SALARIO E MODELLI CONTRATTUALI[1]

Lavoro Società – Cgil di Lodi

Considerazioni generali

La caratteristica di questi rapporti di produzione è sicuramente l’esistenza della forza lavoro salariata, una merce disponibile e reperibile sul mercato del lavoro il cui prezzo immediato (salario retribuzione) è determinato dai risultati della lotta economica sindacale.

A differenza delle altre merci che entrano nel ciclo produttivo, la merce forza lavoro ha una caratteristica del tutto particolare. Come tutte le merci, la merce forza lavoro possiede un valore di scambio (corrispondente al valore necessario alla sua produzione e riproduzione fisica, sociale e professionale) che in qualche modo gli deve essere riconosciuto pena l’estinzione.

Ma, a differenza delle altre merci il suo valore d’uso non ha limiti (se non quelli fisici) e può essere utilizzato ed impiegato ben al di là di quanto sarebbe sufficiente a produrre il suo valore di scambio.

Il Capitalista, quindi, una volta acquistata sul mercato la capacità lavorativa di una forza lavoro tenderà a consumarne quanto più possibile, oltre il tempo che sarebbe necessario a produrre la quantità di valore sufficiente a garantirne la sopravvivenza materiale e sociale, e nel contempo a riconoscerne un prezzo il più basso possibile. Per questo è importante per il capitale, per mantenere bassi i salari e per garantirsi la massima sottomissione della forza lavoro, affermare regole che ne formalizzino la subordinazione e comprimano la sua propensione difensiva.

La produzione di Plusvalore, che è alla base dello sfruttamento capitalistico della forza lavoro, è quindi fortemente determinato dai risultati della lotta concorrenziale e contrattuale tra il Capitalista e la Forza lavoro e dalle regole della stessa.

Non dobbiamo mai dimenticarci di leggere, nella lotta sindacale, l’esistenza di queste dinamiche senza le quali non sarebbero comprensibili la fatica, la lotta difficile, costante e defaticante, che la forza lavoro è costretta a fare continuamente per vedersi riconosciuto il suo valore di scambio e per difendersi dai continui tentativi di aumentarne la subordinazione e lo sfruttamento.

Più che un’analisi sull’andamento della lotta contrattuale nelle determinazioni specifiche di prezzo e di consumo della forza lavoro, oggetto di questo seminario è di comprendere l’importanza che hanno (non solo dal punto di vista sindacale) i processi di subordinazione formale e sostanziale del lavoro attraverso i quali il  capitale cerca di affermare in modo stabile le migliori condizioni di prezzo e di consumo della merce forza lavoro.

Quando parliamo di modelli contrattuali dobbiamo sempre quindi ricordare come questi non siano riducibili a semplici meccanismi di tecnica contrattuale (come la razionalità economica vuole far credere) poiché in realtà è nell’affermazione di un modello contrattuale rispetto ad un altro che si sostanzia la forma di subordinazione del prezzo e delle condizioni di consumo della forza lavoro.

Se da un lato è funzionale per il Capitale sostenere sempre e comunque l’obiettivo della sua massima remunerazione attraverso politiche di riduzione e subordinazione del salario e dell’occupazione, dall’altro occorre che questa subordinazione sia resa stabile attraverso regole, accordi, modelli di regolazione del conflitto che facciano apparire tutto ciò come oggettivamente dovuto, razionale, normale, esigibile.

Per questo la battaglia ideologica del capitale, basata sull’idea del profitto come elemento polarizzante di tutta la realtà, si contrappone alla classe lavoratrice ed alle lotte per la sua emancipazione:

  1. cercando di annullare ogni riferimento al salario come espressione diretta del valore di scambio della merce forza lavoro in quanto tale, e di presentare il salario come remunerazione di una prestazione il cui valore viene determinato dal mercato e dalle condizioni economiche generali come fattori esterni, oggettivi, razionali di cui tenere conto.

  2. cercando di inglobare in questo contesto di “razionalità economica” sia i “bisogni” che i soggetti e le organizzazioni (in primo luogo quelle sindacali) che questi bisogni devono organizzare e rappresentare.

E’ così che, attraverso la “regolazione”, la “concertazione”, la “razionalità interclassista dell’economia”, si nasconde in realtà il conflitto di classe. Un conflitto in cui si confrontano, la lotta del Capitale per affermare la sua egemonia sul Lavoro e quella della Forza Lavoro per affermare la sua emancipazione[2].

Una linea, quella concertativa, che ha manifestato concretamente i suoi effetti deleteri sulle retribuzioni, sulla generale redistribuzione della ricchezza, e quindi sui rapporti di forza tra Lavoro e Capitale.

La nostra non è però solo una critica sugli effetti quantitativi della concertazione, ma anche una denuncia dei guasti che la concertazione ha prodotto sulla struttura del salario, indebolendone la tenuta difensiva e subordinandone le dinamiche alle compatibilità della “razionalità economica” della produttività e redditività di impresa.

Ciò ha condannato l’azione sindacale in tutti questi anni ad una preoccupante subordinazione e perdita di autonomia, ad una perdita di senso, nell'illusione, (propria della “razionalità economica”) di poter contribuire (concertare) alla soluzione della crisi, e di partecipare in qualche modo, in un secondo tempo, alla spartizione dei risultati.

Così si è favorito non solo l'efficacia delle pressioni per la riduzione quantitativa dell'occupazione e delle retribuzioni, ma ha soprattutto reso possibile una strategia di ristrutturazione dell'intero quadro normativo, legislativo e contrattuale che ha formalizzato (stabilizzato) i nuovi e sfavorevoli (per il lavoro) rapporti di forza.

Trattiamo ora del come la contrattazione salariale è stata attaccata e deformata in questi anni dalle “regole” dell’accordo concertativo. Ragionamento questo utile e propedeutico al tema oggi di attualità, ossia la “nuova politica dei redditi” che ormai è prepotentemente all’ordine del giorno della discussione sindacale.

Una discussione che non è solo sindacale. La struttura salariale (oltre che la sua quantità) ed il modello contrattuale entro cui questa è regolata sono immediatamente rappresentativi dei rapporti di forza tra le classi. Parliamo quindi anche di battaglia politica, poiché è anche sui modelli contrattuali che si gioca la formalizzazione del livello di subordinazione di una classe nei confronti dell’altra.

La contrattazione salariale, dal dopoguerra alla fine degli anni ‘80

La lotta sindacale, dall’immediato dopoguerra fino alla fine degli anni 60, è stata soprattutto una lotta per lo smantellamento dell’impianto contrattuale così come questo era stato definito nel periodo della “corporazione fascista”. L’impianto contrattuale del periodo fascista era infatti fortemente condizionato dal corporativismo, anche sindacale, che subordinava i comportamenti sociali agli obiettivi economici della nazione.

La contrattazione era quindi subordinata ai vincoli ed alle  compatibilità preventivamente concordate al tavolo delle corporazioni definito per legge. Il modello corporativo, sopravissuto nell’immediato dopoguerra, poggiava inoltre su una struttura della retribuzione fortemente distinta per territori, per sesso e per età.

La battaglia per la distruzione del modello contrattuale corporativo poggiava quindi su obiettivi come l’abolizione delle “gabbie salariali”, la parità salariale tra uomini e donne, la conquista di una contrattazione nazionale autonoma e svincolata da parametri prederminati.

Non è stata una battaglia facile anche perché si trattava di una battaglia certamente sindacale ma sostenuta anche da obiettivi di emancipazione politica che poneva concretamente la questione di liberare il lavoro dalle subordinazioni formali e sostanziali a cui il corporativismo fascista lo aveva costretto, subordinazioni che il Capitale era disponibile ad emendare ma non a rimuovere.

Che non si trattasse di una battaglia facile, lo dimostra oltre alla crudezza della repressione antisindacale di quegli anni, anche le diverse scissioni sindacali, dall’evidente carattere politico, che hanno investito la Cgil (prima con la nascita della Cisl e poi della Uil).

Vediamone gli sviluppi:

1945

Ccnl - Nell’immediato dopoguerra resiste il modello contrattuale corporativo fascista. L’unico livello contrattuale per la determinazione delle tabelle salariali (ancora distinte per area geografica, per sesso e per età) era quello Confederale il quale definiva (all’interno delle gabbie salariali) anche le distinzioni merceologiche nelle retribuzioni.

I Contratti nazionali di categoria, formalmente riconosciuti erano praticati solo per aspetti secondari (ferie, procedure per l’assunzione, provvedimenti disciplinari, indennità di cottimo ecc). L’accordo Confederale sulle tabelle salariali del 1945, ripete il divieto (già previsto nel modello corporativo fascista) di tentare con accordi aziendali o provinciali di variare i rigidi rapporti salariali indicati nelle tabelle nazionali.

Contingenza – Nel corso del 1945, con tappe alterne, si arriva al riconoscimento di una indennità di contingenza per le aziende del Nord (chiamata così perché era espressamente considerata una erogazione “contingente” e non ripetibile a fronte di una particolare fase di aumento dei prezzi).

La cosa si rese possibile anche con l’avallo di Confindustria (che la considerava, appunto, una “contingenza” temporale), sia per contenere il vasto movimento di lotta (estesosi appunto nelle aziende del Nord) contro il vertiginoso aumento dei prezzi che aveva caratterizzato l’immediato dopoguerra, sia per non compromettere il precedente modello contrattuale sul quale rischiavano allora di scaricarsi tutte le tensioni e le richieste salariali.

