IL MERCATO DEL LAVORO

Appunti di un corso[1]

AA.VV.

Questa lezione è dedicata al mercato del lavoro che verrà considerato secondo la teoria neoclassica, keynesiana e post keynesiana. Si cercherà inoltre di mettere in evidenza le analogie tra il pensiero keynesiano e quello marxista.

Si inizierà esponendo la teoria neo classica verso la quale vengono indirizzate le critiche che Keynes rivolge nella sua teoria generale.

La rappresentazione convenzionale neoclassica del funzionamento del mercato del lavoro consiste nell’idea che il mercato dei lavoro sia regolato dai movimenti della domanda e dell’offerta di lavoro. Per rappresentare graficamente tale movimento si ricorre ad un sistema di assi cartesiani in cui sull’asse verticale si indica il salario reale (W/P) e su quello orizzontale le quantità di lavoro domandate e offerte (N). Il funzionamento del mercato del lavoro è regolato dai movimenti e dalle relative cause di una domanda (ND), che è rappresentata con una linea decrescente e da un’offerta di lavoro (No) che è rappresentata con una linea crescente. Tali andamenti sono spiegati col fatto che i capitalisti hanno convenienza a domandare quantità crescenti di lavoro man mano che il saggio di salario reale si abbassa ed i lavoratori hanno convenienza, al contrario, ad offrire quantità crescenti di lavoro man mano che il saggio di salario s’innalza (Fig 1).

 

 

Fig 1

Legenda dei simboli della Fig. 1

W

Salario monetario

P

Indice dei prezzi

W/P

Salario reale

N

Quantità di lavoro in ore-lavoro

No

Quantità di ore-lavoro offerta dai lavoratori

ND

Quantità di ore-lavoro domandata dagli imprenditori

E

Punto di equilibrio nel quale, in corrispondenza del salario reale (Wo), la quantità di ore lavoro offerte (No) è uguale alla quantità di ore lavoro domandate (ND)

Secondo la teoria neoclassica esistono forze sufficienti — che hanno a monte i comportamenti “razionali” delle imprese e dei lavoratori — che tendono a stabilire situazioni in cui il saggio di salario corrisponda all’equilibrio fra domanda ed offerta di lavoro. E’ implicita in questa spiegazione l’idea che le situazioni in cui le quantità offerte di lavoro eccedono le quantità domandate — ossia situazioni in cui vi è disoccupazione — sono tutte quelle che stanno al di sopra del punto di equilibrio E. Al di sopra di esso, per salari superiori a Wo, ad  esempio per un salario a livello W1, si ha che le quantità offerte di lavoro superano le quantità domandate (quantità offerta = No1; quantità domandata: ND1). La differenza, rappresentata dal segmento ND1 – No1, misura la disoccupazione. Secondo questa teoria dunque la causa della disoccupazione è data dal fatto che il salario reale è troppo elevato rispetto al punto di equilibrio E il quale garantisce l’eguaglianza fra domanda e offerta.

Per quanto riguarda poi il mercato delle merci, secondo i neoclassici l’equilibrio si realizza in situazioni in cui il reddito non consumato (S), cioè risparmiato, è esattamente uguale all’ammontare degli investimenti (I), cioè S = I. La rappresentazione neoclassica di questo equilibrio viene effettuata mediante un grafico in cui si indica il saggio di interesse sull’asse delle ordinate (concepito come il prezzo che regola risparmi e investimenti) e sull’asse orizzontale le quantità risparmiate e investite. (Fig. 2).

 

 

Fig.2

La giustificazione dell’andamento di tali curve consiste nel fatto che l’ammontare degli investimenti effettuati dalle imprese cresce man mano che il saggio d’interesse si abbassa e diminuisce man mano che il saggio d’interesse s’innalza; sicché il suo andamento può essere rappresentato da una linea discendente. Il risparmio è invece rappresentato da questo comportamento: i risparmiatori risparmiano tanto più, quanto più elevato è il saggio d’interesse che riescono ad ottenere investendo i loro risparmi. Quindi, al crescere del saggio d’interesse il risparmio s’innalza, al diminuire dei saggio d’interesse il risparmio si abbassa. Anche qui esiste un livello di equilibrio del saggio d’interesse (punto E del grafico di Fig. 2) in cui risparmi e investimenti si eguagliano esattamente. Sul mercato della produzione e delle merci tale punto di equilibrio esprime il fatto che tutta la produzione offerta dalle imprese viene assorbita dalla domanda.

