KEYNES OLTRE KEYNES [1]

Riccardo Bellofiore

1. Per qualche tempo, dopo la vittoria dei socialdemocratici alle elezioni tedesche e il generalizzarsi di governi moderatamente progressisti nel cuore dell'Europa, l'obiettivo di una politica economica alternativa rispetto al neoliberismo dilagante dall'inizio degli anni Ottanta è parso farsi nuovamente realistico. Avrebbe potuto rappresentare un catalizzatore in grado di smuovere la subalternità e l'impotenza in cui si era rinchiusa la cultura politica delle diverse sinistre, di dare orizzonte e respiro alla lotta sociale e di invertire il segno recessivo che aveva marcato la costruzione della moneta unica. Anche da noi la discussione si è accesa vivace attorno al quesito se fosse sensato e praticabile, a fine secolo, un qualche ritorno a Keynes.

Gli eventi politici di quest'anno hanno dato tutt'altra torsione alla dinamica economica e sociale: le dimissioni di Lafontaine, la proposta di 'terza via' avanzata da Blair e Schroeder, le contraddizioni tra la retorica e la realtà del governo Jospin (per non parlare della accelerazione di D'Alema verso le privatizzazioni e la precarizzazione), hanno sancito la sempre più esplicita assunzione del capitalismo anglosassone come modello di riferimento da parte di ciò che resta della vecchia socialdemocrazia e dei suoi nuovi adepti. Sullo sfondo, da un lato, il 'nuovo paradigma' di crescita senza inflazione su cui, si dice, si sarebbero felicemente incamminati gli Stati Uniti mostrando, coi fatti, i frutti meravigliosi del capitalismo globalizzato e liberalizzato e dell'economia dell'informazione e, dall'altro, il 'nuovo ordine mondiale' sanzionato dalla guerra nei Balcani.

Forte è, quindi, la tentazione di accantonare troppo rapidamente la 'prospettiva Keynes', su cui è invece tornato con coraggio Giorgio Lunghini - nel numero 2 della rivista del manifesto - riproponendoci un florilegio di citazioni dal capitolo conclusivo della Teoria generale. Altrettanto comprensibile è l'impulso a vedere nella rapida ascesa, e nell'ancor più veloce declino della seduzione esercitata dalle politiche 'neokeynesiane', nient'altro che un miraggio rapidamente svanito. Pure, a quella tentazione e a quell'impulso si deve, a me pare, resistere, continuando a ragionare su un problema che non si presta a troppo precipitose semplificazioni. Per questo, con accenti diversi da quelli di Lunghini, cercherò di andare oltre la 'prospettiva Keynes', per mettere semmai Keynes in prospettiva.

2.Conviene cominciare a chiedersi se nella situazione economica europea e mondiale esista o meno, oggi, un problema di domanda effettiva: se, insomma, il riemergere in vaste aree del pianeta della disoccupazione di massa sia o meno dovuta (anche!) ad un insufficiente utilizzo della capacità produttiva, o se invece la disoccupazione non abbia esclusivamente origine nel progresso tecnico. È chiaro che, in molti settori, la disoccupazione ha natura tecnologica. Ciò è vero, in particolare, per il lavoro poco qualificato delle grandi imprese manifatturiere, tanto più nel caso delle produttrici di beni di consumo di massa e, ancor di più, se il loro paese di origine è soggetto ad un rapido processo di integrazione internazionale. Un profilo che, non a caso, si adatta bene a quella parte del 'vecchio' triangolo industriale dentro l'Italia costretta alla rapida convergenza nominale imposta dall'adesione alla moneta unica. In un paese a scarsa autonomia tecnologica, il rapporto tra ristrutturazione industriale, la riduzione degli organici e la ridefinizione dell'organizzazione del lavoro non è peraltro una novità di questo decennio, ma risale al passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta. È altrettanto evidente, però, che questo è soltanto un aspetto delle dinamiche attuali.

In generale, il tasso di crescita dell'occupazione dipende dal tasso di crescita della produzione meno il tasso di crescita della produttività. La dinamica del prodotto sociale può cadere al di sotto della dinamica della produttività perché la domanda effettiva cresce poco, e così creare una disoccupazione indotta dal basso livello della domanda di merci. Visto che la domanda di consumi 'segue' le componenti autonome della domanda aggregata - esportazioni nette, investimenti privati, spesa pubblica - viene da chiedersi quale sia stato l'andamento di queste componenti nelle varie aree.