Apparsa per la prima volta (23 giugno 44) per i soli lavoratori della provincia di Milano, viene estesa con accordo del 6 dicembre 1945 a tutto il Nord Italia.

Ma già, subito dopo l’accordo del dicembre 45, in alcune grandi aziende del Nord si conquistò (a livello aziendale) che questa indennità di “contingenza” venisse considerata un meccanismo non provvisorio ma stabile di adeguamento delle retribuzioni.

1946

Contingenza - Nel 1946 (accordo del 23 maggio), il proseguimento delle lotte contro l’aumento dei prezzi, portò Confindustria ad accettare l’estensione a livello nazionale degli accordi ottenuti nelle aziende del Nord. La “contingenza perse così il suo carattere di provvisorietà mantenendo però le differenze sul valore del punto per le diverse zone geografiche (16 valori punto a seconda dei territori) e le differenze merceologiche, per sesso e per età, riproponendo così le stesse differenziazioni presenti nelle tabelle salariali orarie ancora ordinata per territori (gabbie salariali)

1946-1947

Ccnl – I contratti nazionali di categoria rimangono all’interno del quadro Confederale di regolazione delle tabelle salariali che per altro ottiene ben poco e questo per tre ragioni esplicitamente ricordate nell’accordo confederale del 1946.

  1. La necessità di non intralciare gli investimenti per la ricostruzione post bellica;

  2. Il fatto che già l’introduzione della prima contingenza aveva rappresentato un costo per le aziende e che quell’accordo prevedeva esplicitamente una lunga tregua salariale;

  3. Il fatto che le poche disponibilità economiche andassero utilizzate per finanziare le nuove scale classificatorie (sul modello, appena introdotto, delle job evaluation Americane che in Italia arrivarono a distinguere i lavoratori, attraverso la definizione dei sistemi a mansionario, anche oltre i 52 livelli salariali nella stessa azienda).

I Contratti di categoria si svolgono quindi esclusivamente per definire i nuovi mansionari. Risultato importante della contrattazione categoriale nazionale del 46-47 è l’unificazione dei testi e dei tavoli contrattuali contrattuali prima distinti tra operai ed impiegati.

1948

Ccnl - Nel 1948 si consuma la scissione della Cisl dalla Cgil, motivata da ragioni di schieramento atlantico e sostanziata, per quanto riguarda la politica salariale da una indisponibilità a spingere troppo sulla formalizzazione del contratto nazionale di categoria come baricentro dell’azione sindacale.

La Cgil spinge per una maggiore autonomia contrattuale categoriale e per l’abolizione delle differenze geografiche. La nuova Cisl rimaneva ancorata alla difesa del sistema degli accordi centralizzati per quanto riguardava il salario e le principali normative, da cui doveva discendere non già una diffusa contrattazione categoriale ma territoriale.

La divisione sindacale viene presa a pretesto dalla Confindustria che rifiuta di sedersi ai tavoli categoriali e propone un modello contrattuale basato su un livello confederale nazionale ed uno territoriale.

In particolare le società petrolifere arrivano addirittura a non riconoscere la Cgil come controparte sindacale ed a mettere in discussione anche il livello territoriale a favore del livello aziendale.

Lo scontro, caricato anche dei suoi contenuti politici, è durissimo. La sola Cgil sostiene 80 ore di sciopero. La reazione risponde con cariche della polizia, arresti e licenziamenti.

Alla fine Confindustria accetta di risedersi ai tavoli contrattuali categoriali. I risultati sono modesti (per lo più legati al sistema degli incentivi e dei cottimi) e negli accordi si apportano pesanti modifiche al sistema dei mansionari con conseguente aumento delle distinzioni di inquadramento tra i lavoratori.

1949

Per accordo confederale il sistema della contingenza viene abolito (perché troppo oneroso e non sopportabile dalle aziende impegnate nella ricostruzione). Dopo una stasi di due anni, caratterizzati in particolar modo da una specie di “guerriglia” di rincorsa salariale, a livello territoriale ed aziendale, il sistema venne riattivato con l’accordo del 21 marzo 1951.

1951

Contingenza - Nel 1951 il nuovo accordo interconfederale prevede l’unificazione su scala nazionale del calcolo dell’indice del costo della vita. Per le regioni del centro sud viene però riconosciuto un valore punto inferiore del 20%, secondo la considerazione che al Nord il costo della vita fosse più alto della media nazionale. Si introducono inoltre, accanto a quelle per sesso e per età, differenze anche per livello di inquadramento, il che, vista l’espansione dei livelli di inquadramento introdotta col sistema dei mansionari produce una ulteriore esplosione delle differenziazioni salariali.

1954

Ccnl – A partire del 1954 si autorizzò, per accordo confederale, che le tabelle salariali per area geografica, sesso ed età dei lavoratori, anziché dagli accordi interconfederali, fossero stabilite in sede di rinnovo contrattuale di categoria, ma con l’esplicito divieto di ricontrattarle poi a livello locale ed aziendale.

La contrattazione nazionale di categoria poteva essere convocata ogni tre anni. Solo per gli edili ed i braccianti si concordava che la tabella salariale fosse solo in parte contrattata a livello nazionale mentre una parte doveva continuare ad essere fissata dalle controparti a livello territoriale.

Alla apertura dei primi tavoli categoriali sulla base del nuovo modello di relazioni, i sindacati cercano di contrattare anche i diritti sindacali (permessi per le Rsa, spazi di assemblea, bacheche).

La reazione di Confindustria è violenta. La trattativa si sblocca solo dopo un anno quando i sindacati ritireranno le loro richieste in materia di diritti.

 

1955

Ccnl – Le società petrolifere private (sostenute da Confindustria) riaprono lo scontro sul contratto nazionale, rifiutando le piattaforme e cercando di disattivarle con elargizioni (anticipi contrattuali)  aziendali in cambio della non partecipazione alle lotte, e con il finanziamento di sindacati gialli disponibili a presentare piattaforme “collaborazioniste” in alternativa a quelle Confederali.

Anche alla Fiat si finanzia la nascita di sindacati gialli e si fanno concessioni aziendali in cambio della non partecipazione alla vertenza contrattuale.

Alla fine, l’ Eni (appena costituita) riconosce il tavolo contrattuale e firma l’accordo di categoria rompendo così il fronte padronale. Tutto resta formalmente come prima.

 

1957

Contingenza – Il calcolo della variazione del valore della contingenza passa da rivelazione bimestrale a trimestrale – Rimangono ma si riducono le differenze tra Nord e Centro Sud.

1958

Ccnl – Si ottiene la riduzione da 48 a 44 ore dell’orario di lavoro, ma rimane forte l’indisponibilità Confindustriale sugli aumenti salariali.

Il Contratto nazionale, non riesce ancora a produrre risultati in materia di unificazione normativa e salariale.

Nonostante i primi segnali di boom economico, non si riescono a realizzare adeguate politiche di redistribuzione della ricchezza a causa di una recrudescenza delle forze reazionarie ed antisindacali sostenute da Confindustria e delle ulteriori divisioni nel fronte sindacale. Clima che si modificherà solo nel 1960 con la grande mobilitazione operaia che porterà alla caduta del governo Tambroni avviando così l’incrinatura del fronte reazionario antisindacale.

E’ di questo periodo la teorizzazione, da parte di Confindustria, della linea “paternalistica”. Una politica (appena importata dall’America) di aumenti di merito individuali, di passaggi di categoria arbitrariamente riconosciuti ecc, di organizzazione di colonie per i figli dei dipendenti, gite con le famiglie ecc. Una campagna, sostenuta anche con convegni, seminari, assemblee con i lavoratori, finanziamento di centri ricreativi aziendali, che mira esplicitamente a incrinare l’adesione ai sindacati ed a dimostrare come, con la contrattazione aziendale ed individuale si possa ottenere di più.

Tra gli affascinati del nuovo modello Americano anche le Acli si cimentano a sostegno del “merito nel lavoro” e dell’immagine del “lavoratore onesto e coscienzioso” come modello positivo che si contrappone ad un mondo solo di scioperi tipico del “lavoratore fannullone” che pretende ma non da nulla in cambio.

Contrattazione - Tra il 1958 ed il 1960 parte anche la prima vera stagione di contrattazioni aziendali a guida sindacale confederale che comincia a presentare prime richieste sui premi di produzione in sostituzione delle erogazioni arbitrarie aziendali e dei sistemi salariali ad incentivo e cottimo.

La reazione padronale è durissima (non si riconosce potere di contrattazione alle Rsa, si ribadisce l’immodificabilità delle pattuizioni nazionali, non si vuole intaccare la pratica delle “elargizioni paternalistiche” che per l’azienda sono l’unica possibile deroga a quanto pattuito a livello nazionale).

Ma la contrattazione aziendale riesce a svilupparsi comunque, in forme diverse e le indisponibilità confindustriali a contrattare i premi di produzione vengono aggirate con rivendicazioni sull’indennità sostitutiva di mensa, indennità trasporto, di lavoro disagiato e nocivo, di turno ecc, su cui le aziende dimostrano maggiori disponibilità.

Dal 1958, si riesce comunque in alcune aziende ad ottenere i premi di produzione e, con una certa riserva sindacale, nella contrattazione aziendale fanno capolino le prime pressioni verso un egualitarismo salariale che prenderà sempre più corpo negli anni successivi.

