KALECKI E L'ECONOMIA DELLA PIENA OCCUPAZIONE

Appunti di un corso[1]

AA.VV.

I – IL NUOVO RUOLO DELLO STATO NEL PENSIERO KEYNESIANO

Prima di affrontare l’argomento in questione occorre richiamare l’analisi keynesiana sulla “normalità” della disoccupazione in un sistema capitalistico. Per Keynes infatti può succedere che il sistema funzioni in equilibrio anche in presenza di disoccupazione. Tuttavia egli afferma che è possibile ricorrere a strumenti ed interventi che consentono al sistema di raggiungere la piena occupazione. Questi interventi sono operati dallo Stato che diventa quindi un protagonista dell’economia.

E’ perciò importante soffermarsi su questo nuovo ruolo dello Stato, che nel modificare il panorama del sistema economico, sociale e politico fa emergere notevoli problemi e contraddizioni.

 

 

 

Nello schema sopra riportato vengono evidenziati tre aspetti della stessa realtà:

- il sistema economico, in cui si comprendono i rapporti di produzione;

- lo Stato keynesiano, ossia lo Stato che interviene nell’economia (si ricorda che per i neoclassici lo Stato non dove intervenire nell’economia);

- il sistema sociale, cioè le classi sociali ed il sindacato in quanto rappresentante di una o più classi.

Fra queste tre entità esistono dei rapporti.

Il primo, che è stato appunto formalizzato da Keynes, è l’intervento dello Stato nell’economia. Mediante questo intervento, che può essere definito di controllo dell’accumulazione, lo Stato fa sì che l’economia funzioni senza grandi crisi, grazie al sostegno della domanda effettiva. Ciò comporta un notevole vantaggio ai capitalisti poiché, venendo garantiti e stabilizzati i profitti, non dovrebbero in teoria imbattersi in grandi crisi tipo quelle del ‘29.

L’intervento dello Stato ha anche un rilevante riflesso sul sistema sociale dato che diviene promotore di quello che è stato definito come il “welfare state”. Lo Stato keynesiano, essendo uno “Stato del benessere”,  è generatore di effetti positivi per le classi sociali.

Un’altra relazione individuata dallo schema riguarda il prelievo fiscale. Per il controllo dell’accumulazione lo Stato deve spendere e queste spese devono essere coperte con un prelievo fiscale. Non è necessario che le entrate siano pari alle uscite, anzi, lo Stato può e deve agire in deficit. Certamente non deve però mancare un determinato ammontare di entrate che lo Stato preleva dal sistema economico.

Per svolgere quest’azione di controllo dell’economia, coperta parzialmente dal prelievo fiscale e con effetti sulla società, lo Stato richiede ed ha bisogno del consenso politico. Si ha quindi una ulteriore relazione che lega il sistema sociale allo Stato e che viene definita come il problema del consenso.

Tutte queste relazioni sono strettamente intrecciate tra loro perché, a seconda del grado di consenso, lo Stato orienterà in modo differente il controllo dell’accumulazione ed a seconda di come lo Stato controlla l’accumulazione si avranno specifici effetti sul sistema sociale in termini di benessere, effetti che a loro volta condizionano evidentemente il consenso verso lo Stato, influenzato anche dal prelievo fiscale.

Conseguenze dell’intervento dello Stato

Esaminiamo ora le conseguenze principali che derivano dall’intervento dello Stato.

La prima riguarda la separazione fra valore della prestazione lavorativa, ossia il salario monetario ed il salario reale. Nel sistema economico è il rapporto fra sindacato e imprese che determina il valore della prestazione lavorativa: il salario monetario. Il salario reale è invece determinato dallo Stato il quale, nell’intervenire per il controllo dell’accumulazione, produce benessere in termini di servizi e vantaggi sociali.

Una seconda conseguenza è rappresentata dalla contraddizione intrinseca allo Stato keynesiano il quale mentre da un lato interviene a difesa dei profitti, dall’altro rafforza anche i sindacati. Ad esempio, se lo Stato attraverso il controllo dell’accumulazione consente di raggiungere la piena occupazione garantendo nel contempo i profitti, rafforza, con la piena occupazione, anche il sindacato.