Concentriamoci per adesso sul caso dell'Europa continentale. Qui, negli anni Ottanta, si è venuto imponendo, a partire dalla Germania, un modello di crescita trainata esclusivamente dalle esportazioni. Se una strategia del genere ha luogo in un contesto di politiche restrittive e di generale ristagno della domanda si è, se va bene, in grado di crescere a spese dei concorrenti, ma si finisce comunque per rimanere, prima o poi, intrappolati in una situazione di deflazione generalizzata. Gli investimenti privati sono, infatti, rimasti a livelli insoddisfacenti negli ultimi due decenni, e a ciò ha senz'altro contribuito la crescita degli interessi, nominali e reali, seguita alla 'svolta' monetarista dei primi anni Ottanta avviata dalla signora Thatcher e da Reagan. La spesa pubblica, dal canto suo, è stata compressa in quest'ultimo decennio per adeguarsi ai parametri previsti dal Trattato di Maastricht, prima, e dal 'Patto di solidarietà e sviluppo' siglato ad Amsterdam e Dublino, poi. Benché la situazione dei singoli paesi sia non poco variegata, non pare contestabile che in Europa una strategia di risposta alla disoccupazione di massa debba passare per politiche macroeconomiche di espansione della domanda aggregata.

Il rischio di deflazione da bassa domanda è, comunque, più generale, ed investe anche il continente asiatico. Negli anni Novanta, la crescita lenta e l'accumularsi di squilibri non sono degenerati in crisi generale da sovrapproduzione e in instabilità aperta grazie alla crescita goduta dagli Stati Uniti e all'approfondirsi del disavanzo commerciale di quel paese, l'uno e l'altro favoriti dal ruolo di valuta di riserva mondiale ancora svolto dal dollaro e dalla posizione di Wall Street come centro del capitale finanziario. D'altra parte, il ridimensionamento del peso degli USA nell'economia mondiale impedisce al paese leader di essere in grado di trascinare all'espansione il resto del mondo. L'istituzione dell'euro - nella misura in cui quest'ultima fosse davvero in grado di costituirsi come moneta di riserva alternativa al dollaro - accentua il rischio di fluttuazioni rilevanti e improvvise dei rapporti di cambio, e rafforza il timore di una fuga dal dollaro qualora le contraddizioni della crescita americana si rivelassero prima o poi, come è probabile, insostenibili. L'economia mondiale, in breve, naviga rischiando, da un lato, gli scogli di una crisi da bassa domanda, e, dall'altro lato, quelli della crisi finanziaria.

Di fronte a questa situazione, è comprensibile che il fatto che l'euro nascesse proprio quando i principali governi europei andavano a 'sinistra' lasciasse sperare in una rottura della logica depressiva degli ultimi due decenni. Ciò che giocava, e gioca, contro, è noto. Il passaggio alla moneta unica, per definizione, toglie alle singole economie nazionali l'arma del cambio. La politica monetaria è orientata alla sola stabilità dei prezzi, non alla crescita reale o al pieno impiego. La volontà di condurre i bilanci pubblici in pareggio, se non in avanzo, indebolisce il braccio della politica fiscale. Una politica sovranazionale di ridistribuzione è al momento inesistente, e nulla ne lascia prevedere l'attivazione nel futuro più e meno prossimo. È inevitabile che, se si accetta questo quadro come un dato, come hanno fatto tanto il governo Prodi quanto quello D'Alema, rimanga un'unica possibilità per sostenere attività e occupazione nelle aree relativamente più deboli all'interno dell'Ue: quella della flessibilità del prezzo e dell'uso della forza lavoro.

