MARX: RIPRODUZIONE DEL CAPITALE E CRISI Appunti di un corso[1] Secondo Marx, il sistema economico capitalistico è contraddittorio e ha in sé i germi della propria crisi. Come spiega Marx queste contraddizioni all’interno del sistema economico capitalistico? «L’ ESERCITO INDUSTRIALE DI RISERVA» I capitalisti hanno interesse a mettersi in una condizione di rapporti di forza tali da limitare il più possibile il livello di salario contrattato sul mercato del lavoro. L’elemento che può consentire ai capitalisti di trovarsi in questa posizione di forza è l’esistenza di disoccupati: la disoccupazione è in qualche misura una sorta di ricatto nei confronti degli occupati e quindi delle loro rivendicazioni salariali. Marx introduce il concetto di «esercito di riserva» dei lavoratori, che è assimilabile al concetto di disoccupazione: l’esistenza di quell’esercito di riserva consente di esercitare un ricatto rispetto ad una crescita eccessiva dei salari che ovviamente determinerebbe una contrazione del saggio di profitto. L’idea di Marx è che in momenti di normalità del funzionamento del sistema economico capitalistico, il livello abbastanza elevato del saggio di profitto costituisce uno stimolo a investire in nuovi mezzi di produzione; d’altra parte il fatto che i profitti siano sufficientemente elevati costituisce anche la fonte finanziaria per effettuare gli investimenti. Si supponga allora di trovarsi in una situazione di normalità dal punto di vista capitalistico. Si può immaginare l’economia italiana negli anni Cinquanta: i profitti sono abbondanti e consentono di finanziare gli investimenti, d’altra parte, essendo la percentuale di profitto sul valore della produzione abbastanza elevata, i capitalisti erano anche incentivati ad investire continuamente, cosicché l’economia cresceva. Si supponga che l’economia cresca ad un tasso sufficientemente elevato proprio perché i profitti sono elevati. Se questo avviene senza che i mezzi tecnici vengano variati, non essendoci progresso tecnico o mutamento tecnico, l’accumulazione cresce nella stessa percentuale insieme alla domanda di lavoro addizionale che è necessaria per far aumentare la produzione. Questa crescita della domanda di lavoro prima o poi assorbirà la disoccupazione, vale a dire assorbirà una larga parte dell’esercito di riserva portando l’economia ad una soglia di quasi pieno impiego. Ancora una volta l’esempio storico dell’economia italiana negli anni Sessanta può essere un buon riferimento perché, a fronte di grandi investimenti, una crescita della produzione in quegli anni aveva portato intorno agli anni 1962-63 l’economia italiana ad un livello di occupazione molto vicino al pieno impiego. Questo ovviamente metteva i lavoratori nella condizione di ottenere salari reali più elevati attraverso o la contrattazione individuale o la contrattazione sindacale e questo determinava, rispetto alla situazione precedente, una contrazione dei profitti. Qual è il tipo di risposta che il sistema capitalistico dà a una situazione che si approssima alla crisi data dalla riduzione dei margini di profitto? IL PROGRESSO TECNICO E LA SOSTITUZIONE DI FORZA-LAVORO La risposta secondo Marx è quella di ricorrere a forme di mutamento tecnico della base produttiva che consentano di ridurre la quantità di lavoro occupato. L’idea di Marx è che il tipo di progresso tecnico che prevale nel sistema capitalistico è quello orientato al risparmio di lavoro: risparmiando lavoro grazie a tecniche diverse (che possono riguardare sia le tecnologie che il processo produttivo), anche se la produzione cresce, la quantità di occupazione necessaria a sostenere questi aumenti non è della stessa misura, ma molto minore proprio perché ogni unità di produzione addizionale viene ottenuta con meno lavoro. Marx ha in mente diversi tipo di mutamento tecnico di cui forse conviene brevemente parlare. I tipi di mutamento tecnico che Marx esprime nel Capitale sono almeno di tre caratteri diversi: a) la