Terza conseguenza è la distinzione fra proprietà privata e produzione privata. L’esempio classico a questo proposito è quello del costo del lavoro. Per l’impresa il problema del costo del lavoro non è connesso solo al salario ed alla produttività dei lavoratori, ma  anche agli oneri sociali, che costituiscono una parte del prelievo che lo Stato effettua per far fronte  alle spese sociali. In questo contesto gli interlocutori non sono più due, ossia il sindacato e l’imprenditore, ma tre: lo Stato, il sindacato e le imprese.

La quarta conseguenza è connessa al problema fiscale dello Stato il quale, dovendo far fronte alle uscite con proprie entrate, può anche operare, secondo Keynes, in deficit. Il rapporto tra carico fiscale e spesa può tuttavia far nascere problemi di crisi dello Stato. All’interno del sistema la crisi economica si trasformerebbe in così crisi dello Stato.

II – KALECKI E L'OBIETTIVO DELLA PIENA OCCUPAZIONE

Tramite il controllo dell'accumulazione lo Stato può perseguire diversi obiettivi. E’ importante sottolineare che il conseguimento della piena occupazione non è raggiunto in modo automatico tramite questo controllo, ma viene conseguito soltanto se diventa l'obiettivo di fondo.

In questo paragrafo verrà esaminato l'obiettivo della piena occupazione e i possibili strumenti per il suo raggiungimento dal punto di vista di un altro economista: M. Kalecki.

Si farà riferimento soprattutto a due suoi lavori - uno del 1944 ed un altro antecedente del 1943. Queste date sono significative: ci si trova infatti in un periodo di guerra in cui in tutta l’Europa si aveva un regime di piena occupazione. Il problema che si pone non soltanto a Kalecki, ma anche ad altri, è quello di come mantenere la piena occupazione anche dopo la guerra, in una economia di pace,  riconvertita.

Kalecki individua tre vie per raggiungere e per mantenere il livello della piena occupazione attraverso un controllo dello Stato sull'economia.

1 - La spesa dello Stato in deficit

La prima via suggerita da Kalecki è la spesa dello Stato in deficit:. Ciò determinerebbe un aumento della domanda globale e con essa un aumento dell'occupazione. Il problema diventa come spendere in deficit, in quanto le diverse soluzioni possibili sono tutte indifferenti.

La prima soluzione proposta da Kalecki è quella di fare investimenti pubblici non in concorrenza con le imprese private - ad esempio in scuole, ospedali, autostrade, ecc.

La seconda soluzione fa riferimento a investimenti pubblici in concorrenza con i privati - ad esempio in edilizia popolare, oppure in imprese pubbliche che producono beni come le imprese private.

Terza soluzione sono le spese puramente improduttive, come le sovvenzioni ai lavoratori improduttivi i quali concorrono così a sostenere la domanda effettiva; è l'esempio di Keynes: assumere lavoratori per scavar buche e poi riempirle.

La quarta soluzione indicata da Kalecki è il sostegno ai consumi di massa. Anche nel caso precedente si ha un sostegno al consumo, tuttavia esso risulta  limitato ad alcune classi. In quest'ultima soluzione si fa invece riferimento al sostegno a consumi di massa tramite, ad esempio il pagamento degli assegni familiari, la riduzione delle imposte indirette, o infine applicando  prezzi politici per i beni di prima necessità (in questo caso lo Stato finanzia la differenza tra il prezzo di mercato e il prezzo politico).

Kalecki si pone però la domanda di fondo: è sempre possibile sostenere la spesa in deficit, illimitatamente, o ci sono degli effetti negativi?

