TEORIE NEO MARXISTE DELLA CRISI

Appunti di un corso [1]

Premessa

In questa lezione verrà trattato il pensiero dei neomarxisti, cioè dei marxisti dopo Marx, organizzandolo schematicamente in due blocchi:

a) il pensiero dei marxisti che seguono quasi immediatamente Marx, in particolare che seguono Engels, negli anni dal 1890-95 fino alla prima guerra mondiale e poi, nel periodo fra le due guerre (si pensi a Bernstein, Kautsky, Rosa Luxemburg, Lenin stesso, Bukarin;), marxisti che hanno sviluppato un certo tipo di interesse, quali: i problemi della crisi, la crisi del capitalismo, l’imperialismo:

b) il marxismo odierno, o, meglio ancora, il marxismo dopo la seconda guerra mondiale, che ha sviluppato altri tipi di interesse, concentrandosi sul problema della trasformazione dei valori in prezzi.

La differenza consiste nel fatto che l’interesse dei marxisti dopo il 1940-45 non è più rivolto alla teoria del crollo del capitalismo, del ristagno dei capitalismo o del passaggio al socialismo, come era per gli immediati successori di Marx ed Engels, ma si concentra sul problema della teoria del valore-lavoro. Il quesito potrebbe porsi in questi termini: a che cosa serve la teoria del valore - lavoro che Marx sviluppa nel I volume de “Il Capitale” e che poi si porta dietro nei lavori successivi per sviluppare tutta la sua analisi? La risposta prevalente data da loro sarà che la teoria del valore - lavoro (è questo un risultato legato, se non dovuto, a Sraffa) non vale come teoria per la determinazione dei prezzi delle merci.

Valore-lavoro vuol dire che le merci hanno un prezzo che dipende dalla quantità di lavoro che direttamente o indirettamente è incorporato in esse.

Negli ultimi anni il problema è stato quindi quello di capire il rapporto che esiste tra il valore secondo Marx, cioè tra questo contenuto di lavoro che determina il valore, ed i prezzi delle merci sui mercati. E’ questo un problema dell’economia ed è stato anche il punto su cui negli ultimi anni i marxisti hanno dibattuto e su cui si sta ancora dibattendo perché ci sono vari modi di vedere le cose.

Probabilmente questa modificazione di interesse dei marxisti, tra quelli che seguono Marx ed i marxisti odierni, questo cambiamento nell’oggetto di indagine, è abbastanza significativo.

I SUCCESSORI DI MARX ED ENGELS DAL 1980 AGLI ANNI ‘30:
LA CRISI CAPITALISTICA

L’interesse principale per tutti coloro che hanno dato contributi al marxismo sulla linea appunto di Marx e di Engels in quegli anni che vanno dal 1890 fino alla prima guerra mondiale e anche un po’ dopo, perlomeno fino a tutti gli anni ‘20 e parte degli anni ‘30, era in qualche modo il destino del capitalismo: c’era allora la convinzione diffusa che il capitalismo dovesse crollare, sebbene le analisi si differenziassero sui modi e i tempi.

Questi autori avevano in mente che bisognava sviluppare l’analisi di Marx per quello che riguardava il futuro del capitalismo e ovviamente questo in relazione al fatto che più o meno tutti davano per scontato che il capitalismo sarebbe in qualche modo finito (crollato o non crollato, dopo una lunga fase di ristagno o no) e che si sarebbe passati a un modo di produzione differente: il socialismo e poi il comunismo. Quindi l’idea era proprio quella di continuare il lavoro di Marx e l’oggetto di analisi era il capitalismo dei loro tempi, quindi il capitalismo non del periodo di Marx ma di qualche decennio successivo.

Si possono individuare grosso modo tue tipi di posizioni: le posizioni che poi hanno preso il nome di posizioni revisioniste (sempre sul terreno economico ovviamente) che in qualche modo non accettano l’idea che il capitalismo debba per forza scomparire o crollare e che accettano invece l’idea che nel capitalismo ci sono delle crisi che, per l’appunto, non sono viste come un momento il cui il capitalismo crolla, scompare, ma come processi che stanno dentro il sistema di produzione capitalistico, che è contraddittorio, anarchico, determinando fasi di un ciclo economico di depressione cui seguono riprese.