divisione del lavoro; b) la meccanizzazione, cioè la sostituzione di macchinari ai lavoratori; c) il terzo tipo, che apparentemente non è un risparmio di lavoro ma rientra indirettamente nel risparmio di lavoro: il risparmio di capitale. Analizziamoli distintamente, iniziando dalla divisione del lavoro. La divisione del lavoro è un processo che ha effetti semplici e consiste nella parcellizzazione delle operazioni lavorative in varie piccole operazioni distinte. Marx pensava alla rivoluzione industriale la quale aveva sostituito l’organizzazione di fabbrica alla produzione di tipo artigianale. La produzione artigianale era una produzione in cui tutte le possibili operazioni manuali venivano fatte da un solo artigiano, mentre la divisione del lavoro introdotta nello schema di fabbrica industriale consisteva nello spezzettamento di tutte queste operazioni. Grazie a questa divisione del lavoro si riusciva ad ottenere una riduzione della quantità di lavoro necessaria per produrre le merci. Questo era un tipo di progresso tecnico su cui aveva insistito già Adam Smith, che era stato il primo a cogliere questi fenomeni della rivoluzione industriale. Marx riprende Smith aggiungendovi però molte precisazioni, nel senso che la divisione del lavoro per Marx non è solo un mezzo per ottenere il progresso tecnico in via immediata nella fase di lavoro, ma è anche un mezzo per ottenerlo attraverso una via indiretta: se si riesce a spezzettare le mansioni lavorative in tante mansioni divise e ciascun lavoratore svolge una sola o poche di queste mansioni lavorative, non solo si riesce ad ottenere una maggiore rapidità nell’esecuzione delle mansioni perché non c’è perdita di tempo (accrescendo la produttività del lavoro), ma si ottiene anche un miglior controllo della forza-lavoro in fabbrica. Marx è dell’opinione che solamente attraverso lo spezzettamento delle funzioni è possibile poi introdurre ed organizzare la fabbrica attorno ad un sistema di macchine in cui ognuna fa un’operazione distinta. Solamente attraverso la meccanizzazione si è potuto introdurre il sistema della fabbrica moderna: con le macchine infatti si possono controllare più rigidamente le funzioni lavorative. All’effetto positivo per il capitale derivante dall’aumento della produttività grazie alla divisione del lavoro, si accoppia l’effetto della eliminazione-riduzione del potere dei lavoratori di determinare il loro stesso lavoro. Un po’ meno ovvia è la comprensione del perché anche il risparmio di capitale (vale a dire di materie prime o il risparmio dell’uso dei macchinari), benché direttamente non abbia nessun effetto sulla quantità di lavoro impiegata, realizza un risparmio di lavoro. In effetti in via immediata, se per produrre un articolo o un prodotto si riesce a realizzare un risparmio di materie prime o a fare un uso più efficiente delle macchine, si risparmia lavoro. Questo sembrerebbe solo risparmio di capitale, eppure indirettamente è anche risparmio di lavoro perché nella misura in cui, per esempio, la stessa macchina riesce a produrre 200 pezzi anziché 100 nella stessa unità di tempo, saranno necessarie, a parità di produzione, la metà delle macchine di prima; cosicché si risparmiano non solo i lavoratori impiegati direttamente nella produzione ma anche quelli necessari per produrre le macchine utilizzate dato che, per la stessa produzione, occorrono meno macchine e meno materie prime e quindi, a monte, meno lavoratori per produrle. Quindi anche indirettamente, a monte, si ottiene un risparmio di lavoro. In definitiva, anche quando il mutamento tecnico è del tipo di risparmio di capitale, ossia di capitale circolante connesso alle materie prime, o capitale fisso, vale a dire macchinari, indirettamente a monte si risparmia lavoro e quindi si contribuisce ad alimentare l’esercito di riserva dei lavoratori che è funzionale al controllo del mercato del lavoro e alla fissazione del livello dei salari. E fin qui, dal punto di vista delle