MATERIA E COSCIENZA

Lorenzo Esposito[1]

INDICE

Introduzione. Il materialismo per l’uomo moderno

1. Lo stato della scienza e della filosofia della scienza

2. Le basi del soggettivismo metodologico

3. Perché il materialismo

4. I limiti della teoria del riflesso

5. Materialismo e dialettica

6. Sintesi della ricerca

I. Conoscenza come coevoluzione

1. Materia e coscienza

2. L’evoluzione

3. L’evoluzione delle teorie

4. I tre mondi

II. Riflessione e riproduzione

1. Riflessione e riproduzione

2. Teorie di classe

3. La riproduzione come conoscenza astratta

4. La teoria dell’astrazione determinata

5. Una nota sulla storia di riflessione e riproduzione: Hume e Kant

6. Il rapporto tra riflessione e riproduzione. L’economia politica

III. La coscienza come risultato dello sviluppo storico dell’uomo

1. Il dibattito sulla coscienza

2. La nascita della coscienza

3. La funzione della coscienza

Conclusione. Coscienza e pianificazione

1. Il posto dell’uomo nella natura

2. Il posto della coscienza nella storia dell’uomo e del processo produttivo

Bibliografia

Introduzione. Il materialismo per l’uomo moderno

La prima cosa che deve fare un lavoratore che vuole collaborare alla liberazione della sua classe è di non lasciare che siano gli altri a pensare al suo posto.

J. Dietzgen

1. Lo stato della scienza e della filosofia della scienza

Gli ultimi cento anni hanno visto il più consistente sviluppo della scienza di tutta la storia. Per molti versi, l’umanità ha capito, del mondo che la circonda, più nell’ultimo secolo che nei precedenti cento milioni. È fin troppo facile prevedere che nei prossimi cento anni la scienza farà passi avanti talmente colossali da rendere insignificante il corpus di conoscenze orgogliosamente conquistato fin qui. Eppure c’è un aspetto dell’impresa scientifica che non sembra affatto progredire: il suo metodo. Le rivoluzioni che hanno attraversato la scienza l’hanno trasformata radicalmente. Si può dire altrettanto dell’epistemologia? Le diverse scuole e diverse concezioni che si sono succedute hanno condotto a un avanzamento nella nostra analisi della scienza?

Constatiamo in realtà che la scienza ha tratto scarso beneficio dalle varie teorie epistemologiche che si sono succedute nell’ultimo secolo. Spesso è stata da esse ostacolata e mal interpretata. Tolta la teoria di Kuhn, che è una semplice descrizione di quello che fanno gli scienziati, che cosa, di interessante, comunica l’epistemologia a chi si interessa dell’impresa scientifica? D’altra parte perché uno scienziato dovrebbe interessarsi alla filosofia, che in molte sue correnti nega l’esistenza oggettiva della materia prima del lavoro dello scienziato, la realtà? L’epistemologia moderna, con alcune eccezioni e nelle ovvie diversità di toni e di accenti, non è che la riproposizione dell’idealismo soggettivo del vescovo Berkeley, in cui è il soggetto a determinare l’esistenza dell’oggetto della ricerca, “il pensiero pone l’essere”, nella definizione originale.

La maggior parte degli scienziati si occupa, per propria fortuna, assai poco di epistemologia e va avanti con un sano realismo, ovvio per tutti gli uomini che fanno un mestiere normale, ma assai raro tra i filosofi[2][1]. Sarebbe difficile trovare un contadino, del tutto digiuno di ogni nozione filosofica, che dubiti dell’esistenza del mondo che lavora con tanta fatica. Invece l’idea che il mondo sia un “fascio di sensazioni” create da chi pensa è pressoché universale tra i filosofi, tra le persone che dovrebbero insegnare a ragionare. Per quanto possa sembrare desolante questo quadro, per citare un vero filosofo, non ci si può limitare a ridere o piangere, bisogna capire; occorre capire il perché di questa situazione, quali basi teoriche e sociali ha e come porvi rimedio.

2. Le basi del soggettivismo metodologico

Le filosofie sono interpretazioni del mondo. Un uomo disperato fa gesti disperati, una società in crisi produce tipicamente due tipi di filosofie: una ottimista, secondo cui la crisi è solo un’illusione o una congiura delle forze del male e si sta bene se solo si sanno capire le cose importanti della vita; e una pessimista secondo cui il giorno del giudizio è dietro l’angolo e ormai non c’è più nulla da fare[3]. Il modo con cui ondate contrapposte dei due filoni si alternano e si intrecciano è la materia di studio di chi voglia indagare i periodi di transizione nella storia dell’umanità. La nostra epoca è uno di questi periodi. Non è dunque strano assistere alla ricomparsa di saghe e leggende sotto forma di teorie scientifiche. Sembra curioso, oggi che molti uomini credessero che nell’anno Mille sarebbe finito il mondo. È però ancora più strano che nel paese più sviluppato del pianeta una raccolta di leggende mediorientali composte qualche millennio fa, la Bibbia, sia la base per l’insegnamento di molte scienze. Non c’è una regione del mondo dove il fondamentalismo religioso non accampi sempre più pretese sulla scienza e sulla vita. Che si tratti di far tornare le donne alla schiavitù della famiglia, di negare gli avanzamenti della scienza in nome della religione, la razionalità, a oltre due secoli dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese, è in una situazione disperata. Le scienze naturali sfuggono, in parte, al misticismo, perché trattano di temi neutrali. Ma quando affrontano questioni scottanti, cadono sotto gli attacchi della “Fede” (si pensi agli attacchi alla teoria dell’evoluzione o al successo della teoria del big bang, che rifonda su basi moderne la Genesi). Le scienze sociali, dal canto loro, sono decisamente ottimiste. In particolar modo l’economia, che è la più sviluppata di esse, almeno matematicamente, è la scienza dell’armonia e della felicità. Più si sviluppa e più le sue teorie considerano i problemi reali della società fenomeni curiosi, shock momentanei, degenerazioni inspiegabili da una retta via fatta di gioia senza fine. Che poi il mondo che ci circonda non si avvicini alle descrizioni teoriche degli economisti, questo non sembra preoccuparli.

Abbiamo affermato che la scienza ha fatto passi avanti enormi nell’ultimo secolo. Per quanto riguarda le scienze naturali, nonostante le recrudescenze oscurantiste, il progresso è palese. Nelle scienze sociali, invece, il progresso è puramente tecnico, gli economisti del 2000 sono tecnici migliori di quelli del 1900. Ma le teorie economiche del 2000 non spiegano più di quelle del 1900 o persino di quelle del 1800. In questo quadro la filosofia della scienza è elemento di ulteriore decadenza per le scienze sociali, anche perché per l’economista tipico la filosofia della scienza “vera” è quella delle scienze naturali e i contributi originali dell’economia alla filosofia della scienza sono molto rari.

3. Perché il materialismo

Riteniamo che ancora oggi la filosofia e la scienza debbano porsi il problema che l’uomo si pone da quando ha cominciato a ragionare: che legame c’è tra la materia e la coscienza, che legame c’è tra il mondo in cui viviamo e l’intelligenza con cui lo rappresentiamo. L’interpretazione sulla natura di questo rapporto è quanto distingue alla radice le filosofie, le teorie e i metodi. Non credo che vi sia nessun modo per dimostrare la superiorità di una posizione sull’altra. Un filosofo una volta propose questa idea: “tira un calcio a una pietra, se ti fai male significa che la pietra esiste e la posizione realista sarà confermata”[4]. Purtroppo le cose non si pongono così facilmente, soprattutto nelle scienze sociali. Nell’epoca delle reti telematiche e dell’esplorazione spaziale l’esistenza della realtà al di fuori da noi è messa in dubbio da coloro che dovrebbero più di tutti aiutare a comprenderla. Nemmeno ci si può cullare nella comoda idea che lo sviluppo scientifico-sociale, automaticamente, elimini le teorie dei ciarlatani. Quando una società entra in una fase di declino storico, riemergono tutte le stolide leggende del passato, per quanto vetuste e anacronistiche possano apparire. Questo significa che occorre agire attivamente per difendere la scienza dal misticismo, la storia, da sola, non lo eliminerà per noi. Che gli azzeccagarbugli della filosofia protestino perché la scelta per il materialismo non ha nessuna base “logica”, le scelte fondamentali che l’umanità ha fatto non si sono mai basate su qualche presunto calcolo logico, sono le necessità immanenti dello sviluppo storico, oggettive come le pietre e i pianeti, a spingere gli uomini ad agire e lottare, a prendere in mano il proprio destino e a scegliere i migliori strumenti per farlo. Questo è il significato del materialismo nell’epoca che attraversiamo.

4. I limiti della teoria del riflesso

Da sempre il materialismo viene applicato alla teoria della conoscenza con la teoria classica del riflesso. Interpretata meccanicamente, questa concezione ha, come vedremo, un grave limite nella sua incapacità di spiegare la dimensione sociale delle teorie. L’evidente esistenza di tale dimensione viene utilizzata dai relativisti come scusa per negare il materialismo tout court, come nell’Ottocento quando criticando il meccanicismo, allora la forma dominante di materialismo, gli idealisti cercavano di attaccare ogni forma di materialismo.

La teoria del riflesso sostiene che la conoscenza è un riflesso della realtà esterna. Questa affermazione generale è in sé vaga e metterebbe d’accordo filosofi molto diversi tra loro. Il punto è la natura di questa riflessione. Sosterremo che occorre distinguere tra fonte della riflessione e conseguenze della riflessione per non rinunciare agli aspetti chiave di una filosofia materialista. La fonte della conoscenza rimane il mondo esterno e nient’altro. Qualsiasi forma di conoscenza cosiddetta a priori non è altro che conoscenza a posteriori divenuta a priori nel corso dell’evoluzione. Il legame tra il mondo esterno e la teorizzazione umana è la pratica. La pratica è il criterio con cui l’umanità ha sempre accettato o respinto le varie teorie. Questo per il semplice fatto che le teorie sono una generalizzazione della pratica, sono uno strumento della pratica. Se le teorie fisiche non ci aiutassero a costruire i ponti e le strade, le navi e gli aerei, a che servirebbero? D’altra parte è proprio questo loro utilizzo che ne decreta il successo o l’abbandono. A questo punto sembra che il materialismo si accosti alla concezione filosofica nota come “strumentalismo” secondo cui una teoria è solo, appunto, uno strumento e che non ci si deve interessare al suo rapporto con la realtà. Il punto è che uno strumento, teorico o materiale, ha un certo ruolo in base alle sue caratteristiche oggettive. Con un martello fatto di gelatina non si potrebbe battere nessun chiodo e il martello è uno strumento proprio perché ha delle caratteristiche fisiche ben determinate. Lo stesso vale per una teoria: una teoria è uno strumento perché rappresenta più o meno bene la realtà di cui è un’astrazione approssimata. Lo strumentalismo, e le scuole neopositiviste in genere, rifiutano l’aspetto ontologico del metodo. Per loro, l’esistenza del mondo esterno fa parte delle nebbie metafisiche da cui la scienza dovrebbe rifuggire. Viceversa un metodo che non chiarisca le proprie basi ontologiche vagherà nell’incertezza in ogni altro campo.