Questa corrente revisionistica sfocia politicamente nella socialdemocrazia tedesca, non a caso, perché in qualche modo riconosce al capitalismo una capacità di durata. Date queste premesse, allora il problema che si pone è quello di intervenire sul sistema economico così com’è per togliervi le asperità, ma non quello di aspettare che muoia o che cada.

Di questa prima corrente, gli autori che forse più lucidamente emergono sono Edward Bernstein e Tugan Baranowsky (uno tedesco e l’altro russo). Successivamente teorici come Kautsky aderiranno a questo tipo di visione di fondo: il capitalismo ha crisi, scompensi, è anarchico, però non deve necessariamente, inevitabilmente, in modo deterministico, meccanicistico crollare.

Si sostiene l’esistenza delle crisi ma si nega l’idea del crollo inevitabile.

Dall’altra parte invece si hanno autori che sono convinti che il capitalismo, per meccanismi suoi intrinseci, debba necessariamente crollare, il crollo del capitalismo diventa un fatto inevitabile che prima o poi dovrà succedere. Grossman nel suo lavoro: “il crollo del capitalismo”, utilizzando un modello matematico basato sui sistemi di produzione di Marx, trova che al 35° anno, dato il modello, il capitalismo è destinato a crollare e dà anche la data esatta dell’evento.

L’idea comune di queste teorie è che per un motivo o per l’altro il sistema capitalistico perviene a una fine, fine inevitabile, necessaria.

Tutto questo, com’è ovvio, ha una ripercussione politica assai diversa da quella che ha la prima teoria di tipo «revisionista».

Attualmente questi studiosi ed economisti marxisti dopo Marx vengono un pochino snobbati dagli economisti, perché magari per questi loro modi di vedere le cose vengono considerati approssimativi, utopistici. Tuttavia occorre mettere in luce due cose.

Anzitutto che a queste teorie economiche aderì non solo Grossman, ma anche Rosa Luxemburg e, in posizione intermedia tra queste due visioni, Lenin e Bukarin. Si tratta di teorici i cui lavori hanno profondamente inciso sul mondo di oggi.

Quando inoltre si parla di questi marxisti, si deve tenere presente che per essi esisteva un collegamento diretto tra teoria economica e politica, collegamento che è molto più difficile ritrovare al giorno d’oggi. Questa connessione era allora ritenuta indispensabile visto che il loro oggetto di indagine era il loro sistema economico reale, quello che avevano sotto gli occhi. Essi avevano sotto gli occhi l’Europa del 1900-1914, quindi l’Europa prima della guerra mondiale del ‘15-’18 e si trovarono ad esaminare i fenomeni nuovi dell’epoca (l’imperialismo, lo scontro tra capitalisti a livello sia europeo che mondiale). Anche questa capacità di collegamento fra elaborazione teorica e analisi dell’oggetto concreto, della realtà economica così com’è, è qualcosa che oggi molti studiosi non riescono più a fare.

L’approccio revisionista

L’approccio revisionista si sviluppa sull’idea che le crisi del capitalismo non sono crisi finali. La teoria di Tugan-Buranowsky, che è grosso modo contemporaneo di Lenin, è che la crisi del capitalismo è “crisi da sproporzioni” conseguente all’anarchia del modo di produzione capitalistico che, per sua natura, deve conciliare le scelte individuali dei singoli capitalisti, fatte in vista della valorizzazione del capitale, del plusvalore, senza tener conto dell’utilità collettiva.

Il problema deriva dunque dalla difficoltà di rendere compatibili tra loro le scelte individuali dei capitalisti, dato che il mercato delle merci ed il mercato del lavoro non sono in grado di ottenerlo. Si osserva infatti che in alcuni settori alcuni capitalisti fanno più investimenti e quindi producono più merci di quelle che poi riusciranno a vendere ed in altri settori invece meno. Questo fatto determina nel sistema economico una sproporzione, e questa crescita non proporzionale del sistema di produzione è — secondo Baranowsky — l’elemento fondamentale delle crisi capitalistiche.

