LA TEORIA GENERALE DI KEYNES Appunti di un corso[1] La “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (The General Theory of Employment, Interest and Money — 1936) è il testo in cui Keynes dà forma compiuta alla propria teoria. La “Teoria Generale”è fondamentalmente una teoria critica, Keynes ha cioè l’intento di abbattere una teoria che non spiega il capitalismo, formulando una teoria alternativa. Il punto di partenza di Keynes è quello di una differente “visione del capitalismo”, non quello di mettere in discussione il sistema capitalistico in quanto tale. La teoria tradizionale (neoclassica) sosteneva che il sistema economico lasciato a se stesso è in grado di raggiungere una posizione di equilibrio in cui tutti i fattori sono pienamente occupati. In questo modo trovava fondamento l’ideologia del “laissez faire” contraria all’intervento dello Stato in economia e a fattori perturbatori, come l’intervento sindacale. Keynes era convinto che le conclusioni a cui erano giunti gli esponenti della dottrina tradizionale non fossero scientifiche, ma metafisiche: il “laissez faire” per i neoclassici era un vero e proprio dogma. Nella TEORIA GENERALE viene negata l’esistenza di meccanismi di aggiustarnento automatici insiti nel capitalismo. Keynes dimostra cioè la infondatezza della teoria secondo cui esiste nel sistema economico una tendenza naturale verso il pieno impiego dei fattori produttivi: infatti secondo Keynes anche in situazione di equilibrio la capacità produttiva può non essere pienamente utilizzata e può esserci disoccupazione. La “teoria generale” nasce come riflessione sulla situazione di crisi e di disoccupazione della Gran Bretagna degli anni ‘30. L’atteggiamento degli economisti accademici era tale da considerare questi avvenimenti come puramente accidentali, destinati ad essere superati spontaneamente attraverso i meccanismi di riequilibrio di mercato. La conseguenza di questo fatto era l’assoluta impreparazione ad affrontare le violente crisi che scossero quegli anni — addirittura vennero prese misure di politica economica che avrebbero scatenato effetti opposti a quelli voluti, come Keynes più volte aveva previsto Ad esempio: Keynes riteneva che le riduzioni salariali attuate in presenza di disoccupazione non solo erano ingiuste ma anche inefficaci rispetto all’obiettivo del pieno impiego. Keynes era invece convinto che le crisi fossero un fenomeno permanente e strutturale del capitalismo, e non accidentale, ma che le crisi non fossero insanabili. Da quest’ultima convinzione, il fatto cioè che i “difetti” del capitalismo possono essere “corretti”, nasce l’importanza attribuita da Keynes all’intervento dello Stato in economica. L’atteggiamento di Keynes nei confronti delle crisi è per certi versi parallelo a quello di Marx; anche Marx considerava le crisi una contraddizione insita nella natura stessa del capitalismo. Esiste però una sostanziale differenza nell’ambito della teoria delle crisi in Keynes e Marx: per Marx le crisi sono un fenomeno normale del capitalismo, ma insanabile. Le crisi sono cioè connaturate al modo di produzione capitalistico e la soluzione ad esse può essere ritrovata solo in un suo superamento e nella trasformazione dei rapporti sociali capitalistici. Keynes invece appronta una serie di misure di politica economica per il superamento delle crisi, cioè una serie di interventi statali di riforma. La filosofia sociale sottostante alla Teoria Generale di Keynes è quella della riformabilità del capitalismo. Keynes affronta il problema della gestione politica del sistema economico, ma nel momento in cui riconosce la necessità di controllo dell’economia sente il bisogno di costruire una teoria in cui venga rivoluzionato lo stesso modo di vedere il capitalismo. Le caratteristiche peculiari del capitalismo individuate da Keynes, che qualificano questa nuova “visione”, sono: 1. la centralità della spesa (DOMANDA EFFETTIVA) 2. la centralità delle decisioni di ACCUMULAZIONE 3. la non neutralità della moneta. Ciascuno di questi aspetti verrà trattato diffusamente in successive lezioni. In questa lezione verranno invece esaminati brevemente ad uno ad uno questi concetti. Centralità della spesa Le decisioni di produzione dipendono dalle decisioni di spesa, cioè dal livello della domanda aggregata = beni di consumo più beni di investimento. Sono le decisioni di spesa a determinare anche il livello di impiego delle risorse che normalmente non è quello massimo possibile. Non c’è nulla che assicuri che tali scelte di spesa siano in grado di generare una domanda pari al reddito e quindi al valore della produzione. La domanda effettiva (spesa) è la variabile fondamentale per la spiegazione delle crisi in Keynes. In Keynes i modi di manifestarsi della crisi sono:
