IL PROBLEMA DI
KEYNES
Appunti
di un corso[1]
Il paradosso della scarsità
in abbondanza
Di Keynes e
di politiche keynesiane forse chiunque ne ha sentito parlare. E’ difficile
tuttavia riuscire a farsi un’idea di fondo sugli scopi che Keynes
perseguiva e sui mezzi che ha utilizzato per raggiungerli.
Ad essere
fortunati si può trovare la seguente sintesi:
Keynes dimostra che nel sistema capitalistico normalmente non si dà
piena occupazione e dimostra che per raggiungere l’obiettivo della piena
occupazione è indispensabile l’intervento dello Stato attraverso la spesa
pubblica.
Tuttavia sia
l’una che l’altra proposizione sono troppo semplici per essere corrette
infatti:
-
la prima limita fortemente la portata
degli interessi e degli scopi di Keynes;
-
la seconda gli attribuisce una precisa
indicazione di politica economica, che egli, di fatto, non propone in
termini tanto semplificati.
Keynes
fondamentalmente intese dimostrare che il capitalismo normalmente si tiene
in una condizione di scarsità in abbondanza, ossia di
insufficiente soddisfazione dei bisogni della collettività a fronte dei
mezzi potenzialmente in grado di soddisfarli. Per usare una delle sue
immagini sempre efficaci di questa scarsità in abbondanza, ci troviamo in
scarsità di case perchè non si può abitare nelle case che i danarosi
possono costruire. Al di là di queste immagini la scarsità assume le
diverse forme di miseria di una parte della collettività che “non può”
ottenere ciò che “vuole” perchè non ha il reddito sufficiente, mentre
avrebbe tale reddito soltanto se le risorse esistenti - lavoro in primis -
fossero pienamente utilizzate. D’altra parte le risorse esistenti - lavoro
in primis - non sono sufficientemente utilizzate perchè ciò che viene
prodotto non può essere domandato dalla collettività che pure ne sente il
bisogno.
Questa
normale condizione di paradosso non è però un dato naturale infatti: la
semplice azione della collettività, tesa allo scopo di eliminare il
paradosso e guidata nei suoi comportamenti dall’autorità pubblica, ha il
potere di trasformare la scarsità effettiva e attuale in abbondanza,
quindi la disoccupazione in piena occupazione, permanendo nel sistema
capitalistico.
Si tratta di
un programma di scienza e di intervento profondamente lesivo
dell’ideologia liberale alla quale Keynes per altro appartiene e
pericolosamente eretico nei confronti della scienza economica dalle cui
fila per altro proviene.
Ecco le
motivazioni storiche: più che la crisi del ‘29 - che certamente accelerò,
chiarì e diede nuovi impulsi alla ricerca di Keynes, completata nel ‘36
con la pubblicazione della sua opera fondamentale “Occupazione, interesse,
moneta” - è la situazione internazionale del mondo capitalistico scaturita
nel 1919 dal trattato di pace di Versailles a influenzare la ricerca di
Keynes in campo economico e politico. Egli partecipò alla stesura della
parte economica di quel trattato, e, trovandosi in disaccordo con il
parere dei suoi stessi superiori si dimise. Per Keynes quella clausola
era la premessa per determinare un’epoca di squilibri nella produzione e
nella finanza che sarebbero esplosi in tensioni sociali nazionali e in
crisi internazionali.
Motivazioni
più strettamente tecniche possono invece essere rintracciate nel fatto che
di fronte a quelle crisi ricorrenti nazionali e internazionali, i colleghi
economisti si dividevano sostanzialmente in due partiti opposti.
Secondo il
primo il sistema capitalista è normalmente in una condizione di pieno
impiego delle sue risorse, lavoro compreso e se, per qualche evento
esterno, viene allontanato da tale posizione, possiede pur sempre
meccanismi automatici che ve lo riportano: dunque di fronte alla crisi è
sufficiente attendere l’esplicarsi di grandi forze autonome.
