LO STATO KEYNESIANO
STRUMENTI
E LIMITI DELLE POLITICHE KEYNESIANE

Appunti di un corso[1]

AA.VV.

La lezione è articolata in quattro punti:

1 - indicazione generica e generale degli strumenti di politica economica keynesiana;

2 - caratteristiche dello Stato keynesiano;

3 - limiti delle politiche keynesiane e contraddizioni interne dello Stato keynesiano;

4 - alcune osservazioni finali.

1 - Strumenti di politica economica keynesiana

Anzitutto occorre ricordare che per Keynes le crisi economiche costituiscono una caratteristica permanente del capitalismo le quali tuttavia sono sanabili.

Keynes ha fiducia nella possibilità di mettere sotto controllo il sistema economico e rifiuta l'idea di meccanismi regolatori automatici. In particolare, poichè rifiuta l'operare del mercato come meccanismo di aggiustamento automatico, chiede che si intervenga costantemente sul funzionamento del sistema capitalistico.

In Keynes era presente il discorso della responsabilità politica nella gestione economica di un sistema e questo discorso nella Teoria Generale[2] diventa una dichiarazione di necessità di intervento politico.[3] Certamente non si possono nascondere le contraddizioni che  politiche di tipo keynesiano pongono ad un sistema economico gestito politicamente. In particolare il fatto che mentre da un lato viene chiesto il controllo politico del sistema, dall’altro lato non esiste la certezza che tale controllo possa sempre essere assicurato: la necessità di un controllo non implica infatti di per sé il fatto che si possa controllare completamente il sistema.

Gli strumenti della politica keynesiana sono essenzialmente due:

(a) programmi di spesa pubblica,

(b) manovre monetarie, in particolare sul saggio d'interesse.

I programmi di spesa pubblica sono visti come interventi capaci di stimolare la domanda effettiva, di aumentare il reddito e l'occupazione. L'intervento dello Stato quindi, secondo Keynes, anziché perturbare il funzionamento del sistema economico, come sostengono i neoclassici, è invece in grado di porre rimedio all'incapacità del mercato di far fronte ai problemi della disoccupazione. Un altro punto importantissimo in Keynes è che il finanziamento della spesa pubblica può essere fatto in deficit, senza aumentare la tassazione. Entro il sistema economico lo Stato, nel momento in cui mette in moto programmi di spesa pubblica, si può presentare sia come Stato-imprenditore - ad esempio attraverso la gestione di imprese pubbliche o imprese a partecipazione statale - sia come soggetto capace di  incentivare con i propri investimenti il sistema privato.

Le politiche monetarie, in particolare le politiche tendenti ad abbassare il saggio di interesse, vengono individuate come incentivi finalizzati all’aumento degli investimenti, anche se risultano di difficile attuazione specialmente quando il sistema è già in crisi, oppure quando un'economia, dal punto di vista degli organismi monetari internazionali, è già fortemente integrata entro un sistema di controllo internazionale. Per Keynes quindi le politiche monetarie appaiono di dubbia validità dato che, per essere applicate, necessitano il fare i conti con altri Paesi. Questo spiega già l'attenzione che Keynes poneva alle modificazioni del sistema internazionale che erano intervenute negli anni '30. In particolare, avendo presente che  l'economia inglese risultava sempre più fortemente integrata verso l'esterno, osservava che  le manovre monetarie dovevano fare i conti con questa integrazione e richiedere pertanto il superamento di molteplici vincoli. Il contrario dunque delle manovre di spesa pubblica che riuscivano invece a dare un'autonomia alla gestione del sistema.

2.1 - Caratteristiche dello Stato keynesiano

Quali sono dunque le caratteristiche di uno Stato keynesiano entro un sistema economico  che viene definito di capitalismo maturo?[4]

Sulle caratteristiche di questo Stato non si sa molto, nonostante sia quello che si è  strutturato dopo la seconda guerra mondiale in diversi paesi industrializzati e c’è ancora molto da capire sulle modificazioni che lo Stato liberale ha subito sotto l’influenza del ricorso a politiche keynesiane.

