TEORIE POST KEYNESIANE Appunti di un corso[1] È chiaro che l’opera di Keynes ha provocato grandi contrasti, dibattiti, violente contrapposizioni. Non è passata liscia, in sostanza, né tra gli economisti, né tra i politici l’idea keynesiana che lo Stato, intervenendo nell’economia, dovesse mirare a raggiungere la piena occupazione. Sono nate una serie di critiche e repliche, contrapposizioni, ma anche degli sviluppi del pensiero di Keynes. Da un lato ci sono stati gli oppositori (i neo-classici, i nuovi classici, i monetaristi), dall’altro quelli che hanno ripreso Keynes però da due prospettive diverse. DIVERSE INTERPRETAZIONI DEL KEYNESISMO Dall’opera di Keynes sono nati infatti due filoni: un filone che ha cercato di recuperare Keynes dentro la logica neoclassica, come tentativo di mettere insieme la teoria di Keynes e la teoria neoclassica. Ci sono economisti che si dichiarano keynesiani ma che in realtà hanno fatto l’operazione di sposare una vecchia teoria che Keynes aveva criticato con quella di keynes, sposalizio che naturalmente ha comportato dei costi perché queste persone non potevano fare a meno di tener fermi alcuni punti di Keynes. Hanno adattato il resto della teoria neoclassica a certi spunti di Keynes e ne hanno fatto una sintesi che poi è diventata molto diffusa nelle università. Schematizzando si potrebbe dire che si tratta di una interpretazione di Keynes fatta da destra. A quest’interpretazione se n’è contrapposta un’altra che si potrebbe definire, per comodità e non per connotato politico, di sinistra , che si ispira a Keynes e che senza fare alcun sposalizio con la vecchia teoria, mantiene la teoria keynesiana così come è e tenta di approfondirne dei punti o di specificarne altri, oppure di colmare delle lacune. Si ricorda che nell’ambito della teoria keynesiana non c’è, almeno apparentemente, una teoria della distribuzione del reddito fra salari e profitti. Ci sono economisti post-keynesiani che si sono messi a lavorare in questo ambito. Questa anima di sinistra nella interpretazione della teoria keynesiana non è stata maggioritaria nelle università o nelle visioni politiche. Tanto per citare alcuni nomi, con tutte le cautele del caso, l’anima di destra potrebbe essere rappresentata da Samuelson, un economista americano; l’anima di sinistra può essere rappresentata da due economisti: Kaldor e Joan Robinson. Sebbene di due filoni si dichiarano keynesiani, si tratta invece di due anime completamente diverse. Per non tenere una impossibile equidistanza, riassumendo gli uni e gli altri insieme, qui si tratterà dell’anima di sinistra, tralasciando l’altra. L’ INTERPRETAZIONE “DI SINISTRA” DI KEYNES: L’INFLUENZA DI KALECHI Prima di parlare di Kaldor e Joan Robinson, verrà richiamato un economista che non è nè post keynesiano, né neo-keynesiano: Kalechi. E’ un economista contemporaneo di Keynes, un polacco, che ha raggiunto più o meno indipendentemente, in maniera autonoma, alcuni risultati simili a quelli di Keynes, soltanto che ha approfondito aspetti che Keynes non aveva fatto. Kalechi non può essere pot-keynesiano perché è un contemporaneo di Keynes, soprattutto scrive in maniera indipendente, arrivando talvolta alle stesse conclusioni, ma anche a conclusioni un po’ diverse. Non è un neo-keynesiano perché ha creato la sua teoria, che con Keynes non dovrebbe avere punti in comune. In realtà l’opera di questo economista polacco si avvicina molto alla teoria di Keynes tuttavia comprende degli elementi di analisi che Keynes non aveva considerato. In pratica è come se si trattasse dello schema keynesiano completato di quelle parti che non sono presenti nella teoria generale, quale, ad esempio, la teoria della distribuzione. Il vero ispiratore delle teorie post-keynesiane di “sinistra” è Kalechi ed è da questo autore e da quello che ha scritto negli anni ’30 che si deve dunque partire. Kaldor e la Robinson hanno infatti costruito le proprie teorizzazioni partendo sì da Keynes ma seguendo un percorso molto vicino a quello di Kalechi. Per costruire la posizione di questo autore verranno richiamati alcuni punti di partenza, alcune ipotesi. Primo punto: si immagini un sistema economico in cui siano presenti due classi soltanto: la classe dei lavoratori e la classe dei capitalisti. Perché si sottolinea questa ipotesi che è nello schema di Kalechi e che poi sarà la base dei post-keynesiani che parleranno di due classi, lavoratori e capitalisti? Perché questa ipotesi non esiste in Keynes, anche se si può adattare questa ipotesi a quella keynesiana. Keynes aveva descritto i comportamenti di famiglie e imprese: le famiglie che consumano (questo è il loro compito), le imprese che investono se vogliono (e questo è il loro compito). E già questa era una grossa novità di Keynes rispetto ai neoclassici i quali