UN’IPOTESI TRANQUILLIZZANTE DEL CAPITALISMO:
LO SCHEMA NEOCLASSICO.
IL MERCATO DEL LAVORO E IL MERCATO DELLE MERCI

Appunti di un corso[1]

Nell’ambito del dibattito sindacale e politico, negli interventi ufficiali della Banca d’Italia, degli esponenti di governo o della Confindustria, non è difficile ritrovare proposizioni o affermazioni di questo tipo:

1. c’è disoccupazione perché i salari sono troppo elevati;

2. c’è disoccupazione perché gli investimenti sono bassi;

3. gli investimenti sono bassi perché i salari sono troppo elevati.

Queste idee, che vengono espresse in modo più o meno articolato, più o meno sfumato, sono molto diffuse e fanno parte ormai di una certa opinione pubblica negli ambienti politici e sindacali. La seconda e la terza affermazione non sono altro che un’articolazione della prima: la causa ultima della disoccupazione sono i salari troppo elevati.

Le altre due affermazioni sono esattamente simmetriche a questa, nel senso che, secondo questo modo di pensare, se ci troviamo in una situazione in cui i salari sono troppo elevati e ne ammettiamo la diminuzione, alla fine avremo un aumento dei risparmi; se aumentano le risorse risparmiate dell’economia aumenteranno anche gli investimenti e questi a loro volta faranno aumentare l’occupazione (affermazione 2 e 3); in definitiva per raggiungere la piena occupazione ci deve essere un livello adeguato dei salari che permetta un adeguato livello degli investimenti.

Affermazioni di questo tipo trovano la loro razionalizzazione in quella che viene definita la teoria neoclassica, la quale da più di cento anni costituisce il supporto teorico delle idee dominanti nel mondo accademico. La teoria neoclassica nacque intorno al 1870 in Europa e nacque soprattutto come risposta teorica della borghesia alle teorie marxiste. Le affermazioni sopra riportate si inquadrano perfettamente all’interno di una critica della teoria economica accademica alla posizione marxista sul mercato del lavoro.

La rappresentazione del sistema economico su cui si basa la teoria neoclassica consiste nella sua divisione in due grossi mercati: il mercato del LAVORO e il mercato delle MERCI Nella teoria neoclassica ci sarebbe anche un terzo mercato: il mercato dei mezzi liquidi monetari, della MONETA, ma per ora quest’ultimo verrà tralasciato perché in questa teoria la presenza e il funzionamento del mercato della moneta non altera la sostanza dei discorsi che si possono fare limitandosi agli altri due mercati: quello del lavoro e quello delle merci.

Un’idea base del pensiero neoclassico è quella di equilibrio. L’idea cioè dell’esistenza di una condizione, di uno stato in cui il sistema economico viene a trovarsi che lascia tutti soddisfatti, sia i lavoratori che offrono la forza lavoro, sia i capitalisti e gli imprenditori che offrono le merci. In questa situazione (dì equilibrio) i lavoratori sono soddisfatti perché la quantità di forza lavoro che sono disposti ad offrire viene assorbita e quindi c’è piena occupazione (equilibrio sul mercato del lavoro); i capitalisti—imprenditori sono a loro volta soddisfatti perché tutte le merci che questi intendono offrire sul mercato vengono comprate (equilibrio sul mercato delle merci).

Una specificazione dell’idea di equilibrio potrebbe essere questa: l’equilibrio lascia tutti soddisfatti quando sia i lavoratori che i capitalisti si comportano razionalmente, cioè i lavoratori offrono la forza lavoro che è razionale offrire sul mercato del lavoro e la vedono tutta assorbita e i capitalisti—imprenditori offrono la quantità di merci che è razionale offrire sul mercato e questa viene assorbita dalla domanda. Quindi c’è nell’idea di equilibrio un aspetto di soddisfazione complessiva dell’economia e un aspetto di svolgimento razionale delle cose.

E’ intuitivo quanto sia mitico e astratto questo stato del mondo: è uno stato infatti che non corrisponde per nulla alla normalità di funzionamento del sistema economico dove esistono invece disoccupazione e crisi.