D’altra parte la teoria del riflesso, che si dimostra ontologicamente salda, incorre in una critica “sociologica”: se le teorie rappresentano la realtà, come possono esserci teorie false? Come può progredire la scienza se tutte le sue conoscenze riflettono il mondo? A questo aspetto, che è decisivo, è dedicata buona parte di questa ricerca. Non riteniamo di avere grandi scoperte da aggiungere alle concezioni classiche, ma purtroppo questa sembra un’epoca in cui le lezioni del passato, siano esse filosofiche, politiche, storiche o sociali, si scordano facilmente e prosperano guru di varia tendenza, tutti con novità dell’ultima ora con cui seppellire il vecchiume filosofico e teorico del passato. Per fortuna, la storia in questo si comporta bene e mentre nel 2050 ci saranno studi su Aristotele, su Kant e sui problemi della teoria del riflesso, di questa gente non se ne sentirà più parlare fra qualche anno. Se con questa ricerca daremo un aiuto agli studiosi, e a tutti gli altri, a riprendere il dibattito su punti fondamentali della filosofia e della scienza, avremo raggiunto i suoi obiettivi.

5. Materialismo e dialettica

Per la scienza ordinaria e anche per il buon senso di tutti i giorni le contraddizioni sono un aspetto negativo della nostra conoscenza. Se guardiamo le previsioni del tempo è per sapere se domani pioverà o farà bel tempo, e se il meteorologo dicesse che pioverà e farà bel tempo insieme, lo riterremmo un incompetente o un tipo bizzarro. In effetti, la logica dicotomica aristotelica ci aiuta ad affrontare molti casi della vita e a cavarcela egregiamente. Così se vediamo un semaforo rosso ci fermiamo, se è verde avanziamo e se è rosso e verde insieme significa che è rotto e occorre procedere con molta cautela. In filosofia c’è però una lunga tradizione di pensiero che mostra la parzialità e, in ultima analisi, l’erroneità di questa logica. Eraclito, che ne fu il primo critico occidentale, ha attaccato la logica ancora prima che Aristotele la compendiasse nei suoi scritti. Eraclito faceva notare che ogni volta che ci si immerge in un fiume, dato che l’acqua scorre, non si tocca lo stesso fiume. Quello è ma insieme non è lo stesso fiume. Allo stesso modo, secondo il noto paradosso, se si toglie un capello alla volta dalla testa di un uomo, arriverà il momento in cui quest’uomo sarà completamente calvo, ma nessun capello avrà causato, da solo, la calvizie. Nel momento di togliere i capelli, quell’uomo sarà e non sarà calvo. In questi esempi si vede come la logica aristotelica abbia difficoltà ad analizzare i processi, che, svolgendosi nel tempo, non si lasciano incasellare da un semplice schema  dicotomico. La filosofia ha dibattuto a lungo questi problemi. All’apice della filosofia classica tedesca, Kant fornì la sintesi più organica e mirabile delle scuole gnoseologiche precedenti, Hegel propose, di questo “razionalismo critico”, una critica dialettica basata sul rifiuto della logica del tutto o niente. La dialettica in Hegel è il modo di procedere della materia nelle sue varie forme, ma lo sviluppo della materia viene interpretato in forma capovolta, come la conseguenza dello sviluppo dello spirito, dell’Idea. Il modo mistico con cui Hegel utilizzava la dialettica, e le conseguenze antiscientifiche a cui portò questo uso, allontanarono e allontanano molti scienziati da questo concetto[5]. Anch’essi pensano e teorizzano in modo eminentemente dialettico, solo, senza che ne siano consapevoli. Ma l’uso mistico che Hegel fa della dialettica non toglie la sua importanza per una comprensione più profonda dei processi reali, naturali e sociali.

Marx ed Engels furono tra i pochi ad afferrare il significato scientifico della dialettica hegeliana. In una famosa lettera al compagno e amico, Marx nota che, se fosse avanzato del tempo, avrebbe voluto scrivere un riassunto materialista della Scienza della logica. Che ciò significasse che Marx volesse scrivere un’opera “sul metodo”, sulla teoria della conoscenza, sembra assai dubbio. Marx non ha voluto lasciarci una “Logica”, essa invece traspare dai suoi lavori (è Il capitale, come nota Lenin nei suoi appunti filosofici). Questo perché Marx riteneva che non esistesse un metodo staccato dal reale procedere della scienza, un’ideale, un imperativo categorico a cui attenersi. Qualsiasi considerazione di puro metodo è in qualche modo idealista, perché, se si considera la scienza una riproduzione del mondo esterno, anche il metodo non sarà che l’astrazione delle leggi del divenire della realtà, la logica del movimento della materia in tutte le sue forme. A questo punto scrivere “sul metodo” diventa solo un esercizio di sintesi dello sviluppo concreto della ricerca scientifica, qualcosa di poco “metodologico”. Scrivere sulla teoria della conoscenza è dunque un’operazione rischiosa per chi si basi sulla concezione materialistica della storia e della scienza. In questo scritto però, affronteremo anche questi temi per spiegare che cosa si debba intendere per teoria del riflesso e come si possa arricchire questa teoria grazie anche ad alcuni sviluppi che la scienza ha avuto negli ultimi decenni.

La teoria del riflesso, che pure è la base razionale di ogni ricerca scientifica, è stata spesso interpretata, anche da alcuni materialisti, in modo banale, meccanico, dando adito a confusione e spesso all’allontanamento da essa di validi scienziati e filosofi che rifiutavano questa visione piatta. Il vero materialismo non ha nulla a che vedere con queste banalità. D’altra parte, nelle opere di molti studiosi vi sono teorie validissime riguardo a questi temi, che però soffrono di una mancanza di chiarezza generale, di una visione complessivamente dialettica, che le condanna alla parzialità, all’unilateralità. Studiandole, si prova quasi dispiacere per la collocazione infelice riservata a simili gioielli.

Quando si compie uno studio estensivo di questo tipo, si corre il rischio di creare una specie di chimera teorica sintetizzando le buone idee di tante persone. Si evita questo dannoso eclettismo se si possiede una teoria salda e flessibile per la valutazione delle altre teorie e in genere dei contributi alla conoscenza umana. Marx la possedeva e per questo è potuto essere insieme un grande dialettico e un critico dell’idealismo di Hegel, un assertore di una teoria del valore oggettiva e un critico dell’economia politica classica. Questa teoria può essere sintetizzata come segue: l’interpretazione che lo scienziato dà della propria scoperta non ha nessun carattere necessario rispetto alla scoperta stessa. Detto diversamente: la scoperta riflette una realtà che esiste al di fuori del suo scopritore. Prendiamo un esempio dalle scienze naturali: i fossili ritrovati a Burgess shale[6]. In questo sito si sono trovati una serie di “strani” animali estinti da milioni di anni. Il loro scopritore originario, Walcott, ne diede un’interpretazione ortodossa poi rilevatasi inesatta. Ora, possiamo noi ammettere che a Burgess shale siano stati trovati veramente animali “nuovi” e “strani” rifiutando l’interpretazione classica di Walcott? Ovviamente, e infatti molti lo hanno fatto, arrivando a un’analisi più veritiera di quelle forme di vita. Questo esempio illustra la questione decisiva che abbiamo citato sopra: la scoperta esiste di per sé, non dipende affatto dall’interpretazione che ne viene data. Gli animali del giacimento fossile stavano lì da milioni di anni e la loro natura non dipendeva certo dall’interpretazione datane da un curioso mammifero bipede nato molto dopo che si erano estinti. Occorre dunque separare le scoperte oggettive, i progressi della scienza, dalle visioni che di essi si danno, fossero anche gli stessi scopritori a fornirne l’interpretazione. Non bisogna negare che alla scoperta facilmente rimane attaccata, in parte o totalmente, l’interpretazione originale, e che dunque il rischio di eclettismo non è facilmente superabile. Solo una visione generale permette di organizzare ogni scoperta secondo una struttura valida e utile.

Chiarito questo punto, risulta agevole servirsi di autori e teorie che paiono in contrasto tra loro. È come se questi studiosi avessero fatto delle foto al colpevole di un delitto, ma essendo poco pratici di fotografia, avessero immortalato solo un pezzo del soggetto. Sta a noi connettere tutti questi particolari, che, isolati, non hanno senso o sono addirittura svianti, per arrivare a un’analisi sensata. È un compito un po’ pericoloso. Per questo si adatta bene allo spirito del nostro tempo.

6. Sintesi della ricerca

Nella prima parte, Conoscenza come coevoluzione, tracceremo una teoria del rapporto tra conoscenza e sviluppo evolutivo, cercando di mostrare che lo sviluppo delle varie forme di materia segue le stesse leggi.

Nella seconda parte, Riflessione e riproduzione, discuteremo quali novità ha comportato nella rappresentazione del mondo esterno, la nascita della materia cosciente, cercando di sviluppare la teoria del riflesso oltre la sua interpretazione meccanicista.

Nella terza parte, La coscienza come risultato dello sviluppo economico e sociale dell’uomo, affronteremo, da un punto di vista sociale, la nascita della coscienza, cercando di evidenziare il suo ruolo nella conoscenza e nella vita dell’uomo.

I. Conoscenza come coevoluzione

1. Materia e coscienza

Il nostro punto di partenza è semplice e molto generale: tutto ciò che “esiste” è parte della materia che costituisce l’universo, in una determinata fase del suo sviluppo. Per quanto ne sappiamo, nel corso dei suoi mutamenti, la materia si è sviluppata in tre forme: materia inanimata, materia organica e materia cosciente. Lo sviluppo di queste forme segue le stesse leggi. Questa è la base che riteniamo necessaria per ogni riflessione filosofica e scientifica e che storicamente è stata definita materialismo. Quanto affermato finora, non significa negare un’esistenza reale a quello che c’è nella nostra testa, alle nostre teorie. Al contrario, significa dare pari dignità a ciò che esiste in senso puramente fisico e a ciò che è una conseguenza del mondo fisico. Pari dignità non vuol dire che, fisicamente, un albero e una teoria siano la stessa cosa, ma che la teoria trae il proprio contenuto dal mondo fisico e che non esistono altre fonti della conoscenza se non la materia stessa nelle sue forme concrete di esistenza. Il funzionamento, la forma, il contenuto della mente derivano dal mondo materiale. Purché si comprenda che cosa sia effettivamente il “mondo materiale”. Come abbiamo osservato, molti scienziati guardano al mondo materiale da sensisti anziché da materialisti e considerano “reale” ciò che esiste nel mondo fisico delle cose e “immaginario” tutto il resto[7]. Ma la nascita della coscienza rende questa posizione assai riduttiva per comprendere la “realtà” dell’uomo. Infatti, che cos’è per la nostra specie il mondo materiale? Solo gli atomi, gli oggetti, o non anche e soprattutto i rapporti con i nostri simili? Le relazioni tra gli uomini sono altrettanto oggettive, materiali delle montagne e dei pianeti. Anzi, sotto il profilo evolutivo sono la realtà primaria, essenziale, da cui deriva la sopravvivenza dell’individuo, ben più importanti delle leggi fisiche e chimiche che pure, ovviamente, regolano la vita dell’uomo in senso biologico. Come ha osservato Dietzgen: “Bisogna estendere il concetto di materia. In esso rientrano tutti i fenomeni della realtà e, quindi, anche la nostra capacità di conoscere e di spiegare”[8].

Nella storia dell’umanità alla conoscenza è stato sempre dato un posto speciale, quasi magico. L’idealismo inteso come il rifiuto di accettare che il nostro pensare è un’attività naturale che convive con tutte le altre e che anzi è in fondo tutto ciò che esiste, è il filo conduttore quasi necessario della filosofia. In ultima analisi non è che il riflesso del ruolo speciale che la coscienza ha giocato nello sviluppo della specie umana. Solo l’uomo, seppure per vie fortemente contingenti[9], ha sviluppato un organo che gli ha fornito la coscienza e la conoscenza cosciente. Anche se la coscienza si è sviluppata seguendo le stesse leggi di ogni altra funzione naturale, essa segna una nuova tappa nello sviluppo della materia. Anche se storicamente parlando è la stessa cosa, non è la stessa cosa gnoseologicamente. È e non è equivalente ai denti dello squalo o alla tela del ragno. L’aura mistica che la circonda ha dunque una spiegazione storica ma anche di classe, visto che molto presto nella storia dell’uomo la conoscenza è stata legata al potere.