Questo, di per sé, non determina necessariamente alcun problema di crollo né di fine del capitalismo, ma semplicemente una fase di crisi a cui deve seguire un processo di aggiustamento anche duro, ma che alla fine può portare a modificare il capitalismo, a fargli riprendere vigore, energia. La crisi è dovuta, sempre secondo Baranowsky, a una questione di anarchia del sistema per cui i capitalisti sono anche in concorrenza tra loro per cui oltre alla contraddizione fondamentale lavoro-capitale, il capitalismo è caratterizzato anche da una contraddizione tra capitalisti dato che tutti devono realizzare il massimo di plusvalore  per se stessi, anche in opposizione con gli altri capitalisti. Questa è la fonte delle crisi, che sono crisi di sproporzione. Già il nome indica che non si tratta di crisi che inevitabilmente portano alla eliminazione del sistema capitalistico. Queste posizioni vengono riprese dalla Seconda Internazionale, prima da Kautsky e Tugan Baranowsky e dopo di loro da Edward Bernstein il quale esplicitamente sostiene che la teoria del crollo va abbandonata, affermando che Marx pensava al futuro del capitalismo in modo meccanicistico.

Tra questi teorici “revisionisti” che negano la tesi del crollo inevitabile del capitalismo e i sostenitori invece di questa tesi, si potrebbe collocare, in posizione intermedia, Lenin e Bukarin che sostanzialmente sostengono che il capitalismo ha delle forze interne contraddittorie che fanno sì che le crisi aumentino via via sempre di più senza però ritenere che esso morirà necessariamente, magari ricorrendo a dimostrazione matematica.

Tra i sostenitori del crollo si colloca Rosa Luxemburg da cui deriva un approccio che si chiama teoria del sottoconsumo; in sintesi il capitalismo muore perché manca il consumo. Altri, come Grossman, sostengono invece che il capitalismo dovrà crollare perché non ci sarà più plusvalore. Altri ancora — e questa è la teoria che in qualche modo è rimasta più forte, ispirata dal III libro del Capitale di Marx — fanno propria la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto: il saggio di profitto tende a cadere sempre di più, cosicché se è il saggio di profitto a determinare l’accumulazione, con la sua riduzione tendenziale a zero il capitalismo è destinato a scomparire.

Si hanno quindi tre tipi di interpretazioni della crisi:

a) da sottoconsumo;

b) da caduta tendenziale del saggio di profitto;

c) da scomparsa del plusvalore.

Le due più rilevanti sono il sottoconsumo o in generale il problema di realizzazione del plusvalore (il plusvalore c’è, ma non si riesce a realizzarlo perché manca il consumo che ci consente di vendere le merci prodotte a quel valore e di trarne quindi dei profitti); l’altra tesi è quella della caduta tendenziale del saggio di profitto. Tutti questi autori, comunque, anche quelli che pure negano il crollo inevitabile del capitalismo, usano, per ottenere questi risultati, un metodo o per lo meno uno schema di riferimento che si trova in Marx: usano cioè gli schemi di riproduzione allargata del capitale.

C 1+ V1 + S1 = m1              m1 =   beni capitali

C2 + V2 + S2 = m2              m2 =   beni di consumo

Marx nel II volume del Capitale introduce questi schemi di produzione. Si tratta in realtà di equazioni. Un settore (m1) è quello che produce i beni capitali, le macchine; il secondo settore (m2) è quello che produce i beni salari dei lavoratori. C è il capitale costante (cioè le macchine), V è il capitale variabile (cioè i salari), S è il plusvalore o pluslavoro. Nel primo settore noi abbiamo capitale costante C1 (1 vuoI dire che è impiegato nel primo settore), capitale variabile V1 e  S1 come sovrappiù che in totale danno un certo valore m1. Idem per il secondo settore.

Marx misurava questi C, V, 5 e m con quantità di lavoro incorporato. Questo nel secondo libro. Queste equazioni ricompaiono nel terzo volume quando si affronta il problema della trasformazione dei valori in prezzi. Di qui comunque Marx derivava la formula generale del saggio di profitto (r):

r =   =  

La formula sta a significare che il saggio di profitto generale del sistema è il rapporto tra la massa del plusvalore (S) e la massa del capitale costante e variabile (C), macchine e salari (c+v).

Usiamo adesso un passaggio matematico: dividendo sopra e sotto questa espressione per V si ottiene:

r = 

S/V indica il saggio di sfruttamento, cioè il rapporto tra il plusvalore estorto e il salario pagato, ossia tra lavoro non pagato e lavoro pagato; C/V rappresenta invece la composizione organica del capitale, cioè il rapporto tra i due tipi di capitale che ci sono nel sistema; il capitale costituito da macchine o capitale costante e capitale costituito da salari o capitale variabile.