I teorici neoclassici, all’obiezione che la condizione di equilibrio non rappresenta la normalità del sistema economico, rispondono che ciò è dovuto a delle cause che impediscono al sistema economico di funzionare in modo da raggiungere l’equilibrio, in modo razionale e queste cause di disequilibrio, questi attriti, vengono rinvenuti in fattori istituzionali: per esempio la presenza del sindacato che in qualche modo monopolizza l’offerta di lavoro e consente ai salari di avere un valore superiore a quello di equilibrio, oppure gli interventi dello Stato che turbano il regolare funzionamento del sistema economico.

IL MERCATO DEL LAVORO

La teoria neoclassica sostiene che i due mercati — che in modo sintetico rappresentano i molteplici mercati delle tante merci che ci sono nell’economia — se lasciati a se stessi funzionano in modo razionale e perfetto, perché in essi interagiscono i comportamenti supposti razionali dei lavoratori e degli imprenditori. E’ possibile ricorrere alla rappresentazione grafica di fig.1 per illustrare il funzionamento di questi mercati.

 

 

Fig. 1 Il mercato del lavoro

Nella fig.1 l’asse verticale misura i livelli di salario orario (W). Se si utilizza il salario per ora come unità di misura dei livelli salariali, è opportuno utilizzare le ore lavorate come unità di misura delle quantità di lavoro (N). Le quantità di lavoro rispettivamente offerte dai lavoratori è rappresentato dalla curva No e quelle domandate dalle imprese dallacurva ND.

LA DOMANDA DI LAVORO

E’ importante notare che la domanda di lavoro non è domanda di posti di lavoro da parte dei lavoratori, bensì domanda di ore di lavoro da parte delle imprese. La domanda di lavoro viene rappresentata con una linea più o meno decrescente (ND) fig 1A. Questo significa che il saggio di salario aumenta man mano che la quantità di lavoro che gli imprenditori (supposti razionali) domandano, diminuisce.

 

 

Fig. 1A - La domanda di lavoro

Ad un certo livello dei salario W1 corrisponde una certa quantità di lavoro domandata N1 Se il salario orario fosse superiore a W1 — ad esempio W2 — la quantità domandata sarebbe N2.

I livelli di salario a cui ci si riferisce sono livelli di salario reale, cioè potere di acquisto in termini di merci, di un dato salario monetario che viene percepito dai lavoratori.

Un maggior salario monetario non necessariamente vuol dire un maggior salario reale, perché se ad un aumento del salario monetario si accompagna un aumento maggiore dei prezzi, il salario reale diminuisce dato che si acquistano quantità minori di merci.

Il fatto di ragionare in termini di salario reale consente di lasciare fuori i mutamenti che possono avvenire a livello monetario perché sul piano reale non incidono sulla validità del ragionamento.

Si è detto che l’inclinazione verso il basso della curva della domanda di lavoro corrisponde ad una sottostante razionalità degli imprenditori che domandano lavoro. L’idea è che se il salario reale aumenta, un imprenditore razionale è indotto ad adottare dei metodi produttivi che richiedono proporzionalmente meno lavoro. Dato che il lavoro costa di più, per l’impresa risulta relativamente più conveniente impiegare beni—capitali. L’imprenditore è così spinto ad adottare processi più meccanizzati. Viceversa quando il salario reale si abbassa, l’imprenditore razionale ha convenienza ad adottare processi produttivi meno meccanizzati, in cui c’è una maggiore proporzione di lavoro rispetto ai beni capitali impiegati.

In definitiva se gli imprenditori capitalisti si comportano razionalmente, nel senso di voler rendere massimo il loro profitto, danno luogo ad una curva di domanda di lavoro discendente.

Bisogna tenere presente che, poiché ogni combinazione di salari e occupazione rappresenta la massimizzazione dei profitti per l’imprenditore, ogni punto sulla curva di domanda di lavoro è un punto di equilibrio dal punto di vista dell’imprenditore. Non rappresenta però ancora una situazione di equilibrio complessivo del mercato del lavoro. Ricordando la definizione iniziale di equilibrio, cioè quello stato che lascia tutti soddisfatti, si deve analizzare e rappresentare sul grafico il comportamento dei lavoratori secondo questa teoria e vedere dove si situa il punto di equilibrio complessivo. Il comportamento dei lavoratori è ciò che sta dietro alla curva di offerta di lavoro.

