STORIA DELL'ECONOMIA ITALIANA

POLITICA ECONOMICA

POLITICA DEGLI INVESTIMENTI

POLITICA NEL MEZZOGIORNO

brevi note

Autori Vari

BREVE STORIA DELL’ECONOMIA ITALIANA

Leandra D’Antone (1)

Gli aiuti americani

            Con la fine della seconda guerra mondiale le regioni meridionali italiane, e la Sicilia in primo luogo, riconquistarono le condizioni basilari per una ripresa dell’economia: la libertà degli scambi e la pace.

            Tra la prima e la seconda guerra mondiale il mondo era diventato più piccolo. Le guerre avevano cambiato la geografia del commercio internazionale e indotto le nazioni a potenziare soprattutto l’industria bellica e rifornire il mercato interno; la crisi degli anni Trenta, caratterizzata dal fallimento di banche e industrie e dalla disoccupazione di massa, aveva ulteriormente rafforzato le politiche autarchiche, caratterizzate dalla ricerca della massima autosufficienza possibile da parte dei singoli paesi e quindi dalla limitazione delle importazioni. Ne avevano particolarmente risentito le cospicue esportazioni dalle regioni prevalentemente agricole del Mezzogiorno italiano e soprattutto le produzioni agrumicole delle ricche aree costiere. Un danno altrettanto consistente era venuto dal blocco dell’emigrazione deciso dagli Usa nel 1924. Non solo la popolazione era divenuta eccessiva rispetto alle risorse e alle possibilità di lavoro, ma si erano ridotte le cospicue rimesse in dollari che gli emigrati mandavano alle famiglie di origine; le condizioni di vita nelle campagne meridionali e in Sicilia erano notevolmente peggiorate.

Nel dopoguerra uomini, merci e capitali poterono ricominciare a circolare liberamente. Il nuovo ordine economico e politico fu tuttavia diversissimo da quello abbandonato col primo grande conflitto. La funzione guida in Occidente, precedentemente svolta dall’Inghilterra, apparteneva ora al più ricco paese capitalistico del mondo, gli Stati Uniti d’America che, dopo il “grande crollo” degli anni Trenta, temeva le crisi cicliche del sistema capitalistico tanto quanto il comunismo. Secondo gli americani entrambi i fenomeni andavano contrastati, nel primo caso attraverso politiche di intervento pubblico che correggessero i fallimenti del mercato, e in particolare l’eccedenza della produzione rispetto alla domanda, il crollo dei prezzi e la perdita di capacità di acquisto da parte dei consumatori; nel secondo caso usando come antidoto l’uscita dalla povertà e la diffusione del benessere.

            Promotori nel 1944 a Bretton Woods della creazione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale per la ricostruzione e lo sviluppo, gli Usa furono protagonisti della ricostruzione postbellica dei paesi europei con una imponente erogazione di aiuti gratuiti e di prestiti in dollari. Il piano Marshall inondò dal 1948 al 1952 le economie del vecchio continente di beni materiali, dollari e tecnologie statunitensi, svolgendo una funzione decisiva nel rafforzamento dei sistemi produttivi dell’Europa occidentale e nella riattivazione degli scambi tra paesi europei e tra Europa ed altri continenti.

            Nell’erogare i loro aiuti all’Italia gli Usa raccomandarono costantemente al nostro governo di rivolgere una particolare attenzione alle regioni meridionali e alla Sicilia. Determinante fu l’impressione che della realtà del Mezzogiorno e, attraverso di essa, dell’Italia, si erano fatti gli americani durante la lenta risalita lungo la penisola. Più che come luogo del compromesso politico istituzionale e del freno esercitato sulla spinta rinnovatrice della Resistenza, il Mezzogiorno era apparso come un territorio a elevata conflittualità sociale. Nel 1943 - 44 si erano ampiamente diffuse le lotte dei coloni parziari finalizzate a ottenere una maggiore quantità di quote, e le lotte di contadini e braccianti per ottenere l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate a cooperative da essi costituite.

            Nel 1945-46 era esplosa in Sicilia l’insurrezione separatista, con l’obiettivo di rendere l’Isola indipendente dall’Italia. Anche se l’insurrezione armata, egemonizzata dagli agrari siciliani più ostili al cambiamento, non mobilitò che un numero limitato di uomini, l’idea separatista ebbe un notevole ascendente sulla popolazione siciliana anche di orientamenti progressisti. Il fenomeno si concluse con la sconfitta dell’ala militare e la concessione alla Sicilia di una notevole autonomia. La regione ebbe nel 1947 uno Statuto speciale che prevedeva un parlamento e un governo regionale, quindi autonomia legislativa e di governo nell’ambito del sistema politico nazionale; prevedeva inoltre autonomia tributaria e di spesa.

            Successivamente, tra il 1948 e il 1950 in tutte regioni italiane e particolarmente in quelle meridionali e in Sicilia, sotto la guida dei partiti di sinistra, dilagarono le occupazioni di terre da parte di braccianti e contadini che chiedevano l’attuazione della riforma agraria, cioè l’eliminazione della grandissima proprietà assenteista e l’assegnazione delle terre a contadini che le coltivassero direttamente. La repressione di quelle lotte da parte delle forze dell’ordine provocò la morte  di decine di manifestanti.

            Gli orientamenti americani favorevoli allo sviluppo economico della Sicilia e delle regioni meridionali non furono però dettati unicamente dalla preoccupazione di contenere il disordine sociale; un ruolo non secondario fu anche determinato dal fatto  che negli Usa risiedesse una comunità italo americana di circa  cinque milioni di persone, prevalentemente di origine meridionale, con notevole capacità di pressione elettorale, e che non pochi di essi, appartenenti alla classe dirigente, si trovassero a lavorare, insieme ad altri italiani esuli in America per ragioni razziali, nella burocrazia federale, nelle ambasciate, negli uffici preposti alle politiche di aiuti all’Europa

Le politiche meridionaliste e la Cassa per il Mezzogiorno

            La collaborazione tra Italia e Usa fu fortissima fino a tutti gli anni Cinquanta, quando i governi italiani attuarono per la prima volta delle organiche politiche meridionaliste. In particolare tra il 1949 e il 1950 furono emanate le leggi di riforma agraria, che prevedevano l’esproprio contro indennizzo del latifondo improduttivo e la assegnazione della terra, in quote o poderi, a contadini.

Nel 1950 venne istituita la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nel Mezzogiorno d’Italia, più nota come Cassa per il Mezzogiorno, con un programma decennale di investimenti per oltre 1200 miliardi di lire, da destinare a opere di bonifica, alla costruzione di acquedotti, di impianti elettro irrigui, di strade e ferrovie e in generale alle infrastrutture. Secondo le teorie economiche dominanti in quegli anni l’ammodernamento infrastrutturale del territorio costituiva infatti l’indispensabile premessa per un successivo sviluppo industriale.

Tutti i provvedimenti sopra citati godettero della copertura finanziaria degli aiuti e dei prestiti americani. Ingenti risorse furono utilizzate per il rafforzamento delle industrie elettrica, chimica, siderurgica e soprattutto per il potenziamento dell’industria automobilistica. Ma nel complesso la parte più cospicua degli aiuti venne destinata all’agricoltura, al risanamento del territorio, alla lotta alla malaria (che venne definitivamente debellata). Tra il 1949 e il 1950, in vista dell’esaurimento del piano Marshall, il governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella, contrattò personalmente col presidente della Banca mondiale, Eugene Black, l’erogazione di prestiti per l’attuazione di un organico piano di sviluppo del Sud d’Italia, prestiti che furono alla base proprio dell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno.

            Si trattò di una geniale operazione il cui scopo non era soltanto quello di mettere a disposizione risorse per il Mezzogiorno e le Isole, ma soprattutto quello di protrarre oltre la scadenza del Piano Marshall gli aiuti in dollari all’Italia. I grandi investimenti per l’ammodernamento dell’economia comportavano per il nostro paese anche un aumento delle importazioni di materie prime e tecnologie, di cui era deficitario. Grazie agli aiuti americani e soprattutto ai prestiti in dollari fu possibile pagare tali importazioni senza creare squilibri nei conti con l’estero e instabilità monetaria.

            Le opere pubbliche e infrastrutturali legate all’attuazione del Piano Marshall e del primo programma della Cassa per il Mezzogiorno impegnarono tutte le imprese pubbliche e private italiane, soprattutto quella localizzate al Nord (ma anche quelle del centro del Centro e del Sud). La Fiat, la Montecatini, la Breda, l’Innocenti, la Pirelli, l’Edison, la Finsider, la principali banche italiane, in quegli anni non solo approvarono i programmi meridionalisti dei governi, ma aderirono anche all’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, lo Svimez.

La strategia della straordinarietà

L’istituzione della Cassa non fu una scelta ispirata a una motivazione “risarcitoria”, né ebbe come scopo fondamentale la compensazione degli svantaggi accumulati dalle aree meno sviluppate del paese. Anzi, dopo i provvedimenti degli anni Trenta, che culminarono nel 1933 con la nascita dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), la creazione della Cassa può essere considerato l’evento più rilevante della “strategia della straordinarietà”. Come l’Iri, la Cassa per il Mezzogiorno fu infatti un ente di diritto pubblico, esterno alla pubblica amministrazione, incaricato di un preciso programma a termine. Come l’Iri, fu concepito in circostanze eccezionali.

Eccezionali furono in primo luogo le politiche del governo statunitense e della Banca mondiale, a favore della ricostruzione dell’Europa e dello sviluppo delle aree depresse del mondo, e la particolare sensibilità mostrata dalla classe dirigente americana verso la questione meridionale italiana. Eccezionale fu il grande prestigio conquistato in ambiente politico internazionale e, in particolare presso le istituzioni finanziarie, da alcuni tecnocrati italiani, in particolare Menichella e Giordani; quindi, ancora, l’impronta tecnocratica data dal democristiano De Gasperi ai suoi governi e la sua felice intesa con il presidente Einaudi e il governatore della Banca d’Italia, Menichella; infine l’interesse mostrato da grandissima parte del mondo imprenditoriale italiano per l’azione pubblica meridionalista.

Come l’Iri, la Cassa per il Mezzogiorno sopravvisse di gran lunga a quelle circostanze di eccezionalità che ne avevano promosso la nascita, contribuendo a trasformare le regole della “straordinarietà” in elementi strutturali del modello di sviluppo del capitalismo italiano del secondo dopoguerra. Fu infatti prorogata fino al 1984, quando fu trasformata in Agenzia per il Mezzogiorno. Solo nel 1992 l’intervento straordinario fu definitivamente soppresso.

Il miracolo economico

            Gli effetti delle opere pubbliche e infrastrutturali legate all’attuazione del Piano Marshall e del primo programma della Cassa per il Mezzogiorno, nel contesto della liberalizzazione degli scambi, furono dirompenti e portarono, verso la fine degli anni Cinquanta, tutte le regioni italiane a livelli di reddito e di consumi mai conosciuti. In Sicilia, nonostante lo Statuto autonomistico e la presenza di una classe politica ambiziosa di imporre un suo punto di vista regionalistico, prevalsero le stesse dinamiche e logiche politiche ed economiche nazionali e internazionali, anche se il quadro politico fu a volte differente da quello nazionale, collocando l'isola persino all'avanguardia nella sperimentazione di nuove formule di governo.

            Negli anni del cosiddetto miracolo economico la Sicilia e il Mezzogiorno parteciparono pienamente all’esplosione dei consumi di massa (principalmente automobili, elettrodomestici, televisioni) che segnarono non solo l’uscita dalla povertà, ma un vero e proprio salto nella qualità e nei modi di vita, con conseguenze sull’organizzazione della vita sociale, familiare e sui modelli culturali dominanti. Se le regioni più arretrate e meno industrializzate poterono raggiungere un tale traguardo, ciò non fu solo grazie l’uso degli aiuti americani e dei prestiti in dollari della Banca mondiale che consentirono di attuare vasti piani di spesa pubblica in condizioni di stabilità monetaria. Anche la riforma agraria e l’intervento straordinario, con l’eliminazione del latifondo improduttivo e con la realizzazione di importanti opere pubbliche, ebbero infatti come conseguenza un’intensa modernizzazione dell’agricoltura e delle infrastrutture. Ma probabilmente l’accelerazione più forte al miglioramento delle condizioni di vita venne da una vera e propria fuga dalle campagne verso le città che si verificò dalla seconda metà degli anni Cinquanta, in considerazione del fatto che i poderi e le quote assegnati con la riforma agraria ai contadini erano troppo piccoli per resistere sul mercato. Fortissimo fu il richiamo delle grandi città del Nord-Italia e del Centro-Europa, dove la possibilità del lavoro nella fabbrica moderna implicava la possibilità di uscire dall’isolamento rurale e godere della socialità e dei servizi delle grandi città. Nonostante i disagi e le difficoltà del primo inserimento di molti emigrati e nonostante la persistenza di gravi fenomeni di povertà e disagio economico e sociale, i nuovi consumi di massa furono presto alla portata di quasi tutte le famiglie italiane.

Sviluppo agricolo e infrastrutture

            Grazie alla massiccia opera di trasformazione del territorio e dell’agricoltura, negli anni Cinquanta-Sessanta si debellarono due gravissimi mali secolari dell’ambiente agrario meridionale e siciliano: la siccità e la malaria. Inoltre, anche grazie alla eliminazione della sovrappopolazione agricola, si verificò un aumento sorprendente della produzione agricola che nelle nuove zone irrigue del Sud e della Sicilia crebbe anche di quattro volte.

            Anche lo sviluppo industriale ebbe un ruolo nella crescita del reddito delle regioni meridionali e della Sicilia. Su questo punto occorrono tuttavia alcune precisazioni.

            Una parte consistente dalla crescita del settore fu legata all’ attuazione della riforma agraria e del programma di opere infrastrutturali della Cassa per il Mezzogiorno, oltre che alla prorompente crescita urbana. Essa riguardò l’industria alimentare, la produzione di fertilizzanti, di materiali per l’edilizia (comprese le armature in acciaio per gli invasi idroelettrici, edifici, autostrade), di condutture per acquedotti, di condutture fognarie e per impianti irrigui. In questo caso la presenza di medie e piccole industrie locali o comunque meridionali fu cospicua, accanto a quella di grandi imprese pubbliche e private esterne.

L’industria chimica e petrolchimica

Un’altra parte della crescita industriale riguardò invece l’espansione della chimica e della petrolchimica. Essa avvenne in seguito alla scoperta di giacimenti petroliferi e di metano in alcune zone della Sicilia orientale, ma fu molto condizionata da alcune decisioni prese a livello nazionale, come l’istituzione dell’Eni, nel 1953, e l’emanazione nel 1957 di una legge che obbligava le imprese a partecipazione statale a localizzare il 40% dei loro investimenti nel Mezzogiorno.

Alla fine degli anni Cinquanta anche la Cassa per il Mezzogiorno fece la scelta di passare dalla realizzazione delle condizioni per l’industrializzazione, attraverso l’ammodernamento delle infrastrutture su tutto il territorio, a una politica di industrializzazione diretta, e mise a disposizione delle grandi industrie pubbliche e private nazionali un’incredibile quantità di agevolazioni e incentivi per attrarle nelle regioni meridionali. Con un ribaltamento degli indirizzi scelti nel primo decennio, negli anni Sessanta il 50% delle somme stanziate riguardarono l’industria, il 28% grandi opere pubbliche e il 20% l’agricoltura.