Per dare risposta a questo interrogativo, Kalecki si trova a dover anzitutto rispondere ad una prima obiezione che riguarda come finanziare questo deficit.  Per i monetaristi la risposta è semplice: se lo Stato preleva 100 e spende 150 occorre o battere nuova moneta o indebitarsi. Ne consegue che non si può pensare ad un deficit illimitato dato che prima o poi i debiti contratti dovranno essere restituiti. Kalecki  sostiene invece che una spesa in deficit finisce nel lungo periodo col finanziare se stessa. Riprendendo Keynes infatti Kalecki afferma che se a fronte di un incasso di 100 lo Stato spende 150, questa spesa determina effetti cumulativi sul sistema economico che portano con sè un aumento del gettito fiscale il quale poi finanzia il deficit. Secondo Kalecki si può quindi rimanere sempre in deficit in quanto la spesa pubblica crea da se stessa il proprio finanziamento.

Una seconda obiezione riguarda la sottrazione di risorse finanziarie al sistema, risorse che invece potrebbero essere destinate agli imprenditori privati. Tale sottrazione sarebbe causa della caduta negli investimenti. La risposta di Kalecki è ancora una volta di tipo keynesiano: tutto dipende dalla politica monetaria praticata dallo Stato. Kalecki non  accetta come vera la tesi di coloro che sostengono l’esistenza di un risparmio predeterminato. Negando tale esistenza ne consegue che non risulta altrettanto vera la tesi di chi sostiene che quanto più denaro va allo Stato, meno ne va ai privati. Una politica monetaria espansiva dello Stato può infatti far sì che questo vincolo non esista; oltretutto essa permetterebbe di tenere basso il saggio d'interesse, quindi di non generare conflitto fra investimenti privati e azione dello Stato.

La terza obiezione riguarda la spinta inflazionistica causata dalla spesa in deficit dello Stato. Per Kalecki  questa affermazione non è teoricamente accettabile perché fin quando c'è disoccupazione e fin quando c'è capacità produttiva inutilizzata non si genera inflazione. L'inflazione si genera soltanto se si è raggiunto il pieno impiego o la piena utilizzazione della capacità produttiva. In pratica però può succedere che dalla spesa dello Stato in deficit si generi inflazione; questo accade se all’interno del sistema economico sono presenti fattori di rigidità. Ad esempio nel caso italiano, una delle tesi sostenute e che è tutta da dimostrare, è che l’inflazione degli anni settanta sia imputabile al sindacato il quale ha irrigidito l'uso della forza lavoro. Questo irrigidimento non consentirebbe alle imprese di riorganizzare il ciclo produttivo e questo fatto diverrebbe a sua volta causa del blocco delle assunzioni di nuova forza lavoro. In realtà tale tesi sottende una ipotesi non espressa e verificata: si ragiona infatti "come se" per quel settore di classe operaia ci fosse la piena occupazione.

Le quattro soluzioni alternative presentate precedentemente non sono però politicamente indifferenti: non è infatti la stessa cosa mantenere ceti improduttivi o costruire ospedali. Kalecki richiama a questo proposito la necessità da parte dello Stato di operare secondo una scala di priorità, individuando le cose più urgenti, più importanti socialmente e politicamente e ciò comporta  evidentemente una scelta politica.

2 - Incentivi agli investimenti privati

La seconda strada per sostenere la domanda effettiva, o perlomeno per raggiungere la piena occupazione, - che Kalecki peraltro denuncia come impraticabile – consiste nel far  ricorso agli incentivi a sostegno degli investimenti privati; intendendoli soprattutto come incentivi per ridurre il tasso di interesse fatto pagare alle imprese.

A titolo esemplificativo si ricorda che questa è stata una delle strade seguite dai governi italiani negli anni '50 e '60 nel Mezzogiorno e, più in generale, nelle aree depresse.

I principali meccanismi per adottati per attuare tale politica  sono tre.

Il primo: concedere finanziamenti alle imprese a tasso agevolato. Questo meccanismo è stato adottato in particolare a sostegno dei piani di ristrutturazione industriale.

Il secondo meccanismo è il  ricorso alle agevolazioni fiscali concesse agli imprenditori. Questo tipo di intervento si fonda sull'idea che non essendovi vincoli fiscali di alcun genere, gli imprenditori vengono indotti ad investire in quella determinata area o in quel settore che viene agevolato dalla leva fiscale.