L’OFFERTA DI LAVORO

L’offerta di forza—lavoro da parte dei lavoratori cresce al crescere dei salari, cioè il numero di ore di lavoro che ciascun lavoratore è disposto ad offrire cresce al crescere del salario che per ogni ora di lavoro viene pagato.

Non è così intuitivo come sembrerebbe questo comportamento perché trascura, o definisce come non razionale, il comportamento volto ad una riduzione del tempo di lavoro, che è un problema affrontato dal sindacato insieme a quello sul tempo libero.

 

 

Fig. 1 B – L’offerta di lavoro

La curva No rappresenta l’offerta di lavoro. Il significato dei comportamenti sottostanti a questa curva non richiede grosse spiegazioni se si suppone che i lavoratori sono disposti ad offrire più lavoro se ricevono un salario più elevato. Il comportamento razionale dei lavoratori consiste nel fatto che sono disposti a lavorare di più per livelli salariali più alti, e viceversa, a lavorare di meno per livelli salariali più bassi.

Come ogni punto della curva di domanda rappresenta una situazione che lascia soddisfatti gli imprenditori (perché per ogni livello di salario reale gli imprenditori massimizzano il profitto), così la curva di offerta rappresenta uno stato che lascia soddisfatti i lavoratori, nel senso che massimizza la loro utilità. Se i lavoratori offrono per un certo salario reale una certa quantità di ore di lavoro, vuol dire che la loro offerta massimizza il loro benessere connesso alla possibilità di acquisire merci.

Si potrebbe anche esprimere diversamente questo concetto: un lavoratore decide se inserirsi o meno sul mercato del lavoro valutando il salario reale come compenso per la fatica del lavoro. Poiché effettua questo confronto fra disutilità per la fatica del lavoro e merce che si procura, ciascuno di questi punti rappresenta la soddisfazione massima. Per ottenere un salario molto alto dovrà dunque lavorare molto e fare maggiore fatica.

Se ora si riprende la Fig. 1C, si vede che c’è una particolare situazione (il punto A) che è di equilibrio in senso pieno dato che lascia soddisfatti da un lato gli imprenditori che vogliono massimizzare i profitti e dall’altro i lavoratori che cercano di compensare la fatica percependo un salario che consenta loro di acquistare una quantità di merci che reputano adeguata.

 

 

Fig. 1C – Punto di equilibrio nel mercato del lavoro

Ogni punto della curva di domanda ND lascia soddisfatti solo gli imprenditori; ogni punto della curva di offerta No lascia soddisfatti solo i lavoratori; c’è però un punto che appartiene ad entrambe le linee: il punto A in cui sia i lavoratori che gli imprenditori sono soddisfatti. Esso è un punto di equilibrio complessivo.

Questa è l’idea più forte di equilibrio. L’altra idea di equilibrio è che per questo salario reale la quantità domandata e la quantità offerta si eguagliano, quindi vi è piena occupazione: cioè tutta l’offerta di ore di lavoro da parte dei lavoratori è assorbita dalla domanda degli imprenditori. Poiché  tutto il lavoro è impiegato, si ha piena occupazione.

Naturalmente le due idee di equilibrio — l’uguaglianza fra domanda e offerta di lavoro, e piena soddisfazione di capitalisti e contemporaneamente di lavoratori — sono strettamente interconnesse, dato che in pratica vogliono dire la stessa cosa.

Naturalmente qui si rivela un “trucco” per il sindacato: si vede subito che cosa succederebbe, secondo questo schema, se per esempio il sindacato riuscisse con la contrattazione ad ottenere un livello di salario reale pari a W2. In questa situazione si avrebbe una domanda di lavoro pari a N2 che lascia soddisfatti gli imprenditori, ma l’offerta di lavoro desiderata dai lavoratori per compensare la pena subita nel lavorare quel numero di ore sarebbe pari a N3.