1961-1962

Ccnl – Grazie alla forte pressione venuta dallo sviluppo della contrattazione aziendale la Cgil  presenta piattaforme più coraggiose a cui Cisl e Uil rispondono, in diverse categorie, con accordi separati.

Approfittando della spaccatura sindacale Confindustria ripropone l’alternativa tra contrattazione nazionale e aziendale. La risposta della Cgil è durissima ed efficace, anche perché il fronte padronale è incerto, più attento a non perdere le opportunità del favorevole ciclo economico che ad impegnarsi in battaglie contrattuali che rischiano di essere lunghe e difficili.

Per la prima volta in una tornata contrattuale si ottengono aumenti del 6 o 7% sulle tabelle salariali. Si ottiene anche l’impegno a traguardare l’eliminazione delle differenze salariali per sesso e per età nelle categorie operaie, pur permanendo diversi i percorsi di carriera nella scala classificatoria.

Si risolse con un compromesso anche la polemica di due anni prima sul diritto alla contrattazione aziendale a guida Confederale. I Sindacati provinciali (ma non le Rsa a cui ancora viene negato il riconoscimento di soggetti contrattuali) potevano presentare richieste aziendali ma solo all’interno dei limiti pattuiti in Contratto nazionale e solo sulle materie espressamente demandate, come l’individuazione di nuovi pofili aziendali (nel sistema dei mansionari), introduzione di modelli per redimere eventuali controversie aziendali, modelli di cottimo ed incentivo.

Per quanto riguarda i premi di produzione le richieste non potevano essere superiori al 3% per le piccole-medie aziende, e del 5% per le grandi.

In realtà, per tutto il 1962-63, ci fu uno sviluppo limitato della contrattazione aziendale, sia perché permaneva l’indisponibilità aziendale a livello locale ad aprire tavoli, sia perché i sindacati persero tempo a livello generale per l’individuazione di “parametri oggettivi” da cui far discendere le richieste salariali sui premi di produzione. (Come se le questioni salariali – ed i premi ne sono un aspetto – fossero questioni oggettive e non legate ai rapporti di forza fra le classi – Vittorio Foa in “La struttura del salario” – 1974).

La Contrattazione aziendale riprende forza nel 1964, immediatamente a ridosso dei rinnovi contrattuali del 1964-65.

 

1964

Ccnl – I CCNL aperti dal 1964 sono primi ad essere gestiti in modo unitario da Cgil-Cisl-Uil. La forza sindacale messa in campo è enorme, sostenuta anche dalla recente, ed in alcuni casi contestuale, tornata di contrattazioni aziendali.

Per la prima volta si chiede quasi in tutte le piattaforme la fine della monetizzazione sulla salute, l’istituzione delle commissioni ambiente, la riduzione dei livelli nelle scale classificatorie, l’estensione del premio di produzione a tutte le categorie che ancora non lo avevano praticato.

La reazione Padronale è di assoluta indisponibilità, anche sulla richiesta salariale che prevedeva aumenti attorno al 12-15%.

La posizione padronale si sostanzia nell’idea che, essendo stata la contrattazione aziendale molto onerosa, occorreva arrivare al rinnovo nazionale solo per fare piccoli aggiustamenti lasciando alle singole aziende la possibilità di eventuali ulteriori incrementi a seconda della loro situazione economica.

Per la prima volta si registra l’intervento mediatore del Ministero del Lavoro che ottiene una moderazione delle richieste su salario, ambiente e classificazioni, e la riapertura dei tavoli categoriali.

Accanto all’aumento salariale del 10% medio, i Ccnl del 1964 registrano, il riconoscimento di commissioni ambiente paritetiche (che non funzioneranno mai) l’abolizione delle differenze salariali per sesso e per età anche per le categorie impiegatizie (ma rimangono ancora le differenze per area geografica) e, fatto significativo, il primo riconoscimento del premio di produzione aziendale collettivamente contrattato come voce stabile e fissa della retribuzione, ma non nelle aziende dove ancora si contratta il cottimo (che sono la maggioranza di quelle manifatturiere) e nelle quali il premio di produzione mantiene la caratteristica di “salario variabile” (erogato una tantum).

Da notare che i Ccnl del 1964 sono passati alla storia come “Contratti bidone”. In diverse categorie (soprattutto nei meccanici e chimici) i risultati sono percepiti negativamente perché non erano riusciti a raggiungere ed a estendere molti degli sfondamenti già conquistati con la contrattazione aziendale degli anni precedenti, subendo addirittura degli arretramenti. Fallisce però, anche per l’intervento del Ministero del Lavoro, l’ennesimo tentativo padronale di far saltare il tavolo contrattuale nazionale.

1967

Ccnl – Al pari del 1964 questa stagione è ricordata come quella dei "contratti bidone". Infatti, nonostante la buona situazione economica generale, i risultati non raggiungono quanto ottenuto con la contrattazione aziendale, creando così, per il secondo rinnovo successivo l’idea che fosse meglio tornare a contrattare territorialmente o aziendalmente. Su queste diverse posizioni si riapre il difficile confronto tra Cgil da una parte e Cisl-Uil dall’altra.

La Cgil, in particolare propone che la contrattuale nazionale, imparando da quella aziendale, si ponga l’obiettivo di normare tutta la condizione lavorativa (occupazione, salario, prestazione, ambiente, organizzazione del lavoro ecc) superando esplicitamente i tentennamenti dei precedenti rinnovi.

Si arriva quindi, in diverse categorie, alla presentazione di distinte piattaforme per il contratto.

I Padroni (soprattutto nei chimici e nei meccanici che sono i primi a partire) sfruttando la confusione sindacale, si rifiutano di aprire trattative (anche sulle piattaforme più moderate).

I sindacati sono quindi costretti a riunificare (mediandole) le loro piattaforme, ottenendo alla fine risultati salariali al di sotto delle aspettative. I metalmeccanici riusciranno a chiudere il contratto per ultimi e solo con la mediazione del tavolo Confederale e Ministeriale.

Nonostante ciò, in molti Ccnl si ottiene una riduzione di orario (a 44 ore per gli operai ed a 42 per gli impiegati) e per la prima volta è previsto un monte ore retribuito per le Rsa, da concedere però, su discrezione dei capireparto, valutando le esigenze di servizio.

1968

Contrattazione – Nel 1968, sostenuta dall’insoddisfazione per i risultati dei precedenti Ccnl,  scatta, ed in maniera assai diffusa, una stagione di contrattazione aziendale caratterizzata da richieste di forti aumenti salariali. Ma assieme al salario si presentano ovunque richieste contro la monetizzazione della salute, per la riduzione delle distinzioni professionali e per la loro contrattazione per gruppo omogeneo e non più su discrezione aziendale, per il diritto di assemblea retribuita.

La contrattazione aziendale si diffonde e supera i risultati di tutte le esperienze precedenti, diventando, grazie alla maggior partecipazione diretta dei lavoratori, la fonte principale di iniziativa ed elaborazione della linea sindacale.

I successivi rinnovi contrattuali saranno infatti sempre più influenzati da questo livello di contrattazione anche e soprattutto grazie all'ottenimento da parte della contrattazione aziendale di monte ore retribuite per assemblea che favoriscono un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nell'esperienza rivendicativa e contrattuale.

Il diritto di assemblea (esteso con la contrattazione aziendale ad un numero sempre crescente di lavoratori e di aziende) diviene infatti un luogo dove le valutazioni arbitrarie dell'operaio comune potevano esprimersi ed organizzarsi compiutamente influenzando notevolmente l'intera strategia sindacale riordinandola sull’idea dell’egualitarismo.

Questa nuova situazione produce concretamente la nuova forma di organizzazione operaia. Il Consiglio di fabbrica ed i delegati di reparto e gruppo omogeneo.

E’ lo stesso modello sindacale, ad essere investito da questa stagione. Cisl e Uil, ancora condizionate dal vecchio modello corporativo subiscono una vera e propria rivolta interna (soprattutto al Nord e nelle categorie industriali).

La Cgil stessa non coglierà immediatamente il portato di questa stagione, preoccupata da un lato di una contrattazione aziendale che viene temuta come strumento potenzialmente concorrente alla battaglia per il contratto nazionale, e dall’altro da un nuovo protagonismo dal basso che sembra proporre una riforma radicale del sindacato in generale.

1969

Contrattazione – Forte della spinta della precedente stagione di contrattazione aziendale (fondata sull’idea di egualitarismo) e dei mutamenti che questa ha segnato anche all’interno delle organizzazioni sindacali, si sviluppa dal 1969 una forte iniziativa rivendicativa generale per le riforme (casa, trasporti, pensioni,ecc) che procede per mobilitazioni generali. E’ in questo clima che le principali categorie industriali vanno al rinnovo contrattuale.

Il 12 febbraio si tiene il grande sciopero nazionale contro le gabbie salariali, frutto di un crescendo di scioperi aziendali e provinciali che già dall’autunno del 1968 aveva coinvolto l’intero paese.

Il 18 marzo la Confindustria accetta la soppressione delle gabbie salariali che sarà definitivamente sancita per legge, dal Governo, qualche settimana dopo.

Sulla scorta di questa importante vittoria si firma l’accordo interconfederale sulla contingenza e riparte la stagione dei rinnovi contrattuali con richieste salariali uguali per tutti.