imprese, dal punto di vista capitalistico, andrebbe tutto bene: si risparmia direttamente o indirettamente lavoro, si ricrea continuamente l’esercito di riserva e si continua ad avere la possibilità di controllare la determinazione del salario sul mercato del lavoro grazie all’esistenza dell’esercito di riserva. A questo punto però si innesta, secondo Marx, l’elemento di contraddizione. Cosa si intende per elemento di contraddizione? Il fatto che se da un lato questi meccanismi sono favorevoli al miglioramento del sistema capitalistico, dall’altro invece sono sfavorevoli perché creano una tendenza alla caduta del saggio di profitto nel lungo periodo. LA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO Il valore della produzione secondo Marx si scompone in tre elementi: il Capitale Costante (C), il Capitale Variabile (V) e il Plusvalore (S). Partendo da questi elementi si può ricostruire la formula del saggio di profitto (r) di Marx come rapporto tra il plusvalore ed il capitale costante + il capitale variabile:
r =
Il punto è di vedere attraverso questa relazione come il tipo di mutamento tecnico che tende a risparmiare lavoro possa riflettersi in una caduta del saggio di profitto. Per spiegare questo punto occorre fare solo una piccola manipolazione della formula: dividendo numeratore e denominatore per V, si ottiene la seguente formulazione
r =
In cui S/V rappresenta il «saggio del plusvalore» o anche il «saggio di sfruttamento». Il saggio di sfruttamento potrebbe essere usato per un’argomentazione che è comune nella teoria marxista: l’altezza del saggio di profitto dipende dall’altezza del saggio di sfruttamento. Il saggio di sfruttamento infatti misura l’intensità del fenomeno dello sfruttamento, nel senso che, quanto più plusvalore viene estratto da una determinata quantità di ore che fanno i lavoratori, tanto più alto è questo rapporto: quindi tanto più alto è il saggio di profitto. Quindi se ne può concludere che la grandezza del saggio di profitto è data dall’intensità dello sfruttamento del sistema economico. L’altra grandezza C/V rappresenta quello che Marx chiama «composizione organica del capitale». Cos’è la composizione organica del capitale? Si può dire in termini correnti che è il rapporto tra i costi sostenuti per l’impiego di capitale e i costi sostenuti per l’impiego di lavoro. Nel linguaggio delle teorie non marxiste potremmo assimilarlo — anche se è un’unità di misura diversa — al rapporto tra capitale e lavoro o intensità di capitale, che misura il grado di meccanizzazione del sistema economico. Qual’è l’effetto del tipo di mutamento tecnico che, secondo Marx, prevale nel sistema economico capitalistico sulla composizione organica del capitale, cioè sul rapporto C/V? Chiaramente è un effetto che tende ad aumentare il rapporto C/V. Esaminiamo i tre tipi di mutamento tecnico. La divisione del lavoro rende minore la quantità di lavoro per unità di prodotto anche a parità del tipo di macchinari o della quantità di capitale che si usa. La divisione del lavoro lascia inalterato l’ammontare del capitale, ma riduce V, e quindi fa aumentare senz’altro il rapporto C/V. Senza dubbio la meccanizzazione ha lo stesso effetto perchè non solo riduce V a parità di C, ma riduce V grazie all’aumento di C nel senso che aumenta la quantità di capitale proprio per ridurre V. Quindi si ha contemporaneamente un aumento del numeratore C e una diminuzione del denominatore V, quindi un effetto ancor più pronunciato sulla composizione organica del capitale. Più indeterminato è invece l’effetto del terzo tipo del mutamento tecnico, cioè il risparmio di capitale, di qualsiasi natura esso sia, vale a dire materie prime o capitale fisso. Immediatamente infatti questo tipo di mutamento tecnico agisce su C, cioè riduce la quantità di C per ogni unità di lavoro. Però indirettamente riduce a monte anche la quantità di lavoro: per ottenere la stessa produzione nella fase già considerata si impiega meno capitale, allora