D'altra parte, è anche vero che l'Europa degli undici costituisce una economia pressoché chiusa, che per di più registra un avanzo commerciale consistente. Sono entrambe condizioni che rimuovono le più facili obiezioni che sono state ripetutamente avanzate contro una crescita trainata dalla domanda, perché allentano di molto il vincolo esterno. Inoltre, la ragione prima di una politica monetaria severa, cioè la presenza di una inflazione sostenuta, è caduta, e al rischio di inflazione si è, semmai, sostituito il rischio di deflazione. Economisti influenti come Modigliani giungono persino a perorare una politica monetaria espansiva da parte dello stessa Banca Centrale Europea allo scopo di far scendere i tassi di interesse e resuscitare, per questa via, la domanda privata di investimenti. Modigliani, come gli altri firmatari del suo Manifesto, è addirittura disposto ad ammettere, in via ipotetica, che, se ciò non fosse sufficiente (come ritiene chi scrive), si dovranno rimuovere i vincoli posti dal 'Patto di stabilità e sviluppo', e si dovrà consentire l'effettuazione di una spesa pubblica in disavanzo.

Su questi timidi accenni di ripresa di un keynesismo del 'breve periodo', bisognerebbe soffermarsi molto di più di quanto non sia possibile in questa sede. Mi limito a trarre tre conclusioni. La prima è che la storia di quest'anno ha dimostrato quanto fosse illusorio contare in una torsione di sinistra del nuovo 'spazio' europeo creato con la moneta unica senza che, contemporaneamente, il ruolo della Banca Centrale Europea, il 'Patto di stabilità e sviluppo', i parametri di Maastricht e, più in generale, le scelte che hanno retto la politica continentale da almeno un decennio, non fossero radicalmente messe in discussione. La seconda è che sbaglierebbe chi da questo deducesse che, pertanto, politiche 'keynesiane' non sarebbero (più) parte essenziale di un programma economico della sinistra. Ora, come un anno fa, un miglioramento delle condizioni dei lavoratori sul mercato del lavoro, nei luoghi di produzione, sul terreno distributivo passa attraverso un intervento di politica economica che comprenda anche un miglioramento delle condizioni della domanda, incentrato sull'espansione coordinata degli investimenti pubblici, su una politica monetaria orientata a tenere bassi i tassi di interesse, e su una politica del cambio 'benignamente' orientata a sfruttare la debolezza dell'euro. Lo dimostra, mentre scrivo, il blocco congiunturale in cui versa ancora l'economia europea, nonostante il succedersi di previsioni di crescita più veloce in futuro, regolarmente smentite; e lo dimostra la quasi parità tra l'euro e il dollaro, frutto non soltanto della buona salute americana ma anche della cronica debolezza del vecchio continente. La terza è che la speranza di una svolta sul terreno della politica economica può contare oggi soltanto sui rischi di crisi che oscurano il futuro del 'nuovo paradigma' americano e del nuovo potere della finanza, e sulla lenta e paziente costruzione di un'opposizione sociale e politica al social-liberismo attualmente dominante.

3. Prima di procedere, credo sia appropriato spendere qualche parola sulla questione, tutt'altro che scolastica, se non sia in qualche modo irragionevole riproporre il lascito 'keynesiano' ad oltre vent'anni dalla sua morte presunta. Ai primi degli anni Settanta, sul manifesto, un bell'articolo di Lucio Magri era efficacemente intitolato, se ricordo bene, "Breve la vita felice di John Maynard Keynes".

Occorre, innanzitutto, sgombrare il terreno dai falsi bersagli. Spesso, nella discussione degli ultimi anni, si è attribuita l'etichetta di 'keynesiano' all'intero trentennio che segue la fine del secondo conflitto mondiale. Il keynesismo di cui si parla sarebbe stato la risposta 'dall'alto' alla crisi della domanda degli anni trenta, indotta dal salto organizzativo e tecnologico, prima di Taylor e poi di Ford, a fronte del sottoconsumo delle masse. Tale risposta sarebbe consistita, per un verso, in una crescita della domanda di consumi parallela alla crescita della produttività, e, per l'altro verso, in una spesa pubblica in disavanzo. È un quadro, bisogna dirlo, alquanto sbrigativo.