            L’industria chimica e petrolchimica furono caratterizzate dalla presenza di grandi monopoli pubblici e privati, da una modesta capacità di assorbimento di lavoro, e da una mancanza pressoché totale di collegamento col tessuto economico e con le imprese locali. Il loro sviluppo riguardò un numero ristrettissimo di aree, Siracusa-Priolo, Augusta, Gela, tanto da essere ricordato con la formula delle cattedrali nel deserto. Nei poli chimico e petrolchimico della Sicilia si concentrarono gli interessi di multinazionali come la Gulf o di grandi imprese nazionali come  Montecatini, Edison, Eni, Sir.

            Nonostante la localizzazione meridionale gli impianti ricordati operarono sotto la direzione, e in funzione dei nuclei strategici del settore, rigorosamente settentrionali. Un importante episodio di industrializzazione “isolata”, anche se a più alto assorbimento di lavoro rispetto alla petrolchimica, fu l’impianto automobilistico di Termini Imerese, dove si fece sostanzialmente assemblaggio per la Fiat di Torino.

            I fenomeni descritti spiegano come mai la crescita dell’occupazione nell’industria in Sicilia, nonostante le importanti novità intervenute, sia stata tra il 1951 e il 1971 piuttosto contenuta (come abbiamo già ricordato gli addetti all’industria passarono dal 13,7% della popolazione attiva nel 1951 al 14,7% del 1961, al 18,2% del 1971). Negli stessi anni crebbero invece vistosamente l’edilizia e il terziario pubblico e privato: quest’ultimo nel 1971 occupava il 28,4% della popolazione attiva.

Le imprese a partecipazione statale e le attività di salvataggio

Gli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta furono vissuti all’insegna della crescita dei consumi di massa e dell’espansione della spesa pubblica per l’istruzione, la previdenza pensionistica e assicurativa e la sanità (stato sociale). La spinta al rialzo del potere d’acquisto e alla conquista di garanzie sindacali e diritti civili fu irrefrenabile.

            Tutta l’Italia, compresa la Sicilia, fu attraversata dal famoso autunno caldo, che esplose, anche con risvolti drammatici, nelle campagne, nelle fabbriche, nelle scuole e nelle Università. Gli Atenei siciliani vennero occupati dagli studenti per ottenere l’ampliamento del diritto allo studio e un’ impostazione più moderna e critica dell’insegnamento universitario. La benefica cultura della libertà dal bisogno e dall’autoritarismo culturale, che caratterizzò gli anni Sessanta, sottovalutò tuttavia le conseguenze che sarebbero derivate nel tempo da un’eccessiva crescita della spesa pubblica. Negli anni Settanta l’aumento del potere d’acquisto attraverso l’aumento dei salari si accompagnò costantemente al rialzo dei prezzi provocando una pericolosa corsa all’inflazione; i consumi crebbero, ma lo sviluppo divenne sempre più fittizio.

Tuttavia l’instabilità dell’economia italiana in quegli anni si dovette soprattutto ad altre ragioni, che ebbero un peso rilevantissimo per le sorti dell’economia del Mezzogiorno e della Sicilia. Oltre al fatto che lo Stato cominciò a spendere oltre le sue possibilità finanziarie, fu negativa la scelta di attribuire all’impresa pubblica un ruolo primario nell’industrializzazione italiana e soprattutto nell’industrializzazione delle regioni meridionali. Tale tipo di impresa aveva in Italia la forma particolare di grandi enti che con capitale e per conto dello Stato controllavano il capitale delle imprese dipendenti, dette perciò imprese a partecipazione statale. Gli enti più importanti furono i già ricordati Iri ed Eni, cui si aggiunsero nel 1958 l’Ente per la gestione della attività minerarie (Egam), nel 1962 l’Ente per il finanziamento dell’industria meccanica (Efim), e nel 1971 la Società per la gestione delle partecipazioni industriali (Gepi).

           Gli enti pubblici e le loro imprese operarono su tutto il territorio nazionale con totale autonomia dallo Stato e dalla pubblica amministrazione, ed ebbero una rilevantissima presenza in Sicilia. Le conseguenze furono diverse. Non dovendo dar conto delle loro perdite economiche, che nella gran parte dei casi furono assai consistenti soprattutto dagli anni Settanta, ma avendo diritto al rifinanziamento pubblico per ragioni di pubblico interesse, essi alimentarono in maniera progressivamente più corposa il deficit pubblico (va tenuto presente che spesso gli enti pubblici di gestione vennero utilizzati per salvare imprese in crisi e per salvaguardare l’occupazione dei dipendenti). Inoltre, proprio in quanto totalmente autonomi dallo Stato anche se pubblici, tali enti indebolirono la pubblica amministrazione, che perdette poteri e divenne sempre più incapace di fare una buona politica industriale e infrastrutturale.

           Nel Mezzogiorno e in Sicilia le imprese a partecipazione statale rappresentarono un modello di industrializzazione indotto dall’esterno, senza radicamento nell’economia locale e incapace di generare nuove imprese locali e nuove possibilità di lavoro. Studi recenti sostengono che tali tipi di imprese distrussero o indebolirono preesistenti attività imprenditoriali.

           La Regione Sicilia, anziché tracciare un reale autonomo percorso di sviluppo, radicalizzò la scelta nazionale di pervadere l’economia di società industriali e finanziarie a capitale pubblico. Gli enti finanziari e industriali, creati in Sicilia con capitali della regione, finirono con l’aggiungersi a quelli nazionali. Nel 1957 nacque la Società finanziaria siciliana, nel 1960 l’Azienda asfalti siciliana, nel 1963 l’Ente minerario siciliano, nel 1967 l’Ente siciliano per la promozione industriale. Anche questi enti, più che una politica di promozione, finirono con lo svolgere un’ attività di salvataggio delle imprese in difficoltà.

La cattiva politica e la cattiva economia

Il modello di industrializzazione scelto negli anni Sessanta per la Sicilia si sarebbe rivelato particolarmente fragile nei decenni successivi.

            Infatti la crescita urbana si svolse in questa regione, più che altrove, all’insegna della totale assenza di norme. Le grandi città come i piccoli centri si espansero senza piani regolatori. Esplose l’abusivismo edilizio; le città, come le aree costiere, vennero letteralmente deturpate dalla febbre del mattone e dal cattivo gusto. Parallelamente l’emigrazione svuotò soprattutto le zone interne e lasciò interi paesi della montagna e della collina in una situazione di totale abbandono e di progressivo degrado fisico.

            Negli anni Settanta, al fine di non compromettere la cospicua domanda di prodotti industriali e di beni di consumo proveniente dalle regioni meridionali, la spesa pubblica fu finalizzata soprattutto alla realizzazione di opere e attività rispondenti non alle utilità del territorio o dei cittadini, ma piuttosto alla creazione di occupazione e stipendi. Iniziò una storia di lavori mai finiti o malfatti per potervi nuovamente mettere mano, di mancata manutenzione, di maggiorazione continua dei costi, di crescita del settore impiegatizio e delle pensioni di anzianità e invalidità (spesso falsa); ovvero di dilapidazione del denaro pubblico.

            Alla generosa fonte della spesa pubblica attinsero sia la cattiva politica che la cattiva economia. Com’è noto i partiti di governo presero l’abitudine a finanziarsi attraverso le tangenti ottenute con i lavori pubblici. Questi ultimi venivano assegnati alle imprese senza bandi di gara.

            Il fenomeno che tuttavia incise in maniera più rilevante sull’economia siciliana, cristallizzandone per decenni sia la cattiva politica che la cattiva economia, fu il salto di qualità compiuto dalla mafia siciliana che negli anni Sessanta-Settanta si diede al grande traffico di stupefacenti ed armi, conseguendo profitti inimmaginabili. Per reimmettere nell’economia legale gli enormi proventi delle attività illecite la mafia entrò in tutti i possibili campi di attività attraverso i quali transitavano ingenti capitali: le opere pubbliche e le banche. Le imprese mafiose espansero enormemente la loro presenza sul territorio non solo della regione ma anche nazionale, e videro crescere la loro potenza internazionale. Ma soprattutto entrarono a pieno titolo nel circuito degli appalti e dell’economia pubblica, che in Sicilia sopportò il doppio peso della corruzione tangentizia e della criminalità organizzata.

            Molti giudici impegnati nella lotta alla mafia sono stati com’è noto assassinati, insieme a molti poliziotti e uomini delle forze dell'ordine, per averne evidenziato il carattere di specifica associazione a delinquere a scopo di lucro, mentre la cattiva politica e le cattive imprese continuavano o a negare il fenomeno o ad accreditare l’idea di un fatto culturale fondato sui cosiddetti “valori tradizionali”. Dalla ricerca giudiziaria e dalla precisa individuazione delle attività criminose è venuta anche una grande lezione: il passato della Sicilia non è stato legato in maniera sostanziale al sistema mafioso, per sua natura illegale e monopolistico, ma piuttosto a relazioni economiche e culturali con il resto del mondo svolte all’insegna della libera concorrenza e della certezza del diritto.

            La vitalità politica, culturale e imprenditoriale della Sicilia di oggi, parte di un’Europa tutrice della legalità e della concorrenza, ne sono una conferma e inducono a sperare.

Le nuove frontiere dell’Europa

Cento idee per lo sviluppo è il titolo del documento preparato nel 1999 dal Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione del Ministero del tesoro, bilancio e della programmazione economica al fine di programmare tempestivamente e con razionalità di scelta l’uso dei circa 130.000 miliardi di fondi strutturali a disposizione delle aree depresse d’Italia,  in base al Quadro comunitario di sostegno 2000-2006. La prenotazione finanziaria dei fondi viene vincolata alla qualità dei progetti e alla verifica della loro fattibilità.

Per moltissime ragioni l’iniziativa costituisce, sotto il profilo storico oltre che politico, un vero evento. Innanzitutto si stabilisce che le politiche italiane di promozione dello sviluppo sono oggi “un pezzo d’Europa”. Ciò implica coerenza col sistema regolativo comunitario e con criteri di distribuzione delle risorse. Implica inoltre capacità innovativa e progettuale adeguata alla nascita di una nuova entità economica e istituzionale.

Smentendo le diffuse idee che associano le regioni meridionali italiane a politiche protezionistiche e alla dipendenza dalla spesa statale, sono evidenziate e valorizzate la disposizione verso l’apertura internazionale e verso politiche fondate sulla fiducia e sulla concorrenza.

L’uso dei fondi strutturali per le aree depresse delinea metodi, procedure e criteri validi per tutti gli investimenti pubblici e costituisce un aspetto di quella che Carlo Azeglio Ciampi ha definito “la nuova programmazione economica”.

Di quale nuovo Stato e di quale nuova programmazione si tratta?

In primo luogo si tratta di uno Stato responsabile in prima persona degli investimenti, quindi necessariamente dotato di intelligenza allocativa e velocità decisionale. Tale riassunzione di funzioni e responsabilità non significa né centralismo né statalismo, ma esattamente il loro contrario. Il nuovo Stato che programma è leggero, fondato sulla  sussidiarietà delle funzioni e sulla ricerca del partenariato fra tutti i possibili interlocutori istituzionali economici e sociali. La nuova programmazione prende atto di un nuovo dinamismo di molte amministrazioni e sistemi imprenditoriali locali.

Nella nuova programmazione lo Stato centrale, infatti, concorda e detta regole e tempi, quantifica e qualifica i suoi investimenti, diffonde e promuove metodi, idee e prassi, ma le scelte concrete di investimento sono essenzialmente responsabilità territoriali e rafforzano i livelli decentrati di governo. In particolare le procedure indicate dal ministero del Tesoro per la promozione dello sviluppo tendono a rendere effettiva nel loro campo d’azione quella cosiddetta “riforma federalista” dello Stato che le parti politiche si sono da tempo impegnate ma non sono riuscite ad attuare.

Dar voce al territorio significa restituire il dovuto peso non solo alle necessità, alle utilità e alle libertà dei soggetti locali, ma dare respiro al funzionamento del mercato, restituendo ai contesti il loro valore nel produrre vantaggi o ostacoli, riconoscendo nel territorio stesso i caratteri di un sistema integrato, liberando iniziative produttive nei più diversi settori, ampliando le possibilità di richiamo di capitali locali, nazionali ed esteri. La stessa validità degli investimenti pubblici si misura sia attraverso gli effetti diretti sul benessere dei cittadini, sia attraverso gli effetti indiretti sulla convenienza ad investire. Il compito dello Stato è “creare le condizioni in cui ai soggetti privati siano facilitati comportamenti virtuosi”. Inoltre gli investimenti pubblici mirano alla mobilitazione di altrettanti capitali privati attraverso la finanza di progetto.

Dar voce al territorio significa includere nelle politiche di sviluppo la questione ambientale; significa considerare l’ambiente stesso come “una risorsa da valorizzare sia per la sua tutela che per la capacità di generare impresa”. L’obiettivo degli interventi è da una parte l’eliminazione dei notevoli svantaggi ancora esistenti in molte regioni meridionali in materia di legalità, sicurezza, qualità e costo dei trasporti e delle comunicazioni, disponibilità d’acqua, servizi finanziari e costo del denaro, dall’altra l’avvio deciso ed irreversibile di uno sviluppo economico capace di autosostenersi. Il patrimonio storico e culturale delle regioni meridionali, le grandi città, i sistemi di rete e di comunicazione, la formazione e l’informazione, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, la specializzazione produttiva nel confronto col mondo, costituiscono le carte vincenti anche per la scommessa del Sud, e della Sicilia in particolare, sul loro futuro.

(1) - Leandra D’Antone è docente di storia contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma. Fa parte della redazione di “Meridiana” e del comitato scientifico “La Questione Agraria”.  Tra le sue pubblicazioni: Scienze e governo del territorio, Angeli, Milano, 1990, Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno ( a cura di), Bibliopolis, Napoli, 1996, “Straordinarietà” e stato ordinario, in F. Barca (a cura di), Il capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Donzelli, Roma, 1997, Manlio Rossi Doria e la politica del mestiere, in “Meridiana”, n. 32, 1998.

Estratto da: http://www.cliomediaofficina.it/7lezionionline

IL CAPITALISMO ASSISTENZIALE 1960-1975

Giorgio Galli/Alessandra Nannei

Sugaro edizioni

Capitalisti borghesi e intervento pubblico

L’espressione «capitalismo assistenziale» per definire il capitalismo italiano è stata usata per primo, ci pare, da Eugenio Scalfari. In seguito Gianni Agnelli ha parlato di sistema industriale assistito per descrivere alcune tendenze in atto nel capitalismo attuale, non solo italiano.

Noi definiamo «capitalismo assistenziale» il sistema economico italiano quale si è consolidato a partire dagli anni Sessanta (gli anni dell’ascesa), sino alla crisi che lo ha colpito negli anni Settanta (gli anni del declino). Intendiamo, cioè, esaminare un tipo specifico di capitalismo che, pur rientrando nella categoria prefigurata dagli economisti classici, studiata da Marx e dai suoi continuatori con l’obbiettivo di sostituirla con un processo di trasformazione socialista, ha pur tuttavia assunto in Italia alcuni aspetti particolari, connessi al tipo di intervento pubblico che la crescita del capitalismo ha richiesto.