Terzo meccanismo fa riferimento alla predisposizione di poli di sviluppo. In questo caso lo Stato, sopportando il costo dell'insediamento, dell’infrastrutturazione dell’area determinerebbe un incentivo all'investimento privato.

Per Kalecki la strada degli incentivi agli investimenti privati non solo risulta per lo più inefficace quanto sostanzialmente errata, per due motivi.

Anzitutto egli afferma che "II vero ruolo degli investimenti privati è quello di fornire strumenti per la produzione di merci, non quello di fornire lavoro sufficiente a raggiungere la piena occupazione". In altri termini, per l'imprenditore fare un investimento significa in realtà acquistare mezzi di produzione per produrre merci; il suo obiettivo non è certamente quello dell'occupazione. Oltretutto l'incentivo alla produzione di merci potrebbe essere conseguito effettuando investimenti che invece di sviluppare l’occupazione, risparmiano lavoro.

La seconda obiezione fa riferimento al fatto che se gli imprenditori, indipendentemente da tutti gli incentivi offerti, decidono di non investire, non lo fanno. Ne consegue che non esiste alcuna garanzia che ad un basso tasso di interesse corrispondano investimenti e occupazione. Ricompare quindi l'idea keynesiana delle aspettative: se gli imprenditori hanno aspettative negative circa la domanda futura, non investono pur in presenza di un tasso di interesse agevolato. Kalecki in particolare parla di "fiducia", cioè i capitalisti devono avere fiducia nella società, devono avere fiducia nello Stato per fare investimenti, indipendentemente dal livello del tasso di interesse.

3 - La redistribuzione del reddito

La terza via ricordata da Kalecki è la redistribuzione del reddito dalle classi ricche alle classi povere operata mediante lo strumento fiscale. Tale trasferimento determinerebbe una crescita del reddito delle classi meno agiate o povere e con essa una crescita della loro capacità di spesa. Poiché le classi povere hanno una più alta propensione al consumo (i bisogni insoddisfatti delle classi meno agiate e povere sono maggiori di quelli delle classi ricche), ne deriverebbe che la loro maggior spesa si tradurrebbe a sua volta in un aumento della domanda effettiva.

Queste sono le principali strade indicate da Kalecki che di fatto si articolano in strumenti di politica monetaria e fiscale a disposizione dello Stato per raggiungere la piena occupazione e, in questo modo, per effettuare un controllo dell'accumulazione. Sebbene il controllo dell'accumulazione possa essere effettuato ricorrendo ad uno di questi metodi tuttavia occorre tener presente che a seconda delle vie praticate corrispondono effetti sociali differenti. Si consideri ad esempio la prima via, ossia la costruzione di ospedali e scuole. Se lo Stato eroga servizi sociali significa che esso contribuisce al salario reale dei lavoratori. L’effetto sociale di questa scelta politica corrisponde ad una redistribuzione del reddito entro il sistema economico. Resterà inoltre da risolvere il problema che è quello di sapere se da queste politiche nasca o meno un consenso sociale sul processo di controllo dell'accumulazione.

III - IL MANTENIMENTO DELLA PIENA OCCUPAZIONE

II problema che si presenta è quello di individuare le modalità per mantenere la piena occupazione dato che si sostiene che in questa situazione sorgono grandi difficoltà per il sistema economico.

Il primo pericolo che viene evidenziato è quello inflazionistico: una volta raggiunta la piena occupazione si genera inflazione. Per impedire che ciò avvenga diventa centrale il tipo d'intervento effettuato dallo Stato, cambiando indirizzo alla spesa pubblica.

Una situazione di piena occupazione richiede che si ponga attenzione anche a ciò che avviene nell’ambito economico-sociale. In una situazione di pieno impiego si ha infatti un rafforzamento dei sindacati e di conseguenza la nascita di rivendicazioni salariali che possono innescare una spirale salari-prezzi, la quale diventa un ulteriore fattore inflazionistico. Questo rischio può venire anche dal lato delle imprese che entrando in concorrenza sul mercato del lavoro per accaparrarsi i lavoratori occupati, utilizzano l'incentivo salariale per sottrarre lavoratori ad altre imprese. Se in situazione di piena occupazione aumentano i salari, aumentano anche i prezzi.