Occorre evidenziare che Keynes continuava a  teorizzare un mutamento della forma Stato, mutamento che però era già in atto ai suoi tempi. Sotto questo punto di vista non si può dire che egli apporti grandi innovazioni. Tuttavia, se è pur vero che egli non fece altro che teorizzare su processi che erano già in atto, gli si deve riconoscere il merito  che dal momento che li teorizzò, ne permise la generalizzazione. E così quanto stava avvenendo all'interno di un sistema, come quello britannico, nel momento in cui viene filtrato attraverso la teoria keynesiana, tende a farsi teoria generale e ad essere quindi applicata ad altre formazioni sociali o ad altri Stati.[5]

Un altro aspetto che occorre evidenziare è il fatto che le politiche di tipo keynesiano risultano molto simili a politiche attuate  già negli anni '30 in Stati autoritari (ad esempio le politiche sull'occupazione), quali ad esempio nella Germania nazista o nell'Italia fascista. Tuttavia la teoria di Keynes si differenza da quella praticata in questi Stati autoritari per il fatto  che essa trova le sue premesse nel processo di democratizzazione dello Stato di diritto, processo che era stato avviato all'inizio del XX secolo.

Per Keynes il processo di democratizzazione agisce come presupposto affinché si possa sostenere la domanda in generale attraverso la domanda di beni di consumo. La democrazia, all'interno di uno Stato di tipo keynesiano, costituisce pertanto un presupposto indispensabile, funzionale alla regolamentazione del ciclo capitalistico; mentre le politiche keynesiane potrebbero essere applicate, come lo sono state di fatto, in regimi forti, nazisti o fascisti; il sistema keynesiano richiede invece la democrazia, ossia un processo di democratizzazione. Perché?

Mentre nei regimi autoritari il controllo è politico, ovvero, direttamente politico; nello Stato keynesiano invece il controllo è essenzialmente di tipo economico.

Proprio perché il controllo non è unicamente politico, ma è di tipo economico, il processo di democratizzazione per uno Stato keynesiano, se da un lato viene richiesto, dall'altro pone dei seri problemi in quanto crea contraddizioni interne al meccanismo di sostegno della domanda. Vi sono infatti mutamenti politici ed istituzionali che conseguono a programmi di piena occupazione di cui uno Stato autoritario può benissimo non preoccuparsi, mentre invece  devono preoccupare uno Stato di tipo keynesiano.

Un altro aspetto che si collega sempre al discorso sulla democratizzazione e sul rapporto politica ed economia può essere così sintetizzato: mentre è esplicita da parte di Keynes la richiesta dell'intervento politico all'interno dell'economia, la politica in generale, all'interno di uno Stato keynesiano, perde la sua importanza.

Ne consegue che, dato un sistema capitalistico di tipo keynesiano, a chi voglia opporvisi sembrano aperte unicamente due vie: una è il rifiuto della politica, l'altra è il discorso sull'autonomia del politico.

Entro uno Stato keynesiano, in cui operano in altissima integrazione economia e politica, le risposte separano i due momenti e questo appare molto strano.

Mentre nello Stato liberale o borghese, prima di Keynes, la politica era vista come occultamento dei rapporti di produzione esistenti dato che non interveniva a modificare il modo di produzione, dopo Keynes, in conseguenza della fortissima interrelazione fra politica ed economia, le cose cambiano e l’intervento della politica  modifica il modo stesso di produzione. Sembra strano dunque che la politica, nel momento in cui interviene nel sistema economico modificando il modo di produzione, trovi delle risposte che negano proprio la connessione fra politica ed economia.