Occorre sottolineare che nella teoria neoclassica —  che in questo ambito razionalizza un’idea abbastanza intuitiva e abbastanza diffusa — l’ammontare del risparmio effettuato nel sistema economico non dipende solamente dal saggio di interesse, ma dipende anche dalla distribuzione del reddito fra le classi sociali.

Il ragionamento è fondato sul fatto che le due classi sociali hanno una diversa propensione a risparmiare: i capitalisti risparmiano una percentuale maggiore dei loro profitti di quanto non facciano i lavoratori dei loro salari. Dato questo assunto, se per esempio  nel complesso dell’economia la distribuzione del reddito muta a favore dei salari, ne deriva che, a parità di saggio di interesse, il risparmio diminuisce. Nel caso rappresentato dal grafico di Fig.3 se la linea del risparmio S passa da S1 a S2, a parità di saggio d’interesse i1, il risparmio non è più quello rappresentato dal segmento OA (corrispondente al punto Sa) ma risulta inferiore, essendo rappresentato dal tratto OB (corrispondente al punto Sb).

 

 

Fig.3

La stessa considerazione si può fare per tutti i saggi d’interesse. Si supponga per esempio che prima che dell’aumento dei salari il risparmio fosse rappresentato da una quantità indicata dal punto Sc e che è misurato dal segmento OC a cui corrisponde un saggio di interesse i2. Dopo che è avvenuta la distribuzione del reddito a favore dei salari, ne deriva che, a parità di saggio di interesse, per il complesso dell’economia si risparmierà meno (punto Sd) ed il risparmio sarà rappresentato dal tratto OD che sta sulla curva S2, la quale è spostata verso sinistra rispetto alla curva S1.

Sempre secondo la teoria neoclassica se il salario sale dal livello W1, che è quello che garantisce il pieno impiego (punto E), per cui tutta l’offerta di lavoro viene assorbita dalla domanda (ND= No), al livello W2, allora si crea disoccupazione ed essa è misurata sul grafico di Fig 4 dalla differenza tra il segmento OA ed OB).

 

 

Fig. 4

Che cosa succede inoltre per quanto riguarda il mercato dei prodotti se i salari aumentano?

Mentre un aumento dei salari determina uno spostamento della curva dei risparmi per cui la collettività, per ognuno dei livelli del saggio d’interesse, risparmia meno e sul mercato del lavoro c’è disoccupazione (cioè non tutta l’offerta di lavoro viene assorbita), sul mercato dei prodotti invece il movimento del saggio d’interesse fa sì che l’equilibrio venga realizzato lo stesso. Esisterà sempre pertanto un punto, come ad esempio il punto E2 della Fig 5, in cui si realizza l’eguaglianza risparmi—investimenti (Fig. 5).

 

 

Fig. 5

Questo punto (E2) è tale che rispetto all’equilibrio realizzato in corrispondenza di E1 (a minori salari) presenta:

§       un maggiore saggio d’interesse (i2 >i1);

§       minori investimenti di prima (OB < OA).

Dunque poiché l’equilibrio sul mercato delle merci si realizza ugualmente, per i capitalisti   esiste la garanzia che, qualunque quantità convenga produrre nella nuova situazione distributiva con salari più elevati, questa verrà assorbita dalla domanda.

Ciò che è importante evidenziare a questo punto, per le implicazioni ideologiche e politiche che la teoria neoclassica comporta, è il fatto che questo nuovo equilibrio (punto E2) si realizza riducendo gli investimenti e aumentando il saggio d’interesse e poichè il salario è più elevato di quello “giusto” (W2 invece di W1), si crea disoccupazione sul mercato del lavoro mentre sul mercato delle merci non si crea una situazione di squilibrio.

Si è visto secondo la teoria neoclassica  cosa succede se, rispetto a un livello di salario di equilibrio W1 il salario reale s’innalza (in W2) , ora si mostrerà cosa succede nell’ipotesi di abbassamento dei salari.