Per evitare la spinta inflazionistica occorre allora procedere attraverso la messa in atto di un controllo dei prezzi e dei salari. Tale controllo possiede un connotato fortemente politico dato che viene effettuato dallo Stato. Va specificato che una politica dei redditi in regime di piena occupazione è una cosa diversa da una politica dei redditi in regime di disoccupazione. In regime di disoccupazione una politica dei redditi congela i rapporti tra le classi, tra lavoratori e capitalisti sia in termini di reddito che in termini di rapporti di forza; invece in un regime di piena occupazione la politica dei redditi può avere la funzione di controllare prezzi e anche salari, pur di mantenere l'obiettivo della piena occupazione.

Un ulteriore pericolo che nasce è quello del manifestarsi di tensioni o di problemi dal lato della bilancia dei pagamenti: può succedere infatti che essa vada in deficit. La risposta da adottare in questo caso consiste in un controllo diretto delle esportazioni e delle importazioni, impedendo certe importazioni e agevolando determinate esportazioni al fine di mantenere l'equilibrio della bilancia dei pagamenti. Evidentemente questa risposta difficilmente si adatta ad un contesto come quello odierno di stati integrati economicamente, per esempio nell'ambito della Comunità Economica Europea; il problema diventa perciò essenzialmente politico poiché occorre individuare spazi e modi di contrattazione tra governi.

Una terza difficoltà che potrebbe sorgere è connessa alla probabile carenza di manodopera che potrebbe portare ad un ristagno nello sviluppo del sistema economico. In questo caso la soluzione passa attraverso una politica di orientamento professionale delle nuove leve di lavoro, programmando la nuova forza lavoro in funzione delle esigenze del sistema economico. La politica economica generale dello Stato deve di conseguenza fare in modo che la capacità produttiva del sistema aumenti parallelamente all'aumento della popolazione lavorativa e questo significa programmazione dello Stato.

A questo punto occorre interrogarsi sul perché, negli stati capitalisti, non si è perseguito fino ad ora l'obiettivo della piena occupazione.

Prima di affrontare questo interrogativo è necessario dare una breve spiegazione su un caso di piena occupazione: quello della Germania durante il periodo nazista. Questa situazione era dovuta principalmente all’esistenza di un regime che si reggeva su una unicità tra Stato e capitalisti che consentiva una rigida programmazione del sistema e non permetteva il sorgere di tensioni sul mercato del lavoro. Evidentemente questa esperienza non è ripetibile in uno Stato democratico in cui pertanto sono compatibili sia le tre vie precedentemente definite che gli strumenti indicati per il mantenimento della piena occupazione. Essi però non sono mai stati attuati.

IV - I MOTIVI DELL'OPPOSIZIONE AL PIENO IMPIEGO

La risposta al perché di questo interrogativo viene data da Kalecki nel secondo articolo. In questo articolo viene messa in rilievo dapprima la durissima, profonda opposizione degli imprenditori alle politiche statali rivolte a raggiungere le piena occupazione.

A questa opposizione vengono date da Kalecki tre spiegazioni, la prima delle quali è l'avversione da parte dei capitalisti all'intervento dello Stato nell'economia, qualsiasi forma assuma, al fine di conservare una posizione di potere. Kalecki infatti dice: in un sistema di laissez faire, cioè in un sistema economico in cui non c'è lo Stato, il livello dell'occupazione dipende in grande misura dal cosiddetto stato di fiducia degli imprenditori. Se questo stato di fiducia si logora, gli investimenti privati diminuiscono e ciò si traduce in una caduta della produzione e dell'occupazione. Ne consegue che tutto ciò che può scuotere lo stato di fiducia dei capitalisti deve essere cautamente evitato perché potrebbe provocare una crisi economica. Questo fatto mette i capitalisti in grado di esercitare un potente controllo indiretto sulla politica del governo. Si assiste così ad un ricatto verso lo Stato da parte dei capitalisti in quanto si sostiene che potenziali suoi interventi peggiorerebbero lo stato di fiducia, determinando conseguenze negative sull'occupazione. Anche una politica di spesa pubblica di tipo keynesiano viene ostacolata in quanto si sostiene l'inammissibilità del deficit del bilancio dello Stato: lo stato di fiducia degli imprenditori dipenderebbe solo da una politica di finanza pubblica in pareggio.