2. L’evoluzione

La teoria della selezione naturale venne concepita da Darwin come lo specchio della propria epoca: un lento e inesorabile sviluppo verso il meglio. Già ai suoi tempi c’erano sostenitori dell’evoluzione che rifiutavano l’interpretazione gradualista e ‘liberale’ fornita da Darwin (Huxley per esempio). Nel dopoguerra, Gould e altri hanno dimostrato come la concezione gradualista non sia il modo migliore di analizzare lo sviluppo della natura. I due punti più interessanti della teoria di Gould sono questi: innanzitutto non è vero che la selezione si svolge modificando in ogni momento un pezzetto di struttura dell’animale. Piuttosto le specie animali attraversano lunghissimi periodi in cui non c’è virtualmente cambiamento e poi momenti di brusca transizione in cui, per una serie di ragioni ambientali, una piccola popolazione si trasforma rapidamente in una nuova specie. In secondo luogo non è vero che la vita parta da una specie o da un phila per arrivare a una ramificazione. È invece il contrario: l’esplosione di forme di vita iniziale, quella fissata nei fossili del Cambriano, non ha eguali nella storia. Da allora gli animali si sono andati differenziando all’interno di pochi piani anatomici definiti, selezionati a partire da un vasto numero iniziale. Per fare un esempio: tutte le centinaia di migliaia di specie di insetti che si conoscono sono molto più simili tra loro di due specie animali del periodo Cambriano. È come se la natura avesse indetto una gara iniziale e ricompensato i vincitori permettendo la loro differenziazione fino al turno seguente ovvero fino alla distruzione di massa successiva. Questo è il vero modo con cui le specie si sono evolute[10]. Gli adattamenti dell’animale rispecchiano le sue esigenze biologiche che sono legate al funzionamento oggettivo del mondo. L’uomo, in quanto creatura cosciente, può analizzare questo funzionamento. Gli altri animali possono solo acquisirlo. Gli adattamenti evolutivi incorporano conoscenza in modo incosciente. Per costruire aerei, elicotteri e deltaplani l’uomo ha dovuto capire le leggi della fluidodinamica. Nelle ali degli uccelli queste stesse leggi si sono cristallizzate lungo milioni di anni di evoluzione. L’adattamento è dunque una forma di conoscenza lenta e inconsapevole che riproduce nelle strutture dell’animale le leggi oggettive della natura[11]. È normale che gli scienziati studino le strutture degli animali per capire qualcosa sul mondo, perché queste strutture rappresentano questo mondo. L’idrodinamicità di un pesce o di un cetaceo, la forma delle ossa di un uccello, il letargo degli orsi, tutte le strutture e i comportamenti animali riflettono il modo di essere della realtà, ovviamente in modo approssimato. Non c’è mai una perfetta corrispondenza, altrimenti non esisterebbe evoluzione. Gli animali sono sempre entità in movimento che si portano dietro un retaggio di molti passati. Le loro strutture riflettono non la realtà di oggi ma anche la realtà di tutti i periodi storici che la specie e i suoi antenati hanno attraversato. Per questo le balene hanno le braccia e l’uomo la coda (atrofizzate). Gould ha ricordato che la ridondanza è una caratteristica essenziale dell’evoluzione, è la riserva a cui gli animali attingono quando occorre. Un certo organo può sembrare del tutto inutile, ma in base a certe circostanze si può modificare, nel corso del tempo, salvando la vita al suo possessore. Quello che comunque è l’aspetto basilare di questo processo è che gli animali incorporano conoscenza in modo inconsapevole attraverso l’evoluzione. Si adattano in modo ovviamente non cosciente al mondo. Ha ragione dunque Lorenz quando sostiene che gli esseri viventi e il mondo sono di fronte gli uni all’altro come due specchi, che si rimandano continuamente la rappresentazione di sé. Questa idea ha una conseguenza gnoseologica straordinariamente importante. Spetta a Lorenz il merito di aver esplorato tra i primi questa conseguenza che si può sintetizzare così: la coevoluzione fornisce una base solida, inattaccabile, alla teoria gnoseologica del riflesso. La coevoluzione spiega che le strutture cognitive di ogni animale sono il mondo, sono la realtà obiettiva organizzata e sviluppata da millenni di evoluzione. Il nostro cervello ha come unica fonte della conoscenza il mondo perché esso stesso è il mondo, ne è una rappresentazione biologica evolutasi nell’interazione tra specie e ambiente. Esso è il risultato oggettivo dell’incontro di “strati” di materia che a un diverso livello di sviluppo e di esistenza, interagiscono combinandosi. Con la coevoluzione dunque, il materialismo acquisisce una fondazione storica e biologica: la nostra conoscenza riflette la realtà perché si cristallizza in qualcosa che a sua volta rappresenta la realtà, in strutture che si sono formate sulla base della realtà stessa. Come è noto Lorenz ha tentato di utilizzare questa tesi per appoggiare la teoria della conoscenza di Kant. Sebbene a nostro giudizio non riesca in questa operazione, arriva a una conclusione del tutto condivisibile: dato che la conoscenza si svolge sempre nell’interazione di realtà e strutture cognitive dell’animale, in ogni singolo momento esistono una sorta di a priori, che però evolvono anch’essi nel tempo. Considerando un certo istante nel tempo, fotografiamo lo sviluppo di un certo animale in una certa fase. Le strutture che l’animale ha in quella fase sono ovviamente innate, nel senso che le ali o le zampe o le convoluzioni del sistema nervoso, sono in quel momento un dato, un qualcosa di immodificabile. Le strutture e i comportamenti degli animali sono dunque, in un certo momento, veramente innati[12]. Per quanto riguarda la teoria della conoscenza questo significa che il cervello non è una tabula rasa. Poiché queste strutture si evolvono in altre strutture, in ogni singolo momento il cervello non è mai una tabula rasa. Ma se consideriamo tempi significativamente lunghi, anche la struttura più longeva è plasmabile e l’animale torna ad essere in un certo senso una tabula rasa che l’ambiente modella a piacimento. Tutto questo dovrebbe eliminare alla radice la diatriba tra empiristi e razionalisti o tra aprioristi e behavioristi. Il cervello umano non è una tavoletta di cera molle che le esperienze riempiono di contenuti, ma le strutture cognitive generalizzano, organizzano l’esperienza che proviene dal contatto con il mondo fisico e poi sociale.

L’evoluzione si svolge in base alle esigenze che l’animale ha di sopravvivere. Queste necessità, che derivano direttamente o indirettamente dalle leggi oggettive del mondo fisico, si fissano in strutture, comportamenti. Prima, del tutto inconsapevolmente, provocando un adattamento puramente genetico. Poi sempre più creando non delle reazioni automatiche ma piuttosto la capacità di comportarsi in modo corretto rispetto all’ambiente. Nell’uomo questa flessibilità raggiunge il grado di coscienza e l’adattamento diviene razionale, volontario. Ma non bisogna dimenticare che anche oggi il processo produttivo umano consiste in ultima analisi in un adattamento, altamente sofisticato certo, ma pur sempre un adattamento al mondo in cui viviamo, a un mondo che pian piano riusciamo a trasformare, spesso in peggio, ma che pur sempre ci domina. Gli aerei riflettono la stessa realtà incorporata nelle ali degli uccelli. Lo stesso dicasi per i palazzi e gli alberi, per il morso del serpente e per le armi chimiche. La differenza del ritmo dell’evoluzione è però evidente. L’antenato dei delfini che si è rituffato in acqua e ha assunto la forma di un pesce, ha impiegato, per compiere questa eccellente trasformazione, milioni di anni. L’uomo, in cinquanta, è passato dai primi aerei alla conquista della Luna. La conoscenza è dunque coevoluzione. Questo significa che siamo liberi solo nella misura in cui la nostra mente riflette il divenire della realtà e lo organizza in teorie.

3. L’evoluzione delle teorie

L’epistemologia si è sviluppata come disciplina autonoma relativamente tardi nella storia del pensiero. In questo ha seguito le orme dell’economia politica, che è potuta diventare scienza solo quando ha preso corpo il processo produttivo capitalistico, assumendo questo processo come eterno. Ovviamente profonde riflessioni epistemologiche percorrono tutta la storia della scienza e della filosofia, come succede per l’economia. Aristotele ha dato una serie di contributi all’una e all’altra, ma non poteva essere un economista né un filosofo della scienza. Fino al falsificazionismo di Popper, gli epistemologi proponevano delle norme in base alle quali lo scienziato avrebbe dovuto comportarsi (i cosiddetti “standard di onestà scientifica”). Nel migliore dei casi queste leggi non erano che una generalizzazione di comportamenti che qualunque scienziato riteneva ovvi. Popper fu l’ultimo filosofo che tentò l’impresa di proporre delle regole generali per la scienza. Le sue proposte vennero considerate insieme troppo rigide e facilmente aggirabili ed ebbero scarso successo pratico. Un ruolo importante nel declino del falsificazionismo lo ebbero le idee di Kuhn, che fu tra i primi filosofi della scienza a esporre una teoria descrittiva della crescita della conoscenza[13]. Nel suo libro più noto e importante, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Kuhn non propone delle leggi ma descrive le modalità con cui la scienza evolve: la lotta tra paradigmi, il ruolo delle anomalie, gli esperimenti cruciali, la scienza normale. Il tentativo di Lakatos di fondere Popper e Kuhn nel falsificazionismo “sofisticato”, seppure non privo di spunti interessanti, giunse fuori tempo massimo. L’epistemologo come legislatore era scomparso.

Se è grande il merito di Kuhn nell’aver proposto un’epistemologia descrittiva, è una debolezza decisiva della sua teoria il fatto che si mantenga sempre a livello di una semplice descrizione, non arrivando mai alla spiegazione dei nessi causali, al perché l’evoluzione della scienza segua certi percorsi[14]. Lasciata senza una base causale, la teoria kuhniana è inevitabilmente preda di una deriva soggettivista che ha i suoi esiti in Feyerabend e nella sociologia della conoscenza. Lo stesso Kuhn, nel tempo, si spostò verso un’interpretazione soggettivista delle proprie scoperte[15].

Per cercare di fornire questa base euristica, occorre partire constatando la sorprendente similitudine della teoria di Kuhn con la teoria marxista dello sviluppo storico, nonché con la teoria di Gould dell’evoluzione animale[16] Lunghi periodi di evoluzione graduale in cui si accumulano contraddizioni che alla fine portano a una rivoluzione che da vita a una nuova formazione sociale (a un nuovo paradigma, a una nuova specie). Il problema è che mentre è chiaro che cosa faccia sviluppare gli animali (l’evoluzione), e la società (le forze produttive), non è chiaro quale ne sia l’equivalente nella scienza. Questo in Kuhn manca e occorre cercarlo altrove. Nella concezione materialistica della storia.

In ultima analisi, dato che lo sviluppo della scienza partecipa dello sviluppo della società nel suo complesso, le determinanti dello sviluppo e delle rivoluzioni sociali sono anche le determinanti dello sviluppo e delle rivoluzioni scientifiche. Di questo si ha ampiamente prova nella storia della scienza. Tuttavia occorre rilevare che il legame tra struttura della società e le sue forme ideologiche (e scientifiche) è un legame di lungo periodo. Nel breve periodo è riduttivo andare a cercare ogni volta nell’economia una spiegazione delle varie teorie scientifiche (a meno che queste teorie non trattino, appunto, dell’economia). Guardando alla storia nel suo complesso, riconosciamo la coevoluzione e compresenza di rivoluzioni sociali e scientifiche, l’affermarsi di nuove visioni del mondo e di nuovi modi di fare scienza quando una nuova classe sociale si è fatta avanti e ha condotto una trasformazione radicale del modo di produzione o di aspetti fondamentali di esso. Se accettiamo che il motore fondamentale delle rivoluzioni scientifiche è la società, possiamo anche spiegarci perché le stesse anomalie di una teoria fossero insignificanti in una certa epoca e distruttive in un’altra; o perché nessuno scienziato per decenni abbia elaborato critiche a un paradigma poi risultate ovvie.