Questa differenza, il segmento BC, misura la differenza fra offerta e domanda di lavoro. Ne consegue che l’esistenza di questa disoccupazione è imputabile al fatto che il salario reale è “troppo” elevato. Si pone “troppo” fra virgolette in quanto esso è riferito rispetto al punto di equilibrio. Se i lavoratori accettassero di far cadere il salario reale più in basso, verso il livello W1, la disoccupazione verrebbe assorbita: perché da un lato si riduce l’offerta e dall’altro aumenta la domanda. Si arriverebbe quindi al punto di equilibrio in cui la disoccupazione non esisterebbe più perché domanda e offerta coincidono.

Questa è la rappresentazione del funzionamento del mercato del lavoro secondo la teoria neoclassica. Essa rappresenta l’evidente supporto teorico per scoraggiare il sindacato a chiedere salari “troppo elevati”. E’ chiaro a questo punto il significato di “troppo elevati”: “troppo” rispetto al livello di equilibrio.

Le curve che abbiamo esaminato si trovano in una certa posizione, e non più in alto o più in basso, essendo date le condizioni culturali, sociali, storiche ecc. di quell’intervallo di tempo che rappresentano. In particolare sono date dal contesto culturale per quanto riguarda la curva di offerta e dalla razionalità dell’imprenditore per quanto riguarda la curva di domanda. Nell’ambito di questa teoria per razionalità dell’imprenditore si intende la massimizzazione dei profitto. Ma nella realtà non è affatto detto che i capitalisti —imprenditori abbiano sempre o solo questo obiettivo — ad esempio i capitalisti —imprenditori possono avere interesse a che ci sia un certo margine di disoccupazione, per tenere bassi i salari e controllare la combattività dei lavoratori.

Val la pena di notare infine la “bellezza” di questo schema. Se questo schema fosse vero, come gli economisti neoclassici lo intendono, vivremmo nel migliore dei mondi possibili nel senso che esisterebbe una situazione dell’economia in cui tutti sono contentissimi. Questo è abbastanza importante perché è facile pensare in termini moralistici al comportamento dei capitalisti: i capitalisti sono cattivi, sfruttano gli operai perché godono nel fargli male. Questo è uno schema che dimostra invece che, anche perseguendo il proprio interesse primario, non esiste conflitto di classe: è perfettamente possibile che, da un lato, i capitalisti rendano massimo il loro profitto e, dall’altro, i lavoratori rendano massima la loro soddisfazione. Se il conflitto di classe non esiste, non c’è ragione di nessun intervento ed il  sindacato non ha nessuna utilità; anzi, il sindacato rappresenta un elemento di disturbo del mercato del lavoro, perché se per esempio riesce a fissare il salario al di sopra di quello del pieno impiego, la disoccupazione sarebbe da attribuire al sindacato!

Si tratta, secondo questa teoria, di un mondo che, se lasciato a se stesso, realizza il benessere universale: non c’è bisogno di Stato, non c’è bisogno di sindacato, non c’è bisogno di niente. Questo probabilmente spiega perché questa teoria piaccia tanto in certi ambienti. Il conflitto non esisterebbe, anche se sappiamo tutti dall’esperienza personale che esso esiste ed esistono teorie che spiegano che la sua esistenza.

Questa teoria, che si pone come critica della teoria economica accademica alla posizione marxista, afferma che il mondo capitalistico è un mondo che, se lasciato in pace, realizza il massimo per tutti e così non esisterebbe conflitto, sfruttamento, disoccupazione, crisi. Se si riesce a dimostrare la validità di questa teoria, allora la teoria marxista sarebbe semplicemente sbagliata. Si tratta di un’operazione molto sottile poiché rappresenta un tentativo di dimostrare non tanto che le posizioni marxiste sono, come dire, pericolose, perniciose e solo di parte, ma sono addirittura sbagliate teoricamente. E’ il modo più semplice per liquidarle, almeno in certi ambienti.