vuol dire che per ottenere la stessa produzione a monte dovranno essere fornite meno macchine e meno capitale e quindi si ridurrà l’occupazione nel settore a monte. Quindi anche V diminuisce. Tuttavia noi non possiamo dire nulla, diminuendo entrambi, sull’effetto di queste due diminuzioni sul rapporto C/V. Probabilmente mutamenti di questa natura in alcuni casi fanno aumentare più C che V, in alcuni casi fanno aumentare più V e allora in questo secondo caso l’effetto non sarebbe più un aumento del rapporto ma una diminuzione. Però a questo proposito bisogna fare una precisazione. L’idea di Marx è che questi tre tipi di mutamenti non avvengono in modo casuale, ma avvengono con un certo ordine. Nel senso che il terzo tipo di mutamento, quello dagli effetti incerti, è sempre un mutamento collaterale: prima infatti ci sono le grosse ondate di meccanizzazione associate alla divisione del lavoro per cui il progresso tecnico si traduce in una riduzione della quantità di lavoro necessaria per unità di prodotto e solo quando è avvenuta la grossa ondata di meccanizzazione i miglioramenti organizzativi successivi possono determinare un risparmio nell’uso degli impianti nuovi. Quindi il risparmio di capitale per Marx è sempre un tipo di mutamento tecnico che è susseguente alla meccanizzazione. Nell’idea di Marx è dominante la meccanizzazione insieme alla divisione del lavoro, il terzo tipo di mutamento è sempre accessorio e non è comunque mai tale da determinare una controtendenza rispetto all’aumento di C/V. Anche se un singolo risparmio di capitale in questa o quell’impresa in un dato momento storico può ridurre C/V non lo può mai ridurre in maniera tale da contrastare la tendenza complessiva nel lungo periodo all’aumento della composizione organica del capitale. Se la tendenza principale è quella dell’aumento della composizione organica C/V si determina una caduta del saggio di profitto (r) . Naturalmente la prima, osservazione che si può fare è questa: l’aumento della composizione organica potrebbe anche accompagnarsi ad aumento del numeratore S/V. Ora, secondo Marx, mentre non c’è nessun limite alla intensificazione di capitale, alla meccanizzazione, all’aumento della composizione organica, ci sono invece dei limiti per il sistema economico capitalistico rispetto all’aumento di S/V. Il principale limite è il seguente: se i processi di mutamento tecnico che avvengono fossero tali da risparmiare cosi tanto lavoro, in modo da far ridurre di molto V e far aumentare di molto il plusvalore S, interverrebbe secondo Marx un altro possibile elemento di crisi, perché la forte diminuzione dell’occupazione e quindi dei redditi da salari distribuiti ai lavoratori, farebbe diminuire la principale fonte di domanda di merci. Infatti, dato che la principale fonte di domanda di merci è costituita dalla domanda dei consumi e la quota principale dei redditi destinata alla domanda per consumi è chiaramente costituita dai salari, una riduzione eccessiva dell’occupazione e quindi dei salari ridurrebbe i consumi, ridurrebbe perciò la domanda complessiva delle merci e farebbe correre il rischio al sistema capitalistico di non avere più la possibilità di soddisfare la propria esigenza di vendita del prodotto: ci sarebbe quindi una crisi dal lato della domanda. Ne consegue che mentre ci sono dei limiti rispetto alla possibilità di crescita di S/V, cioè del saggio di sfruttamento, non c’è nessun limite naturale nella possibilità di crescita della composizione organica del capitale, ossia di C/V. Quindi, conclude Marx, nel lungo periodo sicuramente il denominatore C/V aumenterà più del numeratore S/V e il saggio di profitto tenderà a ridursi. La caduta del saggio di profitto è una causa di crisi per l’economia capitalistica? Effettivamente sì. Il sistema capitalistico, con le sue esigenze intrinseche, per quanto riguarda i tipi di mutamento tecnico che in esso si introducono, arriva a una soglia in cui il saggio di profitto diventa così