Il sostegno pubblico, cioè l’uso del potere politico e dei suoi mezzi di intervento per gettare le basi dell’accumulazione capitalistica, è un fenomeno generale, accettato come tale dai più noti storici dell’economia, anche non marxisti. Non l’esistenza, dunque, ma il tipo di questo intervento caratterizza il grado di sviluppo di un sistema capitalistico. Quanto più il capitalismo è sviluppato,  tanto più l’intervento pubblico è volto a favorire le condizioni dell’accumulazione e del profitto; è  volto a razionalizzare l’intero sistema sociale ai fini dello sviluppo capitalistico. Che, comunque, tale sviluppo sia contraddittorio; che non utilizzi appieno (dati i suoi limiti di classe) le risorse a disposizione; che sancisca la diseguaglianza e lasci sussistere settori di arretratezza anche nei paesi più avanzati; che, in sintesi, non consenta a tutti i componenti della società di fruire di una vita di qualità elevata; sono tutte valutazioni che la moderna letteratura (economica e no, marxista e no) ha in vario modo sottolineato.

In questo quadro, il carattere specifico del capitalismo italiano è costituito dal fatto che l’intervento pubblico che lo ha sempre caratterizzato non è riuscito a tradursi in una capacità di razionalizzazione delle condizioni (politiche, sociali, di valori organizzati ed introiettati) che favoriscono il pieno dispiegarsi del capitalismo stesso.

Questa situazione è stata descritta dalla nostra storiografia in termini di ritardi e di arretratezza del capitalismo italiano e della borghesia italiana, che di ogni sistema capitalistico è, per definizione, la classe dominante (o egemone).

L’industrializzazione si è sviluppata in Italia con secoli o almeno decenni di ritardo rispetto ad altri paesi europei. Si è sviluppata parzialmente e con contraddizioni maggiori (soprattutto per quanto riguarda le condizioni del Mezzogiorno). La borghesia italiana si è di mostrata meno capace, meno valida, meno  sicura di sè delle altre borghesie continentali. Il ritardo si è quindi tradotto in arretratezza: il Mezzogiorno è stato la nostra colonia o semi-colonia; siamo sempre stati debitori all’estero tanto delle tecnologie più avanzate, quanto dell’organizzazione del lavoro più aggiornata. La nostra condizione subalterna rispetto ai capitalismi più evoluti si è risolta anche nell’adozione di soluzioni politiche diverse da quelle in atto nelle altre nazioni del capitalismo borghese evoluto: clientele, invece di partiti moderni; trasformismo, invece di alternative di schieramenti e di programmi; autoritarismo, invece della democrazia rappresentativa; repressione amministrativa, invece della garanzia dei diritti civili.

Sotto il profilo politico, il fascismo è stato il primo sbocco organico di questa situazione di ritardo e di arretratezza del capitalismo italiano; e, dopo la sconfitta e la caduta del fascismo, i trent’anni di potere democristiano (che qualcuno definisce, come il fascismo, « regime ») sono stati il secondo sbocco di questa stessa situazione.

Quando, dopo il « miracolo », cioè lo sviluppo economico rapido ma caotico del periodo che va dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta, è iniziato per l’economia italiana un nuovo periodo nel quale ritardo ed arretratezza sono emersi con evidenza sempre maggiore, il collegare questo fenomeno ai precedenti storici che sono stati qui sintetizzati appare ai più spiegazione sufficiente di quanto sta accadendo.

La storica incapacità della borghesia italiana, classe dominante più che classe dirigente (od egemone), appare dunque una spiegazione sufficiente per interpreta re i fenomeni di crisi del nostro sistema economico ed anche del nostro sistema sociale. È una spiegazione onni-esplicativa; che, come tutte le spiegazioni di questo tipo, esonera da una analisi della situazione più precisa e più puntuale.

In particolare, non vengono analizzati adeguatamente i rapporti tra potere economico e rappresentanza politica e più specificamente i rapporti tra la grande borghesia italiana — i 500.000 appartenenti alla popolazione attiva, 300.000 proprietari, imprenditori e dirigenti e 200.000 professionisti, di cui parla Paolo Sylos Labini nel suo celebre Saggio sulle classi sociali — e il partito-guida del nostro sistema politico post fascista, cioè la Democrazia cristiana.

Il mandato politico affidato dalla grande borghesia alla DC già nell’immediato dopoguerra (governo De Gasperi del dicembre 1945) è stato un tentativo mediante il quale tale classe sociale ha inteso, tra l’altro, cercare di risolvere il problema del ritardo storico del capitalismo italiano. Se il primo obbiettivo della rappresentanza politica affidata dalla grande borghesia alla DC e quindi del potere politico di questo partito è stato di bloccare la spinta a sinistra determinata dalla guerra e dalle scosse sociali del 1945/48, spinta espressa da socialisti e comunisti, dopo la stabilizzazione del 1948 l’obbiettivo che la DC ha perseguito — e che le sinistre hanno definito « restaurazione capitalistica » — è consistito nel tentare di avvicinare l’Italia al livello di sviluppo industriale delle nazioni europee.

Questo tentativo, sorretto dagli Stati Uniti e dalla collocazione dell’Italia nella sfera di influenza occidentale e negli organismi di collaborazione europea, ha trovato, paradossalmente, i migliori interpreti in quella sinistra democristiana di ispirazione evangelico-populista (Dossetti, La Pira, il Fanfani del primo impegno nella DC) che aveva letto le teorie economiche di Keynes e i programmi operativi di Beveridge e che vedeva nell’uso di strumenti di intervento economico e sociale maturati nella cultura anglosassone degli anni Trenta e Quaranta, i mezzi idonei a ricostruire un’Italia dove una più elevata efficienza economica si accompagnasse ad una maggiore giustizia sociale.

La maggioranza della DC, espressione diretta della borghesia italiana (Pella, Scelba, Piccioni, un grande industriale quale Enrico Falck), concepiva la « ricostruzione » (e presidente della ricostruzione è oggi, per la storia italiana, Alcide De Gasperi), quale semplice ripristino di ciò che la guerra aveva distrutto, e cioè l’Italia fondamentalmente rurale e della prima fase del de collo industriale che Mussolini aveva impegnato nel 194O in una guerra contro le maggiori potenze industriali deI mondo.

Che il capitalismo italiano fosse avviato ad uno sviluppo quale mai aveva conosciuto, era convinzione soprattutto dei rappresentanti politici ed economici degli Stati Uniti. I rappresentanti dell’ERP (Piano Marshall) in Italia suggerivano e premevano affinché la politica economica italiana uscisse dalla visione ristretta e monetaristica imposta dalla linea Einaudi-Pella. E la svolta si ebbe — dopo il « boom » economico provocato dalla guerra di Corea del 1950 — in  quell’anno 1951 che vide contemporaneamente il ritiro di Dossetti, la riduzione del potere di Pella e la sua sostituzione quale ispiratore della linea economica del governo del più aggiornato Ezio Vanoni, col quale si allea Fanfani, l’avvìo di una liberalizzazione delle nostre attività economiche con l’estero promossa da Ugo La Malfa e un viaggio negli Stati Uniti dei maggiori industriali italiani. Questi vengono convinti dai loro colleghi nord-americani che il capitalismo italiano ha dinnanzi a sé un brillante futuro, ora che le sinistre sono state sconfitte e che i sindacati sono stati messi al passo.

Comincia in Italia uno sviluppo, rapido anche se caotico, del quale la DC è l’interprete sul piano politico. E questo sviluppo è accompagnato da un’azione di intervento pubblico nel campo dell’economia, avente a disposizione strumenti che il nostro sistema politico democratico rappresentativo aveva ereditato dal fascismo ( IRI, Agip, elevato controllo pubblico del credito attraverso le banche di proprietà dello stato).

Quello che è stato definito l’accordo De Gasperi-Costa (il presidente della Confindustria del periodo degasperiano) comportava un ampio spazio per l’iniziativa privata in tutto il settore dei beni di consumo (il « miracolo » delle auto e degli elettrodomestici), al quale si accompagnava la possibilità che lo stato gestisse direttamente settori economici di base, come avveniva dal l’immediato dopoguerra in altri sistemi politici (la Francia aveva nazionalizzato l’industria elettrica, l’Inghilterra anche quella mineraria e poi dell’acciaio).

La DC rispettò il mandato politico affidatole dalla borghesia italiana per quanto concerneva la ricostruzione capitalistica affidata all’iniziativa privata, ma si avvalse ampiamente della facoltà di far passare sotto il controllo pubblico le industrie di base, il che provocò tensioni parziali nell’ambito del patto sottoscritto nel 1945.           -

Così, attraverso il piano Sinigaglia, l’industria dell’acciaio divenne di fatto pubblica nel periodo del suo potenziamento che portò la produzione da uno a venti milioni di tonnellate, mentre la Finsider fu la finanziaria del gruppo IRI che ereditò l’Ilva e la Italsider. Così, nonostante i tentativi dei privati (la Edison di Valerio e la Montecatini di Fama) di concorrere allo sfruttamento del metano in Valle Padana, il monopolio fu affidato ad una holding di stato (l’ENI di Enrico Mattei), erede degli strumenti già a quel fine messi a punto dal fascismo (Agip, Anic, Snam).

All’inizio degli anni Sessanta (1962), e già nella fase che porta dal centrismo di ispirazione degasperiana al centro-sinistra viene nazionalizzata anche l’industria elettrica attraverso la costituzione dell’ENEL, dopo che le aziende IRI si erano staccate dalla Confindustria, portando alla costituzione del ministero delle Partecipazioni statali.

Ogni legislatura sino a quella del centro-sinistra organico (1963) era stata dunque caratterizzata da un provvedimento importante mirante all’estensione dell’intervento pubblico in economia: istituzione dell’Eni nella prima legislatura, distacco delle aziende IRI e costituzione del ministero delle Partecipazioni statali nella seconda, nazionalizzazione dell’industria elettrica e costituzione dell’ENEL nella terza.

Ma dal punto di vista dei rapporti tra capitalisti borghesi e DC, questa estensione dell’intervento pubblico poteva essere interpretata in due modi diversi ed opposti.

Dal punto di vista della borghesia come classe — al di là degli scontri su singoli problemi tra settori della borghesia e settori della DC — l’intervento pubblico, più esteso in Italia che altrove sin dagli anni di Mussolini, avrebbe potuto rappresentare il maggior impegno dello stato nello svolgimento del ruolo di garante dell’accumulazione capitalistica, necessario laddove la borghesia è numericamente e qualitativamente debole e lo sviluppo economico, conseguentemente, è più lento e più difficile.

Gli storici dell’economia potrebbero vedere nell’intervento pubblico degli anni del « miracolo » un fenomeno simile a quello per il quale è stata necessaria in Inghilterra la protezione alla Compagnia delle Indie, è stato necessario in Francia il ruolo dei banchieri di stato, è stato necessario in Germania il protezionismo statale per la creazione della grande industria: lo stato, cioè, interviene nella fase del decollo come organo collettivo della borghesia al potere per consentire ad una classe (quella dei capitalisti imprenditori) di raccogliere risorse prodotte in vari settori del paese (o di aree coloniali) che vanno indirizzate verso investimenti corrispondenti alla razionalità capitalistica dello sviluppo.

Il fatto che le nazionalizzazioni italiane del dopoguerra possano essere confrontate con quelle dell’Inghilterra e della Francia; il fatto che il controllo statale del credito in Italia possa trovare rispondenza nella politica creditizia concertata altrove tra ministeri economici, grandi banche e banche di stato, potrebbe essere interpretato come una conferma che l’estensione del controllo statale dell’economia del nostro paese sia un fenomeno dello stesso tipo di quelli che si verificano nel corso dei processi di razionalizzazione capitalistica nell’uso delle risorse.

In questo caso, l’egemonia dei capitalisti imprenditori (grande borghesia), il loro potere sociale globale, riuscirebbero rafforzati dal modo col quale la DC, il partito al quale essi hanno affidato la gestione del potere politico, realizza la politica economica negli anni che precedono ed accompagnano il « miracolo » italiano.

Ma vi è una seconda interpretazione: quella che costituisce la traccia interpretativa del presente lavoro. La debolezza della borghesia italiana della quale trattano tutti i nostri storici (politici ed economici); le particolari caratteristiche del partito della DC che non è un partito di tradizioni culturali e di ideologia « borghese » (per esempio nel senso nel quale usa questo termine Benedetto Croce: una « cultura » più che una posizione economica), particolari caratteristiche queste, sulle quali pure insistono i nostri storici ed i nostri uomini politici: tutto ciò ha creato una fenomenologia particolare, che ha dato all’intervento pubblico in Italia connotati diversi da quelli assunti in altri sistemi industriali capitalistici.

Attraverso l’intervento pubblico, si è sviluppato in Italia un settore particolare della grande borghesia, che il governatore (sino al 1975) della Banca d’Italia, Guido Carli, ha definito borghesia di stato », termine poi entrato largamente in circolazione.

Noi riteniamo preferibile, per questo settore della grande borghesia, alla quale riteniamo appartenga lo stesso Guido Carli (o della quale Guido Carli è rappresentante a livello di potere politico in senso lato) la definizione di borghesia finanziario-speculativa.

I valori culturali e i comportamenti economici di questa borghesia danno un carattere particolare, nel nostro paese, al rapporto tra potere economico e rappresentanza politica. E’ vero — e lo rileva lo stesso Sylos Labini nel saggio citato — che questo tipo di borghesia finanziaria, parte integrante della grande borghesia capitalistica, è fenomeno ben noto, non solo a Marx ed agli studiosi di formazione marxista, ma anche agli economisti di altra scuola.

E vero, quindi, che la borghesia finanziario-speculativa è parte integrante della grande borghesia capitalistica in tutti i sistemi sociali sorti sulla base dell’economia capitalistica. Ma la particolarità della borghesia finanziario-speculativa italiana è che ha un rapporto privilegiato col potere politico, quale non esiste altrove ; e che questo rapporto privilegiato col potere politico si specifica ulteriormente in un rapporto con un partito politico, la DC, erede di una tradizione e di valori culturali che sono solo parzialmente quelli del liberalismo, ideologia corrispondente all’egemonia della classe dei capitalisti imprenditori.

Anche noi, dunque, crediamo ad alcune caratteristiche particolari della storia italiana. Ma tentiamo di vedere quali siano tali caratteristiche, per verificare se esse forniscano una spiegazione ai fenomeni attualmente in corso: una spiegazione che sia più analitica, più precisa e quindi suscettibile di più valide applicazioni in sede di esame dell’oggi, dell’interpretazione semplificata secondo la quale la debolezza della borghesia italiana ed il ritardo nel nostro sviluppo economico sono onni-esplicativi non solo degli eventi della nostra storia, ma anche dei problemi del nostro sistema economico nel 1976.

E’ attraverso questo filone interpretativo che si possono meglio leggere le vicende del nostro sviluppo, dal « miracolo » sino all’inizio degli anni Cinquanta, alla successiva stagnazione ed all’attuale crisi.

Naturalmente le origini della borghesia finanziario-speculativa ed il suo rafforzamento sono connesse ad elementi di debolezza della grande borghesia italiana. Non tanto per il protezionismo statale che accompagna il sorgere della grande industria (è, questo fenomeno comune a tutti i sistemi capitalistici), quanto per il ruolo che l’intervento pubblico assolve nelle crisi sino a quella del 1929, che la grande borghesia italiana supera solo affidando allo stato il salvataggio delle imprese maggiori messe in pericolo dalla crisi, ad uno strumento quale l’IRI, escogitato perché i settori della grande industria privata non coinvolti nella crisi non si erano impegnati in proprio per far fronte alla situazione, ma avevano preferito essere surrogati da un nuovo istituto dipendente dallo stato.