Per quanto riguarda l’intervento dello STATO, da un lato questa teoria ne presupporrebbe l’assenza perché l’intervento dello Stato finirebbe per essere un elemento di disturbo che impedisce la realizzazione dell’equilibrio, dall’altro ne ammette la presenza dato che si riconosce allo Stato l’utilità di erogare i cosiddetti beni sociali e servizi pubblici dato che si tratta di beni e servizi utili che le imprese, per varie ragioni, non sarebbero disposte a produrre. Questa teoria ha formulato, nella sezione di scienza delle finanze — ossia nella parte che riguarda appunto il comportamento dell’operatore pubblico, dello Stato, della pubblica amministrazione — degli schemi in cui si dimostra che, se è vero che certi beni e servizi non verrebbero prodotti dai privati imprenditori perché trovano i profitti insufficienti, e però altrettanto vero che questi beni hanno utilità. Poiché esiste una domanda sociale di questi beni, allora è giusto che lo Stato intervenga a condizione di rispettare alcuni criteri, che sono simili a quelli presupposti a riguardo del comportamento razionale dell’imprenditore. Cioè lo Stato diventa lui stesso un imprenditore e produce in modo da massimizzare il profitto e realizzare l’equilibrio anche sul mercato di questi beni.

Esso dovrebbe pertanto praticare, per beni e i servizi sociali erogati, prezzi esattamente uguali a quelli che praticherebbe l’imprenditore privato. Se l’imprenditore privato, per una serie di ragioni, non pensa a produrre questi beni è lo Stato che deve rispondere alla collettività producendoli, facendoli però pagare un prezzo che sia commisurato al costo sostenuto dallo Stato stesso.

IL MERCATO DELLE MERCI

Anche lo schema relativo al mercato delle merci, nella teoria neo-classica, tende a dimostrare che esiste un punto di equilibrio in cui tutte le merci prodotte e offerte dalle imprese sono assorbite dai consumatori o dagli investitori. Quindi l’equilibrio presuppone che la domanda di merci sia uguale all’offerta.

La domanda

Per semplicità si trascurerà l’intervento pubblico e i rapporti commerciali con l’estero e si supporrà che la domanda sia tutta domanda di privati che abitano in un dato Paese. La domanda di merci (D) consiste di domanda a scopo di consumo (C) e domanda a scopo di investimento (I), un misto di impianti, attrezzature, ecc. Questi sono i due tipi di domanda di merci che si effettuano nell’economia. Schematizzando: i lavoratori, in quanto consumatori, impiegano salario per acquistare beni di consumo e le imprese impiegano i loro profitti per acquistare beni d’investimento — cioè ulteriori attrezzature e impianti per aumentare la loro produzione.

Quindi la domanda (D) è data da

D =  C + I.

L’offerta

L’offerta per il complesso delle merci può essere definita come il valore della produzione che gli imprenditori vogliono portare sul mercato e realizzare,  cioè vendere, collocare, ed essa è pari all’incirca ai costi complessivamente sostenuti più i profitti. Sicuramente gli imprenditori intendono realizzare non solamente una quantità di denaro che copra i costi sostenuti, ma anche la parte di profitto.

Si supponga che i costi sostenuti siano soprattutto e quasi esclusivamente costi salariali. Questa semplificazione non altera la validità della teoria.

Se si indica con (W) i salari totali, cioè i salari dell’economia nel suo complesso, e con (w) il salario unitario, l’OFFERTA TOTALE  sarà dunque uguale a:

W + P,

dove (P) sono i profitti complessivi.

Le condizioni per cui ci sia equilibrio sul mercato delle merci è che la DOMANDA sia uguale all’OFFERTA, ossia

C + I = W + P

Se si suppone che tutti i salari vengano spesi in beni di consumo e che il consumo sia effettuato solo dai lavoratori (non si considererà pertanto il consumo dei capitalisti) varrà la seguente identità

C = W.

Affinché si realizzi l’uguaglianza tra domanda e offerta è necessario allora che i profitti (P) siano uguali agli investimenti (I): infatti se C = W, perché domanda e offerta si eguaglino deve essere

I = P.

La condizione che garantisce l’equilibrio sul mercato delle merci è che
profitti = investimenti.