La caratteristica permanente delle crisi è quella del non pieno utilizzo della capacità produttiva dovuto al fatto che, se gli imprenditori temono di non vendere, non producono. Per gli imprenditori produrre al di sotto del pieno impiego delle risorse può essere più redditizio. Non esistendo nessuna forza interna al meccanismo di accumulazione che permette di giungere alla piena occupazione, l’equilibrio viene raggiunto ad un livello di non pieno utilizzo delle risorse (EQUILIBRIO DI SOTTOCCUPAZIONE). L’indicazione di Keynes per raggiungere il pieno impiego è allora quella di produrre di più e di spendere di più (innalzando così il li vello di equilibrio), non di produrre di meno (adeguando il livello del la produzione a quello della spesa). Spendere di più per Keynes significa innalzare il livello della domanda aggregata attraverso la spesa pubblica. Centralità delle decisioni di accumulazione Il processo economico capitalistico è dominato dalla produzione e dall’acquisto di beni di investimento, non è dominato dalle decisioni di risparmio. Risparmio e consumo sono variabili passive, dipendono in modo indiretto dalle decisioni di investimento. Gli investimenti non sono funzione del risparmio, esiste infatti una netta separazione tra la figura dei risparmiatori e quella degli investitori: i risparmi dipendono da una decisione di non consumare mentre gli investimenti dipendono da decisioni imprenditoriali; non c’è motivo per cui i due tipi di decisioni debbano essere compatibili. Lo sviluppo del capitalismo va spiegato in termini di investimenti e non in termini di capacità di risparmio del sistema. Gli investimenti sono una variabile autonoma e non è pertanto funzione di altre variabili. Dalle decisioni di investimento dipende l’accumulazione di capitale. Un ruolo fondamentale nella domanda di investimenti è giocato dalle ASPETTATIVE che gli investitori hanno rispetto ai guadagni futuri. Secondo Keynes il capitale si accumula in quanto esiste nel sistema un particolare tipo di operatori economici, gli imprenditori, i quali sfidano l’incertezza del futuro e rischiano di intraprendere nuove attività o di allargare attività esistenti sulla base di valutazioni del futuro che vanno al di là di freddi e certi calcoli matematici di convenienza economica. Le valutazioni sul futuro sono fatte proprio sulla base di redditi futuri attesi che gli imprenditori si attendono da un certo progetto di investimento: LE ASPETTATIVE. Un indice sintetico delle aspettative è l’efficienza marginale del capitale. Non neutralità della moneta Mentre nella teoria neoclassica le variabili monetarie non hanno alcuna influenza sulle variabili reali, per Keynes le variabili monetarie influenzano invece le variabili reali. In questo senso la moneta non è neutrale nell’ambito del processo di produzione capitalistico. Le funzioni essenziali della moneta in Keynes sono tre: a) la moneta è un’unità di conto b) la moneta è deposito di valore c) la moneta serve come finanziamento della produzione e degli investimenti. a) La moneta per Keynes non è un velo. In un sistema capitalistico la moneta è una mediazione necessaria: non si può fare a meno della moneta e non è irrilevante che gli scambi avvengano con la mediazione monetaria. b) Vi è una domanda di moneta in quanto ricchezza in sé. Nel sistema capitalistico esiste una preferenza per la liquidità che Keynes spiega con l’incertezza nel futuro. Keynes collega però la preferenza per la liquidità anche al discorso sull’accumulazione, infatti nei periodi di maggiore instabilità la domanda di moneta speculativa prevale sugli incentivi ad investire: l’attività normale del sistema diventa l’attività speculativa, che è un’attività di breve periodo e a volte più redditizia, mentre il processo di accumulazione e sempre un processo estremamente lungo e riguarda il futuro incerto. Speculazione (investimenti puramente finanziari) e accumulazione capitalistica sono fenomeni fortemente integrati, non si possono spiegare separatamente, da una parte c’e una tendenza continua al non investimento, dall’altra c’è una continua presenza di liquidità nel sistema e cioè di domanda di ricchezza in termini monetari in quanto tale. L’attività speculativa a breve è un’attività cautelativa nei confronti dei rischi connessi al fatto che l’accumulazione riguarda invece il lungo periodo. Talvolta infatti può essere più conveniente per il capitale industriale fare lo sciopero degli investimenti e impiegare i capitali in attività finanziarie. La quantità di moneta o di credito posseduta discrimina tra chi ha finanziamenti per la produzione e chi no. Il possesso di moneta opera una selezione tra gli imprenditori che potranno produrre e quelli che non lo potranno fare, pur volendolo. Keynes mette in luce come il settore finanziario dell’economia (ad esempio le banche) sia in grado di operare delle discriminazioni nell’ambito del settore industriale, quindi anche in questo senso la moneta ha una funzione che non è assolutamente neutrale ma che incide direttamente sul processo di accumulazione e di produzione. NOTE [1] Appunti del corso “Alcuni elementi di economia politica” tenuto fra il febbraio ed il maggio 1980 a cura dell’Ufficio Formazione Provinciale della FLM Milano dalla Professoressa Anna Carabelli dell’Istituto di Scienze economiche e sociali dell’Università di Pavia. Il testo delle lezioni è ricavato dagli appunti di alcuni partecipanti al corso e non è stato rivisto e corretto dall’autrice. Ne deriva che alcune parti risulteranno meno efficaci ed accurate di quanto siano state nel corso dell’esposizione. |