Per cominciare, non si può attribuire a Keynes l'idea che i consumi trainino la domanda effettiva e, quindi, il reddito: sono semmai, gli investimenti privati, la spesa pubblica, e le esportazioni nette ad essere le componenti autonome, cioè 'indipendenti' della domanda, che si trascinano dietro i consumi (su cui può incidere la politica delle imposte). In effetti, lo sviluppo postbellico fu prodotto da un eccezionale dinamismo di tutti e tre gli ingredienti della domanda autonoma. In secondo luogo, è bene non perdere di vista il fatto che, nonostante l'inedita crescita dei salari reali, anche nel periodo in questione questi ultimi restarono indietro rispetto alla produttività, e il salario relativo registrò una caduta, secondo la tendenza naturale del modo di produzione capitalistico. In terzo luogo, i bilanci dello stato rimasero in sostanziale pareggio sin quasi alla fine degli anni Sessanta pressoché dappertutto. La vicenda dei disavanzi è storia degli anni Settanta e Ottanta; il che non sminuisce, evidentemente, il contributo alla crescita economica che fu portato da una spesa pubblica che cresceva in assoluto, assieme alle imposte. Per ultimo, ma non da ultimo, va segnalato che politiche dichiaratamente keynesiane non furono attuate, se non a partire dai primi anni Sessanta negli Stati Uniti di Kennedy e di Johnson e, con qualche ritardo, in Europa. Il 'successo' delle politiche keynesiane, guarda un po', si generalizza negli anni Settanta, fuori tempo, per così dire: in presenza di forti spinte inflazionistiche dal lato dell'offerta, e in un contesto non più di cambi fissi e di rigidi controlli dei movimenti di capitale ma di cambi flessibili e di una già marcata deregolamentazione. L'era 'keynesiana', per come viene oggi ricostruita è poco meno che una leggenda Il punto chiave, comunque, è che le condizioni che consentirono la crescita della 'età dell'oro' furono del tutto peculiari e, in quella forma, irripetibili. Quel 'miracolo' capitalistico nacque sulla base di determinate condizioni istituzionali, costruite dalla politica - e che rispondevano agli scontri e alle crisi del periodo tra le due guerre - e il modello in cui si incarnò non poteva non rivelarsi instabile per ragioni interne. Tra le condizioni istituzionali vanno almeno ricordate, oltre all'egemonia degli Stati Uniti e al sistema di cambi fissi ma aggiustabili di Bretton Woods, anche la sconfitta operaia e il definirsi di governi conservatori alla fine degli anni Quaranta; a fronte di tutto ciò, però, la fresca memoria della guerra contro il nazifascismo e il simultaneo costituirsi del blocco sovietico, l'uno e l'altro cruciali nel spingere quei governi ad assumere come proprio l'obiettivo della 'piena occupazione'. Tanto il primato economico degli Stati Uniti su Giappone e Germania quanto la fiducia nel dollaro si rivelarono intrinsecamente fragili e destinati all'autodissolvimento, aprendo un'era di conflitto tra 'regioni' capitalistiche e di crisi nelle relazioni monetarie internazionali. Qualcosa di simile si può dire a proposito della situazione di debolezza del mondo del lavoro in presenza di politiche orientate verso livelli alti e stabili di occupazione. Il coincidere, tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, dell'esaurirsi di tutte e tre le condizioni propizie alla crescita accelerata e globale spiega la crisi del fordismo e apre al conflitto finanziario, produttivo e sociale che si svolge, ancor oggi, sulle macerie delle vecchie istituzioni, piegate ai nuovi interessi.

4. Quel keynesismo che si è disfatto nel corso degli anni Settanta è, in ogni caso, morto, e nessuno potrà resuscitarlo. Vi sono ragioni che inducono alla cautela anche rispetto alla prospettiva, certo dignitosa, di voler recuperare il 'vero' Keynes non soltanto contro il neoliberismo, ma anche contro il vecchio keynesismo 'bastardo'. Queste ragioni sono, schematicamente, le seguenti tre. Per prima cosa, nel Keynes più noto, quello della Teoria generale, è presente una condizione distributiva precisa, secondo la quale il salario reale deve ridursi al crescere della produzione e dell'occupazione; una condizione che presuppone, da parte del movimento dei lavoratori, la rinuncia a mettere in discussione non soltanto la distribuzione del reddito, ma anche la natura e la dinamica della produttività di cui l'andamento del salario dovrebbe mantenersi una variabile dipendente. Seconda perplessità: ancora nel Keynes dell'opera maggiore l'impulso di domanda richiesto per innalzare l'attività produttiva rimane generico, ed esterno alla sfera capitalistica. Induce, infine, alla prudenza la circostanza che lo stesso termine 'piena occupazione' nei 'trenta gloriosi anni' si riferisse in realtà soltanto ai maschi nelle fasce d'età centrali. Questi tre caratteri di una economia 'keynesiana', a ben vedere, sono esattamente i punti su cui si è esercitata la critica, teorica e pratica, di sinistra: con le lotte del movimento dei lavoratori; con la coscienza suscitata dal movimento verde sulla questione della natura; con la rivoluzione femminista.