Seguendo lo schema neoclassico si potrebbe affermare che se i salari potessero scendere verso il loro livello di equilibrio, da un lato si determinerebbe un aumento della domanda di lavoro perché le imprese avrebbero convenienza a richiedere più lavoro, dall’altro i lavoratori diminuirebbero invece l’offerta di lavoro perché, per l’appunto, i salari sono più bassi. Per questa via si realizzerebbe l’eguaglianza fra domanda e offerta di lavoro e la disoccupazione sarebbe riassorbita. Riabbassandosi il salario, spostandosi quindi il reddito nazionale a favore dei profitti su cui viene effettuato più risparmio, accadrebbe anche che il risparmio complessivo dell’economia aumenta (la curva del risparmio si sposta verso destra) e si perverrebbe ad un nuovo punto di equilibrio a cui corrispondono sia un più basso saggio d’interesse e, soprattutto, più elevati investimenti.

Keynes critica questo apparato concettuale e questa teoria.

Keynes si poneva un problema molto pratico, relativo al dibattito politico — economico del suo periodo storico, connesso al fatto che l’Inghilterra del tempo risentiva, come tutte le economie capitalistiche, della grande crisi del ‘29. Certamente esistevano cause di crisi e di disoccupazione che risalivano ad anni precedenti, tuttavia un duro colpo alla disoccupazione l’aveva dato la crisi del ’29: negli anni tra il ‘30 e il ‘34 in Inghilterra la disoccupazione era dell’ordine del 12 —13%; ossia riguardava circa un milione e mezzo di persone.

L’opinione pubblica conservatrice ovviamente addebitava la causa di questa disoccupazione agli eccessi delle richieste salariali. In particolare c’era stato un lungo sciopero dei minatori, che in Inghilterra hanno una grande tradizione di rivendicazioni, anche ricorrendo a lotte molto dure, che aveva scatenato nell’opinione pubblica moderata — all’interno del Partito conservatore, ma anche all’interno del Partito liberale di cui Keynes era simpatizzante e consigliere economico — una posizione fortemente antisindacale. Sul piano della politica economica i governi conservatori proponevano, come rimedio alla situazione di disoccupazione, tagli salariali. E ciò nonostante non fosse difficile capire che la causa di quella crisi non risiedeva tanto negli elevati salari, bensì nella bassa domanda internazionale. Si ricorda che vi era stata una crisi mondiale che aveva abbassato di molto gli scambi internazionali ed il loro livello, quindi le esportazioni, la domanda, la produzione, l’occupazione. Benché questa fosse una situazione abbastanza intuitivamente comprensibile, in effetti in quel periodo non lo fu non solo nell’opinione pubblica conservatrice ma anche in quella moderata. Questa posizione non emergeva neppure a livello teorico e accademico perché dominava la teoria che attribuiva le cause della disoccupazione ai livelli di salari reali troppo elevati rispetto a quelli di equilibrio.

Keynes si pose l’obiettivo di dimostrare come la proposta di tagli salariali potesse risultare inefficace rispetto ad obiettivi che si proponevano il riassorbimento della disoccupazione e l’aumento degli investimenti.

 Alla teoria neoclassica si potrebbero formulare critiche che investono diversi suoi aspetti, ad esempio se sia o meno corretto costruire curve di offerta e di domanda di lavoro di questo genere, ossia se sia scientificamente corretto spiegare con questi grafici il funzionamento del mercato del lavoro. Ma non era questo ciò che interessava Keynes.

La critica keynesiana

Keynes poneva il seguente interrogativo: si supponga che si possano realizzare riduzioni salariali, esiste la garanzia, come sostengono gli economisti neoclassici ed i partiti di governo, che a seguito di queste riduzioni si determini un riassorbimento della disoccupazione? Intendendo con l’espressione “riassorbimento della disoccupazione”, “aumento della domanda di lavoro”.

Per Keynes la domanda di lavoro dipende dalla quantità di produzione che viene effettuata nell’economia, ossia dal livello del reddito, il quale a sua volta è determinato sostanzialmente dal livello degli investimenti che operano attivando il meccanismo espresso dal “moltiplicatore”. Ne deriva che quanto più elevati sono gli investimenti, più elevato è il livello del reddito.