non parlavano di famiglie e di imprese ma parlavano di individui singoli che facevano tutto, decidendo di consumare e di investire. Ebbene, Kalechi rifiuta di parlare genericamente di famiglie e imprese e invece parla di lavoratori e di capitalisti. In questo senso egli introduce di nuovo queste categorie, con l’intento di recuperare in qualche modo quello che Keynes aveva detto in termini di famiglia e di impresa. Si supponga pertanto che il sistema capitalistico sia composto soltanto da due classi, lavoratori e capitalisti, senza altre classi. Si tratta chiaramente di un’ipotesi perché Kalechi sa benissimo che ne esistono altre, ma le cose diventerebbero complesse e non cambierebbero in sostanza il centro del suo ragionamento. Visto che si sta immaginando un sistema un po’ semplice e astratto, Kalechi introduce anche un’altra ipotesi: che il sistema economico sia chiuso, cioè non abbia problemi di commercio con l’estero, ossia né importazioni né esportazioni. Trattandosi di un sistema economico chiuso, si ipotizza ancora che le imprese dei capitalisti formino un unico sottosistema. Il sistema economico viene pertanto diviso in due parti separate: una parte che comprende tutte le imprese e l’altra in cui ci sono i lavoratori. La parte dei capitalisti ha come compito quello di produrre le merci da vendere ai consumatori ed agli stessi capitalisti. Per produrre in un sistema chiuso, in cui non ci sono scambi con l’esterno e in cui le materie prime vengono vendute e comperate nel mercato interno, le imprese dovranno assumere lavoratori e pagarli. L’insieme delle imprese è quindi costretta a ricorrere all’unica risorsa ad essa esterna: il. lavoro. L’unico costo di produzione sarà quindi rappresentato dal costo del lavoro. Come si stabilirà tale costo? Attraverso il sistema della contrattazione sindacale che determina i salari monetari. I capitalisti allora usano i lavoratori per produrre le merci che venderanno a un certo prezzo per ottenere un ricavo che consenta loro di coprire i costi del lavoro e trarre per sé un certo profitto. Ecco allora il comportamento dei capitalisti: assumono i lavoratori che vogliono, pagandoli con il salario contrattuale, che diventa il loro costo complessivo del lavoro, a questo costo complessivo del lavoro aggiungono una percentuale che è per il proprio profitto, e a quel prezzo vendono le merci. L’idea è che il meccanismo funzioni in questa maniera: prima si stabiliscono contrattualmente i salari, poi una volta che si sono stati stabiliti, ossia una volta che sono date le condizioni della produzione, si ricarica un margine di profitto. Questo consente di determinare i prezzi delle merci e di venderle. Se si considera l’insieme del sistema, questo comportamento è quello che determina la distribuzione del reddito (Y). W + qW = Y in cui
Così come i singoli capitalisti, una volta data la massa dei salari (W) fanno un ricarico (q) su questa ( ad esempio un 10%, un 20% ecc) per ottenere il prezzo di vendita dei singoli prodotti, così il valore del prodotto del sistema, ossia il reddito nazionale (Y), sarà dato dalla somma degli insiemi di W e qW. Il modo di funzionare del sistema è quindi il seguente: i salari sono stabiliti dalla contrattazione, i capitalisti nel loro insieme decidono che cosa ricaricare sui salari per determinare il valore del prodotto complessivo del sistema; questa percentuale viene decisa da loro perché quella percentuale calcolata sui costi consente di conseguire il profitto che vogliono ottenere. Secondo questa interpretazione ne deriva che se i salari sono stabiliti contrattualmente, il valore del reddito nazionale dipende essenzialmente da quella percentuale (q). Ad esempio se alle 100 lire di W si aggiunge il 10%., cioè 10, il reddito nazionale sarà uguale a: 100 + 10 = 110. Ma se si ricarica il 20%, allora se si ha 100 + 20 = 120. Quindi il reddito nazionale dipende da questa percentuale che i capitalisti si attribuiscono autonomamente. Questa è una cosa banale, ma così importante, che spiega — secondo Kalechi — come avviene la distribuzione del reddito in un sistema capitalistico. IL «GRADO DI MONOPOLIO» Questa percentuale di ricarico (q) ha un nome secondo Kalechi: si chiama «grado di monopolio». Più sopra si è immaginato l’insieme-imprese, pur sapendo che si trattava di tante e diverse imprese, una più concorrenziale ed una meno. Le caratteristiche di tale insieme viene pertanto a dipendere dall’alto o dal basso grado di monopolio presente nell’insieme. Se c’è molta concorrenza reciproca, allora i capitalisti non saranno liberi di ricaricare, sopra al loro costo, profitti alti; tanto più invece le imprese saranno protette da un buon grado di monopolio, tanto più saranno libere di determinare questo margine. Si è immaginato un sistema economico chiuso dove