La teoria di Kuhn ha un altro punto debole nel concetto di paradigma che risulta indefinito, vago. Alla concezione di Kuhn manca una stratificazione di questo concetto, ovvero un’analisi di come esso si organizzi in livelli gerarchizzati che riproducono i problemi della lotta tra paradigmi su scala minore. L’idea che ogni paradigma non sia un monolite ma piuttosto un albero fortemente diviso al suo interno da lotte tra indirizzi, scuole e interpretazioni diverse potrebbe dedursi anche da uno studio empirico sulla scienza[17], ma è interessante notare come questa stratificazione ripercorre alla lettera quello che accade nell’evoluzione animale[18]. Veniamo adesso al lato dell’analogia che tratta del paradigma. Il paradigma ha un parallelo nei tre livelli della materia vivente: è una forma di organizzazione biologica (la specie), della coscienza (le strutture cognitive) e della conoscenza (il paradigma scientifico). Come ci sono battaglie tra paradigmi e dentro i paradigmi, ci sono lotte tra specie e dentro la specie e in entrambi i casi è questa dialettica intestina a creare le condizioni per una trasformazione. La teoria degli equilibri punteggiati infatti spiega che sono piccole popolazioni isolate di una certa specie ad evolversi velocemente verso qual cos’altro, proprio come alcune scuole eterodosse di un paradigma. Infine la situazione preparadigmatica, di magma teorico, ha un corrispondente nella situazione fluida che segue a una distruzione di massa, quando l’esplosione della varietà della natura fornisce la base per una selezione che sospinge i phila superstiti verso la differenziazione (quella che nella struttura della scienza è la stratificazione del paradigma).

Le teorie evolvono nel tempo in modo dialettico, come le specie e le società, alternando periodi di rivoluzione, in cui, in modo violento e repentino, i paradigmi vengono distrutti e sostituiti con altri paradigmi, a periodi di lento sviluppo di scienza normale che accumula le anomalie, le contraddizioni, che forniranno la base per la nuova rivoluzione. Queste contraddizioni non sono una conseguenza di anomalie logiche della teoria, o lo sono in misura trascurabile nel confronto tra paradigmi, sono invece il risultato dell’inadeguatezza della teoria a spiegare la realtà, e soprattutto ad affrontare le situazioni nuove. In questo senso le teorie si estinguono come le specie, quando non riescono più ad assimilare le sfide dell’ambiente attraverso le proprie strutture. Questo parallelo tra teoria dell’evoluzione in natura e nella scienza non è nuovo. Ne parlò anche Popper tentando di difendere una visione gradualista nella scienza e in politica. In questo si considerava il degno erede di Darwin. Secondo noi, il gradualismo, nell’evoluzione animale, come in quella sociale e scientifica, non esiste. La natura procede per salti, come le società e la scienza. Le rivoluzioni sono eventi rari ma necessari, nella società, nella scienza e nell’evoluzione animale. Aveva ragione invece Popper a parlare di “teorie su palafitte”, teorie che possono in ogni momento essere abbattute dalla ricerca empirica, proprio come una specie animale è sempre a rischio che un improvviso cambiamento ambientale (il ricongiungimento dei continenti, una trasformazione climatica) la spazzi via. Il punto è che anche l’esperimento più cruciale non può nulla se le condizioni sociali in cui cade non sono pronte, come le vicende di Galileo mostrano bene. Sebbene il contributo del singolo ricercatore abbia un ruolo importante, non è dalle sue ricerche che viene, in ultima analisi, la crisi o il successo di una teoria. Qesto ci conduce ad un altro aspetto della concezione di Popper: la critica “logica” all’induttivismo. L’induttivismo, come sappiamo dai tempi di Hume, non ha nessuna base logica, ma questa mancanza non limita affatto la funzione dell’induttivismo nelle esperienze animali e umane[19]. Il fatto che non è logicamente fondato dire che “tutti i corvi sono neri”, non significa affatto che nelle strutture delle prede del corvo l’evoluzione non faccia entrare questa caratteristica. Se poi comparisse un corvo bianco, le sue prede non saprebbero come difendersi. L’induttivismo come raccolta di dati da cui generalizzare è il modo normale con cui la materia vivente fa esperienze e in base a cui agisce (inconsciamente o, nell’uomo, secondo raziocinio). Tuttavia, l’uomo, sulla base dello sviluppo della scienza, riconosce i limiti dell’induttivismo, perché la realtà si trasforma incessantemente e le astrazioni valide ieri possono essere errate domani. Gli animali hanno invece un induttivismo genetico o un condizionamento elementare che non permette loro, ovviamente, simili sottigliezze. Ma una teoria è sempre una guida per l’azione, per la trasformazione del reale, e nessuna falla logica vale più del suo ruolo pratico. L’errore dell’empirismo e del materialismo meccanicistico è quello di vedere nella raccolta dei dati già la loro strutturazione. Mentre ogni animale e ogni teoria hanno, in un istante nel tempo, certe strutture con le quali conoscono.

Questi paralleli hanno un significato molto profondo e, secondo noi, ben difficilmente trascurabile: la coevoluzione della natura, della coscienza e della conoscenza non significa solo che esse sono parte di una stessa realtà di cui costituiscono momenti diversi di sviluppo, ma che hanno le stesse leggi di sviluppo. Questo permette di fornire una base evolutiva e “naturale” al materialismo. Il materialismo è la sola filosofia che può costituire il metodo per analizzare la realtà perché essa stessa è il frutto dello sviluppo di questa realtà mondo: il materialismo è la sintesi scientifica, cosciente di come procede e si sviluppa il reale[20].

4. I tre mondi

La coevoluzione acquista ora un senso concreto. Con questo concetto indichiamo l’interazione che c’è tra le forme della materia. Abbiamo prima fatto riferimento a tre livelli della materia: l’esistenza fisica come parte del mondo fisico, la coscienza e la conoscenza. Questi sono anche i tre mondi della omonima teoria popperiana. L’interpretazione che lo stesso Popper ne da è inadeguata[21]. Non connette infatti lo status gnoseologico dei mondi 2 e 3 all’evoluzione della materia vivente sulla terra, lasciando inspiegato il rapporto che sussiste tra la realtà e la coscienza e conoscenza che di questa realtà sono il frutto.

La coscienza interviene sui dati fenomenici acquisiti già “in sede di formazione”, perché la coscienza si accompagna a una certa struttura cognitiva da cui essa stessa fu originata. Ciò significa che il fluire del mondo oggettivo dentro di noi non si accumula casualmente attendendo una successiva cernita e interpretazione. La coscienza analizza e interpreta il mondo circostante in ogni momento, come un radar segnala in ogni istante quello che le sue strutture gli permettono di vedere. In questo “intervento” costante non c’è nessun pericolo di soggettivismo, purché si accetti di fare un’analisi storica, evolutiva e non deduttiva, formale, della coscienza. Gli empiristi vecchio stampo non potevano accettare che le strutture cognitive dessero un’organizzazione già nella fase induttiva del conoscere, e con ciò riducevano l’uomo a meno di un’ameba, dato che perfino nell’ameba c’è una seppur minima forma di organizzazione cognitiva. Il fatto che un animale possa conoscere solo tramite certe strutture non ha nessun rapporto con l’idea che sia il soggetto a creare quanto si conosce, perché un animale non ha nessun potere sulle modalità di funzionamento delle strutture cognitive della sua specie, più di quanto ne abbia sulle forme di locomozione o di riproduzione. L’evoluzione fornisce a ogni animale le strutture che gli permettono di assimilare le esperienze. Le esperienze sono l’impatto dei processi oggettivi su queste strutture. Un’eruzione vulcanica può avere come spettatori una pietra, che si limita a scaldarsi al passaggio della lava, una lumaca, che sentendo il calore della lava tenta di allontanarsi, e un uomo che vede la lava e riflette su cosa sta succedendo (magari interpreta l’eruzione come l’ira degli dei). Lo stesso fenomeno naturale ha effetti diversi su forme di vita diverse. Questo non va confuso con una visione soggettivista. Il mondo della conoscenza umana è formato da tutte le esperienze dell’uomo che poi si riflettono nelle sue idee.

La teoria classica del riflesso parlava di copie. In sé il termine non è eccellente, perché ricorda un processo tecnico di duplicazione passiva, una fotocopia. Ma non è certamente un problema terminologico. Una volta stabilita la natura di queste copie sarà risolto il problema gnoseologico che stiamo affrontando. Per il materialismo queste copie sono una rappresentazione dei fenomeni e dei processi reali nel cervello dell’uomo. Sono l’organizzazione che la mente umana fa dei dati sensibili. Questa organizzazione ha dunque una fonte (i dati sensibili e, in ultima analisi, la realtà), e una forma di sistemazione (le strutture cognitive, la memoria, la coscienza, l’inconscio). Ma non c’è nessuna divisione assoluta tra i dati sensibili e la loro strutturazione. Tanto l’occhio che il cervello che la mente sono il risultato degli stessi processi evolutivi, ogni parte della catena della conoscenza coevolve con le altre. Dunque anche le strutture della conoscenza vengono dall’evoluzione, non hanno un qualcosa di trascendente. Fin qui il processo descritto è simile in tutti gli animali: le strutture cognitive servono, e perciò sono evolute in quel modo, a organizzare la conoscenza. La conoscenza che in un dato momento un animale ha è dunque esperienza organizzata. Significa questo che questa conoscenza è, per usare una formulazione classica, l’unione di oggetto e soggetto? Quest’idea è accettabile solo se si parte dal presupposto che lo stesso soggetto è parte del mondo oggettivo in una certa fase di sviluppo. Ovviamente possiamo ben distinguere tra uno scienziato e un elettrone, ma il cervello e la mente dello scienziato non vengono da un’altra dimensione[22]. Il modo con cui lo scienziato “vede” e conosce l’elettrone dipendono dall’evoluzione che l’uomo ha avuto. Quindi in questo senso l’esperienza organizzata e immagazzinata nel cervello è l’unione di oggetto e soggetto, di un processo oggettivo e di una struttura che permette, a questo processo, di essere significativo per l’animale che lo esamina. A questo punto niente di più facile, per un idealista, che arrivare alla conclusione che è allora il soggetto a creare il processo, e che quel processo esiste solo tramite l’esperienza e la strutturazione che ne dà chi lo esperisce. Ma questa conclusione è indebita. Per tornare all’esempio che si faceva, l’eruzione vulcanica non ha nessun rapporto necessario con l’uomo o la lumaca. Infatti ci sono state eruzioni prima della nascita dell’uomo e ce ne sarebbero anche se non ci fossero più uomini sulla Terra. Ovviamente quando l’uomo non era ancora comparso, le eruzioni non esistevano “per lui”. Ma questo è irrilevante per l’esistenza del fenomeno.

La conoscenza perviene dunque a organizzarsi nelle strutture cognitive delle rappresentazioni dei vari processi che avvengono realmente[23]. I sostenitori della teoria del riflesso adoperano usualmente in modo intercambiabile i termini di copia, riflesso, rappresentazione o riproduzione. A nostro giudizio, mentre i termini di copia e rappresentazione indicano una connessione generica, i termini riflessione e riproduzione indicano due momenti diversi del processo e per questo meritano la particolare attenzione che gli daremo[24].