Il punto cruciale è, per Keynes, dimostrare qual’è l’effetto delle riduzioni salariali sugli investimenti.

Ragionando sul risparmio, si è detto che i mutamenti salariali fanno spostare le curve di risparmio (ad esempio da S1 a S2 in caso di aumenti salariali), ciò significa che  mutamenti nella distribuzione del reddito, conseguenti ad aumenti o diminuzioni dei salari reali, modificano il comportamento dei risparmiatori.

Nelle curve di fig. 5, che rappresentano secondo la teoria neoclassica il movimento del risparmio derivante dal comportamenti dei risparmiatori, non viene invece ipotizzato alcun movimento sul versante dell’investimento, connesso al comportamento degli investitori. In pratica si ragiona come se i mutamenti nella distribuzione del reddito cambiassero il comportamento dei risparmiatori, ma non quello degli investitori, nel senso che per ogni saggio d’interesse viene comunque determinato il corrispondente livello degli investimenti. Gli investitori, cioè, se ottengono il 10% di saggio d’interesse, investono, qualunque sia il livello del salario, sempre la stessa quantità; se hanno l’8%, qualunque sia il livello del saggio di salario, investono sempre la stessa quantità; se hanno il 15%, qualunque sia il livello del salario, investono sempre la stessa quantità. In sostanza, nella teoria neoclassica si presuppone che il comportamento di chi investe venga toccato solamente dai mutamenti del saggio d’interesse e non venga invece influenzato dai mutamenti salariali.

Qui è il punto cruciale verso cui si muove la critica di Keynes.

Per Keynes l’investimento dipende dalle aspettative circa la domanda futura di merci anche se nel calcolo razionale che i capitalisti dovrebbero fare, quando decidono di effettuare investimenti, compare sicuramente il saggio d’interesse e le future quantità, producibili con un dato impianto, che si spera o si pensa di vendere, risultano a loro volta fortemente influenzate dal livello del salario reale. Perché?

Perché una buona parte della domanda di merci dipende dai consumi e in buona parte essi  dipendono dai livelli dei salari.

Anche gli imprenditori comprendono che mutamenti nei salari reali influenzano i livelli dei consumi e quindi anche quelli della domanda futura.

Keynes dedica un intero capitolo della sua opera all’esame degli effetti dei mutamenti di salari monetari sulle aspettative degli imprenditori che investono.

Rispetto al saggio d’interesse: se i salari diminuiscono, si può ritenere che esso si abbassi e questo potrebbe rappresentare uno stimolo ad investire di più. Tuttavia, per quanto riguarda la redditività degli impianti, cioè la capacità di consentire un volume di produzioni di merci che poi devono essere vendute, Keynes affermava che la diminuzione dei salari, comportando una riduzione dei consumi, avrebbe indotto gli imprenditori a metter in atto interventi finalizzati ad adattare i propri impianti ad una diminuita domanda di consumi. Questo dovrebbe avuto un effetto deprimente sugli investimenti che non sarebbero aumentati. Gli imprenditori pertanto, aspettandosi di vendere meno in futuro, anche di fronte ad una diminuzione del saggio di interesse connesso alla riduzione del salario, possono essere pessimisticamente influenzati dalle aspettative negative circa la domanda futura e decidere di investire meno o di non investire affatto.

Naturalmente ci si potrebbe domandare: questo non è un effetto che dovrebbe verificarsi solamente per quegli imprenditori che producono beni di consumo?

Perché nell’economia non si producono solo beni di consumo, ma anche beni di investimento, allora ci si potrebbe chiedere: se gli imprenditori che producono automobili, elettrodomestici e generi alimentari, a seguito della diminuzione del salario si aspettano presumibilmente una diminuzione delle future vendite e riducono pertanto gli investimenti, gli imprenditori che non producono beni di consumo hanno anch’essi motivo di attendersi una futura caduta della domanda? Per Keynes la risposta è affermativa: infatti se i produttori di beni di consumo riducono gli investimenti a causa del fatto che si attendono una minore domanda futura, probabilmente anche gli imprenditori che producono beni d’investimento devono attendersi a loro volta una riduzione della loro propria domanda e quindi essi stessi ridurranno gli investimenti.