non c’è concorrenza estera e tutto dipende dalle condizioni interne: se un sistema è fatto di monopoli — e il mondo è fatto di monopoli — quanto più essi saranno forti, tanto più saranno liberi di decidere questo margine (q) e domineranno; tanto più il sistema è invece basato su una forte concorrenza, tanto meno ogni singolo capitalista sarà libero di decidere e quindi tanto più bassa sarà questa percentuale (q). Il grado di monopolio formatosi storicamente, in seguito ad un certo processo di concentrazione delle imprese o di concorrenza, è ciò che determina la distribuzione del reddito. Ecco allora la prima conclusione di Kalechi: la distribuzione del reddito nazionale, la stessa determinazione del reddito nazionale dipende dal margine (q). Si capisce che se si attua questo meccanismo in un sistema economico chiuso, con le ipotesi sopra indicate, la contrattazione sindacale diventa qualcosa di molto strano, nel senso che in realtà dentro questo schema non appare un grande potere del sindacato perché per quanto si stabilisca un salario monetario sul mercato di lavoro, per quanto siano forti i sindacati nella contrattazione, per quanto alto sia il salario, se tutto dipende da questo potere di monopolio di ricaricare sul salario un margine, ne deriva che ai fini della distribuzione del reddito la contrattazione è un qualcosa di inutile. Come si distribuisce infatti il reddito? Il reddito si distribuirà tra salari e profitti, qualsiasi cifra venga stabilita nella contrattazione sindacale, in dipendenza di questo potere di monopolio che sta al di fuori della contrattazione: la distribuzione del reddito è indipendente dalla contrattazione. Per quanto attiene la distribuzione del reddito si potrebbe assumere in qualche modo questa parte di elaborazione di Kalechi come integrazione della teoria di Keynes. È il famoso contributo teorico di Kalechi secondo cui la distribuzione del reddito nazionale viene in qualche modo determinata e condizionata dal potere di monopolio delle imprese. Pur sembrando banale, si tratta di considerazioni importanti, che occorre tener presente per gli effetti che produrrà. LA DOMANDA Se nel sistema. economico esistono due classi, quella dei lavoratori e quella dei capitalisti, classi che hanno il rapporto sopra descritto per quanto riguarda la distribuzione del reddito, ora si vedrà come esse si comportano nella spesa del reddito. In termini Keynesiani si sa che una parte del reddito prodotto viene distribuita alle famiglie che decideranno se risparmiare o consumare. Per Kalechi non esistono “famiglie” in generale, ma famiglie dei lavoratori e famiglie dei capitalisti, che verranno denominati direttamente lavoratori e capitalisti. I lavoratori ottengono i salari (W), che provengono dalla contrattazione collettiva e che spenderanno in consumi. Ecco l’ipotesi che fa Kalechi: suppone che in un sistema economico chiuso i lavoratori spendano tutto il loro salario in consumi, senza risparmiare. E’ chiaro che dato questo presupposto non nasce quel pericolo presente nella teoria keynesiana, secondo cui più cresce il reddito, più la gente risparmia, determinando così un fatto negativo per il sistema. È chiaro che se i redditi dei lavoratori sono bassi, si può ipotizzare che il loro risparmio sia nullo. Ciò non è perfettamente aderente alla realtà: infatti chiunque, anche con redditi bassi, può risparmiare qualcosa, tuttavia si tratta di un’ipotesi alquanto ragionevole. Si prenderanno ora in considerazione i profitti che sono diventati reddito dei capitalisti. I capitalisti hanno profitti (P) stabiliti in base al potere di monopolio che hanno. Cosa fanno di questi profitti? Essi decideranno se consumare o se risparmiare. Mentre per i lavoratori si accetta l’idea che tutto vada in consumi, per i capitalisti si pone l’ipotesi che essi possano decidere se risparmiare o non risparmiare, quanto risparmiare e quanto consumare. Quindi il reddito dei capitalisti (P) sarà in parte consumato (Ck), in parte risparmiato (Sk). Si può ipotizzare dunque che i capitalisti non consumeranno tutti i profitti ma una parte e una parte la risparmieranno: questa parte dei profitti verrà indicata (aP), cioè come una frazione (a) (un quinto, un quarto, un terzo, ecc.) dei profitti totali (P). Si vede quindi che il risparmio, che in termini keynesiani è contrazione del consumo, è qualcosa che potrebbe essere negativo per il sistema, ma esso è una decisione dei capitalisti i quali hanno già deciso, a seconda del loro potere di monopolio e non liberamente, quale parte di reddito attribuirsi. Ma una volta che i capitalisti hanno destinano una parte dei profitti ai consumi e una parte ai risparmi, i consumi dei capitalisti ed i consumi dei lavoratori non esauriscono la domanda effettiva poiché ancora mancano gli investimenti. Gli