Contingenza – Nel marzo del 1969 si firma l’accordo interconfederale che conquista l’unificazione nazionale delle norme e delle leggi che regolano il mercato del lavoro. Con l’abolizione delle gabbie salariali si aboliscono anche le differenze geografiche del valore del punto di contingenza, mentre le differenze per sesso saranno superate nel 1970 e quelle per età nel 1971. Le differenze per qualifica e quelle derivanti dalla classe di grandezza delle aziende saranno abolite con l’accordo del gennaio 1975.

Ccnl – Per la prima volta, le piattaforme per il rinnovo contrattuale sono elaborate unitariamente dai sindacati e sottoposte al voto preliminare di tutti i lavoratori e non solo degli iscritti;

I contenuti delle piattaforme possono cosi essere sintetizzati.

  • Diritti sindacali. Riconoscimento del diritto alla contrattazione aziendale su qualsiasi argomento e dei nuovi Consigli dei delegati come soggetti contrattuali. Riconoscimento in CCNL delle ore retribuite per assemblea e per i delegati dei Consigli;

  • Salario. Aumenti uguali per tutti. Orario. riduzione a 40 ore settimanali;

  • Inquadramento. Eliminazione delle basse categorie e abolizione dei mansionari  (si fa strada il concetto di professionalità come espressione del valore della forza lavoro);

  • Ambiente. prevenzione della nocività e messa in discussione della monetizzazione della salute. Inserimento nei CCNL delle tabelle MAC, come riferimento obbligatorio da rispettare;

  • Parità normativa operai-impiegati.

Confindustria è presa alla sprovvista dalla forza della partenza sindacale ed il fronte padronale si spacca.

Ad esempio i padroni chimici lasciano cadere quasi subito le loro pregiudiziali ed accettano di trattare (ma non sul riconoscimento della contrattazione aziendale e dei Consigli di fabbrica come soggetti contrattuali, e non sull’abolizione dei mansionari. I padroni metalmeccanici, invece manterranno la pregiudiziale su tutta la piattaforma fino in fondo.

La strage di P.zza Fontana del 12 dicembre 1969, e la tensione successiva, porta molte categorie a firmare i Ccnl (i chimici la notte stessa, i metalmeccanici poco dopo e solo con la mediazione Ministeriale).

Se anche non si è ottenuto tutto quanto richiesto, importanti risultati sono:

Per la prima volta l’aumento salariale contrattato a livello nazionale è uguale per tutti. Si riconosce, con alcune limitazioni, la contrattazione aziendale. Per il riconoscimento dei consigli di fabbrica si demanda tutto ad un successivo tavolo confederale. Riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore entro due anni successivi. Sull’inquadramento non si arriva all’eliminazione dei mansioni ma questi vengono raggruppati per “profili professionali omogenei”.

Infine si concorda che i Ccnl abbiano scadenza biennale e la contrattazione aziendale abbia scadenza annuale.

Possiamo dire che con l’abolizione delle gabbie salariali ed i rinnovi del 1969 che conquistano la stabilità del nuovo modello contrattuale, si afferma il contratto nazionale biennale come baricentro forte ed unitario della contrattazione sindacale.

Tra il 69 ed il 72 si procede inoltre alla riduzione della frantumazione contrattuale con l’accorpamento di diversi Ccnl prima distinti tra loro (è il caso della gomma e della plastica che vengono unificati, così come l’accorpamento dei contratti della detergenza, fibre ed altri minori nel Ccnl chimico, ecc). Una processo di unificazione che rafforza il peso, anche economico, del Contratto nazionale come tavolo di trattativa.

Con l’accordo del 1969 sulla scala mobile si da inoltre forma definitiva alla contingenza, come strumento di tutela salariale, fortemente ancorato alla struttura della retribuzione ed egualitario a livello nazionale.

La contrattazione aziendale annuale, ottiene consistenti risultati nel legare concretamente tra loro organizzazione del lavoro, inquadramento, salario, nell’abolire le forme salariali ad incentivo ed a ridurre le quote di salario variabile a favore di incrementi salariali egualitari e consolidati in busta paga.

1972

Ccnl – I contratti nel 1972 sono in continuità con quelli del 69, sempre sostenuti da una precedente e forte tornata di contrattazioni aziendali che rafforzano la tendenza “egualitaria”.

Si conquista e generalizzano i sistemi ad “inquadramento unico”, che ridimensionando il sistema dei mansionari, rompe la dipendenza salariale dal valore della prestazione e l’ancorano all’idea di valore della professionalità.

Altra importante conquista è il riconoscimento, in tutti i Ccnl dei Consigli di fabbrica.

Confindustria esplicita la sua preoccupazione per l’incremento delle dinamiche di contrattazione (contrattazione confederale – contrattazione nazionale – contrattazione aziendale) e avanza formalmente la proposta di “Un’accordo quadro” per regolare il costo complessivo, in un dato periodo, della contrattazione e per determinare a priori la sua regolazione nei tre livelli di contrattazione.

Su questa proposta il fronte sindacale si divide e in molti riconoscono la bontà della preoccupazione Confindustriale. Si apre nel sindacato un dibattito anticipatore di quello che sarà poi il documento dell’Eur) del 1977, ma questa discussione viene troncata di netto dalla vittoria contrattuale dei metalmeccanici che alla fine riescono a firmare il contratto nazionale facendo cadere la pregiudiziale di Federmeccanica di discutere prima dell’Accordo quadro”.

1975

Contingenza – nel gennaio si arriva finalmente all’accordo che sancisce la cancellazione delle differenze per livello professionale. Il punto è uguale per tutti.

Ccnl –  Con questi contratti inizia la stagione dei “diritti di informazione” che scatenerà all’inizio una forte reazione padronale rotta infine dalle Partecipazioni Statali che firmando romperanno il fronte padronale. Confindustria è però compatta nel richiedere una riduzione dei costi salariali e la fine dell’egualitarismo.

I problemi che sono posti dall’inizio del ciclo critico dell’economia (massicci cominciano ad essere i ricorsi alla cassa integrazione ordinaria)  portano i sindacati ad accettare forme di abbattimento dei costi salariali (si comincia a parlare di costo del lavoro anche nei sindacati). I risultati sono che gli aumenti vengono, parzialmente riparametrati, scaglionati nel tempo e sotto forma di Edr (elemento distinto dalla retribuzione) che non incide nell’adeguamento in percentuale delle altre voci della retribuzione.

Per la prima volta, da quando è stata riconosciuta la contrattazione aziendale, si concedono in alcune categorie (chimica, fibre, tessile ecc) blocchi della contrattazione aziendale sul premio di produzione per uno o due anni.

Con l’accordo sul punto unico di Contingenza possiamo dire che il sistema “contrattuale rivendicativo” ha raggiunto il suo massimo sviluppo (anche se la crisi e le ristrutturazioni in corso fanno intuire le difficoltà a mantenerne l’efficacia).

Il sistema “contrattuale rivendicativo (la struttura della retribuzione nel 1975)

La struttura contrattuale e salariale risulta fortemente difensiva e strettamente determinata dalle valutazioni arbitrarie che il mondo del lavoro esprimeva (contrattazione come immediata espressione del quadro dei bisogni che i lavoratori esprimono)

Ciò si è potuto affermare grazie alla liquidazione del modello contrattuale corporativo, con l’abolizione delle gabbie salariali, e con la conquista del contrattato nazionale di categoria, con una forte contrattazione confederale che ha portato alla scala mobile” come strumento di tutela automatica delle retribuzioni dall’inflazione, ed allo sviluppo di una diffusa contrattazione decentrata aziendale. Una struttura salariale quindi ordinata attorno a due condizioni:

  • Forte tutela del potere d’acquisto dei salari (scala mobile, automatismi, indicizzazioni) in buona parte organizzata nell’azione Confederale

  • Forte iniziativa contrattuale - categoriale (nazionale ogni due anni e aziendale ogni anno) sui temi legati alla ripartizione della produttività e della ricchezza prodotta (non solo salariali ma anche occupazionali e di controllo dell’organizzazione del Lavoro)

In definitiva, la struttura salariale uscita da questa fase di lotte può essere così schematizzata.

La struttura del salario prima dell’abolizione della scala mobile e dell’accordo del luglio 1993

In sintesi, la struttura del salario andatasi a formare nelle lotte dal dopo guerra ai primi anni 70 si è infine organizzata attorno alle seguenti voci.

a) Retribuzione di base (minimi tabellari – scala mobile – indennità di mantenimento)

b) Retribuzione di anzianità

c) Retribuzione di produttività’

d) Retribuzione di merito.

1977

Contingenza – Nel gennaio del 1977 un ennesimo accordo interconfederale, poi trasformato in legge dello Stato, elimina dal calcolo per l'indennità di liquidazione la contingenza che sarebbe maturata a partire dal febbraio 1977. Nel marzo del 1977 nella determinazione dell'aumento del costo della vita non si terrà conto degli aumenti delle tariffe ferroviarie e dei quotidiani con perdita di 1,3 punti. Dal gennaio 1980, infine, la contingenza non verrà più calcolata (per gli impiegati) sugli scatti di anzianità.

1979

Ccnl – I Contratti sono influenzati dalle forti ristrutturazioni soprattutto nei grandi gruppi e da una massiccia impennata della CIG ordinaria. Si aprono vertenze di gruppo sull'occupazione e sulla riconversione industriale con accordi aziendali che, pur con significativi risultati sul controllo delle ristrutturazioni, aprono però la strada a pericolosi cedimenti sulle normative e sulle dinamiche salariali.