In definitiva, per il complesso dell’economia, le riduzioni salariali porterebbero, in luogo di un aumento degli investimenti, una loro riduzione. Ma una riduzione degli investimenti porterebbe a sua volta a ridurre ulteriormente il reddito e con esso anche l’occupazione.

La riduzione dei salari darebbe dunque luogo ad un effetto esattamente contrario a quello che la teoria neoclassica prevede.

Per rendere ancora più esplicita la critica radicale di Keynes alla teoria neoclassica, occorre osservare che egli non avrebbe mai accettato come valide anche le rappresentazioni del mercato del lavoro e di beni considerate nei grafici precedentemente descritti.

Come si è detto la teoria neoclassica suppone che variazioni del salario non comportino variazioni della curva che rappresenta il comportamento delle imprese che investono (la curva I nel grafico di Fig. 5) ma che la modifica riguardi solamente quella del risparmio (la curva S1 che si sposta in S2); detto in altri termini viene sostenuto che a seguito di variazioni salariali, solamente i risparmiatori mutano il loro comportamento ma non gli investitori. Keynes fonda la propria critica a questo ragionamento contrapponendo l’idea che invece la variazioni salariali incidono sulle decisioni di investimento. Se si hanno variazioni salariali in diminuzione, la curva dell’investimento (I1) potrebbe così spostarsi verso sinistra (I2), tendendo ad una riduzione. Ne deriva che l’investimento che si ipotizza venga effettuato risulti minore (Fig. 6).

 

 

Fig.6

Inoltre, benché Keynes non dedichi molto alla rappresentazione del mercato del lavoro in termini grafici,  si deve far presente che egli non avrebbe accettato la rappresentazione dei neoclassici in cui la domanda di lavoro aumenta al diminuire del saggio di salario. Non avrebbe quindi accettato l’idea per cui, grazie alla riduzione dei salari, sarebbe diventato conveniente adottare processi che impiegando più lavoro che capitale determinerebbero  un incentivo all’aumento della domanda di lavoro.

Keynes infatti è dell’opinione che la domanda di lavoro non dipende solo dal salario ma anche dal reddito ed il reddito dipende a sua volta dall’investimento, il quale invece diminuisce. Keynes negherebbe dunque valore anche alle rappresentazioni grafiche neoclassiche del mercato del lavoro.

Una seconda considerazione sul ruolo delle aspettative nella critica keynesiana.

Ci si chiede, perché nella teoria neoclassica le aspettative non sono prese in considerazione?

Le aspettative sono l’idea che si fanno i soggetti economici, cioè gli imprenditori, i risparmiatori, i lavoratori stessi circa il futuro.

Gli schemi neoclassici, che descrivono il funzionamento dell’economia, il comportamento delle imprese, degli investitori e dei risparmiatori, presuppongono un funzionamento dell’economia in uno stato di assoluta certezza. Si suppone cioè che gli individui sappiano prevedere con assoluta certezza il futuro. L’esistenza di un mondo di questo genere può essere concepita solamente se si ipotizza un futuro che non cambi rispetto al presente. Ne consegue che in un mondo certo, come quello della teoria neoclassica, le aspettative non esistono poichè che non ve n’è bisogno. Solo così si può pensare che domani e nel futuro, al variare del saggio di interesse, il comportamento degli investitori sia lo stesso di oggi.

Se invece si ammette, come sostiene Keynes, che i soggetti si trovano ad agire entro un  mondo incerto e che le imprese assumono le proprie decisioni sulla base delle aspettative che hanno circa il futuro formulano — aspettative che non sono assolutamente certe ma piuttosto volatili — allora non si può ritenere ad esempio, che se cambia il saggio del salario, le due curve (I) ed (S), che descrivono i comportamenti, rimangano immutate.

Se una variazione del saggio di salario rappresenta un mutamento della situazione presente che ha delle ripercussioni sul futuro che non possono essere previste esattamente, allora, dato che intervengono le aspettative, non si può continuare a ragionare come se il comportamento fosse sempre quello descritto dai grafici.