investimenti sono decisioni che prendono i capitalisti autonomamente e che non dipendono dalle decisioni di consumo e risparmio. Le decisioni di investimento infatti sono decisioni autonome che dipendono dalle previsioni circa la domanda effettiva futura, circa la possibilità di vendere in futuro, circa il fatto di avere profitti in futuro. Sono decisioni autonome tant’è che per esempio i capitalisti potrebbero avere risparmio zero, cioè comportarsi da lavoratori e destinare tutti i propri redditi al consumo, oppure investire lo stesso, ricorrendo al credito bancario. Gli investimenti perciò non dipendono dal risparmio, ma dal credito, dalla possibilità di accedere a dei mezzi prestati per fare gli investimenti. Se le decisioni sono positive, perché si hanno prospettive positive di vendere in futuro, si ricorre al credito, si ottengono i mezzi per investire, andando al di là dei limiti del risparmio dei singoli capitalisti. Fatte queste ipotesi, come si determina il reddito nazionale? Per Keynes il reddito di equilibrio dipendeva da consumi e da investimenti, cioè dipendeva dalla domanda effettiva: se la domanda effettiva era insufficiente allora c’erano merci invendute, se la domanda effettiva era alta, ciò stimolava una crescita della produzione, del reddito e della occupazione. In termini non keynesiani, non si parla più di consumi e investimenti ma di tre componenti: consumi dei lavoratori, consumi dei capitalisti e investimenti. Cosa cambia? Se i lavoratori continuano sempre a consumare il proprio salario non saranno loro la causa di crisi: il sistema cresce, loro spendono; ma se il sistema cresce, sono allora i capitalisti che in proporzione risparmiano di più e che risparmiando di più consumano di meno in proporzione, a porre le premesse della crisi della domanda effettiva: infatti con il crescere del reddito i loro consumi saranno proporzionalmente minori rispetto ai risparmi. Si pongono allora le premesse di merci invendute, di crisi di domanda. Questo diventa quindi un elemento delicato perché più cresce il reddito, più questa classe consuma in proporzione di meno, più si pongono le premesse della crisi. La classe capitalistica, oltre a porre questo problema, ne determina un altro: essendo loro gli investitori, possono fare o non fare investimenti. Si supponga per il momento che gli investimenti vengano effettuati, come ha detto Keynes, assecondando i loro «spiriti animali». Ciò premesso, da dove nasce la crisi? Essa nasce, al crescere del reddito, da una bassa propensione al consumo da parte dei capitalisti e dai bassi investimenti: la crisi deriva soltanto da questi elementi. Quali sono le conclusioni? Il reddito nazionale viene determinato dal grado di monopolio delle imprese: dipende cioè da come questo reddito si distribuisce fra salari e profitti. Tanto più alta sarà la quota che va ai profitti rispetto ai salari, tanto meno si consumerà e quindi tanto più ci sarà il problema di una domanda stagnante e di un reddito in crisi; tanto più alta è la quota che va ai salari tanto più si consumerà, tanto meno ci sarà tendenza alla crisi. Ecco che allora il reddito nazionale viene a dipendere da come esso si distribuisce tra salari e profitti. Ci sarà possibilità di crisi o meno, equilibrio o meno in rapporto alla distribuzione del reddito. È questa una tesi che manca in Keynes ed è una prima conclusione di Kalechi. Seconda conclusione: il reddito che si stabilisce e che influenza il livello della produzione non dipende soltanto dalla distribuzione del reddito ma anche dalla percentuale di consumo e risparmio dei capitalisti: dipende quindi dalla loro propensione al consumo. Terza conclusione: il reddito dipende dagli investimenti che sono comunque decisi in modo autonomo rispetto al resto, essendo decisioni che i capitalisti prendono in maniera autonoma. Se sono chiari questi passaggi, si comprenderà il senso di una famosa battuta di Kalechi: «che i lavoratori spendono ciò che guadagnano, i capitalisti guadagnano ciò che spendono». Sono infatti loro a decidere quanto consumare e quanto investire e queste decisioni sono decisive per stabilire il reddito, il quale sarà poi distribuito ai profitti. Il profitto di domani, cioè il guadagno che ricaveranno, deriva quindi da quello che hanno deciso di spendere. E questo è un modo di Kalechi per ricordare che se non consideriamo come soggetti le famiglie e le imprese bensì le classi, dei lavoratori e dei capitalisti, derivano considerazioni importanti per capire il funzionamento del sistema. Si supponga adesso un’altra condizione finora non considerata: che vi sia anche lo Stato come componente autonoma della domanda. Lo Stato, stampando moneta e intervenendo con la spesa pubblica, può contrastare le scelte libere del capitalista e cercare di riequilibrare