La teoria del crollo del capitalismo che si fonda sull’idea che il saggio di profitto deve necessariamente diminuire, deriva direttamente da questa equazione. Se infatti si dice che i capitalisti sono necessariamente portati all’accumulazione perché il capitale deve continuamente valorizzarsi e accumulano sempre di più con i profitti che derivano dal plusvalore, se si ha una continua crescita dello stock di capitale per cui C ossia il capitale costante (le macchine) aumenterà in relazione alla componente lavoro, cioè al salario. Andiamo verso un mondo sempre più meccanizzato, sempre più ricco di capitale fisso e meno di lavoro, cosicché il rapporto C/V aumenta perché C aumenta sempre di più rispetto a V. Il saggio di sfruttamento S/V in qualche modo aumenta quando aumenta l’intensità di sfruttamento, l’intensità del lavoro: aumenta la intensità del lavoro e allora il lavoratore durante la sua giornata lavorativa dedica una parte sempre maggiore del suo tempo di lavoro al plusvalore.

Però questo saggio di sfruttamento non può aumentare all’infinito dato che la giornata lavorativa è comunque limitata, per cui un lavoratore non potrà lavorare più di 8-10-12 ore, nè tanto meno può lavorare a ritmi forsennati. V può diminuire sempre e rappresenta il salario in quanto lavoro incorporato (Marx ragiona sempre con grandezze che sono misurate non in quantità fisiche di merci ma come lavoro contenuto ed è appunto questa la teoria del valore-lavoro) e allora il salario dei lavoratori misurato come lavoro incorporato diminuisce non solo se si riduce il salario monetario, ma se, a parità di merci, migliorando la produttività nelle industrie che producono beni di consumo per lavoratori o beni salario, esse diventano meno care.

Se la produttività agricola, ad esempio, raddoppia cosicché è necessario la metà del tempo per produrre 1 qle di grano (poniamo una giornata) e se il salario necessario a riprodurre il valore della forza-lavoro è di 1 qle, il valore reale di V (capitale variabile) si dimezzerà al valore di mezza giornata di lavoro.

Allora V può diminuire, ma è anche vero che non può diminuire all’infinito e ci sarà comunque un limite al di sotto del quale non si riuscirà ad andare nel produrre la quantità minima di lavoro necessaria per la sussistenza della forza-lavoro. Mentre invece secondo Marx, o almeno secondo alcune interpretazioni di Marx, non c’è limite teorico alla crescita di C (capitale costante). Non esiste nessun limite massimo all’incremento di C, perché possiamo avere i calcolatori, degli impianti sempre più enormi, perciò non esiste un “tetto” alla crescita. Allora il rapporto C/V può tendenzialmente aumentare più di S/V.

Conclusione: se C/V aumenta più di S/V, il saggio di profitto r tende a diminuire, ad abbassarsi. La caduta tendenziale del saggio di profitto è appunto una tendenza, ma per alcuni marxisti diventa una tendenza in qualche modo inevitabile dovuta al continuo aumento del capitale costante S. Perché, per esempio, per diminuire il contenuto di lavoro del salario reale è necessario introdurre delle macchine in agricoltura, ma la loro introduzione fa aumentare anche C perché sono macchine in più che esistono nel sistema, e ciò controbilancia la produzione.

In qualche modo c’è quindi l’idea che questo aumento del capitale costante, della meccanizzazione, che non ha un limite teorico, ha l’effetto di ridurre il saggio di profitto, generando crisi, e, portando il ragionamento all’estremo, tende ad annullare il saggio stesso di profitto. A quel punto allora il capitalismo dovrebbe bloccarsi, crollare.

Queste teorie sulla caduta del saggio di profitto arrivano a risultati diversi ma tutte usano gli schemi di riproduzione di Marx e la teoria del valore-lavoro. Questi non sono messi in discussione da nessuno. Sia Baranowsky che Bernstein, i quali criticano l’idea del crollo necessario del capitalismo, usano gli schemi di riproduzione  per mostrare che il problema della crisi è attribuibile ad una sproporzione che però, secondo loro, si può aggiustare. Anch’essi comunque ricorrono alla teoria del valore-lavoro ed agli schemi di riproduzione. Questi sono i due strumenti analitici di Marx che vengono usati per tutti gli anni fino al 1940 circa.