II. Riflessione e riproduzione

1. Riflessione e riproduzione

La conoscenza elaborata da ogni animale è frutto del funzionamento dei suoi organi, prodotti dall’adattamento all’ambiente. L’evoluzione trasforma costantemente l’esperienza in adattamento, l’azione in organi. In questo senso il singolo animale riflette la realtà nelle sue azioni, mentre l’evoluzione riproduce la realtà nella specie, ovviamente in periodi significativi, attraverso la selezione naturale. Nel caso dell’uomo, riflessione e riproduzione, seppure momenti  teoreticamente distinti del processo della conoscenza, avvengono contemporaneamente.

La riflessione è quel processo per cui il mondo esterno, la realtà obiettiva in tutte le sue forme, entra in contatto con i sensi e l’intelletto dell’animale, compreso l’uomo. Essa è dunque l’aspetto passivo della conoscenza, un processo comune a tutte le specie viventi, comprese le piante, nella misura in cui interagiscono anch’esse con l’ambiente. La riproduzione è connessa alla coscienza come quest’ultima è connessa alla produzione. La riproduzione delle proprie condizioni di vita materiali è la riproduzione del proprio sapere. Non può esserci sviluppo delle forze produttive senza coscienza e coscienza senza sviluppo delle forze produttive: “Noi comprendiamo un fenomeno nella misura in cui siamo in grado di riprodurlo”[25]. Così come la coscienza viene dallo sviluppo delle forze produttive (costruzione di strumenti), così essa crea la riproduzione, ovvero il pensiero astratto[26]. La riproduzione è il processo per cui la riflessione diventa una generalizzazione cosciente, conoscenza astratta dei fenomeni e dei processi. La riproduzione è un’attività esclusivamente umana, perché ha a che vedere con l’elaborazione sociale della riflessione. La riflessione attiene alle strutture date ad ogni animale per via evolutiva, la riproduzione concerne le forme ideologiche storicamente dati, le teorie, i modelli, i paradigmi scientifici, le ideologie. Ogni animale conosce per agire, la conoscenza ha sempre a che fare con l’azione, con una trasformazione del reale. Come ha osservato Piaget: “Il conoscere non consiste infatti nel copiare la realtà, ma nell’agire su di essa per trasformarla”. Negli animali, in quanto non si da sviluppo delle forze produttive, la conoscenza è riflessione. Anche nell’uomo la conoscenza parte con la riflessione della realtà nelle strutture cognitive, ma non termina qui, perché la conoscenza umana si basa su una nuova attività: l’astrazione. L’astrazione non è un processo soggettivo, che ogni individuo apprende isolatamente. È una capacità evoluta nella specie umana che le permette di comprendere la realtà in misura sufficiente a cambiarla. Come un’astrazione, una teoria non è un riflesso immediato della realtà. La teoria riflette la realtà solo mediatamente, solo come riproduzione sociale, astratta della riflessione del reale nella mente[27]. Sia la riproduzione che la riflessione sono processi oggettivi, la riflessione è un processo che accomuna tutti gli esseri viventi e in quanto tale non spiega come la teoria riproduce il reale. Essa indica solo la fonte, l’unica fonte, della conoscenza[28]. La riproduzione è un processo esclusivamente umano ed è legato alle condizioni storiche in cui la mente umana si trova a esistere. L’oggettività della riflessione è fisica, biologica (sensistica verrebbe da dire). L’oggettività della riproduzione è sociale, è legata alla storia dell’uomo e alle condizioni concrete delle diverse società.

2. Teorie di classe

La discussione, ormai annosa, sulla natura di “classe” di una teoria, acquista in tal modo una base concreta. La scienza e l’epistemologia dominanti hanno sempre rifiutato quest’idea. La sociologia della conoscenza e le altre scuole soggettiviste la accettano come corollario del loro assoluto relativismo: non esistono criteri per definire la capacità di una teoria di spiegare il reale, ognuno si sceglie la sua spiegazione per ragioni psicologiche, politiche ecc. Mai è stato spiegato, né dai “realisti” né dai relativisti il perché esistano e il perché si evolvano teorie diverse e opposte concernenti una stessa realtà. Seguendo la logica aristotelica dovremmo adottare un semplice rimedio: poiché o è vera A o è vera non-A, confrontiamo le teorie e eliminiamo quella che contiene l’errore. Seguendo il relativismo di Feyerabend o della sociologia della conoscenza, dovremmo dire che non c’è nessun metodo obiettivo per scegliere una teoria. In un caso, dobbiamo rinunciare a capire la compresenza di teorie diverse, nell’altro caso alla verità. Attraverso la distinzione di riflessione e riproduzione, possiamo preservare l’oggettività così come il carattere sociale della conoscenza. La differenza tra riflessione e riproduzione è essenziale perché rappresenta il salto di qualità della nascita della coscienza.

Come detto, la riproduzione è legata all’astrazione. Solo l’uomo riproduce e solo l’uomo astrae. Laddove ogni altro animale incorpora le leggi scientifiche in modo meccanico nel corso del suo sviluppo[29], l’uomo può conoscerle e riprodurle in modo approssimato nel proprio ambito con le teorie. Una teoria scientifica non è dunque direttamente una copia della realtà. Sia la riflessione che la riproduzione attengono alla mente, alla conoscenza. Mentre però la riflessione è un processo comune a tutte le forme di vita, è la conseguenza dell’interazione tra animale e ambiente, il risultato dell’agire dell’animale, la riproduzione è la conseguenza dell’interazione tra uomo e uomo. Gli altri animali non possono conoscere le leggi scientifiche ma solo essere queste leggi attraverso l’evoluzione; l’uomo non solo può ma deve conoscerle, per poter trasformare il proprio ambiente, producendo le condizioni materiali della propria esistenza. La produzione non riguarda solo la ricostituzione fisica delle risorse utilizzate, ma anche e soprattutto le relazioni tra gli uomini. Producendo le condizioni della propria esistenza materiale, gli uomini riproducono le condizioni della propria convivenza sociale: i rapporti di produzione e le forme ideologiche che da essi derivano. In quanto gli uomini non possono scegliere questi rapporti più di quanto un animale possa scegliere il numero delle zampe con cui nasce, l’aspetto sociale delle teorie non è meno obiettivo della semplice riflessione. La differenza è che è un aspetto storicamente obiettivo, un aspetto la cui oggettività deriva non dagli organi di senso ma dal grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive.

Per questo, la scelta di una teoria, la sua ascesa e il suo declino sono determinati da processi oggettivi. Che senso ha dunque la pretesa di Feyerabend che la concezione galileiana vinse contro l’astronomia tradizionale solo perché Galileo era più furbo, più scaltro, più bravo a vendere la propria idea[30]? Perché le obiezioni contro la teoria tolemaica portavano sul rogo nel sedicesimo secolo ed ebbero successo nei secoli successivi? Galileo fu un genio della scienza, ma vi furono geni anche nei secoli precedenti, e anche tra i difensori della teoria tolemaica si annoveravano scienziati capaci. La realtà è che ricorrere ad aspetti soggettivi non spiega nulla di importante nello sviluppo della scienza.

La società condiziona le scienze in due modi: creando le risorse umane e tecnologiche a loro disposizione (per esempio il telescopio di Galilei) e creando le forme ideologiche sulla cui base gli scienziati procedono. Il diverso rapporto con il processo produttivo che le scienze hanno spiega l’importanza del condizionamento di un aspetto o dell’altro. Laddove il ruolo fondamentale delle scienze naturali è sviluppare le forze produttive, le scienze sociali servono a dare un senso all’azione delle diverse classi connesse tra loro dai rapporti di produzione. Esse permettono alle diverse parti di farsi una ragione del conflitto sociale e di trovarvi il proprio posto. Per questo, vi può essere una stessa teoria fisica in due società diverse (perché in entrambe aiuta lo sviluppo delle forze produttive) mentre in una società divisa in classi non vi potrà mai essere una sola teoria economica o una sola filosofia.

Le teorie scientifiche hanno dunque tutte uno stesso valore oggettivo se intendiamo la loro derivazione ultima dalla realtà Ma questo valore oggettivo, ineliminabile, è relativo. Infatti, sotto il profilo dello sviluppo delle forze produttive, “panta rei”, la materia si trasforma incessantemente, sorgono nuove tecniche e tecnologie con cui studiare la natura, sorgono nuovi fenomeni o ne vengono scoperti altri. Sotto il profilo dei rapporti di produzione, si muove la società, cambiano le sue esigenze sociali ed ideologiche. In quanto la connessione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione non è diretta, meccanica, non si può desumere da questo sviluppo l’automatico progresso delle forme ideologiche della società. “Tecnicamente”, gli stermini nazisti sono “superiori” a una rissa tra due orde primitive. Da questo a trarne indicazioni sul “progresso” tout court della società ce ne corre. È inutile magnificare le meraviglie create dall’evoluzione sociale (le forze produttive), finché esse non apparterranno a tutta la società, ovvero finché non cadranno gli attuali rapporti di produzione.

3. La riproduzione come conoscenza astratta

Avendo esposto i rapporti esistenti tra riflessione e riproduzione, si può affrontare lo specifico processo della riproduzione, ovvero quanto c’è di specificamente umano, cosciente, nel rapporto tra il soggetto che conosce e la realtà oggettiva. Con il termine riproduzione ci si riferisce in primo luogo a un processo di scambio organico con la natura grazie al quale la specie può alimentare la propria evoluzione. Nel processo di riproduzione l’uomo modifica la natura secondo i propri bisogni e in accordo con le leggi del mondo reale. La riproduzione come conoscenza astratta è sempre legata alla riproduzione concreta, pratica. Le modalità della riproduzione sociale  dell’esistenza degli uomini decidono delle modalità della conoscenza scientifica quale forma ideologica peculiare che attiene il rapporto dell’uomo con il suo processo evolutivo. L’uomo riproduce nella teoria come produce nella società. L’astrazione che il pensiero compie per arrivare alle teorie segue le leggi di sviluppo che caratterizzano i rapporti sociali di produzione. La riproduzione scientifica del mondo è il primo passo per la sua riproduzione concreta, reale. Dalle scoperte si passa alle invenzioni. In entrambi i casi il potere astraente della mente umana coglie una legge naturale e ne trae vantaggio ai fini dello sviluppo delle forze produttive. Scoperte e invenzioni sono riproduzioni di una realtà oggettiva. Sono riproduzioni creative perché l’uomo ha la capacità di astrarre dai singoli fenomeni per giungere a una comprensione astratta, generale del funzionamento della natura. Il treno o la teoria della gravitazione sono astrazioni delle leggi oggettive della natura. Esse sono mantenute finché permettono lo sviluppo della vita sociale, e vengono abbandonate quando lo sviluppo umano complessivo arriva a nuove e superiori astrazioni. Questo parallelo rende bene lo status gnoseologico delle teorie. Un battello a vapore non perde la sua oggettività perché esistono le navi a propulsione atomica, viene semplicemente superato. Lo stesso vale per le teorie scientifiche. Astrazioni relativamente corrette un tempo e oggi sorpassate dallo sviluppo della società e della scienza. Il fatto che le teorie, come un prodotto tecnologico, siano costruzioni umane non diminuisce affatto la loro oggettività, la rende storica. L’uomo conosce la realtà secondo modalità storicamente date, perché l’atto del conoscere è propedeutico a una pratica di trasformazione, ne deriva. Le teorie, in ultima analisi, sono il prodotto del grado di sviluppo raggiunto delle forze produttive. In quanto l’uomo produce coscientemente le condizioni della propria esistenza, la sua conoscenza non è più solo passiva, ma attiva, riproduttiva. L’uomo riproduce se stesso coscientemente, elevandosi al di sopra della natura. In quanto riproduce nella pratica le condizioni materiali del suo mondo, riproduce le sue leggi nella propria mente. La riproduzione della conoscenza implica lo stadio dell’evoluzione cosciente, la coevoluzione di società umana e natura, laddove l’evoluzione passiva, inconsapevole dell’animale si limita alla sua riflessione significa. L’animale incorpora le leggi naturali semplicemente sopravvivendo. Solo l’uomo conosce.