il sistema Esso potrebbe, ad esempio, sussidiare i disoccupati e far aumentare i consumi, oppure potrebbe intervenire direttamente con investimenti. In merito Kalechi ha fornito molti altri spunti. Ad esempio circa il modo di raggiungere e garantire la piena occupazione anche se qui si è privilegiata l’importanza da lui attribuita alla distribuzione del reddito per stabilire il livello della produzione e della occupazione. Kalechi ha evidenziato che bisogna aggiungere alle considerazioni keynesiane sulla domanda effettiva anche una analisi sulla distribuzione del reddito, perché se gli investimenti sono una componente autonoma che dipende dalle decisioni dei capitalisti, i consumi — che in ogni sistema economico sono poi la parte più grande della domanda effettiva — dipendono dalle diverse propensioni ai consumi a seconda delle classi. Si introduce allora il concetto di classe sociale e si ricorda che ci sono delle classi che tendono a consumare di più e delle classi che tendono a consumare di meno. Le prime sono quelle che hanno generalmente redditi più bassi, le seconde, più alti. In un mondo diviso in classi non si può appiattire tutto dentro la grandezza C (consumi): ci sono consumi e consumi, ci sono classi che sono costrette o sono portate a consumare di più, ci sono classi che sono portate a consumare di meno. È chiaro che le classi che sono portate a consumare di meno sono le classi più ricche, guarda caso proprio quelle che hanno più alti poteri decisionali: che non soltanto hanno la possibilità di risparmiare, ma che hanno anche il potere di decidere gli investimenti. L’importanza di Kalechi sta proprio in questo aspetto: il rilievo dato alla distribuzione del reddito. Tutto ciò richiama uno dei tre metodi di Kalechi per raggiungere la piena occupazione. Si immagini un sistema economico con disoccupazione. Secondo Keynes come si può risolvere il problema? Con la spesa pubblica. Ebbene, tra i metodi per raggiungere la piena occupazione, Kalechi richiama il metodo della spesa pubblica (il metodo keynesiano è anche di Kalechi) ma a questo ne aggiunge un altro: la redistribuzione del reddito. Un altro modo per raggiungere la piena occupazione, un modo diverso da quello della spesa pubblica è quello di cambiare la distribuzione del reddito. Come si fa a cambiare la distribuzione del reddito in un mondo dove coesistono vari gradi di monopolio e le imprese agiscono coi criteri che sono stati esposti? Il modo per lo Stato di intervenire sulla distribuzione del reddito è quello di agire con la leva fiscale. Esso è uno strumento che può servire per colpire il potere delle imprese monopolistiche di determinare la distribuzione del reddito. Come? Colpendo, ad esempio, di più i profitti e di meno o per niente i salari; intervenendo con un’imposta che colpisce una parte dei profitti e spendendola sotto forma di sussidi di disoccupazione, dando una serie di sovvenzioni ai lavoratori che così aumentano i loro redditi e perciò i consumi. La leva fiscale è sempre vista istintivamente come uno strumento tecnico: tutti paghiamo una percentuale, lo Stato preleva questi soldi e fa un po’ di servizi sociali che servono. Visto così lo Stato appare come uno Stato assistenziale che deve soltanto aiutarci a vivere un po’ meglio. In realtà la leva fiscale è uno strumento politico che consente la redistribuzione del reddito, e poichè esistono diversi comportamenti, la leva fiscale può essere utilizzata per cambiare le cose. Oltre a rispondere a criteri di giustizia, può raggiungere un effetto positivo nell’economia facendo aumentare la domanda di merci, creando la possibilità di venderle, cosicché gli stessi capitalisti se avranno un po’ meno profitti nell’immediato, avranno la garanzia di vendere le merci, di continuare ad espandersi, di continuare a produrre, di rimanere capitalisti e anche probabilmente capitalisti ricchi. Questo metodo ricordato da Kalechi della redistribuzione fiscale si aggiunge alla via keynesiana come alternativa o come complemento per risolvere i problemi dell’economia. Egli evidenzia come la distribuzione del reddito non sia quel fatto sovversivo che qualcuno ha in mente, ma uno dei modi per far vivere ed espandere il sistema capitalistico e non per affossarlo, come in genere si tende a pensare. I POST-KEYNESIANI DI SINISTRA Questi spunti di Kalechi sono ripresi dai post-keynesiani di sinistra, ossia da quegli economisti che riprendono da lui la riflessione sul ruolo centrale della distribuzione del reddito, che appunto in Keynes non c’era. Il punto di partenza di Kaldor e della Robinson è esattamente quello di Kalechi. Si immagini un sistema economico composto soltanto da due classi, la classe dei lavoratori e la classe dei capitalisti; si immagini che dentro questo sistema economico il reddito