Si sottolinea questo aspetto perché questa impostazione analitica non viene più accettata  da parte dei marxisti odierni. Essi negano infatti validità alla teoria del valore-lavoro e, in parte, agli schemi di riproduzione (per lo meno scritti in termini di C, V, S, considerati per il lavoro in essi contenuto). Questi concetti oggi vengono messi in crisi, mentre invece erano ampiamente utilizzati allora da tutti i marxisti, qualunque idea avessero.

LE TEORIE DEL CROLLO

E’ interessante rilevare che in alcuni degli autori che teorizzano il crollo del capitalismo, compreso Rosa Luxemburg, emergeva l’idea era che questo crollo non era tanto lontano nel tempo. Se si pensa all’epoca storica in cui essi vissero, ossia tra i due conflitti mondiali, questa posizione non stupisce affatto. Basti pensare all’effetto sconvolgente che ebbe la I guerra mondiale sui rapporti tra nazioni europee e tra le classi dei singoli Paesi.

L’analisi di Rosa Luxemburg

Rosa Luxemburg è la più autorevole dei teorici del crollo del capitalismo. Secondo la sua concezione il capitalismo è destinato ad una fine a causa del sottoconsumo. Dopo di lei ci sono stati altri autori che hanno ripreso tale questione.

Il problema del sottoconsumo si genera perché il capitalismo è un sistema contraddittorio in cui la contraddizione fondamentale è quella tra lavoro e capitale. Essa se da un lato porta il capitale a tentare continuamente nuove strade con nuove tecnologie, nuove macchine e così via, dall’altra parte porta il capitale a tentare di realizzare il massimo plusvalore semplicemente riducendo il valore del salario, anche in modo diretto e non soltanto attraverso la tecnologia.

Questa contraddizione lavoro-capitale porta così, secondo Rosa Luxemburg, a un tendenziale immiserimento della classe lavoratrice, del proletariato, il quale vede il suo salario, in termini di lavoro continuamente ridotto e in termini reali non aumentato. I lavoratori quindi non possono consumare più di tanto, hanno un consumo definito, limitato e in diminuzione.

D’altra parte i capitalisti, che hanno un plusvalore, potrebbero consumare moltissimo, comperare molte merci, però sono continuamente portati a reinvestire questo plusvalore accumulandolo nella forma di altro capitale costante o altro capitale variabile; il plusvalore cioè va in accumulazione, in nuovo capitale. Aumentando il capitale costante e variabile, aumenterà ancora la produzione di merci. Se si suppone che le tecniche sono più o meno fisse, con più capitale si produrranno più merci, se le tecniche sono invece ancora in progresso, in miglioramento, a maggior ragione aumenta la produzione di merci.

Da un lato allora si avrà che i lavoratori non possono consumare più di tanto, dall’altro che il capitale cresce sempre di più per contraddizioni fra i capitalisti, producendo sempre più merci: ma queste merci a chi saranno vendute?

Qui si inseriscono le teorie che diverranno poi note come teorie dell’imperialismo: il bisogno del capitale nazionale di valorizzarsi non soltanto al suo interno (perché i lavoratori di un certo Paese più di tanto non possono consumare) spinge a realizzare plusvalore anche all’estero, attraverso lo scambio con altri sistemi capitalistici, con altre nazioni.

Però anche questa spinta espansionistica, secondo Rosa Luxemburg, dovrà avere una fine perché il mondo è limitato.

Rosa Luxemburg non pensava soltanto allo scambio di valore prodotto dal modo di produzione capitalistico con altri sistemi, ma anche allo scambio all’interno di una stessa nazione tra il modo di produzione capitalistico, che domina un certo sistema economico, ed altre parti in cui magari sopravvivono dei modi di produzione non capitalistici (di autoconsumo, di produzione mercantile semplice e così via).

Per Rosa Luxemburg quindi ci sono due modi in cui il capitale cerca di realizzare il plusvalore: o stabilendo relazioni imperialisti che fra Stati, oppure estendendosi sempre di più all’interno dello stesso sistema economico, distruggendo man mano forme di produzione diverse dal modo capitalistico. Portato alle estreme conclusioni, questo ragionamento prevedeva un crollo del capitalismo in seguito alla impossibilità di inglobare nuove aree ad esso ancora estranee; a quel punto il capitalismo, cresciuto a dismisura, non potendo più realizzare il plusvalore prodotto, né vendere le merci che la grande massa di capitale investito mette in grado di produrre, si sarebbe avvicinato alla crisi definitiva.