E’ in questo periodo che giungono in primo piano Mattioli e Beneduce e dietro di loro Menichella e il giovane Pasquale Saraceno, che si presentano (e sono) razionalizzatori del sistema capitalistico, ma che creano strumenti di controllo dell’economia che, sottratti alla proprietà diretta del grande capitale, sono suscettibili di un orientamento che vada al di là dei propositi iniziali.

Infatti, già negli anni Cinquanta e via via che la DC si identifica con lo stato — conseguenza, questa, della incapacità della borghesia di costruirsi un moderno partito laico, liberale e di massa — è attraverso la carriera politica nella DC e non attraverso le carriere programmate dagli imprenditori capitalisti, che si può accedere ai consigli di amministrazione delle imprese IRI, delle banche IRI, di settori che accrescono la loro importanza nel sistema economico italiano anche durante lo sviluppo capitalistico di questo periodo.

Mentre i pubblicisti di scuola marxista e quelli di scuola liberale, come gli « amici del “Mondo” », sostengono che l’IRI è al servizio della Confindustria e dei monopoli privati, in realtà si forma nel suo ambito, insieme ai quadri di una tecnocrazia di buon livello, quella borghesia che il legame politico fa definire di « stato », e che la filosofia economica ed il comportamento economico fanno definire finanziario-speculativa. In breve volgere di tempo, sarà questa componente che sommergerà ed emarginerà la componente tecnocratica.

Contemporaneamente, lo si è detto, l’intervento pubblico crescente anche nel periodo del « miracolo », pur inizialmente rispondente a finalità di razionalizzazione capitalistica, apre la strada alla conquista di posti chiave da parte di questo stesso ceto sociale nei settori dell’energia (e collaterali) caratterizzati dalla presenza prima dell’ENI e poi dell’ENEL.

All’inizio degli anni Sessanta, vi sono dunque tutte le premesse perché la borghesia detta di « stato », sino ad allora in posizione subalterna rispetto alla grande borghesia « privata », avvii il suo tentativo per diventare forza egemone nell’ambito dello schieramento borghese.

Questo tentativo della borghesia finanziario-speculativa è favorito dal sostegno ad essa fornito da una classe sociale che esiste in tutti i sistemi capitalistici, ma che in Italia ha una forza particolare. Si tratta di parte di quel ceto sociale che Sylos Labini definisce di impiegati pubblici, della piccola borghesia impiegatizia (circa due milioni di persone attive), la cui origine va pure rintracciata in una debolezza della borghesia italiana sin dal formarsi dello stato unitario.

Infatti, già più di un secolo fa questa debolezza ed il timore che ne deriva di fronte prima alla ribellione nel Mezzogiorno («guerra contro il brigantaggio ») e poi al rifiuto del papa e del cattolicesimo italiano di riconoscere il « paese legale » (l’Italia unita), inducono la borghesia italiana a decidere la formazione di uno stato accentrato, nel quale lo spazio delle autonomie locali è ridotto al minimo e il ruolo dell’amministrazione centrale è assai grande.

Gli impiegati di questa amministrazione centrale, sovente di origine centro-meridionale (cioè delle regioni del paese non investite dal processo di industrializzazione, anche per i limiti della borghesia del Nord) acquistano potere e funzioni crescenti, almeno nei loro strati superiori. Questi non hanno nulla in comune col « civil service » di derivazione anglosassone, con gli « amministrativi » francesi della tradizione culturale napoleonica, con la burocrazia custode dello stato che Weber analizza con riferimento alla Germania.

Siamo invece di fronte ad un ceto che non contribuisce — come quelli analoghi dei paesi citati — alla razionalizzazione capitalistica, ma che si costruisce  invece zone di potere e di privilegio nell’ambito di un sistema di valori e di rapporti pre-capitalistici.

Questa burocrazia dei livelli superiori, che si rafforza durante il fascismo, alla quale Bonomi e De Gasperi affidano la continuità delle istituzioni statali durante la crisi del 1943/45 (con la piena accettazione dei partiti della sinistra), si intreccia, nel corso degli anni Cinquanta, col potere statale identificato nella DC e dà luogo, sulla base di questi precedenti storici, ad una media borghesia che noi definiamo burocratico-parassitaria, con livelli di vita e rango sociali elevati, che non può essere confusa con quella che Sylos Labini definisce piccola borghesia dell’impiego pubblico.

Contemporaneamente, una parte del settore economico detto privato è sempre più caratterizzata dalla presenza di aziende e di settori regolati dal diritto privato per quanto riguarda le loro caratteristiche giuridiche, ma che in realtà sono sotto il controllo delle grandi holding pubbliche di cui si è detto.

Inoltre una parte di quella che Sylos Labini definisce piccola borghesia degli impiegati privati (un milione e settecentomila persone circa) è costituita dallo strato superiore di un ceto che dipende, per gli alti redditi e per il significativo ruolo sociale, dal potere politico e dal potere pubblico gestiti come si è detto. Ed anche qui abbiamo un settore di media borghesia burocratico parassitaria.

Un discorso analogo vale per lo strato superiore di quella che viene definita piccola borghesia relativamente autonoma del commercio e dei servizi (oltre due milioni e centomila persone attive). Anche in questo ambito la debolezza della grande borghesia italiana, che solo con ritardo si impegna massicciamente nel settore della grande distribuzione, per cui la sua ritardata razionalizzazione permette il proliferare di un commercio al minuto estremamente frammentato; il traffico delle licenze per il fatto che iniziative di ogni genere (dall’importazione all’avvio di nuove attività) dipendono dall’intreccio tra potere politico e pubblica amministrazione di cui si è detto: in sintesi la situazione complessiva già descritta, danno luogo al formarsi di uno strato superiore che non è di piccola borghesia relativamente autonoma, ma di media borghesia burocratico-parassitaria.

Burocratico-parassitaria perché i suoi redditi (elevati) non derivano dal profitto capitalistico (il plusvalore di Marx estratto dall’operaio produttivo ed al qua le corrisponde, secondo la logica dei capitalisti imprenditori, l’attività di direzione e di coordinamento dall’attività produttiva); derivano invece dalla confisca e dalla redistribuzione (attraverso il potere politico) del plusvalore prodotto dagli operai e che non viene utilizzato per l’accumulazione capitalistica (investimenti) e per i servizi sociali (al fine di elevare la condizione operaia o integrare la classe operaia nel sistema capitalistico, secondo le diverse interpretazioni); esso viene invece collocato o all’estero o in consumi di lusso di questa stessa media borghesia.

E’ importante stabilire sin dall’inizio che l’alleanza tra alta borghesia finanziario-speculativa e media borghesia burocratico-parassitaria, che ha trovato il suo strumento politico privilegiato nel partito della DC, padrone dello stato e dell’amministrazione, nonché di estesi settori dell’economia, conferisce al sistema sociale italiano particolarità che lo differenziano per gli aspetti che si sono detti dal genere dei sistemi. capitalistici, al quale pur tuttavia appartiene.

Se abbiamo più volte citato Paolo Sylos Labini, è proprio perché è stato il suo lavoro che, spezzando un lungo silenzio su questi aspetti del nostro sistema sociale, ha aperto una strada lungo la quale si collocano altri lavori apparsi in questi anni, come la giungla  retributiva di Ermanno Gorrieri e Razza padrona di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani.

Questi lavori sono altrettanti sintomi del fatto che una realtà a lungo manipolata comincia ad essere percepita, sia pure parzialmente. E’ infatti significativo che i lavori degli economisti italiani che hanno interpretato la nostra vicenda economica dal 1945 ad oggi  hanno completamente trascurato un collegamento tra dina mica economica e ruolo delle classi sociali che andasse al di là della schematizzazione dei rapporti tra capitalisti, classe operaia e ceti medi, secondo tendenze generali di comportamento delle società capitalistiche che prescindono dalle particolarità della situazione italiana.

Così la nostra cultura sui fenomeni socio-economici e politici è prigioniera di una singolare contraddizione: da un lato si afferma che la storia italiana è del tutto particolare, per cui non possono valere per la soluzione dei nostri problemi istituzioni, esperienze e risultati positivi in altre società industriali (per esempio l’alternanza al governo o l’applicazione delle norme dello stato di diritto anche alla classe politica). Dall’altro si vuol vedere questa particolarità o in un fenomeno storico del quale non si analizzano le conseguenze recenti (la famosa debolezza della borghesia italiana), oppure in fatti di pura organizzazione ideologico-politica dei quali si danno per scontati (e non si verificano) i rapporti con la realtà economico-sociale (per esempio il particolare carattere del marxismo italiano che ha permeato il Pci oppure le caratterizzazioni della DC come partito popolare di ispirazione cattolica).

La frattura culturale tra economisti che in sede di analisi descrivono il sistema capitalistico italiano come un capitalismo debole, ma schematizzano i connotati di questa debolezza nel rapporto tra capitalisti imprenditori meno forti e un movimento operaio più forte che altrove (esattamente il contrario di quanto veniva asserito sino alla metà degli anni Sessanta); e storici e politici che collocano le differenze essenziali al livello della ideologizzazione partitica, è una frattura che lascia un vuoto di analisi proprio nel settore dei rapporti tra sviluppo economico, posizione delle classi e dei ceti e loro rappresentanza politica, cioè il settore al quale questo lavoro è dedicato.

LO STATO E GLI INVESTIMENTI PUBBLICI NEL TERRITORIO

Pierattilio Tronconi

Nell’ambito del processo economico lo Stato, tramite le sue articolazioni e gli organi di governo, ha assunto un ruolo determinante e tale è ancor oggi nonostante l’affermazione di politiche liberiste volte a limitarne l’intervento nel mercato.

Tramite le leggi e l’esercizio di molteplici politiche lo Stato può infatti intervenire in generale sia nell’ambito della produzione della ricchezza nazionale (non solo monetaria), sia nell’ambito della sua distribuzione.

Esso può intervenire direttamente nel mercato dal lato dell’offerta:

·        producendo beni e servizi che i soggetti privati non fanno perchè ritengono l’investimento non adeguatamente rimunerativo o troppo rischioso,

·        sostituendosi ai soggetti privati quando vanno in crisi (fallimenti) rilevando le loro attività e gestendole in proprio;

·        riaffidando al capitale privato le imprese risanate.

ed indirettamente attraverso l’esercizio:

·        della politica fiscale (modulando le imposizioni fiscali, deliberando le esenzioni e le tassazioni ),

·        della politica del credito (favorendo i prestiti in modo selettivo, deliberando le agevolazioni e le varie forme di sostegno economico e  finanziario ai settori, creando appositi fondi),

·        della politica monetaria (definendo i tassi di interesse, favorendo o meno la mobilità dei capitali, stabilendo la massa monetaria in circolazione, ecc.),

·        della politica commerciale (definendo accordi bilaterali per gli scambi fra stati e la politica di sostegno all’export, favorendo o meno l’insorgere di barriere doganali, partecipando attivamente all’attività degli organismi economici internazionali: WTO, FMI, Banca Mondiale, BEI, favorendo o meno la circolazione delle merci e dei servizi, ecc.),

·        della politica industriale (assecondando la trasformazioni delle imprese tramite ammortizzatori sociali e favorendo la mobilità della mano d’opera, definendo strumenti e finanziamenti agevolati, deliberando incentivi finanziari, imponendo normative e specifiche tecniche per la standardizzazione dei prodotti, praticando agevolazioni, sviluppando politiche settoriali dei fattori, politiche di sostegno all’ammodernamento o creazione di nuove imprese, ecc.),

·        della politica degli investimenti (finanziando la realizzazione di infrastrutture sul territorio),

·        della politica delle tariffe e del controllo dei prezzi

·        della politica della formazione scolastica e della ricerca,

·        della politica della domanda pubblica,

·        della politica energetica,

  • della politica agraria ecc.

Nel nostro Paese, fino a non molti anni fa, quasi tutti questi strumenti d’intervento dello Stato nell’economia erano gestiti dal Governo centrale tramite i Ministeri ed organismi appositamente creati (CIPI, CIPE, Enti Statali).  

Con la separazione della Banca d’Italia dal Ministero del tesoro, ossia dal Governo, alcuni poteri dello Stato sono passati dai ministeri economici a quello della Banca Centrale (politica monetaria, politica dei tassi di cambio).

Col progressivo decentramento dei poteri dallo Stato alle Regioni, anche altri strumenti gestionali – amministrativi prima gestiti centralmente tramite i Ministeri, sono stati demandati alle Regioni stesse, alle Province ed ai Comuni (opere pubbliche  a carattere territoriale, gestione delle gare pubbliche, politiche tariffarie dei servizi pubblici, alcune imposte e tasse, alcuni strumenti di politica industriale, della formazione professionale)

Dapprima con la strutturazione della CEE  e dell’area della libera circolazione delle merci (1957) e poi con la realizzazione dell’UE e la creazione del mercato unico, della Banca Centrale Europea e della moneta unica, sono stati posti dei vincoli alle politiche dei vari stati membri per cui alcuni poteri e strumenti gestiti dai singoli Stati  sono venuti meno (politica delle barriere doganali, politica dei tassi d’interesse e del cambio, politica monetaria), mentre altri sono utilizzabili solo dietro benestare dell’UE stessa (politiche a sostegno delle imprese, politiche del credito, politiche degli incentivi). Con regole di bilancio comuni e vincolanti (trattato di Maastricht) e con il credo nel mercato quale regolatore dei rapporti interni, gli Stati devono evitare di creare, con i propri interventi, distorsioni nella concorrenza delle merci e dei servizi prodotti al loro interno e dei loro prezzi. Le imprese di ciascuno stato verrebbero così a confrontarsi direttamente con quelle concorrenti degli altri paesi

 L’unificazione del mercato, sotto un metro monetario unico e sotto regole di concorrenza non discriminatorie tra esterno ed interno, finisce così per dare all’autonomia degli stati una valenza quasi esclusivamente politica o macroeconomica da una parte e per dare alle imprese una connotazione de-nazionalizzata.

Per quanto riguarda la politica degli investimenti pubblici, nell’ambito delle dottrine economiche l’intervento dello Stato nell’economia è in genere ritenuto necessario al fine di:

·        stimolare, attraverso la realizzazione di unità produttive di grandi dimensioni nei settori cosiddetti “propulsivi” dell’economia, uno sviluppo spontaneo dell’industria privata nei settori in cui le singole unità produttive possono avere dimensioni minori;

·        correggere gli squilibri territoriale e promuovere investimenti privati;

·        per sostenere l’ammodernamento dei settori e accrescere la produttività del sistema;

·        per favorire e sostenere la concorrenza delle nostre merci e servizi sui mercati internazionali;

·        contrastare il processo di crisi che ciclicamente sconvolge il sistema capitalistico e favorire così la ripresa dell’accumulazione;

·        per sostenere l’occupazione.

Il problema sorge sul come intervenire nel senso di come finanziare tali investimenti.

Nell’ambito delle dottrine economiche solo Keynes ha elaborato una propria teoria che assegna all’investimento pubblico un ruolo anticiclico.

In particolare per Keynes, individuando nell’insufficienza di investimento la causa della depressione generale e della disoccupazione di massa, ha teorizzato un importante ruolo della Stato.  Grazie all’intervento dello Stato che investe anche ricorrendo all’indebitamento pubblico, Keynes sosteneva che si poteva così evitare che il processo di crisi economica si trasformasse in un processo di crisi sociale (disoccupazione di massa, impoverimento delle classe lavoratrice) che potesse sfociare nella messa in discussione delle classi dominanti, del sistema dominante stesso ed a guerre civili. 