che viene a prodursi si divida tra lavoratori e capitalisti attraverso i meccanismi descritti: contrattazione collettiva che forma il salario monetario, da un lato e dall’altro i margini di profitto applicati su questi salari. Ciò che questi due autori aggiungono in più è l’eliminazione di quell’ipotesi un po’ troppo forte che era presente in Kalechi, ossia l’ipotesi secondo la quale una volta che siano stabiliti i salari ed i profitti, i salari dei lavoratori vengono interamente spesi mentre i profitti dei capitalisti possono essere o spesi in consumi o risparmiati. Essi suppongono invece che anche i lavoratori possano risparmiare. IPOTESI DI RISPARMIO DEI LAVORATORI Nella loro impostazione quindi i lavoratori ricevono un reddito, una parte del reddito nazionale, che è il loro salario; questo reddito i lavoratori lo destineranno in parte al consumo e in parte al risparmio. Si accetta perciò l’idea che si possa risparmiare anche da parte dei lavoratori oltre che dai capitalisti. C’è però una differenza fondamentale fra le due classi per quanto riguarda le decisioni che vengono prese: la classe dei lavoratori ha una bassa propensione al risparmio perché ha redditi bassi. Si accetta pienamente perciò la legge keynesiana secondo cui a redditi bassi il risparmio è basso o quasi nullo. Esistono pertanto diverse propensioni al risparmio: risparmiano i lavoratori, ma la loro quota di risparmio sul reddito è bassa, mentre i capitalisti hanno un’alta propensione al risparmio. Si supponga che per i lavoratori il risparmio sul reddito sia del 10% e che per i capitalisti sia del 50%. Ne consegue che i lavoratori consumeranno il 90% del reddito ed i capitalisti il 50% del reddito. Il consumo complessivo del Paese sarà pari alla somma di: consumo complessivo = consumo dei lavoratori (C) + consumo dei capitalisti (Ck). Si è adottata un’ipotesi semplice, quella più vicina probabilmente alla realtà, per cui tutti risparmiano ma con diversa propensione: più alta quella dei ricchi, più bassa quella dei poveri. Cosa succede allora quando esistono due classi con diverse propensioni al risparmio? Se sono queste le condizioni, si hanno due possibili quadri di riferimento. Il primo quadro di riferimento si ha quando il sistema agisce in stato di disoccupazione; il secondo quadro quando invece esiste la piena occupazione. Caso di disoccupazione I lavoratori occupati hanno un reddito che consumeranno in gran parte, mentre un’altra sarà risparmiata. I capitalisti consumeranno una parte e la quota maggiore la risparmieranno. Sommando i consumi dei lavoratori con i consumi dei capitalisti ci sarà un consumo complessivo che non copre l’intera produzione, perché i lavoratori risparmiano, ad esempio il 10% ed i capitalisti il 50%; esiste perciò una parte del prodotto nazionale che non viene consumata, non viene domandata. Come potrà essere assorbita questa produzione? Se i capitalisti fanno investimenti possono assorbirla, ma se non lo fanno potrebbe intervenire lo Stato con la spesa pubblica. Lasciando per il ora da parte lo Stato, si ricorda che nel momento in cui i capitalisti intervengono come investitori, le loro decisioni di investimento non vengono assunte calcolando l’ammontare del risparmio del sistema, ma in base a tutt’altri motivi: motivi che sono non il risparmio corrente, ma le possibilità future di vendere le merci e le aspettative più in generale. I loro investimenti sono dunque indipendenti dai risparmi. Una volta attuati gli investimenti, nasce il problema: o gli investimenti sono inferiori al risparmio complessivo o gli investi menti sono superiori al risparmio complessivo. Si ricorda che siamo nel caso di una situazione in cui è presente la disoccupazione. Se gli investimenti fatti in maniera autonoma sono inferiori ai risparmi resterà ancora una parte di produzione non domandata. Questo significa crisi, contrazione della produzione per l’anno successivo; non si è riusciti infatti ad assorbire l’intera produzione e se non interviene lo Stato si scenderà indietro e quindi aumenterà la disoccupazione. Altro caso. Gli investimenti fatti in maniera autonoma dai capitalisti sono superiori ai risparmi: cosa del tutto possibile, perché gli investimenti vengono dall’indebitamento bancario, dal credito, non dai risparmi correnti. Questa è una condizione ideale in situazione di disoccupazione perché gli investimenti superiori al risparmio non soltanto assorbiranno la produzione rimasta invenduta, ma addirittura determineranno un incremento della produzione, che a sua volta determinerà un aumento dell’occupazione e in questo caso sia il reddito che l’occupazione saliranno. In situazione di disoccupazione quindi il problema è rappresentato dagli investimenti decisi in maniera autonoma dai capitalisti: se questi investimenti sono