Un altro economista che riprende la teoria del sottoconsumo è Sweezy.

Egli fondamentalmente dà ragione a Rosa Luxemburg, però sostiene che il capitalismo (egli scrive negli anni ‘50 e nei primi anni ‘60) ha sviluppato delle controtendenze al sottoconsumo e quindi il suo crollo non è inevitabile.

Queste controtendenze sono fondamentalmente di tre tipi:

a) c’è stato innanzi tutto in questo secolo un aumento consistente della popolazione e questo di per sé ha aumentato i consumi e quindi la possibilità di vendita;

b) si sono inoltre sviluppati i consumi improduttivi; c’è il consumo dei lavoratori che riproducono la forza-lavoro, c’è il consumo dei capitalisti e la loro spesa per investimenti, ma c’è poi una fascia di consumo improduttivo che è quello di altre componenti del modo di produzione capitalistico.

Il primo economista che ha parlato di questo problema è Malthus. Egli pensava che nell’Inghilterra dei suoi anni i proprietari terrieri avessero il ruolo di garantire il sostegno della domanda di beni; erano improduttivi, ma le loro rendite dovevano servire a garantire che ci fosse la possibilità di vendere le merci. In qualche modo l’idea del consumo improduttivo di Sweezy è simile; questi consumatori sono improduttivi perché non producono plusvalore, però ottengono in qualche modo un reddito all’interno del sistema economico capitalistico; la spesa di questo reddito fa sì che sia possibile realizzare la vendita di queste merci.

Si aprono perciò nuove contraddizioni perché questi consumatori improduttivi sono mantenuti dai lavoratori produttivi. Per Sweezy, all’interno della logica capitalistica lo sviluppo del consumo improduttivo può avere una sua ragion d’essere proprio perché risolve perlomeno parzialmente il problema del realizzo del plusvalore (è solo infatti una controtendenza, non qualcosa che elimina il problema);

c) il problema dell’esistenza dello Stato. È questo un tema assai poco indagato dai marxisti prima di Sweezy. Negli schemi di riproduzione di Marx, nell’uso che di questi schemi di riproduzione hanno fatto la Luxemburg, Lenin, Baranowsky, si suppone sempre in qualche modo che lo Stato sia un’entità sì al servizio della borghesia, ma neutrale rispetto all’intervento economico diretto: lo Stato cioè garantiva ai borghesi di fare quello che volevano, lasciava loro libertà economica. A partire dal dopo-guerra, quando Sweezy scrive, il problema dello Stato è un po’ diverso, perché esso non solo preleva le tasse, garantisce l’ordine pubblico e così via, ma preleva le tasse e le distribuisce in forma di spesa pubblica, di investimenti, di trasferimenti alle imprese ed alle famiglie. È soprattutto grazie ai trasferimenti di reddito effettuati dallo Stato che si può verificare, secondo Sweezy, un aumento del consumo delle merci, perché il trasferimento in sostanza è un prendere o dai lavoratori produttivi o dai capitalisti e dare ad altri partecipanti a questo sistema economico. E così lo Stato, con i suoi trasferimenti, sostiene la domanda.

Keynes è il teorizzatore di questo ruolo statale: la spesa pubblica è una delle componenti della domanda aggregata del sistema. Essa quindi non solo si compone di consumi e investimenti, ma anche di spesa pubblica.

Per Sweezy però questa resta solo una controtendenza. Egli non pensa che il capitalismo crollerà ma che arriverà a una fase di depressione cronica. Il capitalismo a un certo punto sarebbe destinato ad esaurire il suo ruolo di crescita, la sua possibilità di crescita, cadendo in una fase di ristagno permanente, di depressione, di crisi.

ALCUNE VALUTAZIONI RISPETTO
ALLE TEORIE DEL SOTTOCONSUMO E DEL «CROLLO»

Quello che in sintesi si può senz’altro dire su tali tesi, e in particolare su quest’ultima di Sweezy, è che esse pur con componenti meccanicistiche, deterministiche, individuano ed evidenziano alcuni problemi importanti:

1) il fatto che il capitalismo non è un sistema che realizza il massimo benessere collettivo, ma è un sistema intrinsecamente caratterizzato da crisi;

2) che queste crisi diventano, per un motivo o per l’altro, sempre più pesanti e frequenti, anche se certamente hanno una loro evoluzione e modificazione;

3) che non si può ragionare su un sistema economico capitalistico isolato ma coglierlo in relazione al resto del sistema economico internazionale.