Per le altre teorie che si ispirano alle dottrine economiche neoclassiche, l’investimento pubblico deve invece essere effettuato limitando il più possibile il ricorso all’indebitamento (per evitare di sottrarre risorse ai capitali privati), ricorrendo pertanto:

·        all’avanzo primario del bilancio dello stato,

·        al finanziamento misto pubblico- privato

·        al finanziamento privato di opere la cui gestione a scopo economico verrebbe affidata agli stessi finanziatori.

Queste posizioni rappresentano oggi i cardini su cui si regge la politica dell’UE. 

Nel nostro paese, fino a non molti anni fa, al di là delle teorie economiche e formalmente coperto e giustificato dai richiami ad  esse, l’intervento dello Stato venne utilizzato per  favorire la crescita di un forte clientelismo e consenso sociale attorno alle forze politiche dominanti (DC, PSI) ed i loro alleati (PSDI, PRI), per favorire l’afflusso di consistenti finanziamenti ai partiti di Governo, per sostenere una parte della borghesia nazionale (sia in crisi che emergente), per conservare un  forte consenso sociale specialmente nelle aree più depresse del Mezzogiorno.

Il Mezzogiorno ha infatti rappresentato, per diversi decenni (sia in epoca fascista che successiva) l’ambito entro il quale sono state indirizzate ingenti risorse finanziarie ed economiche: attivando appositi Enti erogatori della spesa pubblica (Cassa per il Mezzogiorno, Agenzia per il sud), favorendo processi di industrializzazione tramite le Partecipazioni Statali, attivando trasferimenti alle Regioni, sostenendo con politiche volte a creare infrastrutture territoriali l’occupazione locale, mettendo a disposizione delle imprese  incentivi economici a fondo perduto o prestiti a tasso agevolato, detassando parzialmente il costo del lavoro,  promuovendo interventi finanziari da parte della CEE prima e dell’UE poi, attivando programmi settoriali specifici d’intervento (nell’agricoltura, turismo, servizi, trasporti, industria, energia), ecc.

L’ECONOMIA NEL MEZZOGIORNO DAL 1860 FINO ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

L’economia del Regno di Napoli, all’epoca della spedizione dei Mille nel 1860, al di là delle ricorrenti interpretazioni degli storici legittimisti e al di là di qualche eccezione, era sostanzialmente di natura agricola strutturata in un sistema “semifeudale”.

Infatti, mentre il resto dell’Italia, nei secoli precedenti aveva vissuto la lunga e positiva esperienza dei Comuni e delle Signorie, consentendole di creare una robusta classe borghese, mercantile, industriale ed artigiana che sarà la struttura portante dell’economia italiana del tempo che verrà. Al contrario, l’Italia meridionale era rimasta, un regno ed un vice regno secondo i periodi, in mano a qualche dinastia straniera: francese, spagnola, austriaca che manteneva il suo potere con l’appoggio dei feudatari locali, entrambi ben felici , per ragioni diverse, di tenere cristallizzato questo status.

Gli unì, i feudatari, per mantenere i loro privilegi, gli altri i dominatori di turno per poter attingere facilmente tasse e derrate per le loro frequenti guerre continentali.

Insomma il Mezzogiorno è arrivato all’appuntamento con l’Unità d’Italia con una struttura economica debole ed arcaica, soprattutto, priva di una classe borghese che, non solo in Italia, ma in tutta Europa ha creato le moderne nazioni sia politicamente che economicamente.

Nei seguenti 140 anni da quel fatidico 1860 i governi che si sono succeduti si sono sempre preoccupati di risolvere il ritardo economico del Sud.

Timidi e saltuari gli interventi nei primi anni unitari, estemporanei durante il Fascismo. L’intervento diventa massiccio e sistematico nell’ultimo cinquantennio.

Indubbiamente l’Italia degli anni del secondo dopo guerra è un paese profondamente cambiato. E’ un Paese ricco che ha a disposizione una notevole quantità di risorse economiche, è un Paese industrializzato, solo il Mezzogiorno è rimasto sostanzialmente agricolo peraltro, con una agricoltura non modernizzata tale da essere competitiva con quella delle altre nazioni europee.

L’ECONOMIA ITALIANA DAL 1945 A OGGI

a cura di Augusto Graziani

Il Mulino Editore 1972

Il problema del Mezzogiorno

La storia degli interventi

Introduzione

Il problema dello sviluppo inadeguato del Mezzogiorno rispetto alle altre regioni del Paese è Stato riconosciuto da sempre come il più serio e persistente che il Paese abbia dovuto affrontare. La storia degli interventi effettuati nel Mezzogiorno è stata letta di volta in volta in chiavi diverse, a seconda del punto di vista dell’osservatore. Gli ottimisti hanno sottolineato i grandi progressi compiuti dall’economia del Mezzogiorno in senso assoluto. Di contro si è fatto notare che, fin dalle origini, la politica di sviluppo nel Mezzogiorno è stata gravemente condizionata dalle esigenze delle regioni più avanzate del Paese. Il Saraceno, ad esempio, nelle pagine che riportiamo, effettua una ricostruzione dei provvedimenti presi nel corso del tempo e ne tenta una valutazione sintetica in rapporto alle esigenze delle regioni meridionali, mostrando come le esigenze delle altre regioni abbiano sempre rappresentato un fattore condizionante cospicuo. La stessa prospettiva di analisi viene seguita da D’Antonio che, analizzando specificamente l’ultimo quarto di secolo, interpreta i singoli interventi come dettati dalle esigenze generali di sviluppo dell’economia nazionale, e non come ispirati direttamente dalle esigenze proprie delle regioni del Mezzogiorno.

Su un piano più tecnico, altri hanno fatto osservare che è possibile muovere considerevoli critiche alla logica interna degli interventi. Il Di Nardi osserva che, nel tentare un bilancio degli interventi dopo il primo decennio, due elementi vanno posti in risalto. Il primo è che, per molti anni, gli interventi furono costituiti soltanto da una politica di opere pubbliche, senza che si possa parlare di una completa politica di sviluppo, circostanza questa che pone seri limiti di contenuto alle misure adottate. Il secondo è che per le regioni meridionali, eminentemente agricole, oppresse dal peso di un secolare immobilismo, sarebbe stata necessaria una politica molto più  capillare e legata alla partecipazione diretta delle popolazioni, perché si potessero ottenere risultati più soddisfacenti.

La Lutz che fece a suo tempo molto rumore, appartiene alla schiera dei critici più radicali, di quelli cioè che negano addirittura l’opportunità di un intervento nel Mezzogiorno e propendono per una soluzione basata sulle emigrazioni di massa verso altre regioni. A suo avviso, buona parte degli investimenti effettuati nel Mezzogiorno sarebbero stati in sostanza uno spreco di risorse. Negli anni in cui la Lutz scriveva (1960), le emigrazioni avevano effettivamente assunto proporzioni gigantesche. Ma, anche per chi avesse voluto trarne argomentazioni contrarie all’intervento nel Mezzogiorno, le emigrazioni non rappresentavano un appiglio solido, visto che a distanza di pochi anni il movimento migratorio invertiva tendenza e si avviava ad un veloce declino.

GLI INTERVENTI NEL MEZZOGIORNO PRIMA DEL 1950

Da: PASQUALE SARACENO, La mancata unificazione economica italiana a cento anni dall’unificazione politica, in L’economia italiana dal 1861 al 1961, Mila no, Giuffrè, 1961, pp. 694-698, 703-706.

Occorre riconoscere che il rilevante divario economico esistente tra Nord e Sud apparve subito come uno dei pulì gravi problemi del nuovo Stato unitario; provvedimenti di grande portata vennero in fatti presi già a partire dal 1861, subito dopo la proclamazione del nuovo Regno: tanto che è del tutto corretto dire che oggi noi siamo indotti a ricordare insieme un secolo di Stato unitario e un secolo di politica per il Mezzogiorno.

Ora se consideriamo le misure prese in una prima fase (fase che, come vedremo poi, si prolungherà per circa un quarantennio) viene fatto di rilevare che obbiettivo principale della politica di intervento fu quello di unificare il quadro nel quale l’imprenditore delle diverse regioni poteva operare; più precisamente quella politica si propose di unificare

a) le pubbliche istituzioni operanti nel campo economico;

b) i modi e le condizioni dell’azione svolta dalle istituzioni stesse, nonché

c) le strutture fondamentali della proprietà terriera

denomineremo tutto ciò, per brevità, un obbiettivo di unificazione normativa.

Questa azione unificatrice ebbe manifestazioni di grande interesse per il Mezzogiorno, soprattutto nei due settori delle opere pubbliche e dell’ordinamento fondiario.

Nel decennio 1861-70, prima ancora dunque che il processo di unificazione giungesse a compimento, la quota più rilevante degli stanziamenti « destinati alla costruzione e alla sistemazione di strade » è riservata al Mezzogiorno; dell’importo destinato ad opere idrauliche, porti, impianti telegrafici, sovvenzioni alla marina mercantile, il 50% è riservato al Mezzogiorno. Ancor più rilevante è l’impegno nel campo ferroviario, che vede avviato nel Sud un programma per 1.750 Km., cioè per una estensione pari a 18 volte quella esistente al momento dell’unificazione (la rete ferroviaria meridionale, che all’atto dell’unificazione aveva una estensione pari al 7% della rete nazionale, ne costituiva quasi un terzo quindici anni dopo).

Un altro ciclo di interventi nel settore delle opere pubbliche si inizia con la legge 13 luglio 1881, n. 333, che contiene un piano finanziario quindicennale (dal 1881 al 1895) per l’esecuzione di opere straordinarie ricadenti, in prevalenza, nel Mezzogiorno; il piano prevedeva una spesa complessiva di circa 80 miliardi di lire odierne (225 milioni di lire correnti). Con la stessa legge lo Stato si assumeva metà dell’onere di competenza delle province per la costruzione di strade specificatamente indicate.

In materia di ordinamento fondiario sono importanti le misure tendenti a dare alla proprietà agricola una struttura più moderna e, in particolare, a eliminare i vincoli feudali che ancora gravavano sull’agricoltura. In un primo tempo viene perseguito l’obiettivo della liberazione della terra dai vincoli sanciti dal precedente regime giuridico e poi quello del frazionamento del latifondo e dei demani comunali. Si hanno così, tra il 1860 e il 1885, la legge per l’affrancazione e la censurazione delle terre del Tavoliere di Puglia e numerosi provvedimenti in tema di liquidazione degli usi civili, di quotizzazione dei demani comunali, di abolizione del maggiorascato e, fondamentale fra tutte, la legge del 1867 per l’incameramento della proprietà ecclesiastica.

Se si tiene conto del fatto che questo vasto complesso di misure si accompagna con l’introduzione nel Sud di standards più elevati di azione pubblica, quali si erano affermati negli stati del Nord economicamente più avanzati, si deve riconoscere che l’unificazione non mancò di introdurre immediatamente nel Mezzogiorno rilevanti elementi di progresso economico. Ed è anche da tener presente che la politica svolta non si limitò a perseguire una formale unificazione di istituti. Si è già detto dell’intervento immediato e massiccio effettuato nel campo delle comunicazioni ferroviarie, stradali e marittime; non meno interessante è ricordare le preoccupazioni e gli obiettivi che ispirarono l’azione svolta nel campo fondiario: si ebbe infatti presente l’esigenza che nel Mezzogiorno il realizzo delle terre cedute nell’ambito demaniale fosse concepito non come mera operazione di finanza pubblica, ma come strumento di creazione di una nuova e più equilibrata struttura sociale. Nel settore industriale è poi significativa la vicenda dello Stabilimento meccanico di Pietrarsa che, pur inefficiente, si presentava con dimensioni comparabili soltanto a quelle della genovese Ansaldo: lo Stato continua a gestirlo anziché affidarlo, secondo l’indirizzo generale, all’iniziativa privata che non sa assicurarne la continuità di gestione; e poi si preoccupa di garantire allo stabilimento commesse ferroviarie e navali, anticipando con ciò forme di intervento che solo dopo molti decenni troveranno sistemazione nel pensiero politico-economico.

Ma l’azione di unificazione normativa, pur condotta con larghezza di criteri, non vale ad avvicinare l’obbiettivo generale dell’unificazione; di ciò ci si rende conto verso la fine del secolo, come è indicato dal fatto che importanti elementi del tutto nuovi devono essere introdotti nell’azione intrapresa immediatamente dopo l’unificazione; e la natura di tali elementi sta ad indicare che ci si rende conto che il divario economico che esiste tra Nord e Sud non è fenomeno superabile solo mediante provvedimenti unificatori di istituzioni, di politiche e di strutture proprietarie, cioè come effetto di quella che abbiamo chiamata una politica di unificazione normativa; e per la prima volta si hanno misure ispirate da intenti di propulsione economica, cioè da misure che non hanno solo lo scopo di livellare situazioni di partenza, ma anche quello di creare situazioni di favore nel Mezzogiorno nei confronti delle altre regioni d’Italia.

In questa nuova fase della nostra politica economica, sull’indirizzo che fa capo a Fortunato e a De Viti-De Marco, con una visione più organica del problema che vede lo sviluppo economico del Mezzogiorno come il risultato di un’azione di profonda modifica della politica commerciale e tributaria, prevale l’indirizzo che ricorda i nomi di Salandra, Sonnino, Gianturco, e invoca un’azione diretta dello Stato in specifiche zone arretrate.

Nascono così leggi speciali per determinate regioni (1), che dispongono in primo luogo l’esecuzione di opere pubbliche giudicate necessarie per lo sviluppo economico e civile e di cui la legislazione generale non è sufficiente a determinare l’esecuzione; l’intervento statale viene esteso al settore degli acquedotti e delle opere igieni che; viene inoltre disposto un apporto finanziario dello Stato in sostituzione di quello dei comuni, nei casi in cui le finanze comunali non siano in grado di sostenere l’onere che le leggi generali loro addossano per l’esecuzione delle opere.

Nel settore agrario vengono disposte misure di alleggerimento degli oneri fiscali gravanti sulla piccola proprietà, vengono istituite forme speciali di credito agrario, si promuovono riforme in materia di contratti agrari; sono anche adottati nuovi provvedimenti tendenti a trasformare la proprietà terriera. In materia di bonifica ci si rende conto che la relativa legislazione, che concepisce la bonifica soltanto come fatto idraulico e igienico, risponde alle più limitate esigenze del Settentrione, ma non a quelle del Mezzogiorno; in questa regione infatti si richiede anche e soprattutto una vasta e complessa trasformazione fondiaria e l’esecuzione di opere pubbliche di sistemazione organica, dal monte al mare, di interi bacini fluviali; misure vengono quindi adottate a tal fine.

In questa fase si ha anche il primo intervento del settore industriale; la legge del 1904 dispone infatti la creazione della zona industriale di Napoli con la concessione di agevolazioni fiscali e doganali alle imprese che vi si localizzano. Ancora a favore dell’economia napoletana si fa luogo alla creazione dell’Ente Volturno e all’istituzione di una riserva di commesse statali per le industrie sorte nella zona. Le agevolazioni fiscali e doganali a favore dell’industria vengono poi estese dalla legge del 1906 a tutto il Mezzo giorno e alle Isole.

Il vasto complesso di provvedimenti presi a partire dall’inizio del secolo non valgono però a impedire che, al termine della prima grande guerra, il problema del divario Nord-Sud si presenti ancora in tutta la sua gravità; nuove misure devono quindi essere prese nel quarto di secolo che intercorre tra i due conflitti.