inferiori ai risparmi si scenderà nella produzione, se gli investimenti sono superiori ai risparmi si salirà. Di fronte a questa situazione emerge l’importanza di una spesa pubblica che controlli lo stato della domanda. Condizioni di piena occupazione In questa situazione se gli imprenditori fanno investimenti superiori ai risparmi del sistema e la domanda supera l’offerta di produzione, cosa succederà in condizioni di piena occupazione? Non si può più aumentare la produzione perché c’è la piena occupazione: se c’è piena occupazione non aumenta perciò il prodotto. In questo caso, facendo più investimenti, cioè alzando la domanda rispetto all’offerta delle merci, che non potendo crescere rimane uguale, scoppia l’inflazione. In condizioni di piena occupazione, perciò, se gli investimenti superano i risparmi, c’è inflazione. Quando infatti si ha la piena occupazione non si può spingere ad aumenti di produzione cosicché l’eccesso di investimenti sui risparmi porta all’inflazione. Inflazione significa che se non esistono meccanismi di scala mobile e i salari sono ancora quelli contrattuali monetari, diminuirà la quota dei redditi che va ai salari e aumenterà la quota del reddito che va ai profitti. I lavoratori, pagati con lo stesso ammontare monetario, in assenza di scala mobile vedranno diminuire i loro salari reali mentre aumenteranno i profitti. Si ricorda che i profitti sono la quota del reddito che va alla classe che risparmia di più. Allora con l’inflazione cadono i salari, aumentano i profitti, ma aumentando i profitti aumentano i risparmi perché aumentano i redditi della classe che risparmia di più. In questo caso se si è investito di più, al di sopra dei risparmi, si è messo in moto un meccanismo di inflazione che fa ancora aumentare i risparmi in seguito ad una modifica nella distribuzione del reddito. Quale sarà il risultato finale? Che la posizione relativa dei lavoratori sarà peggiorata e che la quota che va al lavoro sarà minore rispetto alla quota che va ai profitto. Riassumendo: se si è in situazione di piena occupazione un eccesso di investimenti sui risparmi genera inflazione. L’aumento dei prezzi, a parità di salari monetari, fa diminuire i salari reali, fa aumentare quindi la quota che va ai profitti, accrescendo i redditi dei capitalisti: il che significa aumento dei risparmi e con ciò il sistema trova una posizione di equilibrio. A quale condizione però? Quella di aver compresso la parte che va ai salari a vantaggio della parte che va ai profitti. Viceversa, se gli investimenti in condizione di piena occupazione sono minori del risparmio vuol dire che la domanda di merci è inferiore all’offerta di merci prodotte; cadono i prezzi e, cadendo i prezzi, a parità di salario dei lavoratori, aumenta il reddito dei lavoratori e aumentando il reddito dei lavoratori aumenta la loro quota, aumentano i consumi. Succede l’inverso di prima: in questo caso è la quota che va ai salari che si alza, la quota dei profitti si abbassa, perciò aumenta la quota spesa e diminuisce la parte risparmiata dal sistema. Quindi diminuiscono i risparmi perché il reddito si è trasferito a favore dei lavoratori Se si guarda alla realtà di oggi (1981) si vede che ci si trova in una situazione in cui l’inflazione è accoppiata alla disoccupazione. Fatto strano visto che, secondo questa teoria, l’inflazione dovrebbe accompagnarsi invece alla piena occupazione. Se è pur vero che i post-keynesiani aiutano a capire molte cose: come la distribuzione del reddito viene cambiata attraverso l’inflazione, come cambiano i rapporti fra le classi, tuttavia non permettono di comprendere uno stato di inflazione con disoccupazione. Questo è uno dei problemi oggi ancora non risolto [2]. Finora è stata considerata l’importanza delle idee di Kalechi sui post-keynesiani. Ora si vedrà il contributo specifico di Kaldor e della Robinson. IL PROBLEMA DEGLI INVESTIMENTI Questi economisti si sono occupati del seguente problema: da che cosa dipendono gli investimenti? Data l’importanza degli investimenti è necessario indagare a fondo i motivi che spingono i capitalisti a decidere di investire e quanto investire. E’ su questo problema che si sono giocate le differenze tra i neo-keynesiani, tra Kaldor e la Robinson. KALDOR Secondo Kaldor gli imprenditori decidono se effettuare investimenti o quanti effettuarne in base a un certo criterio: quello di mantenere un certo rapporto, deciso autonomamente, tra capitale investito e prodotto che ottengono. Essi decidono cioè la percentuale di utilizzazione degli impianti per loro conveniente: gli investimenti sono in funzione di questa percentuale. Ogni capitalista ha un margine di impianti non utilizzati di riserva, che conserva al fine di far fronte a particolari punte della domanda. Il livello di questa riserva è