La posizione di Lenin

Lenin, ma anche Bukarin, affermano una posizione che sottolinea l’instabilità continua del capitalismo e considerano le crisi una componente necessaria del capitalismo, ma nello stesso tempo non si pronunciano su quello che sarà, ossia sull’evoluzione finale del capitalismo.

C’è un passo di Lenin in cui afferma che non bisogna prendere i modelli matematici come qualcosa da cui ricavare una descrizione fedele e puntuale del futuro della storia. In qualche modo egli critica il meccanismo di certe teorie del crollo, individuando il limite di tutti questi autori, che è quello di pretendere di dimostrare o negare ciò che sarebbe successo al capitalismo usando lo strumento matematico com’era stato proposto da Marx.

La trasformazione dei valori in prezzi

Mentre si svolgevano questi dibattiti molto legati alla storia politica, emergevano altri problemi soprattutto riguardo al III libro del Capitale in cui Marx stesso pone la questione: se valga la teoria del valore nella determinazione dei prezzi e se le merci si scambiano quindi secondo le quantità di lavoro incorporate in esse.

Anche per Marx non esiste un rapporto diretto tra valore di una merce e suo prezzo.

Ciò non toglie che se si ha il valore delle merci (la quantità di lavoro incorporata in capitale costante C, in capitale variabile V ed in plusvalore S) si può in qualche modo riuscire a passare da questi valori a quelli che Marx chiama i “prezzi di produzione” (che sarebbero invece proprio i prezzi che dovrebbero stabilirsi sui mercati). Marx, nel III libro, riconosce quindi che la teoria del valore-lavoro come teoria del reddito non vale direttamente, ma che a partire dai valori, dal lavoro incorporato, si può arrivare alla teoria dei prezzi di produzione, sostenendo che questi sono determinati dalla legge del valore. Marx perciò imposta il problema della trasformazione del valore in prezzi. Siccome nel sistema capitalista vigono le leggi del mercato e gli scambi delle merci avvengono a certi prezzi, Marx afferma che il problema è quello di vedere come si riesce a passare da queste categorie di valore e di lavoro incorporato (che gli permettono di analizzare la distinzione tra capitale costante e capitale variabile, tra lavoro pagato e non pagato) ai prezzi delle diverse merci.

Questo è il problema di trasformare i valori nei prezzi di produzione. Tale problema appartiene alla tradizione marxiana, pure se non con lo stesso rilievo dei problemi legati alla «crisi» del capitalismo.

Due sono gli autori che hanno indagato questo problema del libro III di Marx: uno è Dimitriev, autore russo della fine del secolo scorso e l’altro è un tedesco, Won Borkievitz.

Anche Sraffa si pone lo stesso problema: già negli anni Trenta sottopone a Keynes le sue prime analisi. In esse egli parte ancora dai valori e non, come avverrà poi nel testo pubblicato nel dopo-guerra, dalle quantità fisiche delle merci.

Nel frattempo altri autori si occupano della trasformazione, tra cui Meek, anche se in realtà questo problema resta piuttosto marginale nella economia marxiana e addirittura non esplorato in quella non-marxiana.

Il problema della trasformazione viene ripreso dagli economisti sul finire degli anni ‘50, ma soprattutto negli anni ‘50-’70 e ogni tanto ancora emerge.

Quale è dunque la prima differenza tra i marxisti dell’anteguerra e i marxisti del secondo dopoguerra? Se i primi prendevano Marx e usavano la teoria del lavoro nell’ottica dello sviluppo e della crisi, il problema dopo Sraffa va all’essenza del marxismo, perlomeno per quello che riguarda gli aspetti economici. Si pone cioè il quesito: la teoria del lavoro vale o non vale? Se non vale, cosa rigettiamo di Marx: tutta la sua parte economica? Anche le teorie del crollo del capitalismo che usano la teoria economica del valore-lavoro?

Si arriva al centro del problema del marxismo. Non si tratta più solo di prolungare il lavoro di Marx, ma di decidere se quel lavoro nei suoi contenuti economici funziona o non funziona.

NOTE


[1] Appunti del corso “elementi di economia politica” tenuto nell’autunno del 1981 presso la FLM Milano dal Prof. Gianni Vaggi, non rivisti dall’autore.