Il secondo motivo di avversione è connesso al tipo d'intervento dello Stato, rappresentato dalle politiche di sussidio per il sostegno del consumo. La motivazione è di tipo morale ed è collegata al fondamento dell'etica capitalistica la quale sostiene che non è possibile mantenere gente che non lavora.

Il terzo radicale motivo di opposizione è connesso ai mutamenti sociali e politici che intervengono in un regime di piena occupazione. In queste condizioni infatti si rafforzano i sindacati e con esso aumenta in maniera tendenzialmente illimitata il potere dei lavoratori. L'obiettivo dei capitalisti non è certamente quello di dare potere ai lavoratori e non dare potere ai lavoratori significa mantenere la disoccupazione.

Citiamo ancora Kalecki:

“Durante la depressione gli uomini d'affari desiderano ardentemente un'espansione; e allora perché non accettano di buon grado l'espansione "artificiale" che il governo può offrir loro? (...) Nella depressione, sia dietro la spinta delle masse, che senza di questa, l'investimento pubblico finanziato da prestiti verrà intrapreso allo scopo di prevenire la disoccupazione su larga scala. Ma se vengono fatti tentativi di applicare questo stesso metodo allo scopo di mantenere l'alto livello d'impiego raggiunto, nel susseguente boom si incontrerà verosimilmente la strenua opposizione della grande industria. Come si è già dimostrato, una situazione permanente di pieno impiego non è affatto nei suoi desideri. I lavoratori si troverebbero nella situazione di "prender la mano" e i "capitani d'industria" diverrebbero ansiosi di "dar loro una lezione". Per di più, l'incremento dei prezzi nella fase di ascesa va a svantaggio dei piccoli e grossi rentiers e li rende stanchi del boom. In questa situazione un potente blocco si formerà verosimilmente tra gli interessi della grande industria e dei rentiers, ed essi troveranno probabilmente più di un economista pronto a dichiarare che la situazione è manifestamente malsana. La pressione di tutte queste forze, e in particolare della grande industria - capace in genere di una precisa influenza sulla macchina dello Stato - è molto probabile che induca il governo a ripiegare sulla politica ortodossa di riduzione del deficit di bilancio. Seguirà a questo una nuova depressione, durante la quale si rivelerà ancora una volta utile una politica governativa di investimenti pubblici”.[2]

V - IL SIGNIFICATO DI PIENA OCCUPAZIONE ED IL CASO ITALIANO

Infine occorre dare significato concreto all’espressione “piena occupazione”. Per far questo occorre giocoforza partire dal dato della disoccupazione, sotto forma di percentuale o numero assoluto, che presenta la realtà economica.

Il problema che si pone è il seguente: nel caso in cui lo Stato adotti politiche in grado di assorbire i disoccupati esistenti, ossia quelli censiti dalle statistiche a livello ufficiale, si può affermare che allora viene raggiunta la piena occupazione?

Interventi effettuati con questo obiettivo hanno dimostrato l'esistenza di fenomeni contraddittori, tali da rendere quasi impossibile il raggiungimento del pieno impiego. La letteratura economica ha offerto un chiarimento a questo proposito affermando che parlare di “piena occupazione” significa parlarne sempre in termini abbastanza relativi, a causa dell’esistenza appunto di alcuni fenomeni.