In molte piattaforme contrattuali accanto alla linea egualitaria (formalmente riconfermata) si fa strada la preoccupazione di rispondere alle pressioni che dalle categorie più professionalizzate (impiegati) cominciano a delinearsi per un diverso e maggiore riconoscimento salariale. Confindustria presenta vere e proprie contro-piattaforme che mettono in discussione l’egualitarismo, gli automatismi salariali e le rigidità negli orari e nella prestazione.

Il risultato è che tutto l’aumento salariale viene riparametrato (i sindacati erano disponibili a riparametrarne solo una parte). In molti contratti si accetta la deindicizzazzione degli scatti di anzianità (che vengono trasformati in cifra fissa e non più in percentuale sulla retribuzione) con accordi che estendono anche agli operai (per gli impiegati ciò era stato già pattuito nel 1977) l’eliminazione del loro conteggio ai fini del Tfr.

Contrattazione – La contrattazione aziendale successiva va in senso inverso alle linee che hanno informato i rinnovi del 79. L’egualitarismo rimane il riferimento più diffuso e forte è la pressione per consistenti recuperi salariali. La contrattazione aziendale esplode e la sua dicotomia con  linea sindacale nazionale è tale che i sindacati, pur non boicottando esplicitamente la spinta salariale, evitano di esserne alla testa. Dal canto suo Confindustria attacca Cdf e sindacati denunciando addirittura rischi di destabilizzazione del Paese. Così è che tutti gli accordi aziendali si firmano in azienda, senza sindacati ed Associazioni industriali che, per coerenza e per non sconfessare il nuovo clima nazionale (Eur) evitavano di partecipare alle trattative.

1983

L’accordo “Scotti” sul costo del lavoro - Già Il 1982 è caratterizzato da pesanti attacchi di Governo e Confindustria alla scala mobile (accusata di generare inflazione) e da richieste di apertura di tavoli per “accordi quadro” di riduzione del costo del lavoro. E’ così che si arriva a gennaio 1983 all’accordo Scotti.

Con quell’accordo vengono ridotte le voci del paniere per il calcolo del costo della vita e si concorda la riduzione del 10% del valore del punto di contingenza. La copertura della scala mobile scende così dal 73% al 63%.

Sul costo del lavoro, l’accordo Scotti introduce i primi vincoli alla contrattazione nazionale, definendo i tetti a cui l’aumento del costo del lavoro deve far riferimento. L’accordo, pur concedendo la riduzione di 40 ore anno da realizzarsi entro il 1985, mette in campo, per la prima, volta impegni per la flessibilità nella prestazione e nella distribuzione degli orari, per la liberalizzazione del ricorso allo straordinario, per la riduzione del potere di controllo preventivo dei Cdf su orari ed appalti (non più contrattazione preventiva ma informazioni a consuntivo).

Ccnl - I contenuti della precedente contrattazione nazionale, della prima parte di contratti, dell'inquadramento, del salario, dell'orario appaiono come residui esausti delle lotte degli ultimi anni. Le trattative dei rinnovi contrattuali 1982-83, si svolgono praticamente all'interno di quanto concordato tra Sindacati - Governo - Confindustria sul costo del lavoro (Accordo Scotti 22-1-83) e poggiano sulle linee guida della lotta all’inflazione e della ripresa della produttività.

Salta definitivamente la linea egualitaria. Gli aumenti sono scaglionati, e fortemente riparametrati verso le categorie più alte della scala classificatoria.

L’accordo Scotti apre inoltre, nei Ccnl, all’individuazione della categoria di “Quadro”. Operazione questa che concorre a rompere l’esperienza dell’inquadramento unico e che assorbe gran parte dei costi contrattuali (sia con le forti riparametrazioni che con l’introduzione dell’indennità di quadro).

Tutta la normativa su appalti, orario, prestazione, viene riscritta, con più o meno conseguenze a seconda dei contratti, rompendo le rigidità precedenti e valorizzando la loro compatibilità con gli obiettivi di produttività dell’impresa.

Con gli accordi del 1983 la contrattazione perde di strategia e di unità. La rivendicazione sindacale si frantuma in tanti rivoli, inseguendo le singole specificità (professionalità dei tecnici e dei quadri, produttività come elemento guida per la gestione di orario e salario, monetizzazione di turni e flessibilità ecc..) e comincia ad essere vincolata agli obiettivi di compatibilità dentro cui l’azione sindacale accetta di muoversi, anche se, allora, si diceva trattarsi di scelta necessaria ma momentanea.

La successiva contrattazione aziendale, (per lo piu' ancora gestita in azienda senza la mediazione confindustriale e sindacale) si orienterà quasi esclusivamente sulle richieste di recupero salariale e con risultati altalenanti a seconda dei settori e dei territori.

L'accordo "Scotti" durerà poco o niente. La stessa Confindustria lo disdice solo dopo pochi mesi riaprendo un confronto che porta il 14 febbraio 1984 all'accordo di “S. Valentino" di rallentamento sostanziale del  meccanismo di  scala mobile e di ogni forma di automatismo salariale.

La Cgil si opporrà a quell’accordo arrivando anche a promuovere un referendum per la sua abrogazione, senza purtroppo esito positivo.

1984

Contingenza – Con il Decreto Legge del 14/2/1984 e la successiva legge del 12 Giugno 1894 n° 219 si stabilisce che i punti di variazione dell'indennità di contingenza non possono essere più di 2 alla scadenza del 1° febbraio e non più di 2 a quella del 1° maggio. Come si vede si è trattato del primo e vero intervento legislativo di predeterminazione salariale.

1985

Contingenza – A fronte della disdetta della scala mobile da parte di Confindustria si arriva ad un accordo interconfederale, poi trasformato in legge, che riforma il sistema di indicizzazione dei salari, portandolo a cadenza semestrale e riducendo le fasce di retribuzione sottoposte a tutela. Con questo meccanismo si è di fatto operata una diversificazione per livello (o categoria) degli aumenti di contingenza, poiché la parte di retribuzione da mantenere sotto tutela della scala mobile differiva da livello a livello. La copertura della scala mobile scende dal 63% al 50%.

1986

Ccnl - I rinnovi contrattuali sono condizionati dallo scontro generale sul "Costo del lavoro". La Confindustria blocca qualsiasi trattativa e apertura del confronto, condizionandolo al  raggiungimento di un accordo interconfederale che punta allo smantellamento della scala mobile ed a vincolare la contrattazione salariale a dati "oggettivi e programmabili".

Si arriva infine all'accordo interconfederale del 1986 che riconferma l'impegno a uniformare la contrattazione salariale entro vincoli stabiliti, impone coerenze concettualmente forti agli obiettivi di flessibilità e produttività, modifica ulteriormente la scala mobile nelle parti relative alla composizione del paniere, introduce aperture sulla possibilità per le aziende di ricorrere più di prima a forme di lavoro precario (tempo determinato, contratti formazione).

Il confronto contrattuale categoriale è già concluso, essendo limitato a recepire i punti del protocollo interconfederale.

1990- 1992

Contingenza – nel 1990 Confindustria procede ad una nuova disdetta della scala mobile. A fronte della disdetta confindustriale, il Governo prorogherà per decreto gli effetti della scala mobile solo fino al 31/12/91 per dare modo alle parti di trovare un accordo.

Seguiranno mesi di estrema confusione risolti nel Luglio del 1992 dall'accordo Amato-Trentin sulla definitiva eliminazione della scala mobile.

L’accordo del 31 luglio 1992 non si limitava a sancire la definitiva abolizione della scala mobile, ma bloccava (sia pure temporaneamente) la contrattazione aziendale. Cadevano così ben due dei tre “pilastri” su cui si reggeva la contrattazione sindacale.

1990-1991

Ccnl - A parte la richiesta di una ulteriore riduzione di orario, le piattaforme sindacali appaiono estremamente confuse ed indeterminate.

Organizzate attorno alle parole d'ordine di un sindacato responsabile che rivendica il suo diritto di agire sulle scelte economiche ed aziendali, e che quindi pone con forza i problemi della coniugazione tra occupazione, difesa del salario, professionalità da un lato ed efficienza e produttività dall'altro, scivola poi nel generico quando si tratta di formulare le indicazioni rivendicative.

I risultati finali, d'altronde, sono concretamente influenzati dalla pressione di Confindustria, tutta concentrata a sfondare, sul piano contrattuale, nella battaglia generale sul costo del lavoro, flessibilità ed eliminazione della scala mobile.

I testi contrattuali si riempiono di  premesse e dichiarazioni tese a valorizzare come i comportamenti dei soggetti contrattuali siano informati dalla necessità di sostenere lo sviluppo dell’efficienza e della produttività.

Scomparso ormai ogni riferimento all’egualitarismo, attraverso le politiche di riparametrazione, di ritorno alla monetizzazione delle mansioni e politiche che favoriscono le alte categorie (quadri), i sistemi di inquadramento unico, formalmente ancora presenti, perdono ogni consistenza.

In tutti i Ccnl si stabilisce inoltre che la contrattazione aziendale, relativa al salario, potrà avvenire una sola volta nell'arco di vigenza contrattuale e non sulle materie già regolate dal Ccnl.