E’ importante sottolineare che per la teoria neo-classica il compito di portare il sistema economico in equilibrio spetta ai capitalisti, i quali provvederanno sempre a garantire l’equilibrio anche sul mercato delle merci. Su questo mercato i lavoratori non hanno nessun peso dato che nel loro insieme spendono tutto il loro salario in solo beni di consumo! Quest’ultima non è poi un’ipotesi così pazzesca, nel senso che in qualche modo il salario è sempre un salario di sussistenza considerato storicamente, non nel senso fisico del termine, ma per il fatto che il salario, essendo il costo di produzione e riproduzione della forza lavoro, non rappresenta altro che ciò che occorre al lavoratore per vivere e per offrirsi nuovamente sul mercato del lavoro.

Sotto questa ipotesi i lavoratori non contano nella determinazione dell’equilibrio sul mercato delle merci dato che tutto dipende dai capitalisti.

E’ possibile esprimere la condizione di equilibrio I = P in un modo non esattamente uguale ma equivalente, ossia che i risparmi siano uguali agli investimenti: infatti se si suppone che tutti e solo i salari sono impiegati per l’acquisto di beni di consumo, l’eccedenza di reddito sui consumi (quello che viene normalmente chiamato nelle relazioni ufficiali RISPARMIO) consiste praticamente in quella parte di reddito che va ai capitalisti sotto forma di profitti; e quindi se i risparmi (S) sono uguali ai. profitti, la nuova condizione di. equilibrio è

S = I.

Il meccanismo che garantisce la realizzazione dell’equilibrio sul mercato delle merci è rappresentato dal grafico seguente Fig 2.

Si riporta sull’asse orizzontale del grafico le quantità risparmiate (S) e le quantità di domanda di beni di investimento (I); mentre sull’asse verticale il saggio d’interesse (i) in termini percentuali, definito come il costo che si sostiene per avere un prestito (il prezzo del denaro).

 

 

Fig.2

Il saggio di interesse è la grandezza rispetto alla quale vengono decisi i comportamenti di risparmio e di investimento — così come il salario era la grandezza rispetto alla quale venivano decisi i comportamenti relativi alla domanda e all’offerta di lavoro rispettivamente dai capitalisti—imprenditori e dai lavoratori. Il saggio di interesse viene concepito come il prezzo delle risorse risparmiate e investite.

E’ il prezzo che pretende colui che risparmia per prestare il suo risparmio; è il prezzo che paga l’investitore per poter effettuare l’investimento.

Per quanto riguarda le decisioni di investimento la teoria sostiene che al diminuire del saggio di interesse (ad esempio da i1 a i2 si effettuano sempre più grandi ammontari di investimenti (da l1 a I2) (Fig 2); infatti tanto più è basso il costo dell’investimento, in pratica il costo del denaro (cioè tanto più basso è il tasso di interesse) tanto più alti saranno gli investimenti effettuati e viceversa.

Questo varrebbe anche nel caso che il capitalista possedesse in proprio il denaro, perché se sul mercato trova un alto tasso di interesse, invece di investire, lo presta ad altri.

Per quanto riguarda le decisioni di risparmio invece avviene il contrario: ci si astiene dal consumo, cioè si risparmia, tanto più quanto più alto è il saggio di interesse. Se ci si astiene dal consumo vuol dire che è più conveniente prestare il denaro risparmiato invece che consumarlo, cioè vuol dire che il saggio di interesse è crescente. Si risparmia di più quando il tasso di interesse è alto i1 (S1) di quando invece è basso i2 (S2) (Fig 2).

La curva degli investimenti è decrescente e rappresenta in ogni suo punto una situazione in cui gli investitori sono soddisfatti. La curva dei risparmi è crescente e rappresenta in ogni suo punto una situazione in cui i risparmiatori sono soddisfatti. C’è un solo punto in cui sia gli investitori che i risparmiatori sono soddisfatti, cioè il sistema è in equilibrio, ed è il punto in cui le due curve si incontrano, ad un saggio di interesse pari ad i3. Investimenti e risparmi si eguagliano: entrambi gli operatori in gioco sono soddisfatti e inoltre in questo punto si realizza l’uguaglianza tra domanda e offerta (infatti S = I è la condizione perché ci sia equilibrio sul mercato delle merci, cioè perché domanda e offerta si eguaglino).