basso da non costituire più un incentivo per accumulare, a investire ulteriormente, quindi crea una sorta di tetto rispetto alla possibilità ulteriore di crescita del sistema: il sistema capitalistico non è più disposto a procedere su questa strada perché lo stimolo ad investire, a causa del saggio di profitto che si è ridotto, cessa. Al limite, i capitalisti non solo non vogliono più investire ma non vogliono più fare i capitalisti alle condizioni che si sono determinate in conseguenza della tendenza alla caduta del saggio di profitto. Su questo punto si può innestare un altro aspetto della crisi capitalistica sopra accennato connesso al rischio che, essendo il sistema economico “anarchico”, la domanda di merci non sia mai tale da consentire uno sbocco completo della produzione, e quindi possano crearsi crisi di sovrapproduzione a cui seguono cadute di produzione e disoccupazione. Una causa di questo tipo di crisi potrebbe essere il fatto che i capitalisti innalzano eccessivamente il rapporto S/V cosicché la quota del salario sulla quota del consumo si sviluppa in una proporzione troppo bassa rispetto al reddito e quindi vi è una carenza di domanda. LA TESI DEL SOTTOCONSUMO DI SWEEZY Vi sono molti marxisti come Sweezy, che ritengono che in Marx il punto cruciale per capire la teoria della crisi è soprattutto l’analisi del sottoconsumo. La mia opinione è che questo non è vero anche se certamente vi sono vari accenni nelle opere di Marx al fatto che il sottoconsumo possa essere una causa di crisi, ma non la principale. La principale è piuttosto una crisi dal lato della domanda dovuta alla caduta dell’altra componente della domanda, cioè gli investimenti, proprio perché se le tendenze del sistema economico capitalistico sono quelle descritte, il saggio di profitto tende a diminuire, cosicché si riduce sia la quantità di profitti a disposizione per gli stanziamenti di nuovi investimenti, sia lo stimolo ad investire: riducendosi infatti il saggio di profitto, assunto dalle imprese come indicatore del rendimento futuro degli investimenti, chiaramente la sua caduta tende a ridurre anche la propensione ad investire. Allora una volta che lo stimolo ad investire e la fonte dei finanziamenti agli investimenti è ridotta, gli investimenti cadono e questo (dirà la teoria keynesiana) riduce la domanda, la domanda riduce la produzione e riducendosi la produzione si riduce l’occupazione. Riducendosi l’occupazione si riduce però anche la quantità di salari e quindi anche i consumi e così si determina la catena depressiva che crea le crisi cicliche in cui periodicamente l’economia si trova. Quindi il perno delle contraddizioni del sistema economico capitalistico è visto da Marx nella legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, su cui si innestano poi cause di crisi dal lato della domanda che comunque trovano il loro fondamento prevalente mente nella caduta del saggio di profitto. LA CRISI DI SPROPORZIONE Marx contempla altre cause di crisi: quella chiamata delle «sproporzioni». L’idea di Marx è che il sistema economico capitalistico è un sistema anarchico, in cui la regolazione del sistema economico non è affidata alla pianificazione e pertanto non c’è nessuna ragione perché debba esservi sempre un equilibrio fra le quantità che vengono prodotte dalle imprese e le quantità che vengono domandate dal mercato. Fondamentalmente è l’incertezza del futuro che può generare questa sproporzione nel senso che se oggi un capitalista decide l’ammontare da produrre, i suoi progetti di investimento, non ha però alcuna certezza di poter trovare completamente sbocco alla propria produzione. E anche se le imprese fossero sicure che nel complesso la domanda delle merci non si discosta molto dalla produzione, quando poi si vanno a considerare le domande e le produzioni delle singole merci, nascono dei problemi. Se infatti nel complesso si verificasse l’ipotesi di equilibrio di domanda e di offerta, permane il problema di