In sostanza, fra prima e dopo Keynes, la differenza sta nel fatto che mentre prima ci si poteva illudere sul fatto che la politica agisse esternamente, dopo Keynes la politica si è innescata visibilmente nell'economia unendo allo stesso livello politica ed economia. Con Keynes è intervenuta quindi (queste sono le osservazioni sullo Stato moderno o Stato di tipo keynesiano) una trasformazione materiale della società capitalistica ed in particolare dei ruoli dei suoi apparati di governo. Anche rispetto al modo di produzione - questo è un punto importante - la politica keynesiana non lascia tutto così com'è. Lo Stato che ci troviamo davanti è dunque uno Stato modificato, dato che le manovre di politica keynesiana sono intervenute a modificare anche il modo di produzione.

Occorre inoltre osservare che il campo di azione della politica economica di tipo keynesiano non è unicamente riducibile all'intervento dello Stato sul salario dato che  comporta un complesso di cambiamenti nei rapporti fra lo Stato e i diversi strati sociali, e anche notevoli riforme, non solo della gestione politica, ma anche della struttura finanziaria, della struttura monetaria, dell'amministrazione dello Stato; devono cioè realizzarsi profondi mutamenti della forma Stato.

Inoltre, dopo gli anni '30, per lo Stato il problema della forza lavoro si iscrive all'interno di un controllo della variabile salario, in particolare della variabile salario monetario. Con Keynes questa variabile assume un valore strategico.

Per Keynes le determinanti del salario sono spaccate, mentre gli imprenditori capitalisti controllano il salario reale, i lavoratori possono controllare solamente il salario monetario.

Di questa dualità consiste la politica keynesiana e questo è un elemento fondamentale per capire il significato di “nuovo Stato keynesiano”.

Il nodo centrale di un intervento economico di tipo keynesiano - che evidenzia cosa sia uno Stato keynesiano - riguarda non solo la circolazione delle merci, ossia il problema della realizzazione, ma anche la produzione. Come si diceva precedentemente, le politiche keynesiane non lasciano il modo di produzione immutato, lo modificano. La modificazione si realizza attraverso due momenti: (1) gestione statale della merce forza lavoro, (2) gestione statuale della moneta, cioè gestione da parte dello Stato della moneta, quindi, accumulazione. In particolare per Keynes occorre gestire il rapporto fra forza lavoro e moneta. Ed è proprio nella gestione di questi due fattori, forza lavoro e moneta, che lo Stato si preoccupa del problema delle crisi e della loro gestione.

Cosa vuol dire gestione da parte dello Stato della forza lavoro?

Mentre prima di Keynes il salario diretto, ossia quello corrisposto dagli imprenditori, veniva sempre inteso in termini di riproduzione della forza-lavoro, in uno Stato di tipo keynesiano occorre considerare anche il salario indiretto, che viene corrisposto dallo Stato. Poiché la gestione di queste due componenti avviene attraverso lo Stato stesso, ne deriva un discorso sulla distribuzione del reddito in termini keynesiani.[6]

Si pensi alla connessione fra salario e spesa pubblica: il salario non è una variabile direttamente controllata dato che esso passa attraverso la spesa pubblica e la spesa pubblica è a sua volta controllata dallo Stato. Ne consegue che in uno Stato keynesiano la riproduzione sociale della forza lavoro non dipende più esclusivamente dal salario. Certo Keynes aveva ben chiaro che le riforme dello Stato avvenivano attraverso modificazioni della variabile salario; è sufficiente ricordare a questo proposito il discorso su salario monetario e salario reale. Keynes però separa queste due variabili per inserire lo Stato e  la riflessione sulla spesa pubblica. Quindi il salario è concepito in termini di riproduzione, dato che lo Stato interviene nella riproduzione del lavoro.

Il secondo punto riguarda il discorso sulla gestione della moneta.