Abbiamo accennato alla rapporto tra astrazioni reali e astrazioni scientifiche. Si tratta di una questione centrale della teoria della conoscenza, in specie materialista. La teoria dell’astrazione determinata è la sintesi, in campo materialista, di queste ricerche. Marx la espose nella celebre Introduzione del ‘57 che non volle includere nel suo primo libro importante di economia perché troppo “metodologica”, preferendole una breve prefazione di carattere bio-bibliografico[31]. La teoria dell’astrazione determinata può sintetizzarsi come segue: la capacità di astrarre è un prodotto della nascita della coscienza, frutto dell’evoluzione della specie umana. Ma questa capacità “naturale” dell’uomo si svolge in determinate condizioni storiche. Ogni teoria è astrazione (del resto, notò Marx, “ogni teoria sarebbe superflua se l’apparenza delle cose coincidesse esattamente con la loro essenza”), ma ciò che conta come la singola teoria astrae. Torniamo, come si vede, alla differenza tra riflessione e riproduzione. Per il materialismo non solo la realtà oggettiva esiste, ma il suo sviluppo si riflette in modo oggettivo, necessario nella scienza. Le rivoluzioni che avvengono nel mondo reale, il mondo 1 di Popper, determinano, in ultima analisi, le rivoluzioni nella scienza e nella coscienza. Quando la scienza arriva a concepire una nuova astrazione essa non fa che riprodurre, ripercorrere nel cammino del pensiero, un’astrazione che si è prodotta nel reale. Si tratta tuttavia di capire che cosa bisogna intendere per cambiamenti del mondo 1. Essi non sono solo modificazioni della natura ma anche e soprattutto della società. Per l’uomo il mondo 1 non è tanto la Terra, ma soprattutto le relazioni che intesse con i suoi simili. La nostra specie ha trasformato il suo rapporto con la natura e l’universo a partire dal modo con cui essa vive e riproduce la propria esistenza. Lo sviluppo delle forze produttive ha modificato il rapporto tra l’uomo e la natura. Questo sviluppo oggettivo è la fonte dello sviluppo della scienza.

Questo processo fornisce la spiegazione del modello kuhniano di crescita della conoscenza. Come si è ricordato, tale modello è molto efficace nel descrivere come si svolge la storia della scienza, ma in nessun modo spiega questa storia. La spiegazione è da ricercarsi nello sviluppo delle forze produttive. Direttamente, questo sviluppo mette a disposizione nuove risorse, nuovi strumenti per capire il mondo. Indirettamente, lo sviluppo delle forze produttive permette la nascita di nuove filosofie, nuove epistemologie, che rappresentano lo sviluppo oggettivo e permettono di superare i limiti delle vecchie concezioni. La fisica moderna è migliore di quella aristotelica perché le forze produttive sono enormemente più sviluppate e questo ha permesso telescopi e acceleratori di particelle, nonché i paradigmi e i modelli con cui si fa scienza oggi. Come già detto, questo sviluppo non ha nulla di lineare, né implica per necessità un costante miglioramento della vita umana. Ad ogni modo è la crescita delle forze produttive che costituisce il terreno dello sviluppo della scienza. Dove la riflessione è una semplice presa di contatto con il mondo, la riproduzione è un’astrazione, una generalizzazione cosciente dei processi di tale mondo.

4. Una nota su riflessione e riproduzione: Hume e Kant

L’analisi del concetto di astrazione deve confrontarsi con il “problema di Hume”. L’empirismo riduce la teorizzazione umana alla constatazione di una ripetizione di eventi: ogni giorno il Sole sorge, ergo il Sole sorge tutte le mattine. Hume fece notare che la semplice ripetizione di fenomeni non conduce a una teoria. Infatti noi oggi sappiamo che verrà un giorno in cui il Sole non sorgerà più. Inoltre la scienza non può descrivere la semplice congiunzione di due eventi, ma deve trovare un nesso causale. Se si osserva ogni mattina il passaggio di un treno proprio allo spuntare del Sole, applicando meccanicamente il metodo baconiano, si potrebbe concludere che il passaggio del treno è legato al sorgere del Sole, anzi si potrebbe concludere che il treno fa sorgere il Sole, “post hoc ergo propter hoc”. Ma quale teoria spiega questa relazione? Bisogna discernere relazioni causali in mezzo a semplici concatenamenti di fenomeni. La profonda critica che Hume fece all’empirismo sfociò nell’abbandono del concetto di causa e, in ultima analisi, nell’abbandono del realismo. Kant, cercando di difendere le conquiste scientifiche newtoniane dalle pretese della metafisica, si concentrò su un aspetto particolare del problema di Hume: il problema della conoscenza dei concetti astratti, i noumeni. Secondo Kant possiamo ben conoscere i fenomeni, il mondo che ci circonda nel suo livello più concreto, ma non possiamo conoscere le cose in sé, che pure esistono. Le categorie, senza le quali la conoscenza non è possibile, sono solo dentro di noi, noi le imponiamo a una mole inerte di dati che proviene dall’esperienza. In un certo senso l’intelletto umano ha una funzione maieutica: tira fuori dalla natura quello che essa ha in sé in forme approssimate, confuse. Il punto della discussione è, ancora una volta, la natura delle astrazioni scientifiche: i noumeni sono conoscibili o sono inconoscibili, restando le categorizzazioni, un processo soggettivo?

Il punto centrale nel problema dell’astrazione è il concetto di causa. L’esistenza di cause oggettive che producono determinati fenomeni permette all’astrazione di avere una base oggettiva. Le rotative che producono mille copie di una certa rivista producono oggetti materialmente tutti diversi. Con un microscopio si potrebbe facilmente verificare l’esistenza di piccole differenze, tra le mille copie, dovute a una quantità di fattori. Nondimeno nessuno avrebbe difficoltà ad astrarre da queste piccole sbavature per identificare tutte le copie come diverse specificazioni di un’unica rivista identica. Questa astrazione è compiuta dal soggetto ma è basata su un processo oggettivo: una stessa causa produce uno stesso effetto. L’esempio chiarisce come la possibilità di astrarre dipenda dalle specifiche qualità dei singoli elementi concreti che compongono l’insieme soggetto ad astrazione. Per esempio le piccole differenze tra le copie della rivista sono così insignificanti che non si notano, ma se per una qualsiasi ragione il processo di stampa andasse male, la copia sarebbe inutilizzabile, la quantità diverrebbe qualità e quella copia verrebbe buttata. Anche in questo caso l’astrazione non viene decisa liberamente dal soggetto, piuttosto è l’unico modo che ha la mente umana di operare sui processi oggettivi. Questo lo ammetteva lo stesso Kant. La sua negazione della possibilità di conoscere la cosa in sé entra però qui in crisi, infatti la “cosa in sé” da cui scaturiscono tutte le copie della rivista esiste veramente ed è ben conoscibile, essendo l’insieme dei contenuti della rivista con i quali verranno poi riempite tutte le copie.

5. Il rapporto tra riflessione e riproduzione. L’economia politica

I filosofi hanno tendenzialmente accantonato gli aspetti obiettivi o sociali della riproduzione. Le scuole empiriste guardano solo alla “natura” e non riescono a spiegare perché le stesse percezioni possano portare a teorie opposte. I “razionalisti” di varia estrazione criticano questo meccanicismo gnoseologico, facendo notare che i fatti vengono collezionati a partire da una teoria, che bisogna sapere come e cosa osservare prima di osservare ecc. La teoria della tabula rasa non solo è errata come concezione della crescita della conoscenza, ma perfino come metafora. Una tabula rasa infatti non è affatto indifferente rispetto all’oggetto della conoscenza, è una struttura adatta a organizzare un certo tipo di conoscenza. Il fatto che sia stata scelta dimostra che gli empiristi la consideravano il massimo possibile di neutralità. Il punto è proprio che tale neutralità non esiste. Gli strumenti della conoscenza sono il risultato di una lunga evoluzione, prima animale e poi anche sociale. Senza i milioni di anni che hanno condotto i primati a divenire coscienti, non si sarebbe mai vista una “tabula rasa” sulla Terra.

Dall’altra parte i relativisti (come i sociologi della conoscenza) negano che la stessa riproduzione sociale sia un processo obiettivo, non un’invenzione del ricercatore. Indubbiamente i due processi non sono fissi nel tempo. L’astrazione, quale riproduzione in potenza, è frutto dell’evoluzione della specie umana. I suoi contenuti sono storici[32]. Tutte le analisi sullo sviluppo della scienza, sulla lotta tra varie teorie e paradigmi, non potrebbero avere una base razionale senza la distinzione qui esposta. Come attribuire un carattere parimenti oggettivo a teorie che sostengono cose opposte?

Prendiamo l’esempio più chiaro e completo, l’economia politica. Come scienza l’economia politica è legata più di ogni altra allo sviluppo del capitalismo, alle sue svolte e alle esigenze che la classe dominante ha rispetto alla gestione del processo produttivo. La teoria ortodossa degli ultimi decenni (l’equilibrio economico generale e i suoi sottoprodotti) descrive un mondo surreale che, si direbbe superficialmente, non esiste, è una favola. Ma in questo caso che ne sarebbe del processo di riflessione? Bisognerebbe ammettere che esiste una fonte della conoscenza al di fuori della riflessione. D’altronde potremmo mettere sullo stesso piano la teoria dell’equilibrio economico generale, la teoria classica inglese, la teoria marxista come teorie che si scelgono per ragioni ideologiche e che non sono migliori o peggiori ma solo soggettivamente preferibili, come i gusti del gelato. Infine si può concedere che tutte queste teorie sono una riproduzione che ha certe determinanti sociali dei processi reali che si svolgono nella società. È il processo descritto da Marx per quanto riguarda lo sviluppo che l’economia politica aveva avuto al suo tempo. Se Ricardo poteva permettersi di analizzare i rapporti di produzione reali del capitalismo, già dopo gli anni ‘30 ciò non era più possibile:

“Prendiamo l’Inghilterra. La sua economia politica classica cade nel periodo in cui la lotta fra le classi non era ancora sviluppata. Il suo ultimo grande rappresentante, il Ricardo, fa infine, consapevolmente, dell’opposizione fra gli interessi delle classi, fra salario e profitto, fra il profitto e la rendita fondiaria, il punto di partenza delle sue ricerche, concependo ingenuamente questa opposizione come legge naturale della società. Ma in tal modo la scienza borghese dell’economia era anche arrivata al suo limite insormontabile. […] L’età seguente, dal 1820 al 1830, è contraddistinta in Inghilterra dalla vivacità scientifica nel campo dell’economia politica. Fu il periodo tanto della volgarizzazione e diffusione della teoria ricardiana, quanto della sua lotta contro la vecchia scuola. Si celebrarono splendidi tornei. […] Il carattere spregiudicato di quella polemica - benché la teoria ricardiana vi serva già, eccezionalmente, anche come arma offensiva contro l’economia borghese - si spiega con le circostanze del tempo. Da una parte, anche la grande industria sta appena uscendo dall’infanzia, com’è provato già dal fatto che essa apre il ciclo periodico della sua vita moderna soltanto con la crisi del 1825. Dall’altra parte, la lotta delle classi fra capitale e lavoro era respinta nello sfondo, politicamente per la discordia fra i governi e l’aristocrazia feudale schierati attorno alla Santa Alleanza, e la massa popolare guidata dalla borghesia, economicamente per la contesa fra capitale industriale e proprietà fondiaria aristocratica […]. Col 1830 subentrò la crisi che decise una volta per tutte.