E quando si parla di aspettative non si parla più di cosa certa, tutt’al più di cosa probabile. Infatti Keynes sostiene: se il salario diminuisce, è assai probabile che l’effetto delle aspettative sia quello di deprimere l’investimento anziché di aumentarlo dato che esiste una aspettativa di caduta dei consumi; in secondo luogo, poiché mutamenti di questo genere alterano talmente la realtà futura, ne deriva che il comportamento dell’investitore risulterà dominato anche da una certa cautela. Di fronte al rischio di incertezza, egli sarà infatti facilmente portato ad adottare comportamenti ispirati dalla cautela e ad effettuare pertanto meno investimenti di quelli che si potrebbero fare.

L’incertezza del futuro, che determina aspettative estremamente volatili, sono quindi una causa del fatto per cui il sistema capitalistico non riesce a produrre mai livelli d’investimento sufficientemente elevati per generare la piena occupazione.

Probabilmente in un mondo in cui esistesse totale certezza e le previsioni degli imprenditori fossero perfette — fatti salvi altri tipi di critica — il tipo di rappresentazione neoclassica del comportamento dei soggetti funzionerebbe un po’ di più.

Si noti che secondo questa rappresentazione, in un mondo certo, non ci può essere disoccupazione stabile perché i salari si abbasseranno fino a trovare una posizione di equilibrio tra domanda ed offerta. I neoclassici negano dunque la possibilità che nel mercato del lavoro esista disoccupazione che non sia temporanea e non ammettono quindi la possibilità che il sistema sia in qualche modo in equilibrio però con disoccupazione. Qui sta la grande differenza tra la teoria dei neoclassici e Keynes.

Di recente i neoclassici hanno cercato di superare alcuni limiti della teoria originaria, introducendo ad esempio alcune considerazioni sul futuro; tuttavia nonostante la sofisticatezza dei ragionamenti, in pratica ciò che emerge è che si continua comunque a ragionare in un mondo certo e come se si potesse operare in una situazione di previsione perfetta.

Benché Marx non avesse ragionato in questi termini, ossia ricorrendo a schemi come  i neoclassici e con la terminologia di Keynes, occorre tuttavia sottolineare l’esistenza di una forte analogia tra i suoi ragionamenti e le tesi sostenute da Keynes.

La si ritrova ad esempio quando Marx affronta un problema classico, quello della disoccupazione cosiddetta tecnologica, cioè la disoccupazione creata dalla sostituzione di macchine a lavoratori, che comporta licenziamento di lavoratori. Già nell’800, rispetto a questo problema, c’erano state molte controversie e la posizione dominante era quella che sosteneva che comunque il mercato avrebbe provveduto al riassorbimento di questi disoccupati, di questa disoccupazione creata dall’adozione di processi produttivi a più intenso uso di macchinari nei posti di lavoro. Praticamente D. Ricardo era stato l’unico economista dei primi dell’800 che aveva sostenuto il contrario.

Quando Marx a distanza di circa cinquant’anni, riesamina i problemi delle fluttuazioni dell’occupazione e delle crisi acute che erano manifestate nell’economia capitalistica dei primi dell’800, critica la concezione per cui l’introduzione delle macchine creerebbe una disoccupazione solamente temporanea perché il mercato in qualche modo la riassorbirebbe. Marx sostiene che questo effetto non è affatto certo perché può succedere che la disoccupazione iniziale riduca il consumo da parte dei lavoratori. Questo riduce la domanda di merci delle imprese che producono beni di consumo e queste a loro volta riducono i loro investimenti; riducendosi gli investimenti delle industrie che producono beni di consumo, le industrie che producono beni d’investimento vedranno ridotta la loro domanda; allora anche queste riducono i loro investimenti e si sviluppa così un processo cumulativo di caduta del livello dell’occupazione e della produzione verso il basso.

E’ chiaro che Marx con la sua analisi si poneva altri problemi, ma quando parla dei problemi di disoccupazione, di tendenze spontanee del mercato a riassorbirla ecc. ecc. ragiona nello stesso modo come poi — con altro linguaggio — avrebbe ragionato Keynes.

C’è ancora qualcosa da dire per quanto riguarda la “normalità della disoccupazione” e l’uso delle tecniche di produzione.