Poiché in un'economia di tipo keynesiano l'intervento dello Stato è sempre veicolato dal denaro, ne deriva la  necessità di analizzare il problema del controllo del valore della moneta. Si ricorda che nello Stato keynesiano il denaro viene utilizzato come capitale in tutte le attività direttamente produttive e come reddito in tutte le attività burocratiche e complementari per il funzionamento del meccanismo di riproduzione. La riflessione sul denaro utilizzato dallo Stato sia come capitale che come reddito viene sempre indissolubilmente legato a quello sui poteri legislativi dello Stato stesso. Si pensi al discorso su agevolazioni, incentivazioni e sistema fiscale dello Stato. L’analisi sullo Stato come imprenditore o come spenditore viene sempre collegato a quello sullo Stato di diritto.

Da un certo punto di vista, lo Stato nel senso keynesiano, in quanto imprenditore e legislatore-amministratore, gestisce la divergenza fra processo di valorizzazione da una parte, cioè sostegno del saggio di profitto e dall'altra riproduzione del capitale, cioè meccanismo per evitare le crisi. Solamente quando si vede lo Stato in tutte queste sue forme si capisce in cosa consista l'intervento dello Stato di tipo keynesiano. Lo Stato agisce simultaneamente ma sempre distintamente, non è mai la stessa cosa, è al tempo stesso istituzione e frazione del capitale privato. Solamente in quanto frazione del capitale privato si inserisce nella struttura produttiva, mentre come istituzione lo Stato utilizza il denaro come reddito: ad esempio alimentando lavoro improduttivo, o sostenendo l'occupazione e il consumo.

2.2 - Lo Stato keynesiano come stato sociale

Una funzione particolare dello Stato keynesiano e che viene perseguita con mezzi non ideologici, ma di tipo economico, consiste nell’offuscamento di tutti i rapporti di potere fra le classi e in particolare l'egemonia esercitata da alcuni gruppi dominanti. In che modo?

Una delle differenze fra lo Stato liberale e quello di tipo keynesiano consiste nel fatto che nello Stato sociale di tipo keynesiano, la riflessione sul benessere (quello che è chiamato stato del welfare, cioè stato dell'assistenza pubblica) ha portato a riconoscere come non valide certe caratteristiche individualistiche dello Stato liberale per cui a contare non sono più le virtù competitive e concorrenziali dello Stato o del meccanismo della struttura produttiva. In particolare nell'uso che lo Stato fa del denaro, cioè del denaro in quanto reddito dato a certi gruppi sociali, lo Stato diventa strumento di integrazione delle diverse componenti della classe proprietaria, o della piccola borghesia, fino ad integrare la stessa classe operaia. E’ il caso ad esempio della burocratizzazione che opera sia nel senso di determinare la rottura del meccanismo di responsabilità (è il caso ad esempio delle grandi imprese che molte volte vengono esonerate dalla responsabilità economica nella gestione di particolari settori produttivi) sia nel senso di eliminare le contrapposizioni sociali.

Un altro elemento che è presente nello Stato keynesiano, riguarda il metodo di trasferimento del reddito, il quale occulta la legge di formazione del reddito, cioè le leggi di mercato. Ad esempio in Keynes è chiarissimo il fatto che il salario non è determinato da un meccanismo di mercato in cui sono presenti due soggetti: le imprese ed i lavoratori, ma da un meccanismo molto interconnesso in cui anche lo Stato interviene. Le determinazioni del salario reale non dipendono quindi direttamente dalle contrattazioni che avvengono sul mercato del lavoro: il mercato si è aperto è viene assorbito all'interno dello Stato. Il metodo di trasferimento del reddito fa sì che alcuni tipi di conflitti che avvengono sul mercato del lavoro vengano elevati a livello di Stato. Lo Stato poiché si fa carico di quello che viene chiamato l'interesse generale interviene così di volta in volta a sostegno di alcuni gruppi, ad esempio a sostegno di gruppi dinamici che concorrono a sostenere l'accumulazione del capitale e in altri casi a sostegno di ceti parassitari. In Germania ad esempio ogni intervento dello Stato all'interno del mercato del lavoro è volto ad una dinamicizzazione del sistema. Uno degli interventi che molte volte lo Stato favorisce è la moria delle piccole industrie o delle industrie fragili.