Nel periodo 1983 – 1993 l’azione sindacale non riesce a rispondere ai caratteri dell’offensiva padronale che si snoda, apparentemente senza ostacoli su tutto il fronte dello scontro di classe.

  • Dal lato della lotta ideologica prende forza l’offensiva contro le voci che costituiscono il baricentro del sistema retributivo. La scala mobile, le indicizzazioni e gli automatismi salariali, vengono indicate come una ingiusta ed insostenibile tassa a carico dell’impresa che riduce le sue capacità di investimento e di programmazione.

Confindustria rivendica che il profitto ed il mercato diventino elementi di riferimento generale a cui anche la contrattazione e la dinamica retributiva deve subordinarsi. Il salario non deve più essere percepito dal lavoratore come quantità di beni necessari alla sua riproduzione, ma come remunerazione di una prestazione, comunque dipendente dalle compatibilità di impresa e di mercato, dipendente cioè da riferimenti “oggettivi” di cui la contrattazione sindacale deve limitarsi a tener conto.

  • Dal lato della controtendenza redistributiva,

    • Dal lato del salario prende forza la riduzione della contrattazione (moderazione salariale e raffreddamento della contrattazione aziendale) a mera registrazione delle disponibilità economiche dell’impresa.

    • Dal lato dell’occupazione prende forza l’idea che i “necessari” costi occupazionali (Licenziamenti ecc) della crisi non possono più essere accollati all’impresa (attacco alla titolarità degli esuberi – L. 223/91). Prende inoltre forza anche la necessità di aumentare per le imprese la possibilità di ricorso a prestazioni temporanee e precarie e di riduzione di costi per le nuove assunzioni.

  • Dal lato della controtendenza strutturale, favorito dai cedimenti e dalla confusione sindacale, prende forza la “necessità” e “l’urgenza” di una ristrutturazione della retribuzione e della contrattazione per dare coerenza e stabilità a nuove regole, capaci di rappresentare, mediandoli, tutti gli interessi in campo di fronte alle questioni poste dalla crisi.. La parola d’ordine è “Politica dei redditi”.

Dal punto di vista della determinazione delle forme della retribuzione, questo è lo scontro di classe che si è concluso con l’abolizione della scala mobile e con l’accordo del 23 luglio 93.

L’accordo del 23 luglio 1993 – Fine del modello contrattuale rivendicativo

L'accordo del 23 luglio 1993, presentato sia come “nuova politica dei redditi” che come riforma della struttura contrattuale per ridare “centralità al contratto nazionale” opera su tre livelli.

1° livello

concertazione generale del limite salariale secondo l'inflazione programmata

Il Governo, sentiti Sindacati e Confindustria, convocati in sessione nazionale, definisce ogni anno il quadro dentro cui deve muoversi la Concertazione generale:

  • A maggio il DPEF traduce in legge la politica economica e la politica dei redditi richiesta dai mercati. Di conseguenza governo, padroni e sindacati, riuniti nella "Prima sessione di controllo" (prevista dall'accordo del 23 luglio 93), prendono atto dell'inflazione programmata.

A settembre la "legge finanziaria" viene presentata in Parlamento. Di conseguenza la "Seconda sessione di controllo" (sempre prevista dall'accordo del 23 luglio 93) trasforma l'inflazione programmata nel limite massimo di incremento salariale.

2° livello

concertazione nazionale della quantità di inflazione reale che i padroni possono scaricare sul salario

La concertazione generale determina la quantità di inflazione da scaricare sui lavoratori attraverso il Contratto Nazionale di Lavoro. Tale procedura prevede:

  • la definizione quadriennale del CCNL in due fasi biennali;

  • nella prima fase, la contrattazione della parte normativa e della parte retributiva nei limiti dell'inflazione programmata dal primo livello;

nella seconda fase, la contrattazione per il recupero della differenza tra inflazione programmata e inflazione ISTAT.

3° livello

concertazione articolata della sottomissione dei lavoratori agli interessi dell'impresa

La concertazione nazionale istituisce una procedura aziendale per subordinare le condizioni dei lavoratori agli interessi dell'impresa. Tale procedura prevede:

  • la definizione quadriennale del Contratto Aziendale su materie diverse da quelle del CCNL in due modi temporali;

  • in un primo tempo la contrattazione a livello aziendale di obiettivi condivisi di riduzione dei costi, recupero efficienza, obiettivi di produttività e remunerabilità di impresa;

  • In un secondo tempo il riconoscimento di un risultato economico in proporzione al raggiungimento degli obiettivi, da erogare una tantum non consolidata in busta paga.

Il primo livello definisce per legge il tetto massimo dell’inflazione (valutazione arbitrariamente assunta dal Governo) che può essere recuperata sulle retribuzioni. Si subordina la tutela delle retribuzioni agli obiettivi macroeconomici dello stato.

Il secondo livello si limita a registrare la “valutazione arbitraria” applicandola in sede negoziale. Ciò comprime gli spazi per la contrattazione nazionale alla sola inflazione programmata e mantiene la contrattazione nazionale dentro al quadro di compatibilità generale.

Il terzo livello applica le procedure concertate, cioè vincola la contrattazione aziendale (premi di partecipazione) alla comune disponibilità a perseguire obiettivi di riduzione dei costi, recupero di efficienza, aumento di produttività e redditività di impresa. L’incentivo salariale così riconosciuto è direttamente dipendente da questo risultato, rimane quindi subordinato al ripetersi di questa procedura (infatti viene erogato come “tantum” non consolidata in busta paga) e quindi alla continua individuazione di obiettivi condivisi in materia di riduzione dei costi, efficienza, produttività, redditività di impresa. Così la contrattazione aziendale, per mantenere il salario conquistato, è imbrigliata in un continuo scambio con gli obiettivi di impresa.

La pratica contrattuale che deriva da questo modello fa subito piazza pulita delle illusioni sindacali di un maggior potere della contrattazione (attraverso la contrattazione degli obiettivi) nel condizionare le scelte dell’impresa. In realtà tutta la contrattazione nazionale si riduce ad una estenuante quanto fallimentare rincorsa dell’inflazione, e la contrattazione aziendale, dove si riesce a fare, ad una “monetizzazione” in forma di salario variabile (non consolidato) delle disponibilità sindacali a concorrere agli aumenti di efficienza e produttività di impresa.

Al di la dei risultati quantitativi, tutta la contrattazione, con l’accordo concertativo, risulta infine subordinata alla “razionalità economica del capitale” ed incapace di rispondere anche solo agli obiettivi di mantenimento del potere d’acquisto dei salari.

La struttura del salario come si è modificata dopo l’accordo del luglio 93

Descriviamo come si è modificata la struttura retributiva negli anni tra il 1993 ad oggi, mantenendo come riferimento la lettura della retribuzione descritta precedentemente.

1. RETRIBUZIONE DI BASE

1.1 Quota professionale

La modifica principale riguarda la predeterminazione dei costi contrattuali che tutt’ora agiscono, in sede di rinnovo contrattuale sul così detto “minimo tabellare” corrispondente alla categoria professionale di inquadramento. I riferimenti entro cui la contrattazione sindacale deve muoversi sono decisi in sede di politica di bilancio (dpef e legge finanziaria) dello Stato in considerazioni degli obiettivi macroeconomici indicati dal Governo. Il rapporto tra bisogni dei lavoratori e politica salariale salta definitivamente. L’eliminazione della scala mobile carica esclusivamente sul contratto nazionale il compito di difendere il potere di acquisto dei salari, impedendo di fatto la redistribuzione della produttività generale.

Ma oltre alla riduzione del salario era necessario smantellare le caratteristiche difensive, proprie del salario professionale, così come sono uscite dalla contrattazione precedente (inquadramento unico). La risposta che viene data (con grande condivisione anche da parte sindacale) è quella di rivalutare il valore delle singole particolari posizioni lavorative, individuando nuovi valori e nuovi prezzi per rappresentare le tante e nuove pressioni salariai che la frantumazione indotta dalla crisi (anche dalla crisi della contrattazione) ha prodotto.

Ciò permette, indipendentemente dal percorso di carriera professionale stabilito nella scala classificatoria, di avere a livello aziendale una scala salariale di remunerazione di posto e mansione, nella quale si può salire (con relativo aumento salariale) ma che non impedisce (entro certi limiti) anche di scendere a mansioni classificate come inferiori. Certo ci sono ancora limiti oltre i quali non si può scendere, ma il principio della flessibilità sulla mansione è affermato. L’azienda può chiamarti a operare su mansioni inferiori, e questo, nell’ambito dello stesso livello professionale (che non viene toccato) è permesso anche dal codice civile.

1.2 Quota di mantenimento

L’eliminazione della scala mobile toglie ogni protezione alla retribuzione di base, libera disponibilità da dirigere a sostegno e sviluppo di altre forme retributive più legate all’incentivazione della flessibilità, della produttività e del merito, aprendo così la strada all’affermazione del salario ad incentivo e variabile come nuova architrave del sistema retributivo. Anche gli assegni familiari, al pari di altri automatismi, che in qualche modo erano concettualmente legati al sostegno del carico familiare del lavoratore, non più rivalutati dalla legislazione e dalla contrattazione rischiano di diventare elementi marginali  della retribuzione del lavoratore.