Nel settore delle opere pubbliche trova più larga e ormai normale applicazione il principio secondo il quale lo Stato deve sollevare gli enti locali da obblighi finanziari loro derivanti dall’ordinamento vigente per l’esecuzione di opere pubbliche e per lo svolgimento di servizi collettivi: in questa fase sono anche da rilevare delle misure tendenti al coordinamento delle varie politiche di spesa svolte dallo Stato nei diversi campi di intervento.

Sono inoltre da ricordare, nel settore agrario, le leggi del 1924, del 1928 e del 1933 attraverso le quali si afferma quel concetto di bonifica integrale che era suscettibile di ricevere nel Mezzogiorno le applicazioni più feconde. L’istituzione del Commissariato per le migrazioni interne e altre misure prese in questo campo nel 1926-28 realizzano un primo, ma del tutto inadeguato intervento diretto a promuovere e a sostenere l’utilizzo delle forze di lavoro sottoccupate, cioè un intervento di particolare interesse per il Sud.

L’intervento nel settore industriale non presenta innovazioni di rilievo; è solo da ricordare la localizzazione attuata dall’IRI nella regione napoletana di importanti produzioni meccaniche e siderurgiche.

Questa ultima azione, sebbene di portata limitata, è interessante perché contiene due elementi tipici della moderna teoria dello sviluppo economico:

a) l’esercizio diretto di industrie da parte dello Stato in funzione espansiva e non soltanto di risanamento, o di mera nazionalizzazione di attività già esistenti;

b) il riconoscimento che il processo di sviluppo di un’area arretrata deve puntare anche e soprattutto sull’impianto di industrie di beni strumentali e non soltanto sulle più semplici industrie di beni di consumo a mercato locale.

E giungiamo così agli anni drammatici che seguono la fine del secondo conflitto mondiale; nella generale riconsiderazione che i problemi sulla vita nazionale ricevono in quel periodo, il problema del divario Nord-Sud si presenta praticamente irrisolto e anzi reso più avvertito dalle esigenze di giustizia che possono meglio esprimersi nel nuovo quadro politico e sociale. Nel 1947 vengono prese le prime misure dirette a facilitare lo sviluppo industriale; ma è nel 1950 che, con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, l’azione di intervento assume caratteri nuovi.

Come è noto, l’intervento avviato con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno si basa su un rapido apprestamento delle infrastrutture richieste da un processo di moderno sviluppo, su un’azione di riforma della struttura agricola e su una intensificazione del processo di industrializzazione; a quest’ultimo fine viene sollecitata con stimoli nuovi l’iniziativa privata, e vengono fissate delle condizioni che l’industria a partecipazione statale deve tassativamente osservare a favore del Mezzogiorno nella propria politica di investimenti.

Altro aspetto interessante e del tutto nuovo dell’azione in corso, è il suo continuo adattamento al mutare delle esigenze o all’appuramento di elementi prima mal noti; l’azione odierna non si basa più, come nel passato, su vasti complessi legislativi che per decenni restano invariati, ma si svolge attraverso una successione di misure legislative ed amministrative che cercano appunto di mettere a frutto i risultati sia dell’esperienza che viene via via facendosi, sia di ricerche e di dibattiti che si svolgono nelle sedi più varie.

A chi consideri il secolo di storia economica italiana trascorso dopo la nostra unificazione politica, è dato rilevare più di un elemento del generale svolgimento dell’economia del Paese che si è riflesso in modo non favorevole sull’economia del Mezzogiorno.

In primo luogo sono da ricordare gli effetti prodotti dalla politica definita più sopra di unificazione normativa seguita nei primi decenni di vita del nuovo Stato unitario. La posizione di neutralità in cui, come già ricordato, si pose lo Stato per alcuni decenni nei riguardi degli svolgimenti economici in corso nelle varie regioni, ebbe come conseguenza di concentrare gli investimenti pubblici nelle regioni economicamente più avanzate, dalle quali partivano le sollecitazioni più pressanti è gli apporti finanziari locali più rilevanti; sembrava d’altra parte razionale rispondere prontamente a queste sollecitazioni in un sistema di pensiero che vedeva lo sviluppo equilibrato di tutta l’economia del Paese come l’immancabile risultato delle iniziative prese dai singoli in un ordinamento nel quale gli operatori fossero posti in condizioni di parità.

La unificazione normativa già in sé inadeguata, venne per di più realizzata solo in modo parziale; la manifestazione più rilevante di questa deficienza è certamente rappresentata dall’inadeguatezza dei risultati ottenuti dalle misure di riforma fondiaria prese nei primi decenni successivi all’unificazione; molti sono i motivi che, come può rilevarsi dalle numerose analisi che ne sono state fatte, vengono oggi a dar ragione di un insuccesso la cui possibilità non era, del resto, sfuggita agli uomini del tempo. Qui basti osservare che la piccola proprietà contadina non ebbe lo sviluppo che ci si attendeva e che la grande proprietà terriera si ricostituì, sia pure in altre mani. In sostanza possiamo oggi dire che dalle misure prese derivò una struttura della proprietà e dell’impresa agricola tale da non consentire quel progresso del reddito agricolo che ci si attendeva.

Contribuì, infine, a ridurre la efficacia già limitata della politica unificatrice il fatto che i criteri unificatori vennero ispirati dagli interessi delle regioni economicamente più forti e più attive, interessi che non potevano coincidere con quelli delle regioni arretrate; effetti sfavorevoli per l’economia meridionale vennero infatti prodotti, a motivo dei criteri seguiti, dalle misure di coordinamento e di sviluppo del sistema delle comunicazioni, dalla riorganizzazione delle finanze dei comuni, dalla unificazione del debito pubblico e delle leggi fiscali, dalla liquidazione della proprietà ecclesiastica.

Sono soprattutto da ricordare gli effetti della politica ferroviaria seguita dai grandi gruppi ferroviari del tempo; quei gruppi si preoccuparono, infatti, di collegare il mercato del Sud con i centri produttivi del Centro-Nord al cui sviluppo i gruppi stessi erano direttamente interessati; e questo sconvolse il sistema di rapporti di mercato su cui si fondava la vita già precaria delle unità di produzione del Mezzogiorno e spesso trasformò un fattore di progresso, quali erano le costruzioni ferroviarie, in un motivo di crisi.

Sono poi notori gli effetti della politica doganale seguita nei primi decenni successivi all’unità; l’abolizione delle barriere doganali tra i diversi stati pose in difficoltà le piccole attività artigianali e le modeste industrie a bassa produttività operanti nel Mezzogiorno; le industrie del Nord, invece, riuscirono a trarre vantaggio considerevole dall’allargamento dei singoli mercati pre-unitari al più vasto mercato nazionale.

Ma la bassa protezione della precedente politica piemontese ben presto non appare sufficiente alla nascente industria nazionale; tra il 1883 e il 1888 un nuovo regime protezionistico dà al sistema industriale del Nord la base necessaria per uno sviluppo rapido e duraturo; le attività produttive del Mezzogiorno, in grave e crescente ritardo rispetto a quelle del Nord, non furono in condizioni di avvantaggiarsi di questa protezione; anzi la situazione del Mezzogiorno fu aggravata dal peggioramento del rapporto di scambio tra prodotti agricoli e prodotti industriali provocato dall’innalzamento del livello di protezione della produzione industriale. Per di più il Mezzogiorno fu gravemente danneggiato dalle contromisure prese dai paesi che ritennero indebitamente colpite le proprie industrie esportatrici dal nostro indirizzo protezionistico; e poiché il nostro Paese era allora esportatore soprattutto di prodotti agricoli, il Mezzogiorno ebbe molto a soffrire di queste ritorsioni (si ricordino le crisi vinicole) senza che un contemporaneo sviluppo industriale potesse offrire un compenso anche parziale.

All’inizio del nuovo secolo elementi nuovi di grande rilievo per lo sviluppo economico nazionale si risolsero in cause addizionali di depressione per l’economia meridionale. Importante tra essi è l’avvento dell’energia elettrica; la produzione elettrica si sviluppa, come si ricorderà, a partire dal nuovo secolo e rapidamente si afferma in Italia sotto forma di sfruttamento di risorse idriche e non termiche: ora è nelle Alpi che il nostro Paese trova la maggior parte delle risorse idriche utilizzabili per la produzione della nuova forma di energia; della totale potenza idrica disponibile in Italia, il 10% soltanto si trova nelle regioni meridionali, ove risiede il 40% della popolazione; l’eccentricità rispetto al Sud della nuova fonte di energia è indicata dal fatto che del restante 90% di potenza idrica non disponibile nel Sud, due terzi è localizzata nel massiccio alpino. Da notare inoltre che l’energia ottenibile al Centro-Nord è molto pii economica, tanto che può essere offerta a prezzi che, fino al termine dell’ultima guerra, erano pari alla metà e anche a un terzo dei prezzi correnti nel Sud.

Questo elemento giova sia rilevato non solo per il peso da esso assunto, ma anche perché molto significativo dell’orientamento dominante in fatto di politica industriale; nessuna forma di perequazione di portata apprezzabile venne infatti prospettata in un settore come quello dell’utilizzazione delle acque, dove l’azione pubblica ha avuto sempre e ovunque un ruolo importante.

Ma il periodo precedente la prima guerra mondiale va soprattutto ricordato perché è in quegli anni che in Italia si gettano le basi di un’industria moderna; un ruolo vitale ha in questo processo la banca di deposito, che non solo finanzia largamente iniziative industriali di ogni genere, ma anche le promuove facendosi tra l’altro portatrice di preziose assistenze tecniche di gruppi industriali esteri. Nel nuovo clima che si creerà dopo la fine della prima guerra mondiale, questo tipo di rischiosissima attività bancaria non potrà più reggere in Italia, come del resto in tutti i paesi esteri ove tali tecniche finanziarie si erano andate affermando; ed opportune riforme bancarie verranno a separare, nell’interesse delle due parti, le gestione della banca dal controllo dell’industria; ma ciò non toglie che, quando verrà posto in termini più concreti il problema dell’industrializzazione del Mezzogiorno, gli investimenti  industriali da localizzarsi in queste regioni, chiuso irrevocabilmente il ciclo della banca mista, non potranno fruire di un impulso comparabile a quello di cui aveva potuto beneficiare, alcuni decenni prima, l’industria settentrionale.

La guerra 1915-18 è un altro motivo di aggravamento dello squilibrio, data l’intensificazione che essa provoca nello sviluppo dell’apparato industriale esistente: connessa con la grande guerra è la crisi grave e prolungata che colpisce una parte considerevole del sistema industriale e del sistema bancario. La crisi provoca, lungo tutto il quindicennio 1918-1933, una serie di interventi pubblici che, nel loro insieme, ci appaiono oggi come una forma grandiosa di finanziamento pubblico, sia pure a posteriori, di una espansione industriale localizzata soprattutto al Nord.

Il sistema industriale italiano continua a svilupparsi al Nord tra le due guerre ed anzi i pur limitati sviluppi industriali determinati dalla preparazione e dalla condotta della guerra danno impulsi addizionali alla tendenziale localizzazione al Nord dello sviluppo della nostra industria. Sono state poi più volte rilevate le diverse incidenze che le due grandi inflazioni belliche avvenute nel corso degli ultimi quaranta anni hanno avuto sull’economia del Nord e su quella del Sud: l’inflazione determina infatti uno spostamento di ricchezza dal Sud, che è soprattutto investitore in valori monetari (titoli pubblici e depositi bancari), a favore del Nord che — appunto perché dotato di un apparato industriale — è investitore in beni reali di capitali mutuati in tutto il Paese. In sostanza le due inflazioni, i risanamenti bancari del periodo 1920-33, in precedenza ricordati, i più recenti interventi di conversione delle industrie belliche di questo dopoguerra si sono risolti in un ammortamento straordinario dell’apparato industriale esistente, fatto a carico della collettività; questa circostanza costituisce un pesante handicap addizionale per nuove industrie da avviarsi all’infuori dell’apparato esistente, come è il caso appunto di una nuova industria meridionale.

Richiami

1 - Si ricordano la Legge speciale per la Sardegna del 1897, la Legge per Napoli (1904), la Legge per la Basilicata (1904), la Legge per la Calabria (1905) ‘ la Legge per le province meridionali, la Sicilia e la Sardegna (1906), nonché una serie di provvedimenti tendenti ad ovviare le deficienze che l’applicazione delle predette leggi aveva manifestato.

LOGICA E IDEOLOGIA DELL’INTERVENTO NEL MEZZOGIORNO

Da: MARIANO D’ANTONIO, Stato ed economia nel Mezzogiorno dagli anni ‘50 ad oggi, in AA.VV., Il governo democratico dell’economia, Bari, De Donato, 1976, pp. 41-50.

1. In queste note mi propongo di offrire alcuni materiali per una riflessione critica sulla cosiddetta politica di sviluppo del Mezzogiorno tentata dai governi negli ultimi venticinque anni. Scopo di ciò, tuttavia, è non solo e non tanto quello di cominciare a capire cosa è avvenuto nel passato nelle regioni meridionali, quale intreccio tra pubblico e privato, tra Stato ed economia, si è venuto determinando nel Mezzogiorno, quale gerarchia di interessi e quale specifica forma di dominio politico-sociale si sono costruite nella zona economicamente e civilmente più arretrata del Paese. Lo scopo è anche questo: capire insieme cosa è accaduto; ma è anche e soprattutto quello di trarre, dall’esperienza fin qui fatta, alcuni spunti per comprendere a quale punto di approdo è giunto oggi il capitalismo italiano, quale carattere specifico assume la crisi capitalistica in Italia, quali sono le probabili vie di uscita.

2. La cosiddetta politica di sviluppo del Mezzogiorno ha subito dagli anni ‘50 ad oggi modifiche, correzioni, adattamenti, per cui essa appare a prima vista come un’esperienza non unitaria, disegnata e realizzata per ottenere risultati diversi da epoca ad epoca. Più avanti tracceremo alcune caratteristiche di queste differenti fasi dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno. A questa analisi occorre però premettere alcune considerazioni sulla ideologia che ha retto la politica economica meridionalista dei governi italiani, la quale è rimasta sostanzialmente la medesima, indipendentemente dagli aggiustamenti apportati di volta in volta all’intervento pubblico.

L’ideologia del meridionalismo governativo è un’ideologia riformista, presa a prestito dall’esterno, da coloro cioè che su scala internazionale si sono posti, come economisti e come circoli dirigenti dei paesi imperialistici., il problema dello sviluppo e dell’emancipazione materiale dei paesi ex coloniali. Essa ripropone, per le zone economicamente arretrate, il mito e l’illusione del « benessere per tutti » che sono stati a fondamento delle politiche keynesiane di stabilizzazione del mercato nei paesi capitalisticamente più sviluppati.

I tratti comuni al riformismo di stampo keynesiano e all’ideologia dello sviluppo delle zone arretrate sono in politica l’idea di uno Stato « al di sopra delle parti », che perciò è in grado di regolare complessivamente il processo economico; ed in economia l’idea che tale regolazione possa farsi attraverso interventi redistributivi. Nei paesi capitalistici maturi la redistribuzione del reddito aveva come obiettivo quello di elevare la capacità di consumo delle masse e di stabilizzare, per questa via, il mercato. Nei paesi sottosviluppati, la redistribuzione — che sarebbe avvenuta a carico delle economie più avanzate, attraverso doni, aiuti, prestiti — doveva elevare il saggio di accumulazione e perciò accelerare lo sviluppo materiale. In ambedue i casi, il riformismo aveva l’ambizioso progetto di « forzare le regole del gioco », le tendenze spontanee del mercato sia verso il ristagno cronico della produzione (nel caso dei paesi già industrializzati) sia verso l’impoverimento crescente (nel caso dei paesi ex coloniali).