Se già le argomentazioni di Keynes contro l’efficacia delle riduzioni salariali per eliminare la disoccupazione rappresentano un duro colpo alla teoria neoclassica che crede nella capacità del mercato di portare alla piena occupazione, tuttavia esse non possono essere utilizzate contro la tesi della “normalità della disoccupazione”.

In astratto ci si potrebbe infatti chiedere non solo se sia possibile riassorbire la disoccupazione con dei tagli salariali, ma anche se sia possibile una situazione in cui non ci sia disoccupazione. Per i neoclassici, si ricorda, non si dà mai uno stato di disoccupazione, se non puramente temporaneo.

Gli argomenti che Keynes utilizza per negare la normalità dello stato di disoccupazione dei neoclassici sono strettamente collegati al ragionamento sulle certezze e incertezze con cui i soggetti economici si trovano ad operare entro il mercato di cui si è parlato. Si tratta di argomenti specificatamente keynesiani.

Infatti mentre il ragionamento sull’insufficienza delle riduzioni salariali agli effetti del raggiungimento del pieno impiego è un argomento che si può ritrovare sia in Keynes che in Marx, le argomentazioni dei due economisti attorno alla normalità della disoccupazione dei neoclassici sono abbastanza diverse, anche se [dal punto di vista del relatore] non necessariamente incompatibili. Il ragionamento di Keynes si basa prevalentemente sul discorso dell’incertezza sul futuro la quale scoraggia l’investimento e non consente che esso raggiunga una dimensione tale da produrre un livello di reddito capace di assorbire tutta la disoccupazione. L’incertezza circa il futuro induce infatti cautela o di prudenza nei capitalisti imprenditori nel formulare le loro decisioni d’investimento. Ed è una situazione costante nel sistema capitalistico: infatti, essendo un sistema economico in cui non vi è nessuna garanzia che le decisioni di. produrre e d’investire siano in futuro perfettamente soddisfatte dal mercato, induce ad effettuare livelli d’investimento sistematicamente inferiori a quelli che potrebbero realizzare il pieno impiego.

Non solo sistematicamente inferiori, ma anche estremamente sensibili ai piccoli mutamenti della situazione non solo economica ma anche politica. Keynes arriva addirittura a dire, in modo un po’ caustico, che addirittura le decisioni di investimento potrebbero dipendere dalla “digestione dei capitalisti”, cioè dagli umori, dalle componenti psicologiche ecc. Questa è una battuta che Keynes utilizzava per segnalare quanto sia volatile la decisione d’investimento.

Se quindi i livelli di investimento sono sistematicamente più bassi di quelli che dovrebbero realizzare il pieno impiego ed anche estremamente fluttuanti, ne deriva che la disoccupazione esiste sempre e fluttua anche molto, e, questo, per cause che non sono totalmente razionali. Keynes porta ad esempio la situazione inglese del tempo: l’avvento di un New Deal (che era una politica di centro—sinistra) o dei laburisti al governo ha generato immediatamente nel sistema economico, per opera dei capitalisti imprenditori e non per ragioni perfettamente razionali, ma per ragioni connesse al clima politico, una situazione di basso investimento. La spiegazione keynesiana della normalità della disoccupazione è stato recepito anche dalla tradizione teorica della sinistra. Per esempio M. Dobb, in un lungo dibattito dei decenni scorsi sulla superiorità del socialismo sul capitalismo (su modelli teorici di capitalismo e socialismo), aveva sostenuto questo tipo di argomento: la ragione principale della superiorità del socialismo non sta tanto nel problema efficienza—inefficienza della produzione, ma nel fatto che nel socialismo la pianificazione garantisce la certezza degli sbocchi, cioè garantisce, in quanto pianifica a priori, la possibilità che la produzione sia assorbita dai vari impieghi, dalle varie domande; in un sistema capitalistico incerto non esiste altrettanta garanzia. Il socialismo, dal punto di vista economico, risulta superiore al capitalismo perché grazie alla pianificazione può garantire livelli d’investimento sistematicamente superiori a quelli che si realizzano in un sistema spontaneo, non regolato, atomistico come quello capitalistico. Giudicando tale argomentazione strettamente sulla base dei dati, per molto tempo questo sembrava essere vero: infatti il livello di accumulazione dei Paesi socialisti risultava sistematicamente superiore a quello dei Paesi capitalisti.