decisa, secondo Kaldor, sulla base della precedente esperienza. Ebbene, le decisioni sugli investimenti sono prese in maniera tale da mantenere il grado che loro hanno stabilito di utilizzazione degli impianti, rapportando capitale investito e prodotto ottenuto. Questo è uno dei criteri di comportamento dei capitalisti nel fare investimenti. Il loro obiettivo quindi è di fare investimenti solo in previsione di una domanda futura e se essa c’è, essi faranno investimenti tenendo a mente il criterio di investire il “giusto” rapporto tra capitale investito e prodotto. Secondo Kaldor perciò il tasso di sviluppo dell’economia dipende dalle decisioni che i capitalisti hanno preso in maniera autonoma sul grado di utilizzazione dei loro impianti. Quindi se essi hanno deciso, ad esempio, di tenere come riserva il 20%, con una previsione di vendita di un certo tipo, faranno certi investimenti e questo farà crescere l’economia a un certo tasso. Se invece decidono il 21% come scorta, questo fatto, cambiando la massa di investimenti, determinerebbe una crescita diversa dell’economia. JOAN ROBINSON: IL RUOLO DEL MASSIMO PROFITTO Secondo l’economista inglese non è giusto ritenere che la decisione di allargare gli impianti, cioè di fare investimenti, sia sempre così automaticamente legata al mantenimento di un certo tasso di utilizzazione. In realtà, secondo la Robinson, i capitalisti cercano di combinare questo aspetto con un altro assai importante: essi fanno tanti più investimenti quanto più è alto il tasso di profitto che pensano di ottenere. Secondo Kaldor non è tanto importante il tasso di profitto quanto il mantenimento di quel rapporto che determina quel profitto che consente di restare nello stato desiderato. Secondo la Robinson il capitalista è sempre un capitalista e cerca di trarre sempre il maggior profitto possibile. Quindi è vero che guarderà il grado di utilizzazione degli impianti (ormai questo è diventato un comportamento normale dei capitalisti), però le decisioni per i capitalisti sono prese sempre e soltanto in funzione di avere più alti tassi di profitto. L’economia quindi crescerà o diminuirà a seconda che i capitalisti si aspettino di avere più alti tassi di profitto o meno. Quindi in un certo senso la posizione della Robinson è un tentativo di ricordare l’importanza del profitto, mentre Kaldor punta piuttosto il dito su un discorso di mantenimento di potere, di margini di potere, mentre il profitto risulta una cosa secondaria rispetto al resto. OBIEZIONI NEO-CLASSICHE Cosa potrebbe obiettare un neo-classico a queste tesi? Egli potrebbe sostenere che l’obiettivo dell’impresa è quello di investire non per un fatto tecnico di utilizzazione dell’impianto, né per avere più alti profitti, ma di investire per non perdere potere di mercato, potere politico, potere di direzione. Se è questo l’obiettivo, bisogna investire anche se le prospettive sono negative, anche se i profitti sono bassi e gli impianti sottoutilizzati: l’impresa prende decisioni in modo indipendente da questi elementi. Allora l’impresa in un certo modo è costretta a crescere, ad investire pur di mantenere certe condizioni, anche a costo di avere bassi profitti e bassa utilizzazione degli impianti. L’impresa prende decisioni di investire perché è costretta, ma dentro i limiti dei profitti ottenuti: fa investimenti autofinanziandosi. Quindi è importante avere il profitto poiché il profitto è fonte dell’investimento. Sembrano sciocchezze, ma se si pensa a molte imprese private che continuano a fare investimenti anche indipendentemente dai motivi razionali considerati dai neo-keynesiani, ma piuttosto per motivi politici di crescita di potere dell’impresa, ecco che tornano per esse ad essere importanti le fonti di finanziamento degli investimenti, cioè i profitti stessi, quasi ci fosse un automatismo profitti-investimenti. Mentre in tutto il filone keynesiano non c’è questo automatismo, per altre scuole economiche invece i profitti sono importanti per gli investimenti. NOTE [1] Appunti del corso “elementi di economia politica” tenuto nell’autunno del 1981 presso la FLM Milano dal Prof. Francesco Campanella, non rivisti dall’autore. [2] Schematicamente si può ricordare due interpretazioni al proposito. Una prima interpretazione è che in realtà si crede di essere in regime di disoccupazione ma non è vero, perché non si può mettere sullo stesso piano frammenti diversi e non concorrenziali del mercato del lavoro: il ragazzino, la donna, l’uomo, il pensionato. L’altra interpretazione sostiene che ciò accade perché il nostro sistema economico è aperto alle relazioni economiche internazionali. L’inflazione può anche essere importata e un’inflazione importata può coesistere con la disoccupazione interna.
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