La borghesia aveva conquistato il potere politico in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta fra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose. Per la scienza economica borghese quella lotta suonò la campana a morto. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica. […] La rivoluzione continentale del 1848 ebbe il suo contraccolpo anche in Inghilterra. Uomini che ancora rivendicavano valore scientifico e volevano essere qualcosa di più di meri sofisti o sicofanti delle classi dominanti, cercarono di mettere l’economia politica del capitale d’accordo con le rivendicazioni del proletariato, che ormai non potevano essere ignorate più a lungo. Di qui il sincretismo esanime, come è rappresentato, meglio che da altri, da John Stuart Mill.”[33] 

È importante capire che l’analisi fatta da Marx di come la natura sociale della riproduzione scientifica cambi nelle varie fasi del capitalismo, è la descrizione di un processo oggettivo. Come il fuoco sotto la pentola porta all’ebollizione dell’acqua così il maturare delle condizioni del conflitto di classe ha modificato il modo con cui l’economia riproduce la realtà. Ciò non ha nulla a che vedere con il rapporto tra l’uomo e la realtà: la riflessione non è affatto cambiata. La mente umana riflette la società nello stesso modo in cui lo faceva cento e mille anni fa. Ma è invece mutato come la società rappresenta e organizza questa riflessione, ovvero come si fa scienza. Il feticismo di cui parla Marx c’era anche in Smith, ma allora era semplicemente il fatto che l’economia politica, per divenire scienza, doveva eternare le condizioni capitalistiche di produzione, considerandole naturali, “normali”. Questo procedimento era ingiustificato da un punto di vista epistemologico, ma aveva una base sociale nel fatto che la funzione storica del capitalismo era progressiva e i teorici del capitalismo potevano legittimamente disinteressarsi ai modi di produzione futuri per analizzare la propria epoca, dato che una trasformazione non era all’ordine del giorno. Diversa è la situazione da quando il capitalismo è diventato un sistema che limita lo sviluppo economico e sociale. Il ruolo dell’economia politica è cambiato con il capitalismo.

Riflessione e riproduzione segnano due stadi del rapporto tra la materia vivente e la realtà. La nascita della coscienza ha prodotto un nuovo rapporto tra animale e ambiente sia in termini di evoluzione che in termini di conoscenza. Non c’è nessun aspetto di questo rapporto che non sia stato profondamente trasformato da questa “novità”. Ma, come si è cercato di dimostrare, queste trasformazioni si svolgono attraverso le stesse leggi che valgono per ogni altro animale. Se un aereo vuole decollare deve rispettare le stesse leggi scientifiche a cui sottostà il volo degli uccelli o delle api. Le leggi di sviluppo della natura, della società e della scienza sono le stesse. L’uomo ha un solo privilegio rispetto alle altre specie: ne è cosciente.

III. La coscienza come risultato dello sviluppo storico dell’uomo

1. Il dibattito sulla coscienza

Nonostante le pretese del creazionismo, l’uomo è una specie animale evolutasi come tutte le altre. Quando si cerca di evidenziare che cosa divide l’uomo dagli altri animali, ed escludendo attributi mistici come l’anima, ci si riferisce alla coscienza, a quella sensazione di esserci che sembra unica dell’uomo. Ma su che cosa sia la coscienza le opinioni sono le più diverse. La scuola comportamentista, che ha dominato la psicologia per buona parte del ventesimo secolo, negava semplicemente che esistesse qualcosa come la coscienza o la mente[34]. Tutta l’attività dell’uomo sarebbe, secondo questa concezione, una risposta meccanica a stimoli ambientali. I cani di Pavlov darebbero il modello per ogni attività umana. Un altro estremo è rappresentato dai teorici della intelligenza artificiale “forte”, una sorta di panpsichismo rivisitato secondo cui presto i computer diverranno coscienti, o, secondo frange estreme della scuola, lo sarebbero già (il che spiegherebbe come mai qualcuno insulti il proprio pc che non funziona come dovrebbe). Vi è anche chi sostiene che la coscienza sia una caratteristica di ogni animale, ma in diverso grado e che dunque l’uomo avrebbe solo la massima intensità di una dote universale. La diversità di opinioni è totale. Per alcuni la coscienza è semplicemente la consapevolezza di sé, per altri è una specie di guida morale, per alcuni una sorta di capacità motoria. Molti studi hanno affrontato il problema da un punto di vista storico ed evolutivo (la nascita della coscienza), ma anche qui i dissidi sono profondi. Si va da chi ritiene che la coscienza accompagni l’uomo da milioni di anni a chi sostiene che essa è sorta non più di qualche migliaio di anni fa. Questa babele di teorie e definizioni è difficilmente appianabile con qualche tipo di prova. Lucy, l’esemplare di australopiteco trovato da Johanson, o le famose impronte di Laetoli, hanno potuto illustrare il bipedismo umano come una caratteristica molto atavica dello sviluppo degli ominidi e questo ha portato alla vittoria di una teoria del bipedismo anteriore alla encefalizzazione. Ma sicuramente non si trovano “resti” della coscienza. Certo, ci sono le produzioni umane (armi, pitture, costruzioni ecc.), ma possono essere interpretate in modo molto diverso. L’altro approccio che tipicamente viene seguito a proposito della coscienza è quello funzionale: a che cosa serve la coscienza? In questo modo si tenta di chiarire, per prove ed esclusioni, il suo vero ruolo nella vita umana. Proveremo ad affrontare la coscienza in entrambe le prospettive: prima nell’atto della sua nascita e del suo sviluppo, successivamente per appurare la sua funzione nella nostra specie, partendo dal presupposto che la coscienza ha un ruolo fondamentale per la teoria della conoscenza che stiamo sviluppando.

2. La nascita della coscienza

Come aveva ipotizzato tra i primi, Engels[35], all’origine della coscienza vi è il bipedismo stabile, sorto in una popolazione di ominidi africani. La vista stereoscopica e l’uso evoluto delle mani, retaggio della vita arboricola, avevano creato un’encefalizzazione sufficiente ad iniziare la costruzione di attrezzi a un livello già superiore a quello che osserviamo negli altri primati. Il bipedismo stabile portò questo processo al centro dell’evoluzione della specie, dando origine a una coevoluzione dialettica di straordinaria velocità, quella tra mano e cervello. Le mani potevano creare sempre più cose, ma necessitavano di un coordinamento sempre migliore. Il cervello forniva questo coordinamento sviluppandosi e aggiungendo al proprio operare sempre nuove funzionalità. La coevoluzione in sé non ha nulla di particolare, l’evoluzione non esiste mai per organi o parti separate, ma opera sempre nell’organismo e perfino nella specie come una totalità. La particolarità di questa coevoluzione è che ha portato allo sviluppo di facoltà che permettevano di aumentare le risorse a disposizione della specie. Il cervello e le mani, tramite il lavoro associato, potevano modificare l’ambiente in modo consapevole. Lo sviluppo volontario di risorse vitali segna il nodo decisivo. Se un branco di leoni trova, girovagando per il proprio territorio, una valle piena di mandrie di erbivori grassi e lenti, avrà accresciuto enormemente le proprie risorse vitali, ma questo sviluppo resterà sempre legato alla sorte, che potrebbe mutare in ogni istante. Momenti di abbondanza e carestia sono normali in natura, ma la situazione dell’uomo in fieri era diversa. Esso cominciava a rendersi indipendente dalla natura, cominciava a creare partendo dalla natura, anziché attingere semplicemente dall’ambiente. La nascita della coscienza è legata allo sviluppo delle forze produttive[36]. A un certo punto l’uomo è riuscito a rendersi indipendente dalle condizioni immediatamente naturali della propria esistenza. L’evoluzione della specie ha raggiunto allora la possibilità di ridurre il tempo di lavoro socialmente necessario, ovvero la quantità di lavoro sociale medio che, moltiplicata per la popolazione attiva, è necessaria a creare le risorse che permettono di riprodurre le condizioni materiali di esistenza di tutta la comunità. Questo processo è totalmente nuovo nella storia. Molti animali “lavorano” poche ore a settimana e in periodi favorevoli non fanno quasi nulla per mesi, ma in ogni caso la quantità di lavoro erogato non è un fattore su cui abbiano il minimo controllo. L’uomo cominciò a staccarsi da queste condizioni, cominciando a creare le proprie risorse. Questo è il processo che ha dato il via alla nascita della coscienza. Le precondizioni fisiologiche si erano formate nel corso della coevoluzione mano-cervello. Inoltre questa coevoluzione aveva portato la conoscenza al centro della strategia della sopravvivenza. Tutti gli animali minimamente complessi imparano dall’esperienza, e molti si trasmettono entro certi limiti questa esperienza. L’uomo fu costretto dalle circostanze a mettere la produzione e la circolazione delle informazioni al primo posto tra le priorità adattive. Poteva farlo perché possedeva le strutture cognitive idonee; e poneva lo sviluppo di simili strutture come la priorità fondamentale nell’evoluzione della specie. Ma ancora più rilevante è il fatto che il meccanismo di reinforzo della selezione avveniva qui a velocità maggiore, perché l’evoluzione non si rifletteva semplicemente nella costruzione di organi e comportamenti adattivi, ma veniva introiettata in queste strutture stesse. In sintesi, la coscienza venne creata dallo sviluppo delle forze produttive, dalla produzione ragionata, volontaria delle proprie risorse e dalle spinte all’organizzazione di strutture cognitive sempre più sviluppate. A un dato momento la coscienza divenne una necessità per l’ulteriore sviluppo della specie. Infatti, la produzione volontaria delle proprie risorse richiede la coscienza allo stesso modo con cui la origina. Senza avere coscienza di sé era ed è impossibile coordinare il lavoro sociale (e l’uomo eroga solo lavoro sociale, economicamente parlando). Inoltre la riduzione del tempo di lavoro necessario permetteva di dedicare più tempo alla conoscenza. Nel tempo questo creò una divisione sociale del lavoro, con la nascita delle caste depositarie del sapere che furono il primo passo verso la nascita dello Stato.

Lo sviluppo delle forze produttive richiedeva il lavoro associato, l’interazione superiore tra i membri dell’orda primitiva. La coscienza permetteva questa nuova forma di relazione. Essa permise anche una nuova forma di conoscenza, la conoscenza astratta, il processo di generalizzazione dell’esperienza. Solo distinguendo tra sé e il mondo, solo arrivando a concepire sé come soggetto altro dal mondo, solo divenendo coscienti si può arrivare alla conoscenza astratta. Nessun animale può dire “nessun animale”, un’affermazione astratta, generale, frutto del tipo di evoluzione che l’uomo ha avuto. Gli animali hanno una conoscenza sempre particolare, specifica e immediata, che si fissa nella propria specie solo per mezzo dell’evoluzione biologica[37]. L’uomo possiede la capacità di astrarre, ovvero di sintetizzare l’elemento comune nei vari fenomeni. Questa capacità è stata una necessità nello sviluppo della specie, dovuta appunto alle necessità della creazione cosciente delle proprie risorse. Solo l’uomo produce perché solo la conoscenza umana è una riproduzione della realtà, dove la conoscenza animale è solo una riflessione di questa realtà. La conoscenza astratta, è perfino superfluo notarlo, ha retroagito notevolmente sullo sviluppo delle forze produttive soprattutto, all’inizio, per mezzo del linguaggio che altro non è che conoscenza astratta verbale[38]. Il linguaggio a sua volta facilitò il passaggio della conoscenza astratta e la sua stessa creazione. La coscienza, la sensazione di “esserci” e di essere un soggetto separato dal mondo e dagli altri soggetti, è un risultato della specifica strada che ha preso l’evoluzione umana. È un processo che riguarda naturalmente lo sviluppo della specie nel suo complesso[39]. La “coscienza di sé” non è dunque un attributo dell’individuo come monade che per proprio conto si rende cosciente. La coscienza si è prodotta nella specie come risultato del lavoro collettivo dell’intero gruppo. E ancora oggi la coscienza è individuale solo nel senso che ogni individuo sa distinguere (a partire da una certa età[40]), tra sé e gli altri, ma sa anche che esiste come individuo solo in quanto partecipa di un consesso, di un entità sociale di cui è parte.