Si rifletta sul fatto che la natura velleitaria di questo programma è stata messa allo scoperto più rapidamente sul versante dei cosiddetti paesi sottosviluppati, che non dal lato dei paesi capitalisticamente maturi. Le politiche di sviluppo su scala internazionale sono cioè abortite prima e più rapidamente delle politiche per la « piena occupazione ». Questa circostanza si è verificata anche in Italia, dove il meridionalismo governativo, ad ogni scadenza delle leggi di finanziamento pubblico, ha scoperto di avere mancato l’obiettivo ed ha cercato di aggiustare il tiro, salvo a scoprire, dopo cinque anni, di avere di nuovo sbagliato strada. Si può avanzare l’ipotesi che la forma politica (il riformismo correttivo del mercato) e gli strumenti adottati (di redistribuzione delle risorse dalle aree sovra sviluppate alle aree sottosviluppate) erano costituzionalmente incapaci di assolvere al compito (di accelerare lo sviluppo materiale) nelle zone arretrate, più di quanto analogamente lo fosse la politica di « pieno impiego » nei paesi industrializzati.

La ragione di ciò dal punto di vista, forse un poco angusto, dell’economista politico — potrebbe ricercarsi nel fatto che la politica di sostegno del consumo (e quindi di stabilizzazione del mercato) si traduce nell’incentivo al consumo improduttivo, mentre la politica di sviluppo dovrebbe comportare notevoli modifiche nelle decisioni di investimento. La prima è, entro certi limiti, più compatibile con l’assetto politico-sociale dato; la seconda è invece più immediatamente conflittuale con quell’assetto, perché pretende di intervenire, in maniera antagonista ma senza avere i mezzi per farlo, sulla variabile più « delicata » di un’economia capitalistica, cioè sull’accumulazione di capitale.

Vedremo più avanti che, in maniera solo apparentemente paradossale, la politica di sviluppo del Mezzogiorno ha avuto come effetto collaterale quello di alimentare fasce di consumo politicamente protette, anziché quello, assai ambizioso, di avviare un meccanismo di investimento-sviluppo autonomo ed autopropulsivo. Si tratta, a nostro avviso, di un approdo necessario, date le premesse da cui partivano gli ideologi del nuovo meridionalismo nel dopoguerra e non di un sottoprodotto accidentale, come qualcuno di quegli ideologi vuole farci credere.

3. Cassa per il Mezzogiorno e riforma stralcio dell’agricoltura furono le risposte date dal governo centrista alla protesta sociale che, negli anni della stabilizzazione capitalistica e della divisione e della sconfitta della classe operaia, era particolarmente concentrata nelle campagne meridionali. Furono due risposte complementari: nel primo quinquennio di attività la Cassa opera prevalentemente nel settore delle bonifiche, dell’irrigazione, del sostegno insomma alla neonata e gracile agricoltura contadina, e nel campo delle infrastrutture civili.

La borghesia industriale del Nord è ben disposta a pagare il prezzo (quantitativamente esiguo) di una politica che corregge parzialmente l’indirizzo Einaudi-PelIa (deflazione monetaria) nella direzione di una parziale espansione del potere di acquisto nelle campagne, guidata dallo Stato. Questa prima fase della politica meridionalista fu etichettata, dai riformatori del campo governativo già da allora invasati dalla « mania dei piani economici », come la fase della pre industrializzazione. Lo Stato — si sosteneva — attraverso il rinnovamento e l’aumento della dotazione di infrastrutture civili nel Mezzogiorno (il cosiddetto capitale fisso sociale), creava le condizioni per il decentramento dell’industria del Nord al Sud; favoriva, cioè, l’unificazione delle condizioni ambientali tra le due aree economiche, eliminando in tal modo uno degli ostacoli principali a che il rendimento degli investimenti fosse nel Mezzogiorno prossimo a quello che il mercato segnalava per le industrie del « triangolo».

A queste posizioni (di Rosenstein-Rodan, teorico « mondiale » del sottosviluppo e di Saraceno, suo portavoce in Italia), gli industriali del Centro-Nord — la borghesia monopolistica — opponeva una concezione più realistica per l’epoca, che assegnava al Mezzogiorno la funzione di regione a vocazione agricola, produttrice di merci salario per l’industria e riserva di forza lavoro per il futuro « miracolo economico ».

Una parte della borghesia monopolistica era, a quei tempi, terrorizzata dagli effetti della incipiente liberalizzazione degli scambi e in generale, da tutto ciò che potesse rianimare la concorrenza sul mercato interno — sia che ciò fosse l’abbattimento graduale della protezione doganale sia che fossero i « doppioni » industriali da localizzare nel Mezzogiorno.

Il dibattito sul Mezzogiorno si cala, in quegli anni, nella discussione sul futuro economico del Paese e sul ruolo dell’impresa pubblica. È opportuno osservare che le due tendenze divergenti che affiorano in quegli anni nel padronato italiano — da una parte l’industria meccanica dei beni di consumo durevoli capeggiata dalla Fiat ancora politicamente minoritaria ma proiettata verso le esportazioni e la libertà commerciale; e dall’altra l’industria elettrica, il capitale finanziario, i settori tradizionali come i tessili e gli alimentari, ed in genere la borghesia minuta, arroccati su un punto di vista « malthusiano »,  stagnazionista — ambedue queste tendenze, divise sul  « modello di sviluppo » da realizzare, appaiono comunque unificate riguardo alla posizione da assegnare al Mezzogiorno.

La seconda fase — che possiamo chiamare della industrializzazione leggera e dell’impresa pubblica —  della politica meridionalista si apre alla fine degli anni ‘50, e precisamente nel 1957, in occasione di una discussione parlamentare sul rifinanziamento della Cassa. L’accento si sposta, a partire da  quell’anno, su un maggiore impegno dei pubblici poteri a favore dello sviluppo industriale del Mezzogiorno. I nuovi strumenti che vengono approntati, sono da un lato gli incentivi finanziari ed i Consorzi per l’industria e dall’altro l’obbligo a carico delle industrie a partecipazione statale di investire nel Mezzogiorno il 60% dei nuovi impianti fino a rendere « meridionale » non meno del 40% di tutto lo stock di capitale produttivo in esistenza.

Gli incentivi finanziari sono sulla carta favorevoli prevalentemente alle piccole e medie industrie, mentre il vincolo di localizzazione degli investimenti a carico delle imprese pubbliche viene escogitato da un ministro liberale come mezzo per dirottare al di fuori dei distretti più  industrializzati del Paese, la spinta alla crescita dell’industria di Stato. Di fatto ambedue queste misure sono lasciate allo Stato di progetto per alcuni anni, e cioè fino a quando, all’inizio del decennio successivo, la rapida espansione economica e la formazione di risorse investibili nell’area più avanzata non consentono l’avvio di nuovi impianti industriali anche nelle regioni meridionali. Gli incentivi finanziari teoricamente indirizzati verso l’industria meridionale di minori dimensioni cominciano ad essere utilizzati dai grandi complessi industriali del Centro-Nord e dall’industria pubblica, la quale, oltre che dare vita a pochi, nuovi insediamenti industriali (il centro siderurgico di Taranto, ad esempio), si dedica prevalentemente al settore delle infrastrutture e dei servizi (autostrade, telefoni).

Dopo la battuta di arresto degli anni 1963-1965, nella seconda metà degli anni ‘60 si apre una terza fase del meridionalismo governativo, la fase dell’industrializzazione selettiva. Alla caduta del saggio di profitto determinata prima dagli aumenti salariali e poi dalla stagnazione della domanda interna, il capitalismo italiano risponde in quegli anni con la concentrazione industriale, il taglio dei rami secchi (le imprese marginali), l’aumento della composizione organica del capitale. Sono questi gli anni in cui l’industria centro-settentrionale diventa sempre più risparmiatrice di forza lavoro. Sono anche gli anni in cui aumenta il grado di integrazione del capitalismo italiano nel mercato internazionale: al ristagno degli investi menti sul mercato interno e quindi alla tendenziale riduzione della base produttiva nei punti più deboli del sistema (l’agricoltura, l’industria minore), fa riscontro un eccezionale aumento delle esportazioni di mezzi di produzione dall’Italia sui mercati dei paesi industrializzati, anche per effetto del boom della guerra vietnamita su scala internazionale.

Nell’Italia meridionale lo sviluppo e il potenziamento delle industrie che producono capitale costante (petrolchimica, siderurgia, ma anche meccanica pesante) nella seconda metà del decennio scorso segue questa tendenza ad una crescente internazionalizzazione della produzione. Il risvolto è l’abbandono delle campagne da parte dei piccoli contadini, la « terziarizzazione » nel Nord e nel Mezzogiorno del la forza lavoro espulsa dalle campagne, la quale trova scarse occasioni di lavoro nell’industria manifatturiera e si riversa perciò nei servizi; il declino dell’industria minore tipica del Mezzogiorno, sottoposta alla concorrenza dell’industria sempre più concentrata del Centro-Nord.

Le provvidenze finanziarie e fiscali per l’industrializzazione del Mezzogiorno, sono assorbite in questi anni soprattutto dai grandi complessi industriali, privati e pubblici, le cosiddette « cattedrali nel deserto », controllati dal capitale nazionale o dai centri finanziari internazionali. Esse permettono di aumentare il saggio di profitto nelle imprese utilizzatrici, piuttosto che abbassare i sovracosti  che queste imprese — secondo la favola delle diseconomie esterne esistenti nel Mezzogiorno — sarebbero costrette a sopportare sulle produzioni localizzate nell’area meridionale.

L’ultimo stadio del meridionalismo governativo si apre all’inizio di questo decennio (anni 70), come tentativo di razionalizzare — attraverso i cosiddetti progetti speciali di opere pubbliche concentrate soprattutto nelle zone di maggiore urbanizzazione — l’assetto caotico degli insediamenti urbani, avutosi anche nell’Italia meridionale per l’abbandono delle campagne. Il tentativo non riesce perché sull’esigenza nominale di selezionare le spese pubbliche per consumo sociale, prevale poi la pratica ventennale dei tradizionali interventi a pioggia, sollecitati da questo o quel bisogno emergente e sostenuti dai gruppi locali.

In questi anni, poi, alla crisi del « modello di sviluppo », alla perdita di consenso sociale all’interno e al logorio della posizione esterna, sui mercati internazionali, si accompagna un andamento economico generale fatto di rapidi e brevi periodi di espansione alternati a prolungati periodi di stagnazione. In questo quadro che caratterizza il capitalismo italiano negli ultimi tempi, muta anche, come vedremo, tendenzialmente il posto che si vuole assegnare all’economia delle regioni meridionali nella divisione nazionale ed internazionale del lavoro.

4. L’elemento di unità e di continuità che corre, a nostro avviso, attraverso i diversi momenti della politica meridionalista, si può rinvenire in ciò: lo Stato ha sempre cercato di mantenere un rapporto di complementarietà-integrazione tra le esigenze generali dello sviluppo capitalistico e i bisogni delle masse contadine e popolari del Mezzogiorno. La spesa pubblica —  e cioè il drenaggio di una quota del plusvalore prodotto nei punti « forti » del sistema italiano verso le regioni meridionali — è stato lo strumento specifico con cui, cambiando ad essa di volta in volta destinazione, si è tentata questa saldatura tra la borghesia dei monopoli e le popolazioni del Mezzogiorno, con cui si è cercato cioè di ricomporre il blocco storico messo in crisi dalla caduta del fascismo e dalla ripresa della lotta di classe nelle campagne.

Questo giudizio può essere meglio articolato se si esaminano gli effetti che la politica per il Mezzogiorno ha conseguito di fatto — e cioè al di là degli orpelli propagandistici e delle intenzioni programmatiche — sia sul terreno strettamente economico che dal punto di vista politico e sociale.

Quanto ai risultati economici dell’intervento statale, si può in primo luogo ribadire che gli obiettivi perequativi (accorciare o addirittura eliminare le distanze economiche tra Nord e Sud) sono stati completamente mancati, nel senso che:

a) il reddito per abitante delle regioni meridionali, nonostante l’emorragia dell’emigrazione, è aumentato in media, dal 1951 al 1973, di meno che nelle regioni più industrializzate. Nel 1951 il reddito pro capite meridionale era il 48% di quello registrato nell’Italia nord-occidentale, nel 1973 era sceso al 45%;

b) la percentuale di popolazione attiva sulla popolazione residente è nell’Italia meridionale, dopo venticinque anni, sistematicamente inferiore alla percentuale media nazionale, mentre nel Mezzogiorno si concentra la maggior parte della disoccupazione ufficialmente registrata;

c) il rapporto occupati-popolazione ed il rapporto occupati dipendenti-popolazione ancora oggi sono inferiori nel Mezzogiorno che nella media del Paese;

d) la domanda interna alle regioni meridionali (per consumo ed investimento) è sistematicamente inferiore al reddito ivi prodotto, e la differenza — che cresce col tempo — è coperta con l’eccesso di importazioni dal resto del Paese.

Ovvero, detta in altri termini, consumo ed accumulazione sono sostenuti con risorse trasferite dalle zone più ricche alle regioni meridionali, attraverso vari canali pubblici (spesa governativa, tra cui trasferimenti di reddito a fini sociali come le pensioni) e privati (rimesse degli emigranti, trasferimenti di capitali dal resto del paese).

Queste cifre, insieme con altre (come quelle relative alla composizione delle spese pubbliche), dicono che negli ultimi venticinque anni l’economia meridionale ha funto:

1) da serbatoio di forza lavoro disponibile per soddisfare il fabbisogno di manodopera dell’industria centro-settentrionale (fenomeno particolarmente rilevante fino alla metà degli anni ‘60);

2) da mercato di consumo assistito per il resto dell’economia;

3) da area di accumulazione protetta a beneficio della grande industria. Queste due ultime funzioni sono venute ad assumere un peso prevalente negli ultimi dieci anni, nella fase di sviluppo intensivo e a scarso contenuto di lavoro che ha contraddistinto in quest’epoca il capitalismo italiano.

Il modello di sviluppo subalterno-integrazione dell’economia meridionale, presenta risvolti politico-sociali su cui si possono fornire soltanto alcune indicazioni mancando ancora ricerche sistematiche in proposito.

Industria delle costruzioni, pubblica amministrazione e attività di servizio private sono stati fino ad oggi i settori che hanno determinato più occasioni di lavoro nell’economia meridionale, a fronte di un’agricoltura che espelleva manodopera e di un’industria manifatturiera nella quale il numero dei nuovi posti di lavoro era sistematicamente inferiore al calo di occupazione nelle attività tradizionali (tessili, alimentari, abbigliamento, pelli e cuoi, mobilio). Ciò significa che — date le interrelazioni assai strette esistenti tra le tre suddette attività a saldo di occupazione positivo — il mercato del lavoro meridionale è stato fino ad oggi un mercato politicamente controllato, attraverso la finanza pubblica centrale (quella ordinaria e quella straordinaria) e locale, per la manodopera comune e per quella qualificata (diplomati, laureati).

Tutto questo spiega anche perché la dimensione politica — il controllo o la conquista dello Stato, nelle sue diverse forme di manifestazione, dalla protesta eversiva all’organizzazione cosciente della lotta — è stata sempre avvertita nel Mezzogiorno come esclusiva e dominante; non ci si può disinteressare della « politica » (magari facendo solo lavoro sindacale) a pena di una secca riduzione anche delle proprie pretese « economiche ».