Il primo fenomeno viene definito "del lavoratore scoraggiato". Esso è collegato al fatto che se non esiste domanda di lavoro, alcune componenti della popolazione non cercano neppure il posto di lavoro. In questo modo essi non rientrerebbero quindi nelle statistiche sulla disoccupazione. Al contrario, se si realizzano nuovi posti di lavoro, queste persone formalmente "non disoccupate" si presentano sul mercato del lavoro. Questo fenomeno non tocca tutti i lavoratori ma certe componenti, ad esempio la componente femminile. E’ anche il caso classico del Meridione italiano, in cui, a fronte di una forte disoccupazione, si hanno statistiche che, sottostimando la realtà, presentando un basso numero di disoccupati.

Il secondo fenomeno è esattamente contrario a quello appena presentato. Per analizzarlo occorre partire dal caso di sistema economico in espansione, in cui si ha un aumento della domanda di lavoro e contemporaneamente un aumento dei salari. In questo caso sarebbe  il più elevato reddito delle famiglie, connesso ai più alti salari, a spingere alcune sue componenti al ritiro dal mercato del lavoro. Quindi potrebbe succedere che ad un aumento della domanda di lavoro corrisponda una diminuzione del numero delle persone disposte a lavorare. Questa situazione viene chiamata condizione di "lavoratore addizionale".

In Italia si sono presentati entrambi i fenomeni.

Il primo, ossia il fenomeno dei "lavoratori scoraggiati", non iscritti nelle liste di collocamento, è riscontrabile in modo “costante” nelle regioni del nostro Mezzogiorno.

Il secondo, ossia il ritiro dal mercato del lavoro, si è invece manifestato intorno al periodo '61-63, gli anni del "miracolo economico" italiano in cui l'economia aveva raggiunto un elevato ritmo di crescita. In questo periodo si è generato il fenomeno dello "slittamento salariale”, per cui i salari di fatto erano aumentati molto di più dei salari contrattuali. Ciò ha comportato, rispetto alla situazione precedente, un aumento relativo del benessere delle famiglie ed al ritiro dal mercato del lavoro di parte dei lavoratori: i giovani che hanno accresciuto la loro scolarità e certe componenti femminili che si sono ritirate tra le mura domestiche.

E’ evidente che pur in presenza di questi due fenomeni, dovendo fare delle scelte operative, chi governa non può fondarle che a partire dal tasso statistico ufficiale di disoccupazione anche se questo, per le ragioni sopra dette, può discostarsi dal dato reale.

Tornando alle vie indicate da Kalecki ed in particolare alle alternative presentate per il deficit della spesa statale, è importante ricordare che quella principalmente seguita in Italia, con l'obiettivo della piena occupazione (che non è mai stata raggiunta, salvo spontaneamente un accenno di pieno impiego negli anni del "boom" economico), è stata quella di mantenere ceti improduttivi al fine di sostenere la domanda. Questa scelta, pur essendo finalizzata a conseguire un effetto sociale positivo, quale il mantenimento ed incremento dell'occupazione in determinate aree, di fatto ha alimentato ceti sociali improduttivi che sono entrati in conflitto oggettivo con la classe operaia. In una situazione di forte inflazione questi ceti cercano ovviamente di difendere i propri redditi chiedendo un mantenimento del loro potere di acquisto e per ottenerlo fanno leva sul loro aggancio con la struttura politica del sistema e sul loro "peso" politico in termini di voto. Ciò determina problemi in termini di lotta all'inflazione che si ripercuotono sul costo del lavoro e quindi sulla classe operaia dato che intervenire su questi ceti, riducendone in qualche modo i redditi o il loro peso è molto difficile da un punto di vista del consenso politico.

NOTE


[1] Appunti del corso “Alcuni elementi di economia politica” tenuto fra il febbraio ed il maggio 1980 a cura dell’Ufficio Formazione Provinciale della FLM Milano dal Prof. Francesco Campanella dell’Istituto di Scienze economiche e sociali dell’Università di Pavia.

Il testo delle lezioni è ricavato dagli appunti di alcuni partecipanti al corso e non è stato rivisto e corretto dall’Autore. Ne deriva che alcune parti risulteranno meno efficaci ed accurate di quanto siano state nel corso dell’esposizione.

[2] M. Kalecki, Sulla dinamica  della teoria capitalistica: saggi scelti, 1933-1970 – Einaudi, Torino 1975.