1.3 Indennità di mantenimento

Nella logica di capitale, tendente allo smantellamento della retribuzione nelle sue forme difensive, le indennità di mantenimento, nelle forme conosciute, vengono messe in discussione e cacciate fuori (con accordi o ricorsi alla magistratura) dalla categoria di salario. Il  fatto che la forza lavoro sostenga dei costi (viaggiare e mangiare) per recarsi al lavoro, è questione che non deve più riguardare l’impresa, per la quale la forza lavoro è utile solo dal lato del suo consumo e non della sua riproduzione.

Indennità come quelle di mensa o di trasporto, vengono ridotte e trattate alla stregua di un benefit, di un costo sociale, che l’impresa può o meno sostenere a seconda delle sue scelte ed a cui il lavoratore deve partecipare in misura sempre maggiore, fino all’accollamento totale, liberando così l’impresa da una retribuzione che nulla ha a che vedere con la logica della produttività.

2. RETRIBUZIONE DI ANZIANITÀ

Gli scatti di anzianità sono ormai una voce marginale della retribuzione. E’ venuto così a mancare una sorta di adeguamento periodico del salario del lavoratore, pattuito già al momento della assunzione.

A livello contrattuale, soprattutto in alcune categorie, si è proceduto prima alla riduzione del numero di scatti di anzianità, poi alla loro liquidazione con la ristrutturazione del meccanismo. Il valore degli scatti, non più collegato all’incrementare della retribuzione, viene congelato in cifra fissa, e la loro rivalutazione demandata alla contrattazione tra le parti, per altro caduta in disuso ormai da anni.

3. SALARIO DI PRODUTTIVITÀ

La strategia di capitale ha nell’aumento della produttività il suo obiettivo principale, ma la contrattazione a riparto, riduce la possibilità di divisione-incentivazione, di concorrenza tra le diverse forze lavoro che è elemento necessario (assieme ai bassi salari) per sostenere l’aumento della intensità di lavoro e l’affermarsi di nuovi modelli organizzativi più flessibili.

Da questo punto di vista, per il capitale diventa strategico, sia spostare il baricentro della retribuzione di produttività subordinandola agli obiettivi aziendali, sia ridurre gli spazi della sua erogazione a riparto in favore di una erogazione ad incentivo.

Alla contrattazione dei premi di produzione, si sostituisce la contrattazione dei premi di produttività o di partecipazione. La contrattazione è prima di tutto subordinata alla individuazione di “obiettivi” e di “parametri oggettivi”, a cui subordinare l’eventuale erogazione che, appunto rimane legata a quegli obiettivi (è quindi erogata sotto forma di una tantum) e non alla retribuzione. Il premio di produttività trasforma il premio di produzione in un incentivo sotto forma di salario variabile, subordinato ad obiettivi da raggiungere.

4. RETRIBUZIONE DI MERITO

La riduzione del salario, soprattutto nelle sue quote dedicate alla riproduzione, al mantenimento ed all’anzianità, libera risorse da mettere a disposizione uso arbitrario e sempre più massiccio della retribuzione di merito (benefit, assegni ad personam, superminimi) da parte delle aziende, e rivolto soprattutto verso le professionalità più tecniche e specializzate.

Con la retribuzione di merito si cerca di condizionare sempre più alcune F.L. ad un rapporto di maggiore fedeltà all’impresa ed a aumentare la concorrenzialità tra le varie F.L. all’interno della stessa azienda, dello stesso reparto.

In sintesi, è evidente che, dal lato delle forme dell’erogazione salariale si è spostato il baricentro delle retribuzioni dalle sue quote di riproduzione e mantenimento e della erogazione a riparto, ad una forma di retribuzione più dipendente e subordinata alle compatibilità di sistema ed agli obiettivi di produttività e remunerabilità di impresa.

Con l’entrata a regime dell’accordo concertativo del 1993 possiamo constatare come gli obiettivi padronali siano stati efficacemente raggiunti.

  • Si è ridotta la copertura salariale

  • Si è affermato un modello che formalizza e rende strutturali regole contrattuali che impediscono la ripresa di una iniziativa sindacale svincolata dai vincoli del sistema profitto-mercato.

  • Si è spostato il baricentro del salario a favore di forme di erogazione salariale più dipendenti alle “valutazioni arbitrarie” del sistema macroeconomico ed a favore di una più esplicita dipendenza del salario alle forme immediatamente determinate dagli obiettivi di efficienza, produttività, remunerabilità di impresa.

Si è così affermato un sistema di forte subordinazione del Lavoro al Capitale (sostenuto anche dalle nuove scelte a favore di un mercato del lavoro privatizzato, disponibile ed esigibile in tutte le forme possibili della precarietà e della flessibilità).

Per concludere l’osservazione del periodo che ha portato all’entrata a regime del sistema della subordinazione concertativa, riportiamo, a mo di esempio, il grafico relativo alla trasformazione delle componenti retributive, in rapporto tra di loro, di un lavoratore a contratto Chimico-farmaceutico nel periodo tra il 1985 ed il 2001.

Fatto 100 il valore della sua retribuzione osserviamo come si sono modificate le percentuali di peso tra le varie forme salariali della sua busta paga.

Operaio con CCNL chimico 5° livello, con totale maturazione degli scatti di anzianità e senza assegni familiari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In 16 anni i pesi percentuali si sono così modificati:

 

1985

1995

2001

 

paga base (comprensiva della contingenza assorbita)

77%

70%

64%

 

Scatti di anzianità

12%

9%

4%

 

Salario di produttività (premio di partecipazione)

8%

11%

22%

 

Altre

3%

10%

10%

 

 

100,00%

100,00%

100,00%

La busta paga presa in considerazione non può ovviamente fare testo per una conclusione generale (analogo lavoro andrebbe fatto su più buste paga di categorie diverse), ma è comunque indicativo di come, oltre alla sua riduzione, si sia realizzata sulla retribuzione diretta anche una trasformazione di peso tra le sue voci a discapito delle quote di mantenimento (proprie della contrattazione nazionale) ed a favore delle voci variabili (proprie della contrattazione aziendale).

La crisi della concertazione e la nuovo offensiva della Confindustria

Nel 1998 si apre una prima valutazione sul funzionamento del modello contrattuale definito con l’accordo del luglio 1995. Tutti ne riconoscono la bontà. Diverse sono però i giudizi sulla bontà della sua corretta applicazione. Confindustria lamenta il persistere di una pressione sindacale non sempre giustificabile dal suo punto di vista. I sindacati lamentano la non esigibilità dei livelli contrattuali previsti nel modello. Si deve sempre lottare per avere ciò che dovrebbe essere dovuto (l’inflazione programmata) e la contrattazione aziendale si fa solo dove il sindacato è forte quanto basta per imporla.

In risposta ai vari punti di vista che sollecitano il “perfezionamento” del sistema concertativo si arrivava così nel dicembre 1998 (Patto di Natale) ad un accordo triangolare che rafforzava il ruolo della concertazione centralizzata e della dipendenza a questa della contrattazione. Il Patto di Natale proponeva l’idea di un modello di regole di tipo neocorporativo nel quale i soggetti sociali concordavano periodicamente gli obiettivi comuni e concordavano i loro comportamenti, vincolandosi al raggiungimento di quegli obiettivi.

Il "Patto", ripartendo dai risultati fino ad ora ottenuti, perfeziona il modello concertativo mettendo al centro i seguenti obiettivi:

·        Il contenimento ed il controllo della politica salariale, in modo che questa sia sempre più compatibile e coerente alla necessità di rendere disponibili maggiori risorse a sostegno degli investimenti e dell'occupazione;

·        L'introduzione di regole certe ed esigibili, per consolidare il modello concertativo e per estenderlo anche a livello regionale e locale, con l'obiettivo di vincolare le parti sociali al rispetto degli obiettivi macro economici del "Patto" garantendo e verificando la coerenza dei loro comportamenti rivendicativi e contrattuali;

·        Il "Patto", prevedendo di allineare i suoi obiettivi agli standard economici Europei, impegna ripetutamente tutti i soggetti della concertazione a tenere comportamenti coerenti con le decisioni che saranno assunte a livello Europeo.

Con la caduta del Governo di centrosinistra il Patto di Natale rimane lettera morta.

In realtà queste pattuizioni non reggono soprattutto alla rinnovata “avidità” di Confindustria che ritiene di poter ottenere ua maggiore subordinazione delle dinamiche sindacali senza ricorrere a farraginose intese di cui per prima non ne riconosce l’efficacia immediata.

La crisi di valorizzazione e l’aumentata concorrenza sui mercati, dentro il quale il Capitale Italiano dimostra una straordinaria debolezza, convincono Confindustria a rimettere in discussione lo stesso modello concertativo. Il modello contrattuale definito nel 1993 è considerato insufficiente a garantire all’interesse di impresa ed il sostegno alla propria remunerabilità. Per i sindacati il modello concertativo richiede invece un rilancio attraverso la definizione più precisa delle sue regole.

In occasione della sua Assemblea Nazionale di Confindustria, tenutasi a Parma nel 2001, i padroni dichiarano apertamente le loro intenzioni presentando la loro piattaforma e la loro ideologia.