Il partito
opposto afferma, invece, che tali meccanismi esistono, ma anzichè
riportare il sistema verso la piena occupazione delle risorse, lo
conducono irrimediabilmente e cumulativamente verso la direzione
contraria: soltanto politiche violentemente restrittive e dolorose delle
autorità monetarie e fiscali possono frenare queste cadute.
Keynes non
parteggia nè per gli uni, nè per gli altri, li accomuna anzi nell’accusa
di basarsi su ipotesi irrealistiche circa i comportamenti dei gruppi
sociali. Il sistema capitalistico non possiede alcun meccanismo, nè di
aggiustamento, nè di allontanamento cumulativo.
Dice Keynes:
“Senza una guida consapevole di ciò che vuole raggiungere, esso è incapace
di trasformare la nostra povertà nella nostra abbondanza potenziale”.
L’interpretazione pratica - prosegue Keynes - ci mostra che il capitalismo
non si trova affatto normalmente in condizioni di piena occupazione delle
risorse, ma semmai in una situazione “né disperata né soddisfacente”,
sensibilmente al di sotto dell’occupazione piena e sensibilmente al di
sopra di quel livello minimo dell’occupazione al di sotto del quale si
metterebbe “in pericolo la sua esistenza”. Questa situazione risulta
determinata da tendenze che persistono soltanto finchè sono assenti misure
espressamente intese a correggerle, soprattutto da parte di chi ha
autorità.
La causa del fatto che non si dia piena occupazione ai membri più poveri è
fondamentale da ricercare nella tendenza troppo elevata ad accumulare
ricchezza e a risparmiare da parte dei membri più ricchi della società.
In altre parole “saremo tenuti tanto poveri” quanto è necessario
perchè chi investe giudichi conveniente investire.
Non
accade invece che sia l’investimento ad adattarsi all’obiettivo della
piena occupazione.
Come
cambiare le cose?
Keynes offre
un’analisi in cui dimostra che la piena occupazione è raggiungibile e
indica un compito dell’autorità pubblica. Contrariamente a quanto i
propugnatori di politiche pseudo keynesiane gli attribuiscono, egli però
non indica mai “ricette” da farmacista. Individua soltanto come compito
fondamentale dell’autorità pubblica quello di “controllare” i
comportamenti di consumo e di investimento della collettività, ma non per
imporre o comandare qualcosa, né tanto meno per sostituire decisioni
pubbliche a decisioni private. Si tratta, piuttosto, di una spiegazione
più accorta, più sottile e certamente più penetrante in cui si punta sul
cambiamento delle convinzioni della collettività al fine diperseguire
azioni collettive tese allo scopo della piena occupazione e
dell’abbondanza.
Vediamo ora
praticamente e brevemente ambedue questi momenti: prima quello analitico,
poi quello propositivo di politica economica.
La teoria di Keynes
Secondo
Keynes fondamentalmente per un’analisi del processo capitalistico è la
constatazione che nessuno appartenente alla collettività sa con certezza
quale sia il futuro, né conosce le decisioni che altri prenderanno che
influenzano la sua sfera di azione.
Ad esempio,
chi produce beni non sa con certezza quanto potrà produrre e vendere in
futuro. Il lavoratore a sua volta non sa quanto potrà guadagnare domani e
non sa neppure se sarà occupato o meno. E così via.
In
un’economia concreta tutte le decisioni di consumo, di risparmio di
produzione, di investimenti sono prese in regime di incertezza e non c’è
alcun legame tra le decisioni prese da persone diverse.
Consideriamo
da prima quali effetti questa situazione genera a livello della
produzione. Keynes parla del principio della domanda effettiva: il livello
della produzione del sistema è determinato dalla domanda attesa dalle
imprese e cioè dalla domanda per consumi e per investimenti che le imprese
si attendono da parte della collettività.
La domanda
per consumi è incerta, ma è pur sempre regolata da comportamenti
convenzionali: i consumatori di norma aumentano i consumi con il crescere
del reddito.