In secondo luogo, essendo lo Stato direttamente o indirettamente garante di gran parte dei redditi della popolazione (di quella impegnata in qualche attività lavorativa come di quella che, essendo fuori del mercato del lavoro, vive di trasferimenti), ne segue che non vi è alcuna relazione necessaria tra livelli (relativi) e andamento delle retribuzioni e livelli (relativi) e crescita della produttività del lavoro. La presenza di ampie fasce di redditi non capitalistici è il terreno di coltura di una mal distribuzione dei redditi personali, più marcata di quella rilevata nelle regioni centro-settentrionali, come sembra comprovato dalle ultime due indagini della Banca d’Italia su « reddito, risparmio e struttura della ricchezza delle famiglie italiane ». Le sperequazioni nella distribuzione del reddito alimentano inoltre, specie nelle zone urbane, i consumi vistosi dei percettori di redditi più elevati, mentre il livello di vita dei lavoratori ad occupazione precaria è incredibilmente basso e continuamente ridimensionato dall’inflazione dei prezzi.

Il sostegno politico ai lavori ed ai consumi improduttivi, poi, determina una tendenziale frattura, sul terreno degli interessi materiali, tra classe operaia (che produce plusvalore, nel Mezzogiorno e fuori dei Mezzogiorno) ed altri strati della popolazione, (anche quelli che si ritagliano una porzione esigua della ricchezza sociale vivendo di espedienti, al margine del mercato del lavoro capitalisticamente organizzato). Questa frattura, abbastanza evidente fino a pochi anni fa, è stata in parte colmata negli ultimi tempi in seguito alle iniziative intelligenti e coraggiose del sindacato e del partito comunista sui problemi del lavoro. Si tratta però di una rottura, di una tensione latente nel corpo sociale, destinata probabilmente ad acuirsi se la crisi capitalistica procederà nelle forme in cui si è venuta a manifestare negli ultimi mesi Il...].

LA PELLE DI LEOPARDO

LA DISOMOGENEITÀ DELLA CRESCITA NEL MEZZOGIORNO

CENSIS

Con questo studio, realizzato nel 1981, il Censis fornisce una sistemazione organica alla sua riflessione sullo sviluppo, o meglio sulla "transizione allo sviluppo" del Mezzogiorno, affrontando il tema da una prospettiva eterodossa rispetto a quella comunemente accreditata.

La posta in gioco è il superamento della tesi dell'omogeneità del Mezzogiorno. I concetti di "frammentazione" e "segmentazione" entrano a far parte del lessico del Censis nello sforzo di fornire una rappresentazione quanto più realistica possibile della realtà socioeconomica meridionale.

Non solo la classica dicotomia tra un Nord sviluppato e un Sud depresso comincia ad apparire oramai superata, ma anche la metafora della "polpa e dell'osso", con la quale autorevoli studi avevano voluto in qualche modo trasferire quello stesso dualismo dal contesto nazionale a quello meridionale, considerando "la polpa" le zone di pianura e costiera e l'"osso" le zone montane, si mostra parzialmente inadeguata a dare conto della complessa fenomenologia socioeconomica del Mezzogiorno.

Tendono infatti a moltiplicarsi i fenomeni di compresenza all'interno della stessa regione, e talvolta della medesima provincia, di situazioni caratterizzate da livelli di sviluppo diversificati.

Le ragioni di tutto ciò sono riconducibili da un lato a fattori di carattere oggettivo, dall'altro a fattori soggettivi.

Tra i primi sono da annoverare sicuramente:

·         la diversa morfologia del territorio;

·         il sistema di comunicazione;

·         gli effetti di irradiamento dello sviluppo delle aree del Centro;

·         il diverso equilibrio che si viene a determinare fra urbano e rurale.

I secondi invece sono invece da riconnettere con:

·         l'intervento pubblico per l'industrializzazione, che ha prodotto effetti positivi in diverse aree;

·         la ripresa della produttività agricola in alcune zone;

·         lo sviluppo dell'innovazione terziaria in molte aree urbane intermedie.

Muovendo pertanto dall'ipotesi che i fattori suesposti abbiano reso più complessa l'articolazione territoriale dello sviluppo, il Censis ha provveduto alla sua ricostruzione puntuale alla luce dell'andamento di un set di variabili afferenti in parte all'ambito economico-produttivo, in parte a quello demografico, e in parte ancora a quello relativo ai consumi, in special modo elettrici e telefonici.

L'insieme di queste informazioni è stato successivamente sottoposto ad un procedimento di analisi multivariata con lo scopo di pervenire alla elaborazione di una tipologia di gruppi comunali, situati a livelli diversi nella scala dello sviluppo.

La cluster approda ad una ripartizione dei 2.660 comuni del Mezzogiorno in 7 gruppi diversi tra di loro ma massimamente omogenei al loro interno, più un ottavo aggregato residuale (nel quale confluiscono tutti quei comuni rivelatisi di non agevole collocazione all'interno delle categorie previste). Grazie a questa tecnica, l'appiattimento del Meridione viene dissolto in una policromia economica, che consente di rendere conto di diversi livelli di crescita all'interno di un'area tradizionalmente considerata in blocco economicamente atrofizzata

Vengono elencati di seguito i sette gruppi e la relativa consistenza in valori assoluti e percentuali, associati ad un commento sintetico:

  1. I centri periferici - 783 comuni (30% del totale). Questo gruppo si caratterizza per le condizioni di particolare disagio dei comuni che lo compongono, dove la totale assenza di iniziative industriali nell'intervallo temporale 1959/81 si associa con la dimensione particolarmente contenuta dei comuni stessi e con saldi migratori costantemente negativi. Questo tipo di comuni è presente prevalentemente in Sardegna ed in Calabria.
  2. I centri marginali - 354 comuni (13,3% del totale). Questo raggruppamento è affine al precedente per la dimensione ridotta dei comuni, per il saldo migratorio prevalentemente negativo e per il basso grado di terziarizzazione della struttura economica. Se ne distingue, viceversa, per aver recepito, sia pure sporadicamente, alcuni impulsi di industrializzazione nel ventennio 1959/81. Ciò non muta sostanzialmente la marginalità dei comuni che a questo gruppo appartengono, rispetto ai fenomeni di crescita che invece hanno investito altre zone del Paese. Questo tipo di comuni è presente prevalentemente in Basilicata ed in Calabria.
  3. I centri marginali dinamici - 412 comuni (15,5% del totale). Le dimensioni lievemente maggiori dei comuni, e una morfologia del territorio che combina collina e montagna interna con collina litoranea, creano le precondizioni per il formarsi di una struttura industriale con caratteristiche di minore fragilità al confronto con i casi precedenti. L'avvio di un pur lenta crescita ha significato per questi comuni anche un certo rafforzamento della loro capacità di frenare l'"emorragia" di forza lavoro verso le aree più industrializzate del Nord. Accanto a comuni che si segnalano per un saldo migratorio negativo, è possibile infatti individuarne altri nei quali si riscontra una dinamica positiva. Comuni di questo tipo sono più frequenti in Molise ed in Basilicata.
  4. I centri intermedi - 248 comuni (9,3% del totale). In questi comuni le iniziative industriali tendono a farsi più consistenti; la presenza di un certo tessuto industriale porta con sé anche l'affacciarsi di forme di economia terziaria, che erano completamente assenti, o quasi, nei gruppi precedenti, e modalità di consumo dell'energia elettrica che si avvicinano a quelle tipiche di contesti economicamente più evoluti. Sicilia e Abruzzo ospitano al loro interno quote significative di centri appartenenti a questa tipologia.
  5. I centri intermedi dinamici - 414 comuni (15,6% del totale). In questo gruppo sono ricompresi tutti quei comuni che hanno oramai intrapreso la via dell'industrializzazione. Più del 50% degli investimenti sono stati effettuati, infatti, prima del 1979, a dimostrazione di una discreta solidità delle iniziative industriali intraprese quale non si era riscontrata in precedenza. Industria e terziario dimostrano la loro stretta interrelazione, visto che al crescere dell'una si registra analoga crescita dell'altro. Parallelamente a ciò si ingrandisce anche l'incidenza delle grandi utenze elettriche sul totale delle utenze. Sotto il profilo della dimensione comunale, i centri intermedi dinamici sono costituiti da comuni medio-piccoli insediati in aree pianeggianti o collinose. Le condizioni più propizie al loro sviluppo, infine, si danno in modo particolare in Puglia e nelle Marche.
  6. I centri emergenti - 302 comuni (11,4% del totale). Si tratta di centri caratterizzati da una notevole dimensione, sia in termini di superficie che in termini demografici, con alta densità abitativa, situati in pianura e in collina litoranea. Complessivamente tali comuni si discostano nettamente dalla media del Mezzogiorno, facendo registrare livelli di intensità sistematicamente più elevati per tutte le variabili confluite nell'analisi: dinamica demografica, consumi pro-capite di energia, utenze energetiche, telefoniche per uso affari, iniziative industriali (sia nel numero che nel volume). I centri emergenti sono localizzati prevalentemente nelle Marche e in Puglia.
  7. I centri di vitalità economica - 99 comuni (3,7% del totale). Si tratta dei centri più direttamente investiti dalle politiche di industrializzazione. Rilevante è la dimensione, in termini di valore, della promozione industriale: in quasi tutti i comuni (95,9%) sono stati attivati oltre 50 miliardi (lire 1980) di investimento. Il "taglio" prevalente supera i due miliardi per ogni iniziativa realizzata. Per quanto attiene ai consumi pro-capite di energia, il 72,6% dei comuni registra valori superiori alla media. La sedimentazione nella struttura produttiva è dimostrata inoltre dalla densità di utenza per forza motrice in tutte le classi considerate (piccola, media e grande). In definitiva, abbiamo di fronte dei comuni verso i quali si sono indirizzate in modo particolare le politiche industriali, e che da questa circostanza traggono forza per uno sviluppo più armonico. Centri di questo tipo sono localizzati soprattutto in Campania e nel Lazio.

Si può affermare che questa ricerca situa nel segmento alto della crescita (l'élite, in un certo senso, del ranking socioeconomico comunale del Mezzogiorno) il 15% dei comuni del meridione (dato cui si perviene sommando "i centri emergenti" e " i centri di vitalità economica" dell'indagine 1981). E' importante comunque sottolineare che l'indagine quantifica la crescita e ne traccia la mappa, ma non tocca aspetti come la qualità della vita nel Sud. Si tenga inoltre presente che, avendo come ambito l'area d'intervento della Cassa per il Mezzogiorno nel 1981, essa include comuni laziali e marchigiani, che ormai appartengono a tutti gli effetti al Centro-Nord, e l'Abruzzo, ovvero la regione che, come si vedrà in seguito, sta più decisamente "abbandonando" il Meridione.

CRONOLOGIA DELL’INTERVENTO STATALE NEL MEZZOGIORNO

1946 - 2 dicembre. Nasce la Svimez.

1947 - 1 gennaio. Morandi presenta il programma dell’associazione

1950 - 10 agosto. Legge 646. Nasce la Cassa del Mezzogiorno e viene varato un piano decennale di infrastrutture per l’importo di 1000 miliardi.

1952 - 25 luglio. Legge 949. La durata del piano è portata a 12 anni ed il fondo viene aumentato a 1.280 miliardi. Queste le destinazioni in percentuale degli investimenti:
           bonifiche e sistemazioni montane 37,3%
           riforma fondiaria 21,9%
           miglioramenti fondiari 10,2%
           viabilità e ferrovie 14,9%
           acquedotti e fognature 13,8%
           turismo 1,9%

1953 - 11 aprile. Legge 298. La Cassa entra nel capitale dell’Isveimer, una fondazione promossa nel 1938 dal Banco di Napoli, e partecipa, con il Banco di Sardegna e quello di Sicilia, al capitale di Cis e Irfis: nascono tre istituti di credito a medio termine per il Mezzogiorno.

1957 - 29 luglio. Legge 634. Il piano diventa quindicennale: il termine di scadenza per la Cassa del Mezzogiorno viene fissato al 1965; la dote complessiva della Cassa viene innalzata a 2.069 miliardi. Sono varate agevolazioni fiscali per gli investimenti privati, ed è introdotto il vincolo per le imprese a partecipazione statale di riservare al Sud il 60% dei nuovi impianti, ed almeno il 40% degli investimenti totali. Nascono i consorzi per le aree di sviluppo industriale (Asi) ed i nuclei industriali per offrire aree attrezzate alle imprese.

1965 - 26 giugno. Legge 717. La durata della Cassa viene prorogata al 1980, ma la sua attività è rifinanziata solo fino al 1969. Nasce il comitato dei ministri per il Sud, in seno al Cir (che poi diventerà Cipe). Il presidente del Consiglio delega un ministro senza portafoglio al coordinamento degli interventi per il Sud.

1968 - In questo stesso anno sono abolite le gabbie salariali e viene introdotta la fiscalizzazione degli oneri sociali.

1971 - 6 ottobre. Legge 853. Viene rifinanziato l’intervento straordinario per il quinquennio 1971/75. Al Cipe è affidato il compito di ripartire i nuovi investimenti per settori e territori. È introdotto l’istituto della contrattazione programmata degli investimenti e della localizzazione dei nuovi impianti, anch’essa assegnata al Cipe. La competenza per le Asi è trasferita alle Regioni; alla Cassa resta affidato il coordinamento delle opere da completare. Gli interventi centrali sono raggruppati in “progetti speciali”.

1976 - 2 maggio. Legge 183 per il quinquennio 1976/80. Un Comitato delle Regioni affianca gli organi amministrativi della Cassa e viene stanziato un fondo di 2000 miliardi per finanziare i progetti richiesti dalle Regioni al sistema della Cassa e degli enti collegati.

1976 - 9 novembre. Dpr 902. Le dimensioni assunte dal fenomeno impongono la costituzione di un unico fondo nazionale per il credito agevolato.

1977 - 12 agosto. Legge 675. Viene emanata una disciplina che finanzia investimenti per la riconversione dell’industria su tutto il territorio nazionale.

1978 - 6 marzo. Dpr 218. La quantità delle norme per il Sud impone la creazione di un testo unico sulla legislazione esistente.

1983 - 1 dicembre. Legge 651. Nelle more della proroga della Cassa viene introdotta una procedura articolata in programmi triennali ed intese tra il ministro delegato e le Regioni: i “progetti speciali” diventano “azioni organiche”.

1984 - 6 agosto. Il Parlamento boccia per l’ennesima volta il rifinanziamento e con un Dpr viene soppressa la Cassa del Mezzogiorno.

1986 - Legge 44 sull’imprenditorialità giovanile. Nasce un comitato, che sarà poi trasformato in una Spa (la Ig), con il compito di agevolare la nascita di imprese costituite da giovani meridionali.

1986 - 1 marzo. Legge 64. Viene reintrodotto un sistema di coordinamento centrale: Dipartimento del governo ed Agenzia per il Sud. Acquistano ulteriori poteri Regioni ed enti locali: le loro proposte vengono inquadrate dal Dipartimento in tre piani triennali, ciascuno articolato in piani annuali di attuazione.

1992 - 19 dicembre. Legge 488.

1993 - 3 aprile. Decreto legislativo 96. Con questi due provvedimenti, il riferimento al Mezzogiorno viene sostituito con quello alle “aree depresse od a lenta crescita” per sanare gli effetti del referendum abrogativo. Il contenuto e la metodolgia degli interventi diventano quelli delle politiche regionali comunitarie.