Le valutazioni in campo sono le seguenti:

Confindustria: Il protocollo del 23 luglio viene valutato positivamente per gli elementi di regolazione che ha introdotto, ma

  • Non sono state liberate le risorse necessarie per permettere alle imprese vere politiche di sviluppo (investimenti ed occupazione);

  • Il recupero dell’inflazione, la tutela del potere di acquisto dei salari non può essere un costo da scaricare sull’impresa, non tutto può essere risolto dalla contrattazione sindacale;

  • Va semmai ridimensionato il contratto nazionale di lavoro a favore di forme contrattuali più legate alle singole particolari condizioni (aziendale, territoriale, merceologica) e più dipendenti alla effettiva disponibilità economica dell’impresa;

  • Vanno rimosse le residue rigidità sul mercato del lavoro, sia per quanto riguarda l’entrata (tutta la merce forza lavoro deve essere accessibile sul mercato nelle forme della precarietà e flessibilità lavorativa) sia per quanto riguarda l’uscita (libertà di licenziamento);

  • Servono nuove regole, certe ed esigibili che condizionino i soggetti contrattuali (sindacati locali e Rsu) al rispetto delle compatibilità concertate a livello generale.

Le valutazioni sindacali sono ovviamente diverse e possono così essere riassunte:

Cgil – La concertazione viene ancora difesa come modello. La difesa del potere d’acquisto dei salari, tramite la prederminazione, ha funzionato, e questo nonostante l’atteggiamento di molte categorie imprenditoriali che hanno spesso reso difficile l’applicazione del protocollo del 23 luglio 93.

I limiti di quel protocollo vanno quindi ascritti ad una opposizione Confindustriale di cui si denuncia una accelerazione, dopo Parma, sostenuta dall’alleanza tra Confindustria ed il nuovo Governo Berlusconi  che vuole esplicitamente un cambiamento (in peggio) delle regole.

Cisl e Uil vedono nella crisi del protocollo solo un limite tecnico. Tutto ciò che di buono poteva dare quell’accordo lo ha dato. L’accordo può (e deve) quindi essere rivisto e riadeguato alla nuova e più complessa situazione interna e generale tramite l’individuazione di tavoli di programmazione della contrattazione e della politica economica più affidabili, nei quali il ruolo concertativo del sindacato sia maggiormente riconosciuto.

Con la discesa in campo della “piattaforma Confindustriale di Parma” si apre concretamente una stagione di divisione sindacale che porta ad un confronto esplicito sullo stesso modello di contrattazione e di sindacato.

La firma di Cisl e Uil del “Patto per l’Italia” (22 luglio 2002), gli accordi separati nella contrattazione dei metalmeccanici, le differenti valutazioni sull’articolo 18, sulla legge 30 (mercato del lavoro) e sulla legge 66 (orario), aprono di fatto la questione della svolta sindacale e del nuovo modello contrattuale.

Lo scontro nel sindacato è tra la difesa dell’esperienza concertativa, necessariamente riproposta su una base maggiormente conflittuale in risposta alle posizioni liquidatorie di Confindustria (Cgil),  e l’adesione esplicita ad un modello neocorporativo basato su un maggior peso della “regolamentazione concertata della contrattazione” a partire dall’idea che solo così si possono salvaguardare pratiche contrattuali collettive, ruolo e funzione delle organizzazioni sindacali, necessariamente da rivedere vista la complessità della crisi e la necessità di un maggior sostegno, e quindi coinvolgimento sindacale, nelle politiche di sviluppo (Cisl e Uil).

Nella pratica, per quanto riguarda la contrattazione le posizioni, almeno formalmente, si delineano secondo queste linee:

  1. Cgil - Difesa ed incremento del potere d’acquisto dei salari, attraverso la difesa del contratto nazionale come strumento di recupero dell’inflazione e di quote di produttività, da realizzare anche attraverso una politica più esplicita di controllo dei prezzi e delle tariffe, di qualità e quantità dei servizi erogati, di revisione delle politiche fiscali a favor dei redditi di lavoro.

  2. Cisl e Uil - Difesa ed incremento del potere d’acquisto dei salari, attraverso un contratto nazionale che garantisca il recupero dell’inflazione (programmata) sostenuto da maggiori garanzie sul controllo di tutti gli altri prezzi, e una forte e diffusa contrattazione decentrata (territoriale ed aziendale) capace di intercettare gli aumenti di produttività la dove questi si realizzano.

  3. Le sinistre sindacali (confederali e di base, ma anche la Fiom) sostengono di contro la necessità di liquidare la politica concertativa e di ridare maggiore autonomia alle valutazioni arbitrarie (piattaforme) dei lavoratori per esprimere con maggiore efficacia il quadro di bisogni che il lavoro esprime, senza vincoli e predeterminazioni.

In realtà, tra le posizioni formali e la pratica contrattuale concreta, si aprono vistose contraddizioni soprattutto nell’azione della Cgil.

Se osserviamo la contrattazione sindacale (dal 2001 ad oggi) notiamo infatti come questa  (con l’esclusione dei metalmeccanici che hanno invece rappresentato l’unico elemento di contraddizione) si sia caratterizzata per una vera e propria assenza di strategia sindacale. Le piattaforme, incapaci di rappresentare una risposta sindacale all’offensiva padronale, si sono arenate unicamente sull’obbiettivo di evitare, da un lato l’inasprirsi della rottura delle già deboli relazioni sindacali unitarie, e dall’altro di cercare negli accordi, elementi di sinergia con le controparti categoriali padronali da utilizzare per isolare ed indebolire la posizione di Confindustria.

Ciò che ne è uscito è un arcipelago di soluzioni che tentando di riconfermare la validità del metodo concertativo scontano risultati economici speso inferiori di quanto previsto del protocollo del 23 luglio (sia nelle quantità che nelle modalità), con pesanti cedimenti anche sulla struttura stessa del contratto. Basti pensare alla manomissione del biennio economico nei Ccnl Poste e Turismo (luglio 2003 – che prevedono lo slittamento triennale della contrattazione economica) o all’accordo degli autoferrotranviari dove per la prima volta si accetta esplicitamente che il recupero dell’inflazione può non essere tutto a carico della contrattazione nazionale.

Gli accordi sono inoltre intrisi di riferimenti alla competitività da cui discendono aperture pesanti in materia di mercato del lavoro (legge 30), flessibilità e prestazione (legge 66.

Tutte le pattuizioni sindacali celebrano (con enfasi) il protocollo del 23 luglio. Ma in realtà quel protocollo non è più funzionante. A governare la contrattazione sono ormai solo:

  • I concreti rapporti di forza delle categorie impegnate nei rinnovi;

  • La paura sindacale (evidente in molte categorie) che vede nello scontro generale i rischi di una perdita dei delicatissimi equilibri di reciproco riconoscimento costruiti con le controparti nelle contrattazioni precedenti;

  • Una controparte padronale che in molte categorie cerca mediazioni onorevoli pur di evitare scontri contrattuali lunghi e difficili, a patto però di ottenere comunque sconti significativi in termini salariali e di disponibilità in materia di mercato del lavoro e flessibilità.

L’accordo del 23 luglio 1993 non c’è più, ma si finge che ci sia, producendo così l’effetto tragicomico  di sottoscrivere contratti al ribasso rispetto alle dinamiche di quel protocollo ma di celebrarne il rispetto nelle roboanti premesse degli accordi.

E’ all’interno di questa situazione che si va ad aprire oggi il confronto sulla “nuova politica dei redditi”. Una situazione che assomiglia a quella fase di confusione contrattuale che portò prima all’accordo Amato – Trentin del luglio 1992 e poi all’accordo concertativo del luglio 1993.

L’azione sindacale, incapace di mettere in campo una proposta alternativa al modello concertativo, ne rimane invece ancorato, lo celebra, lo reitera nelle sue fraseologie e nelle sue formalità e ritualità, mentre l’azione di Confindustria ne smonta giorno dopo giorno ogni residua regola fino al collasso finale.

La linea di Montezemolo, apparentemente più attenta alle difficoltà del travaglio sindacale e meno “crudele” nelle sue pretese di quanto rappresentava invece la posizione di D’Amato, è in realtà protesa al tentativo di intascare, di rendere formale e stabile, quanto già la contrattazione recente ha prodotto in termini di smantellamento del precedente accordo concertativo.

Di fronte al maggiore riconoscimento offerto da Montezemolo, Cgil Cisl Uil sembrano ora disposti a cercare una posizione unitaria per realizzare una nuova mediazione (un nuovo patto) con Confindustria in materia di regole per la contrattazione.

E’ chiaro che, senza una piattaforma, senza una proposta alternativa poggiante sulla critica e sulla necessità di superare la concertazione come modello, come strategia, il confronto non potrà che svilupparsi che all’interno dei livelli di subordinazione già prodotti da anni di pratica concertativa, con esiti prevedibili che potremo già misurare a breve.

NOTE


[1] Comunicazione tenuta al seminario Salario e modelli contrattuali tenuto presso la CGIL di lodi il 15 dicembre 2004.

[2] Il Compito di una sinistra sindacale non è solo quello di essere buoni sindacalisti, adeguati e capaci nel rappresentare le istanze dei lavoratori, ma anche e soprattutto di saper rendere evidente, di spiegare e smascherare il carattere di classe delle strategie padronali, sottoponendo a critica anche le posizioni che, assumendo la “razionalità economica” ed il conseguente “realismo sindacale” come punti di vista dell’azione sindacale, di fatto accettano la centralità del mercato e dell’impresa con conseguente subordinazione a ciò dell’autonomia contrattuale della Forza lavoro.

E’ questo un lavoro di battaglia politica che negli ultimi anni si è sostanziato con la nostra esperienza, prima come Alternativa sindacale ed ora come Lavoro Società contro le posizioni concertative della Cgil.