata, dei processi in atto, di cui non si è in grado di discutere la logica. Scelte sorrette da una prospettiva di ampio respiro possono invece aprire la strada a rilevanti trasformazioni degli assetti sociali in cui viviamo.

Il flesso strategico che si tratta di cominciare a mettere in discussione, come ancora di recente ha limpidamente argomentato Giorgio Ruffolo, è quello che, nella costituzione materiale e culturale dei nostri sistemi sociali, collega il progresso e il benessere sociale alla crescita economica. È un nesso particolarmente rilevante per il tema che stiamo trattando. Non c’è oggi progetto di intervento sulla disoccupazione che non faccia riferimento risolutivo ad un contesto di ripresa della crescita economica. Lo stesso piano De Michelis, già citato, nonché il Primo rapporto della commissione di indagine sulla povertà (Rapporto Gorrieri), pur ricchi di rilievi critici nei confronti delle modalità del processo di sviluppo che ha caratterizzato l’Italia degli ultimi anni, non riescono tuttavia a pensare la risoluzione del problema della disoccupazione e della povertà se non entro una prospettiva di rilancio della crescita, ossia di sostanziale riproposizione di quel modello. Gli schemi culturali adottati, evidentemente, non consentono di rendersi conto che questa disoccupazione è figlia, anche, di quel modello di crescita ed è destinata a riprodursi con esso. Il modello di evoluzione, e di governo, della società capitalistica imperniato sulla crescita economica a tutti i costi, sull’espansione costante delle attività nonché dei beni e servizi disponibili quale forza trainante del consenso, è giunto, come ormai da più parti e da tempo si rileva, ad una svolta cruciale. Con sempre maggiore frequenza ed intensità esso produce risultati negativi, che minano i fondamenti della sua legittimazione storica: disparità crescenti, spreco delle risorse, inquinamento, congestione, benessere de crescente e costi più elevati, e così via. Si pone oggi, per riprendere una bella definizione di Ruffolo, un problema di “qualità sociale”. Può darsi che nessuno possa o voglia affrontarlo, hic et nunc. Ma non v’è dubbio che esso rappresenti, per la sinistra, una sfida culturale e politica di portata storica.

Affrontato in termini di qualità sociale, il problema della disoccupazione si. stempera e si risolve entro una più generale prospettiva di riallocazione delle risorse in funzione dei bisogni fondamentali, di gestione del tempo della società e degli individui. Bisogna cominciare a guardare alla disoccupazione attuale come al sintomo di una disponibilità (crescente) di tempo, per la società nel suo complesso, che questa non è ancora attrezzata, culturalmente e istituzionalmente, ad utilizzare positivamente. Mancano, allo stato attuale, le istituzioni atte a trasformare questo tempo reso disponibile dalla crescita delle forze produttive in tempo utile per la società. Questa istituzione, lo sappiamo, non può essere il mercato. Non può nemmeno essere, almeno nel breve periodo, una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, che avrebbe probabilmente come effetto quello di accelerare e intensificare la logica della crescita, ponendo le basi di disoccupazione futura. Occorre invece attrezzarsi per governare una lunga fase di transizione, trainata dalle innovazioni tecnologiche, al termine della quale può esserci, in un assetto sociale e culturale profondamente trasformato dalla “rivoluzione silenziosa”, una nuova distribuzione del lavoro nella società e, soprattutto, una nuova ripartizione delle attività che sono governate dal mercato e dallo Stato e di quelle che sono liberamente organizzate dai cittadini, anche nella prospettiva ibrida del “prosumo”.

Uno strumento per porre fin da subito il piede in questa fase di transizione potrebbe essere l’istituzione di un reddito garantito, vista come leva per aprire la strada ad un nuovo modello di sviluppo[11]. Non è un’utopia. È solo un modo diverso di intendere lo Stato sociale, sulla base di valori diversi. Un reddito garantito, inoltre, sarebbe agevolmente finanziabile sulla base di un riaccorpamento dei vari trasferimenti a fini sociali già in essere. Ne costituirebbe, tra l’altro, una razionalizzazione e semplificazione. Ma, quel che più conta, avrebbe l’enorme vantaggio di sganciare la risoluzione del problema della disoccupazione da quello del rilancio della crescita sugli antichi binari. Si aprirebbe così lo spazio per mettere in discussione la qualità sociale dello sviluppo.