La domanda
per investimenti è invece di gran lunga più incerta dato che le decisioni
di investimenti si riferiscono a beni i quali manifesteranno la loro
redditività in un futuro abbastanza lontano e per essi non esiste alcun
parametro di riferimento oggettivo, come per i consumi.
La domanda
di investimenti finisce così per dipendere in maniera cruciale dalle
aspettative di profitto futuro, le quali non hanno alcuna base razionale,
ma sono soggette a rapidi e improvvisi cambiamenti.
Siccome il
livello della domanda è uguale ai consumi più gli investimenti e dato che
i primi dipendono a loro volta dal reddito, si può allora affermare che in
definitiva sono gli investimenti a determinare il livello della produzione
e dunque dell’occupazione. Se il livello degli investimenti, uniti ai
consumi, è insufficiente a generare una domanda complessiva tale da
assorbire la produzione che si potrebbe ottenere con la piena occupazione
di tutti i fattori della produzione e in particolare della forza lavoro,
la produzione effettiva di beni si adeguerà alla domanda più bassa e vi
sarà disoccupazione involontaria di lavoro e capacità produttive
inutilizzabili. Saremo dunque “tenuti poveri” in funzione del ritmo degli
investimenti che viene giudicato conveniente in relazione alle aspettative
future.
A questo
ragionamento si obietta che gli investimenti non sono sufficienti a
promuovere la piena occupazione perchè c’è un risparmio insufficiente:
solo se i risparmi fossero più alti e i consumi più bassi, si avrebbero
maggiori investimenti e dunque più occupazione.
Di fatto,
nelle economie capitalistiche, risponde Keynes, le cose non vanno a questo
modo. Maggior risparmio non significa affatto maggiori investimenti, ma
semmai il contrario. Ciò perchè il capitalismo è un’economia monetaria.
Infatti, in
un’economia basata sulla moneta, i risparmi sono effettuati dalle famiglie
in moneta: essi implicano peraltro una decisione di non consumare oggi, ma
non anche, contemporaneamente, una decisione di consumare di più in
futuro.
Il
risparmiatore - dice Keynes - decide di saltare un pasto oggi, ma non dice
affatto al cuoco quando decide di mangiare e che cosa intende che gli
venga preparato.
In altri
termini, il risparmio in un’economia in cui il futuro è incerto riflette
soltanto la convenienza a non adottare immediatamente decisioni reali di
consumo, di produzione o di investimenti, perchè queste risulteranno, una
volta effettuate, immodificabili. La moneta consente
di rimandare tali decisioni ad un momento
successivo, quanto si riterrà di disporre di una base informativa e
decisionale migliore. La moneta si presenta con uno “scudo contro
l’incertezza”, riserva di potere d’acquisto generalizzato, utilizzabile in
ogni momento.
La presenza
della moneta elimina, in definitiva, ogni possibile ponte tra le decisioni
di risparmiare della famiglia e quella di investire delle imprese. E’
impossibile che il risparmio si traduca in investimenti perché il non
consumo presente non è di per sè maggiore consumo futuro, certo nella data
e nell’ammontare.
Gli
imprenditori non possono sapere quali beni saranno richiesti in futuro
perchè neppure i risparmiatori lo sanno.
Possiamo
concludere che, trovandoci in un’economia monetaria, il risparmio non è
consumo certo e l’investimento, basato sulle aspettative di redditività
dei beni capitali, è l’elemento autonomo che determina produzione,
occupazione e la dinamica del capitalismo: dunque la disoccupazione
involontaria è un fenomeno permanente del sistema e la piena occupazione
un puro caso.
La moneta ha
una seconda importante caratteristica. Essa non viene richiesta soltanto
per essere contrapposta ai beni da acquistare, ma viene richiesta anche
per sè, ossia per la liquidità. Affinchè chi possiede moneta rinunci ad
essa, ossia rinunci al potere di acquistare qualsiasi cosa in qualsiasi
momento ad esempio per acquistare titoli, occorre pagare un prezzo:
l’interesse. Quindi più alto è il saggio di interesse tanto più dovrebbe
valere la tendenza a rinunciare alla liquidità, ma viceversa, date certe
aspettative, un alto saggio di interesse deprime gli investimenti.