Resto convinto che la problematica che si pose tra gli anni Sessanta e Settanta, dentro i conflitti sociali, non fu più di tipo distributivo, o di parità ed emancipazione, ma esprimeva una istanza, in senso proprio, di liberazione: una critica materialistica - fondata su movimenti reali - della centralità della produzione, che si prolungava in un interrogativo sulla possibilità di un diverso lavoro, di una diversa tecnologia, di un diverso modo di stare insieme. Un interrogativo estraneo all'orizzonte culturale e politico di Keynes. In questo sta davvero, se si vuole, uno spartiacque storico.

La lunga reazione capitalistica alla crisi sociale degli anni Sessanta e Settanta, che si esprime fenomenicamente come compressione dei profitti, si è inizialmente presentata come mera virata recessiva delle economie e spinta alla deregolamentazione dei mercati, ma con il passare del si è tempo strutturata lungo tre assi che hanno finito per rinforzarsi vicendevolmente, dando luogo a un meccanismo unico coerente dentro cui procede la globalizzazione 'conflittuale' dei nostri giorni: (i) la mobilità sempre più veloce del capitale speculativo, che è stata costruita con determinazione 'dall'alto' e che ha dato luogo a un rinnovato dominio del capitale finanziario; (ii) la concorrenza sempre più intensa tra le multinazionali chiave del settore manifatturiero, di quello dei servizi e di quello finanziario, che ha condotto a quel sovrainvestimento che determina un accumulo di capacità produttiva in eccesso; (iii) la precarizzazione e flessibilizzazione delle condizioni di lavoro, tanto qualificato quanto non qualificato. Il potere della finanza si traduce in una 'norma' di redditività che sembra imporsi, in modo neutro e dall'esterno, ai produttori, e che mira con successo all'intangibilità. La competizione accentuata tra centri di profitto (dapprima tra aziende, poi interna alle aziende) diviene lotta senza quartiere tra lavoratori, ed esige prestazioni sempre più fluide e polivalenti, e quindi una manodopera attiva e gregaria, ad un tempo. Mentre sui mercati finanziari si svolge la lotta per la centralizzazione del capitale che costituisce il prolungamento del conflitto tra multinazionali, sui lavoratori si scaricano le ristrutturazioni permanenti.

A ben vedere, la rinnovata supremazia della finanza e la nuova forma della concorrenza fanno sì che il capitalismo di fine Novecento possa permettersi quanto sembrava inimmaginabile negli ultimi due secoli: la concessione (non generalizzata, ma comunque significativa) alla forza lavoro di una autonomia tecnica dentro cui esistono margini di creatività, demandando al pieno dispiegamento della concorrenza (sui mercati finanziari, dei prodotti, del lavoro) quel controllo impersonale che è necessario per subordinare quella autonomia alla valorizzazione del capitale. Sono questi processi che stanno dietro l'inefficacia, tutto meno che naturale o ineluttabile, della politica economica espansiva a tradursi in aumento di occupazione. Per di più, l'esito inevitabile di queste dinamiche 'oggettive' è l'assenza di autentica progettualità dei soggetti sociali, e la loro subalternità alle forze 'neutre' dei mercati. È, insomma, la forzata messa tra parentesi della domanda di liberazione emersa negli anni Sessanta e Settanta.

5. Le considerazioni che precedono, lungi dallo smentire, confermano che un intervento di politica economica che restituisca forza e parole ai movimenti sociali, e che da questi ultimi tragga vigore, è compito urgente. Se quell'intervento non può non includere (anche) una terapia 'keynesiana' di intervento macroeconomico dal lato della domanda, esso è per forza di cose costretto a qualificarlo in senso strutturale. Deve infatti, da un lato, costruire le premesse istituzionali - per così dire 'macro' e 'micro' - necessarie a ristabilirne l'efficacia, e, dall'altro, tornare ad affrontare i nodi della composizione della domanda, della qualità dell'offerta, della natura del lavoro. Qui Keynes, ad un tempo, è necessario e non ci basta. Vale la pena di ribadirne, in conclusione, il perché con un argomento che potrà a prima vista apparire 'laterale' alla questione, ma che in realtà non lo è, e che ne tocca anzi il centro.