La cosa interessante è che alcune categorie keynesiane come il tema della socialità, ossia dello Stato che interviene nel sociale, di fatto vengono fatte proprie dal sindacato, che le usa poi contro lo Stato capitalistico. Ciò dimostra che di fatto anche il sindacato è dentro il meccanismo stabilito dalle regole di Keynes. Il tema dello stato sociale non costituisce un velo che occulta il discorso economico poiché la Stato dovendo operare a sostegno dei consumi, sovvenziona alcune classi. Quindi nello Stato keynesiano è presente  una contraddizione interna fra manovre di burocratizzazione o redistribuzione del reddito e spese dall'altra parte.

3 - I limiti delle politiche keynesiane e le contraddizioni interne dello Stato capitalistico.

I limiti delle politiche keynesiane possono essere classificate secondo tre linee.

La prima è la seguente: la crisi dello Stato keynesiano può essere vista come una specie di rottura fra forma dello Stato e la sua funzione politica, in quanto da un lato lo Stato all'interno del sistema keynesiano si occupa della valorizzazione del capitale, dall'altro interviene con strumenti che portano anche a modificare la sua stessa forma; ne sono esempi il discorso sul lavoro improduttivo e sulla burocratizzazione dello Stato, i quali costituiscono aspetti non prettamente capitalistici dello Stato. La politica keynesiana è dunque in sé  stessa contraddittoria e questa contraddizione apre una spaccatura fra la forma dello Stato, la sua struttura economico - politica e le sue finalità. Questa contraddizione a volte è difficilmente colmabile perché ad esempio lo Stato deve mantenere una base di consenso. Gli aspetti non capitalistici dello Stato - ad esempio burocratizzazione ecc. - creano così conflitti interni sempre più forti fra settori produttivi e settori parassitari.

Una seconda caratteristica è la seguente: l'allentamento fra prestazione di lavoro e reddito, che è presente nello Stato keynesiano (si veda il discorso precedentemente fatto sul salario, per cui chi presta lavoro non ottiene solo un salario diretto, monetario, ma anche un salario indiretto che viene corrisposto dallo Stato), porta al fatto che il salario non viene più fissato attraverso meccanismi di mercato ma attraverso manovre di tipo politico istituzionale. Ciò vuol dire che, all'interno di questo processo di redistribuzione dei redditi, si inseriscono meccanismi che rendono sempre più fragile il mercato del lavoro. Non essendo più collegati prestazione di lavoro e salario, perché il reddito è garantito o sussidiato dallo Stato, all’interno del mercato del lavoro si sviluppano forti contraddizioni  che non sono facilmente controllabili attraverso la via puramente salariale.

Inoltre occorre sottolineare anche le contraddizioni che si aprono nel sistema economico a seguito dell'intervento dello Stato nella veste di produttore e di proprietario pubblico di società.

Una seconda linea riguarda l’intervento pubblico. La crescita dell’intervento pubblico porta ad un aumento della tassazione o dell’indebitamento pubblico. Si pensi al considerevole aumento di richieste che non vengono più indirizzate al padronato ma direttamente allo Stato in quanto controparte. Ad esempio la ripetuta manovra keynesiana della spesa in deficit trasferisce all'interno dello Stato gli elementi di crisi che sono presenti nel sistema. Si sa che lo Stato interviene per tenere alto il saggio di profitto e che a seguito di ciò le crisi che sarebbero presenti nel settore privato vengono trasferite allo Stato sotto forma di crisi fiscale dello Stato. In questo modo avvengono modificazioni delle situazioni di crisi; non a caso oggi si parla anche di crisi fiscale dello Stato.