riuscire a fare in modo che le singole quote, le singole proporzioni di produzione, siano adeguate e proporzionate alla composizione della domanda. Se questo non succede, allora si verifica che in alcuni settori vi sarà un eccesso di domanda e in altri settori un difetto di domanda. Ma l’elemento rilevante è che uno stimolo iniziale di crisi, anche se in un solo settore, attraverso l’interdipendenza generale dell’economia dà luogo a processi duraturi che si estendono dal singolo settore in crisi agli altri settori. CRITICHE A MARX Ora si accennerà ad alcuni aspetti che sono stati assunti nel dibattito da parte di economisti non marxisti per criticare la teoria di Marx. La prima critica mossa a questo ragionamento riguarda il tipo di mutamento tecnico che Marx ritiene faccia aumentare la composizione organica del capitale. Su questo punto sia gli economisti non marxisti che gli economisti neoclassici e liberali del secolo scorso, fino ai primi decenni del secolo, sono stati in disaccordo; sarebbero stati invece d’accordo che la tendenza principale del mutamento tecnico è quella che porta alla crescita della composizione del capitale. E a partire circa dal 1930 in poi che gli economisti non-marxisti hanno cominciato a insinuare dei dubbi sul fatto che la tendenza prevalente nel sistema economico capitalistico sia all’aumento della composizione organica del capitale. Per altro questo avveniva in considerazione di alcuni fatti storici. La grave crisi del ‘29 era stata spiegata da alcuni economisti non marxisti (i cosiddetti economisti stagnazionisti) con la tesi che si era interrotto improvvisamente il flusso di invenzioni consistenti in metodi produttivi con più intenso impiego di capitale e meno intenso impiego di lavoro, proprio perché le nuove invenzioni risparmiavano non solo lavoro ma anche capitale. Un’idea di questo genere è molto diffusa oggi anche per quanto riguarda la cosiddetta rivoluzione elettronica: anche la rivoluzione elettronica riduce in fondo l’intensità di capitale nel senso che con i microprocessori molti macchinari vengono ridotti di dimensione e, a parte i grossi investimenti iniziali, una volta estesa e pianificata l’innovazione, anche il costo di questa innovazione diminuisce nel tempo. Questi economisti sostenevano perciò che si stava assistendo ad una nuova rivoluzione industriale in cui si tendeva a risparmiare anche capitale e non solo lavoro: la prova sarebbe che l’investi mento tende a calare. A differenza quindi delle teorie keynesiane, la caduta degli investimenti dovuti alla crisi del ‘29 veniva spiegata col fatto che, riducendosi la qualità di capitale necessaria grazie a queste nuove invenzioni, anche la quantità degli investimenti si riduceva e riducendosi gli investimenti si arrivava alla crisi. Ci sono molti dubbi che questo ragionamento tenga nel lungo periodo. Anche se vi sono alcune fasi di ristagno di capitale è molto dubbio che questa possa essere presa come la teoria dominante dal punto di vista tecnologico. Comunque questa idea, questo tipo di spiegazione al fenomeno della caduta degli investimenti ha poi generato per circa quarant’anni, cioè daI 1930 fino ai primi anni ottanta, un’idea molto accarezzata dagli economisti neo-marxisti: che ormai fosse chiaramente falsificata la teoria di Marx sulle tendenze del progresso tecnico. Che tipo di risposta si può dare a questa critica a Marx? Ci sono alcuni risvolti tecnici che forse è superfluo trattare: è infatti sufficiente guardare i dati storici. Ed essi, per quanto imperfetti, non contraddicono il fatto che la quantità di capitale introdotto sia in continuo aumento anche se con oscillazioni. Vi sono fasi in cui è vero che le principali innovazioni sono di risparmio di capitale, ma nel lungo periodo la tendenza all’incremento è invece la tendenza dominante. NOTE [1] Appunti del corso “elementi di economia politica” tenuto nell’autunno del 1981 presso la FLM Milano dal Prof. Lorenzo Rampa, non rivisti dall’autore |