Mentre Keynes per spiegare la normalità della disoccupazione basa essenzialmente il suo ragionamento attorno all’incertezza in un sistema economico spontaneo, non regolato, non pianificato, Marx assume un punto di vista alquanto diverso anche se non incompatibile [n.d.a :secondo il relatore] con quello keynesiano. Dove la non incompatibilità risiederebbe  nel fatto che Marx probabilmente sottoscriverebbe l’idea che un mercato non regolato (anarchico) non sia in grado di generare nei capitalisti la sicurezza che la loro produzione venga sempre assorbita e che questo possa determinare un sottoinvestimento normale, sistematico.

Secondo Marx la normalità della disoccupazione è spiegata dalla necessità del capitalismo di regolare il livello dei salari sul mercato del lavoro ad un’altezza compatibile col mantenimento dei rapporti sociali—capitalistici. Marx ritiene che la normalità della disoccupazione fosse prevalentemente spiegabile con la necessità per il sistema capitalistico di avere sempre a disposizione un esercito di riserva di lavoratori disoccupati tale da far concorrenza agli occupati e moderare così le richieste salariali e non solo salariali.

E’ chiaro che aumenti salariali oltre un certo livello, mentre da un lato incidono sul profitto dei capitalisti, riducendolo, dall’altro rafforzano anche politicamente la classe operaia.

Nella teoria di Marx l’investimento viene effettuato sistematicamente dai capitalisti verso tipi di processi, tipi di impianti che sostituiscono lavoro, che aumentano l’intensità di capitale rispetto al lavoro, per generare continuamente un livello di disoccupazione sufficiente alla necessità di mantenere un salario abbastanza basso. Quindi oltre al motivo dell’incertezza, che spiega la disoccupazione da domanda per insufficienza di investimenti, esiste anche un altro motivo che spiega una disoccupazione di tipo diverso, la disoccupazione tecnologica; la quale deriva dal fatto che i capitalisti come classe hanno un sistematico, continuo stimolo a sostituire processi che usano più capitale che lavoro al fine di creare e mantenere questo esercito di riserva.

Ci si potrebbe domandare se le due spiegazioni sono complementari e compatibili, oppure in contraddizione l’una con l’altra.

Io direi [n.d.a: il relatore] che sono complementari e compatibili, anche se spiegano tipi di disoccupazione diversa che poi nella realtà del sistema economico coesistono ampiamente.

Ad esempio i livelli di disoccupazione attuali (fine anni 70) in Italia sono spiegati sia per l’esistenza di una crisi da insufficienza di domanda (ivi compresa la domanda internazionale che questi schemi non tengono in conto ma che non va certo trascurata) la quale è molto bassa a causa del prezzo del petrolio, dell’instabilità del sistema monetario internazionale e altro ancora, sia da processi di ristrutturazione tendenti ad aumentare la produttività del lavoro che si sono molto accentuati dal ‘73 in poi. Attualmente non si dispongono ancora dati che ci consentano di verificare a livello statistico quanto sopra affermato, ma l’esperienza di questi anni probabilmente ne è conferma. La robotizzazione della Fiat è solamente un esempio, forse il meno importante.

In conclusione, mentre Keynes nella teoria generale era interessato soprattutto alle ragioni di disoccupazione dovute alla domanda, quindi soprattutto a fenomeni di breve periodo (Keynes non era interessato a studiare tendenze di lungo periodo del capitalismo), Marx invece rivolgeva il suo interesse all’analisi delle tendenze di lungo periodo. Da qui anche le ragioni della non incompatibilità delle due teorie.

NOTE


[1] Appunti del corso “Alcuni elementi di economia politica” tenuto fra il febbraio ed il maggio 1980 a cura dell’Ufficio Formazione Provinciale della FLM Milano dal Prof. Lorenzo Rampa dell’Istituto di Scienze economiche e sociali dell’Università di Pavia.

Il testo delle lezioni è ricavato dagli appunti di alcuni partecipanti al corso e non è stato rivisto e corretto dall’Autore. Ne deriva che alcune parti risulteranno meno efficaci ed accurate di quanto siano state nel corso dell’esposizione.