L'ultima linea riguarda il ruolo della spesa pubblica ed il mutamento istituzionale. Interventi massicci di spesa pubblica comportano trasformazioni all'interno dei gruppi che sono coinvolti o che vengono “favoriti” dalla politica statale e questo provoca mutamenti istituzionali. Basti pensare a questo proposito alle politiche d'incentivazione della spesa, le quali innescano dinamiche occupazionali in grado di aumentare fortemente il potere contrattuale della classe operaia. In altri termini si può dire che esiste un'ambiguità di fondo dietro le politiche di tipo keynesiano: infatti mentre da un lato tendono a rafforzare il capitale e ad eliminare le crisi in quanto si interviene attuando manovre di sostegno del saggio di profitto, dall’altro vengono intaccati i profitti stessi perché tali manovre tendono a rafforzare le formazioni che configgono con il sistema capitalistico.

4 - Osservazioni finali

Sembrerebbe che le politiche keynesiane siano in sé contraddittorie per diversi aspetti:

- la separazione tra prestazione di lavoro e salario e tra produzione e capitale privato;

- l’aumento dell'indebitamento pubblico o aumento della tassazione - problemi di crisi fiscale dello Stato;

- il sostegno, attraverso la spesa pubblica, al saggio di profitto, il quale genera il rafforzamento del capitale ma anche della classe operaia, dato che il sostegno alla spesa pubblica rafforza l'occupazione.

Questa duplicità di aspetto delle politiche keynesiane, di spinta e di contraddizione,  è certamente esistito fintanto che esse sono riuscite ad influire positivamente sull'andamento del ciclo economico capitalistico secondo le previsioni di Keynes. Da alcuni anni invece non è più così dato che eventuali aumenti di spesa finiscono per tradursi direttamente in inflazione. Oggi si parla di crisi del pensiero keynesiano ed è vero e giusto parlarne, si ricordi però che il pensiero keynesiano ha influito ed ha influenzato in maniera decisiva tutte le politiche degli ultimi trent'anni.

NOTE


[1] Appunti del corso “Alcuni elementi di economia politica” tenuto fra il febbraio ed il maggio 1980 a cura dell’Ufficio Formazione Provinciale della FLM Milano dal Professoressa Anna Carabelli dell’Istituto di Scienze economiche e sociali dell’Università di Pavia.

Il testo delle lezioni è ricavato dagli appunti di alcuni partecipanti al corso e non è stato rivisto e corretto dall’autrice. Ne deriva che alcune parti risulteranno meno efficaci ed accurate di quanto siano state nel corso dell’esposizione.

[2] Keynes – Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – 1936 – Edizione italiana UTET – Torino.

[3] Si pensi a tutte le dichiarazioni di ritorno a politiche liberiste o a politiche monetariste che sono presenti in alcuni governi, ad esempio quello conservatore inglese. Di fatto, il ritorno a politiche liberiste - cioè pre-keynesiane - vuol dire (questo è importante da capire) scaricare sul settore economico, cioè sull'automatismo economico, la difficile gestione politica del sistema keynesiano.

[4] La presenza di politiche economiche esplicite non è di per sé una caratteristica di un sistema a capitalismo maturo: anche in altri periodi sono state adottate politiche economiche. Quindi la presenza di politiche economiche non dice nulla di per sé sulle caratteristiche dello Stato. Stati assoluti, non di tipo keynesiano, ad esempio quelli presenti nel '700, adottavano politiche economiche, ad esempio politiche di sostegno dei prezzi o altro.

[5]  Le politiche keynesiane non vengono applicate immediatamente nel momento in cui vengono formulate. La teoria generale è del 1936, ma le politiche keynesiane vengono applicate solo dopo la seconda guerra mondiale.

[6] Differenziando salario monetario e salario reale, Keynes introduce una nuova teoria del salario. Si dice che in Keynes non esiste un discorso sulla distribuzione del reddito, in realtà Keynes si occupa talmente del salario che negare che parli della distribuzione del reddito rappresenta una falsità. Solo che ne parla in un modo completamente diverso.