Poiché date
le aspettative, una riduzione dell’interesse provoca un aumento degli
investimenti, si può pensare che una politica espansiva che parta
dall’autorità monetaria metta in azione la catena seguente:
espansione della moneta — riduzione dell’interesse
aumento degli investimenti — aumento della domanda
aumento della produzione — aumento dell’occupazione
Tuttavia
questa catena si può spezzare in qualsiasi punto. Una particolare
variazione della moneta offerta può, soprattutto in tempi difficili, non
provocare affatto una riduzione del l’interesse perchè la collettività
assorbe tutta la maggior liquidità e la trattiene, sia pur rinunciando a
un interesse che otterrebbe se detenesse titoli, perchè ritiene che tale
tasso di interesse è annualmente basso e conviene attendere ad acquistare
titoli, quando l’interesse aumenterà.
In
definitiva dunque una politica monetaria non è sufficiente a contrastare
la depressione perchè non riesce a modificare il clima di aspettative
pessimistiche.
Keynes
dimostra anche che, al contrario di quello che alcuni si aspettano, una
politica di riduzione dei salari non serve affatto ad aumentare
l’occupazione. Ciò accade perchè se si ammette che il maggior reddito e la
maggior occupazione dipendono dagli investimenti e dunque, dalle
aspettative degli imprenditori, la riduzione dei salari monetari significa
minor domanda futura e questo fatto non influirà affatto positivamente
sugli investimenti, dunque neppure sull’occupazione.
Politiche economiche
keynesiane. In che senso?
Da quanto
precede sembrerebbe che Keynes esprima un giudizio negativo sulla attività
di investimenti da parte degli imprenditori privati, così come sembra
ritenere inefficaci politiche economiche di espansione monetaria o di
riduzione salariali al fine di aumentare reddito e occupazione. Ne
deriverebbe che, poichè egli promuove un intervento della autorità
pubblica, la ricetta consista nell’aumento della spesa pubblica.
Questa
sintesi contiene qualche modesto elemento di verità ma anche, e
soprattutto, delle cattive interpretazioni del pensiero di Keynes.
Quanto al
primo punto - attività imprenditoriale privata - Keynes molto chiaramente
non rivolge nessuna accusa all’investitore privato in quanto soggetto
dotato di intraprendenza, ma sostiene piuttosto che nella condizione in
cui egli esplica la sua attività, risulta che egli investe in modo tale da
non garantire la piena occupazione.
Il primo
compito dell’autorità pubblica, dunque, sta non tanto nel sostituirsi al
privato - la mia teoria, afferma Keynes, “è piuttosto conservativa nelle
conseguenze che implica”! - ma nel modificare l’opinione comune circa gli
scopi da raggiungere e le possibilità di raggiungerti. Secondo Keynes il
movente del guadagno non può affatto essere eliminato: egli pretende che
non si sacrifichi la volontà di gioco, ma che si abituino i giocatori a
poste meno elevate. Occorre consentire che la partita si giochi, ma
controllandone le poste e consentendo ad ogni individuo una conoscenza
della situazione generale e delle possibilità al suo interno meno limitate
di quanto non sia normalmente. Keynes ritiene impossibile fornire
indicazioni di politica più precise e valide per qualsiasi evenienza. Ciò
che conta è fissare gli scopi e promuovere idee per convincere sulla
opportunità del loro perseguimento. Ciò serve non a correggere
provvisoriamente ma a modificare strutturalmente un sistema che, lasciato
a se stesso, ristagna nella situazione nè disperata nè soddisfacente di
una povertà in mezzo all’abbondanza.
NOTE
[1]
Appunti del corso “L’eredità di Keynes” tenuto presso la FLM Lombardia
dal Prof. Nicolo’ de Vecchi (Università di Pavia) nei primi anni
’80, non rivisti dall’autore.
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