Ciascuna delle curve esaminate riflette comportamenti razionali degli investitori e dei risparmiatori che dipendono dagli usi, dai consumi, dal contesto culturale; dipendono anche dalle conoscenze tecniche del periodo a cui le curve si riferiscono. Inoltre la curva che rappresenta il comportamento dei risparmiatori dipende anche da come il reddito si distribuisce fra lavoratori (salari) e capitalisti (profitti); infatti dal momento che i risparmi provengono prevalentemente o quasi esclusivamente dai profitti, è chiaro che un aumento dei salari fa ridurre i profitti e di conseguenza i capitalisti potranno risparmiare meno. Si supponga che al tempo 1 ai capitalisti venga distribuito un ammontare di profitti (P1); in corrispondenza di un certo saggio di interesse (i1), i risparmi che i capitalisti possono permettersi di fare sono S1 (Fig.3).

 

 

Fig. 3

Ma se cambia la distribuzione del reddito, poichè aumentano i salari a scapito dei profitti,  a parità di tasso di interesse i risparmi diminuiranno. Questo cambiamento è rappresentato dalla Fig. 3, in cui la curva S si sposta verso sinistra divenendo S’: i risparmi nella nuova situazione saranno pari ad S2, minori dunque di S1.

Riprendendo il grafico di fig.4, si cercherà di vedere cosa succede quando, partendo da una situazione di equilibrio i3 il saggio di interesse si alza (ad esempio divenendo i1): il risparmio in questo caso sarà pari a S1 (che è maggiore del risparmio di equilibrio) mentre gli investimenti saranno pari a I1

 

 

Fig 4

In questo caso non tutte le risorse risparmiate sono assorbite dall’investimento
(S1 — I1 = AC) e la domanda non è pertanto sufficiente ad assorbire l’offerta. Il tasso di interesse allora inizia a scendere da i1 fino a quando si determina l’uguaglianza tra S ed I; il tasso di interesse scende perché il risparmio offerto non viene chiesto per fare investimenti: il suo prezzo allora cade. Questa caduta da un lato fa diminuire il risparmio offerto, dall’altro fa aumentare gli investimenti domandati fino a quando si realizza l’equilibrio. Se il tasso di interesse dalla situazione di equilibrio i3 cade in basso (i2) il meccanismo funziona nello stesso modo, ma per riportare il tasso di interesse verso l’alto.

Il problema della domanda quindi non esiste: c’è sempre la garanzia che la domanda eguagli l’offerta, ossia che il risparmio eguagli gli investimenti, e, ciò, grazie al fatto che il saggio di interesse si muove in modo da far sempre combaciare domanda e offerta.

Confrontando i due mercati che sono stati esaminati, quello del lavoro e quello delle merci, si possono trarre alcune considerazioni conclusive.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro si è visto che se il saggio salariale è “troppo” elevato (W2), rispetto al livello che garantisce l’equilibrio (W1), si ha un eccesso di offerta sulla domanda, cioè c’è disoccupazione (A-B). Contemporaneamente succede che, a causa del fatto che il salario reale è troppo elevato, i profitti risulteranno minori ed i risparmi, a parità di tasso di interesse, saranno bassi (S’). E’ possibile ugualmente realizzare l’equilibrio sul mercato delle merci ma con un saggio d’interesse più alto e meno investimenti (punto io, So, Io).

 

 

 

 

 

NOTE


[1] Appunti del corso “Alcuni elementi di economia politica” tenuto fra il febbraio ed il maggio 1980 a cura dell’Ufficio Formazione Provinciale della FLM Milano dal Prof. Lorenzo Rampa dell’Istituto di Scienze economiche e sociali dell’Università di Pavia.

Il testo delle lezioni è ricavato dagli appunti di alcuni partecipanti al corso e non è stato rivisto e corretto dall’autore. Ne deriva che alcune parti risulteranno meno efficaci ed accurate di quanto siano state nel corso dell’esposizione.