È chiaro che tramutare il diritto al lavoro, di ottocentesca memoria, in diritto al reddito e sganciare quindi, almeno in parte, il godimento di un reddito minimo dalla prestazione lavorativa diretta significa intaccate uno dei principi cardine del nostro ordine sociale. Tanto è vero che anche un riformista acuto e, a suo modo, radicale come Ruffolo, sembra considerare quasi immorale una prospettiva di questo genere e preferisce riproporre, come contenuto centrale della politica sociale, l’accesso generalizzato al lavoro. Da quando si è affermata la società industriale imperniata sui rapporti di mercato, il patto sociale che ha assicurato la coesione dei nostri sistemi socio-economici si è basato sul riconoscimento del lavoro come nesso sociale fondante. In questo contesto il lavoro, di volta in volta visto come diritto e come dovere, si è posto come ciò che istituisce e fonda la cittadinanza dell’individuo. L’individuo si fa membro della società, e come tale è riconosciuto, nella misura in cui lavora. È chiaro che, a fronte di questo dovere del “cittadino”, la società si è trovata obbligata a garantire sempre a tutti i suoi membri l’accesso a questa condizione di cittadinanza. L’obiettivo sociale della piena occupazione emerge entro questa logica sistemica, allorché ci si rende conto che la disoccupazione, lungi dall’essere un problema esclusivamente economico o assistenziale, mina questo fondamento dell’ordine costituito. Nell’epoca preindustriale la risposta sociale alla disoccupazione è l’assistenza nelle sue mille forme. Nella società capitalistica la risposta non è e non può non essere che una sola: il lavoro. Lo Stato sociale, almeno in una fase della sua storia, ha tutt’al più modificato questa situazione, non ne ha cambiato la sostanza.

E’ utopistico che oggi, alle soglie della società post-industriale, si possa cominciare a porre in discussione la natura fondante di questo nesso sociale, a partire dalle spinte materiali e culturali che già di per sé tendono a rimuovere il lavoro dal centro delle società in cui viviamo? Non è possibile, per un pensiero di opposizione, cominciare a ragionare ed operare nella prospettiva di un nuovo patto sociale che abbia al centro il godimento di un reddito garantito in quanto cittadino e lo sviluppo del tempo libero?

NOTE


[1] Estratto da AZIMUT n° 20 rivista bimestrale di economia politica e cultura – novembre -dicembre 1985

[2] Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, La politica occupazionale per il prossimo decennio, sett. 1985, p. 31. I disoccupati “equivalenti” sono i disoccupati teorici calcolati sulla base del monte ore concesse di CIG.

[3]  W. Leontief, Tecnologia e occupazione, “Il progetto”, n. 18, 1983, pp. 47-51.

[4] CESPE, Per una riformulazione dell’obiettivo della piena occupazione, suppl. al n. 6, giugno 1983, di “Politica ed Economia”.

[5] G. Ruffolo, La qualità sociale, Laterza, Bari 1985, p. 76.

[6] Occorre nondimeno tenere presente che il tasso di attività è calcolato come percentuale delle forze di lavoro statisticamente definite — ossia comprendenti anche gli individui in cerca di occupazione: disoccupati, in cerca di prima occupazione, altri in condizione professionale — ossia inglobando anche le persone che non svolgono effettivamente un’attività lavorativa. Se facciamo riferimento solo agli occupati in senso proprio, la variazione rimane positiva ma diventa di consistenza pressoché trascurabile: + 0,48% contro + 1,21%.

[7] M. Friedman, Il ruolo della politica monetaria. in G. Bellone (a cura di), Il dibattito sulla moneta Il Mulino, Bologna 1972, pp. 263-264; ed. orig.. The Role of Monetary Policy, “American Economic Review”, LVIII (1968), pp. 1-17.

[8] J. M. Keynes. Teoria generale dell’occupazione. dell’interesse e della moneta, Utet, Torinc 1971, p. 378.

[9] Per l’Italia un’analisi che va in questo senso stata svolta da F. Barca-M. Magnani, Nuove forme dell’accumulazione nell’industria italiana, Servizio studi della Banca d’Italia, “Temi di discussione”, n. 52, sett. 1985.

[10]  Ministero del lavoro e della Previdenza Sociale, cit., p. 31.

[11] Contrariamente a quanto spesso si ritiene la proposta di un reddito garantito non è caratteristica della sinistra. Esistono in proposito concezioni differenti e appartenenti pressoché a tutte le posizioni politiche. La proposta forse più famosa e discussa è quella di un”imposta negativa”, avanzata da Milton Friedman in Liberi di scegliere Longanesi, Milano 1979, pp. 120-23. Sulla questione del reddito garantito e sulle sue condizioni di fattibilità è da vedere OECD, L’impôt négatif sur le revenu, Paris 1974. Per una concezione vicina a quella qui proposta cfr. J. Huber, L’innocenza perduta dell’ecologia, Comunità, Milano, 1984 pp. 177 sgg. Per una buona rassegna delle varie posizioni, cfr. X. Greffe, L‘impôt des pauvres. La nouvelle stratégie de la politique sociale, Paris 1978. Per una proposta tecnica di salario minimo garantito applicata al caso italiano, che non discute le implicazioni di carattere socio-economico che sono invece privilegiate nel presente contributo, ma che comunque dimostra la praticabilità d progetti di questo tipo, cfr. A. Bulgarelli, A. Cantaloni, M. Giovine, Smig anche in Italia: la prima proposta concreta, “Politica ed Economia”, n. 12 1983, pp. 23-29.