A me sembra che la discriminante oggi più rilevante dentro la sinistra non sia né quella, in certo senso ovvia, tra sinistre di governo e sinistre alternative o antagoniste, né quella, che siamo costretti a ripensare e superare, tra sinistra politica e sinistra sociale. È quella invece tra sinistre che intendono intervenire sul terreno economico e sociale dal lato meramente distributivo, e sinistre che giudicano impossibile contrastare la deriva attuale senza affrontare di petto la questione della qualità del lavoro, della produzione, del nesso sociale. Con una inevitabile semplificazione, si potrebbe dire che il modo con cui vengono usualmente presentate proposte come la riduzione d'orario o il reddito di cittadinanza rientra nel primo orizzonte, quello di riallocare in modo più equo una ricchezza sociale che, si ritiene, il postfordismo produca nuovamente su scala accelerata. Al contrario, tanto l'orizzonte proposto in questo scritto, come anche il suggerimento di riassorbire la disoccupazione mettendo in moto lavori 'concreti', o, ancora, il progetto di traghettare i naufraghi dello sviluppo verso un altrove costituito dal 'terzo settore', nascono tutti dalla acuta coscienza della ineludibilità della questione del modello di società anche quando si devono affrontare le questioni congiunturali.

C'è però qui una differenza di cui è bene avere coscienza, perché investe il giudizio sulla fase e le prospettive, e dà luogo a una biforcazione. Tanto la proposta dei lavori socialmente utili quanto quella del terzo settore concordano nel ritenere non più praticabili le politiche keynesiane non in forza di una flessibilità del lavoro dovuta al conflitto sociale ma in forza del passaggio a una nuova era tecnologica; e l'una e l'altra sembrano accettare la tesi di una obsolescenza del conflitto di classe 'centrale'. Saremmo oramai oltre Keynes e oltre Marx, anche se certo possiamo ancora coltivare la filosofia sociale del primo e la teoria dell'alienazione del secondo. Nelle condizioni date, l'unico percorso possibile si pensa sia quello di aggirare la centralità del comando capitalistico sul lavoro salariato per sviluppare nuove forme di socialità ai suoi margini, riducendo la presa del mercato sulla società. Al capitale, in fondo, si delega la produzione materiale, dentro la quale si ritiene sia stato ormai definitivamente riassorbito l'antagonismo dei produttori diretti. Ciò che sostengo in queste pagine nasce dalla convinzione della falsità del quadro analitico del capitalismo attuale fornito da questi approcci, come anche dalla persuasione che un punto di vista del genere sia illusorio.

Non si tratta né di ridistribuire i frutti del nuovo modello di sviluppo, né di ritagliarsi un 'altrove' dove sperimentare una nuova socialità, semplicemente perché ciò non è possibile. Lo sviluppo capitalistico attuale non può dar luogo a distribuzioni diverse e più eque, perché intrinsecamente inegualitario; né può essere progressivamente svuotato dall'esterno, perché la sua natura è tendenzialmente totalitaria e totalizzante. Diversi e più favorevoli rapporti di classe, e un autentico controllo sociale dell'accumulazione e della distribuzione del reddito, richiedono un paziente lavoro per ritessere i fili del conflitto dentro la produzione e dentro la politica, un lavoro che si proponga come sbocco la messa in questione degli equilibri capitalistici e la ripresa della sfida per un governo generale della società.

Una ripresa rinnovata di parte della riflessione keynesiana sulla politica economica ha senso dentro una lunga marcia che abbia però questa direzione, che riprende esattamente i temi della critica di sinistra a Keynes. È una scommessa difficile, la cui riuscita certo non è garantita, forse sulla carta perfino contraddittoria; ma come si diceva una volta: hic Rhodus, hic salta.

NOTE


[1] La rivista del Manifesto n° 1 dicembre 1998