Il ruolo dell’evoluzione nella nascita della coscienza è ormai riconosciuto, anche se in modo diverso, da molti studiosi. Vediamo alcune citazioni:

 “Quello che io sto sostenendo è che gli uomini possiedono una caratteristica, la ‘coscienza’, come l’abbiamo qui definita, in una misura molto più grande che non le altre specie. Questa coscienza ha fatto la sua comparsa come una inevitabile conseguenza di una particolare strategia evolutiva”[41]

 “la coscienza e più in genere i processi mentali sono da considerarsi (…) il prodotto dell’evoluzione per selezione naturale”[42]

 “Forse, in qualche modo, la nostra coscienza dipende dalla nostra eredità e dai miliardi di anni di evoluzione reale che abbiamo dietro le spalle”[43]

 “La consapevolezza di sé deve aver avuto un elevato valore adattivo per i primati, poiché offre un approccio molto più flessibile alla soluzione di problemi e consente la pianificazione e la previsione, liberando la mente dalle limitazioni determinate dall’ambiente.”[44]

 “La teoria della selezione dei gruppi neuronali estesa afferma che la coscienza ebbe origine come una conseguenza evoluzionistica di certe morfologie e, infine, nelle sue forme superiori, di certe organizzazioni sociali”[45]

 “Seguendo Mead e Harré, Brothers sostiene che ‘l’autocoscienza ha origine nel processo dell’esperienza sociale’ e che ‘solo cervelli inseriti in un contesto sociale sono in grado di generare il tipo di coscienza che implica l’Io’.”[46]

Una posizione “storica” ma leggermente diversa la troviamo in Jaynes. Secondo Jaynes la coscienza avrebbe appena qualche migliaio di anni: “la mente bicamerale è una forma di controllo sociale ed è per la precisione quella forma di controllo sociale che consentì all’umanità di passare dai piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori alle grandi comunità agricole”[47]

Come si vede, vi sono diversi punti di contatto con l’idea espressa nella Ideologia tedesca che la coscienza è il risultato di come l’uomo vive, del suo sviluppo materiale, ovvero delle relazioni che gli uomini instaurano nella produzione materiale della propria esistenza: “la produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini”[48].

Marx mette anche in luce la relazione che c’è tra coscienza e linguaggio: “il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini”[49]. Autori quali Vygotsky e altri hanno concordato con questa visione del rapporto tra coscienza e linguaggio. Già nel 1877 Noiré scriveva: “fu l’attività in comune, indirizzata verso uno scopo comune, fu il lavoro primordiale dei nostri antenati a far nascere il linguaggio e la vita culturale”[50]. Altri sono invece di altro avviso: “la coscienza è principalmente un fenomeno biologico, piuttosto che sociale. Il linguaggio, che è un’istituzione sociale, non ha niente a che vedere con la genesi della coscienza”[51]. Ma come si esplichi la coscienza senza linguaggio è difficile a dirsi.

Vi è anche una certa concordanza di vedute sul fatto che la coscienza sia connessa al pensiero astratto, necessario per il modo con cui l’uomo si relaziona al proprio ambiente (cercando di modificarlo attivamente):

 “la coscienza è una proprietà con cui gli organismi conseguono un rapporto particolare con il loro ambiente”[52]

 “È stato proposto che la coscienza abbia un valore in quanto fornisce una qualche esperienza olistica all’animale.”[53]

 “È un sistema di regolazione globale che poggia sugli oggetti mentali e i loro calcoli.”[54]

 “È una forma di consapevolezza ed è quindi un processo, non una cosa...aiuta ad astrarre, organizzare ed evidenziare mutamenti complessi nell’ambiente...consente di prevedere eventi con grande anticipo...è necessaria per la comunicazione linguistica.”[55]

“La coscienza del neonato è essenzialmente tesa all’esplorazione degli altri esseri viventi... “fine ultimo della mente umana è la comunicazione.”[56]

 “tra le molteplici caratteristiche della coscienza, ve ne è una, la predominanza dell’“astratto”...l’esperienza sensoriale ci fa conoscere dei fenomeni ‘concreti’, mentre i processi mentali superiori traggono, da quei dati immediati, delle ‘astrazioni’.”[57]

 “È la memoria a breve termine che ci permette di avere una coscienza, la quale altro non è che la gestione momentanea e integrata delle nostre percezioni del momento e dei nostri ricordi, cioè della nostra realtà.”[58]

“Possiamo definire la coscienza come la consapevolezza della situazione attuale del mondo circostante, dei contenuti della nostra memoria operativa e di quanto è stato richiamato al momento dalla nostra propria memoria a lungo termine.”[59]

L’ultimo aspetto che è interessante trattare, discutendo della nascita della coscienza e del pensiero astraente, è il rapporto tra soggetto e realtà, ovvero tra animale e ambiente. Tutti gli animali conoscono per mezzo dei propri sensi. La differenza sta nell’elaborazione del dato fenomenico, della percezione. Più l’animale è sviluppato a livello di strutture cognitive, e più il dato fenomenico è solo il punto di partenza del conoscere. Fisiologicamente parlando questo si riflette nella presenza di un cervello sempre più complesso e ramificato. Nell’uomo si può dire che la conoscenza avviene con i sensi solo al livello più elementare dell’input. È ovvio che per scambiare informazioni bisogna parlare e ascoltare, il che significa che bisogna avere orecchie e bocca. Ma i sensi sono, nell’uomo, solo il canale di accesso della conoscenza. Canale per altro sempre più ininfluente, nel senso che orienta sempre meno anche il come della nostra attività sensibile. Per fare un esempio, un uomo privo di vista può leggere un libro con gli altri sensi, avendo le stesse informazioni di chi legge il libro con gli occhi. Abbiamo sempre meno bisogno di percepire direttamente e d’altra parte possiamo farlo sempre meno. Se solo duemila anni fa tutto ciò che uno scienziato studiava lo aveva letteralmente sotto gli occhi, un fisico di oggi non “vede” certo gli atomi. Per non parlare degli scienziati sociali che hanno sempre dovuto far ricorso alla “forza dell’astrazione” (come scrisse Marx). Se parliamo della conoscenza come attività, è palese riconoscere che conosciamo con la nostra mente nel suo complesso, il conoscere è un’attività della nostra mente e del nostro corpo in generale. Non bisogna mai dimenticare che i dati da cui la nostra conoscenza parte, quello che arriva al cervello, hanno un’unica fonte: il mondo, la materia che ci circonda. Al contempo la riflessione di questa fonte nel cervello è solo l’inizio della conoscenza e non avviene in modo casuale. Come visto, in prima battuta la nostra conoscenza è una riflessione del mondo esterno. In questo senso la teoria del rispecchiamento è vera se la si considera il lato fenomenico, sensoriale-biologico, di una teoria della conoscenza complessiva.

Che cosa significa dunque essere coscienti? La religione e spesso anche la filosofia parlano della coscienza con un accento mistico. L’anima, il soffio vitale che una divinità conferisce a un pezzo di creta per trasformarlo in uomo. Questa posizione particolare della coscienza è il riflesso della consapevolezza che l’uomo ha, da sempre, del ruolo speciale che l’essere cosciente ha nella sua vita. Gli Egizi avevano divinizzato il gatto perché, distruggendo i topi che vivevano nei granai, evitava disastrose carestie. La coscienza ha avuto lo stesso ruolo per tutti gli uomini: ha permesso la sopravvivenza della specie umana. La sua nascita è una rottura qualitativa nell’accrescimento della complessità cerebrale. Questo accrescimento era necessario alle prime orde umane per comprendere il mondo circostante e cambiarlo. Funzionalmente, la coscienza permette di coordinare unitariamente tutte le funzioni del cervello e del corpo in vista di uno scopo. Ai fini dell’evoluzione, essa è la capacità di sfruttare le modalità di funzionamento dell’universo per scopi razionali. Per sopravvivere, l’uomo deve coordinare i propri sforzi. Questo è comune a molti animali. La natura e gli scopi di questo coordinamento hanno reso necessario divenire coscienti. Il lavoro associato ha prodotto la coscienza e insieme ne è stato il prodotto.

3. La funzione della coscienza

La coscienza non è necessaria per la sopravvivenza. Tutti gli altri animali ne fanno benissimo a meno. Ma questo è vero anche per altre caratteristiche biologiche. Anche le ali non occorrono a tutti gli animali. Ma se si tagliano le ali a un gabbiano, o a un insetto volante, la loro capacità di sopravvivere viene annullata. Non è dunque da questo semplice confronto che si può desumere la necessità della coscienza per l’uomo. Allo stesso tempo, molte attività anche complesse vengono svolte in modo inconsapevole, come routine in cui il cervello è impegnato a livello quasi vegetativo. Tutto questo però non dimostra che la coscienza serve a poco, al contrario. Dimostra che essa svolge benissimo la sua funzione all’interno della vita dell’uomo. Quando si impara a guidare, ogni gesto viene eseguito in piena coscienza e con estrema attenzione e cautela. Data la novità di ogni sensazione, il soggetto presta la massima attenzione a ogni singolo dettaglio. Ma pian piano l’attenzione si rivolge all’ambiente complessivo in cui l’auto si muove. Le mani e i piedi si muovono da soli, o così sembra. Non si presta più attenzione a come muovere il volante, a come cambiare le marce, ma si osserva il comportamento degli altri veicoli. Questo è un processo comune a ogni lavoro. La coscienza, in quanto permette di comprendere per astrazione la generalità dei processi che il soggetto ha di fronte, permette di concentrare l’attenzione su aspetti più importanti della realtà. Questo è necessario per la specie umana. Mentre gli animali più semplici hanno già la quasi totalità dei comportamenti iscritti nei propri geni e agiscono con un minimo apprendimento, la sopravvivenza dell’uomo è subordinata alla capacità di apprendere e di agire. La coscienza rappresenta il ponte tra la conoscenza e la prassi, tra il pensiero e il lavoro. Per poterlo fare, deve basarsi su un principio filosofico essenziale: l’induttivismo: se una determinata azione diviene una routine inconsapevole è perché la nostra mente ritiene che allo stesso fenomeno si possa rispondere nella medesima maniera. La coscienza permette di apprendere tramite questo innato meccanismo induttivo che poi nel corso dell’evoluzione scientifica viene espresso anche consapevolmente con la nascita del concetto di causa, di astrazione e così via. La coscienza è la capacità di astrarre e dunque di riprodurre il reale nella nostra mente. Ma dopo aver riprodotto il reale nella nostra mente, occorre riprodurlo nel mondo fisico, tramite la prassi. Gli animali, dopo aver fatto esperienza di un fenomeno, non possono riprodurlo. Ad esempio, molti animali vedono incendi e fulmini. La loro mente ha dunque riflesso, con la vista, con l’olfatto, con l’udito, il fenomeno della combustione, come quella dell’uomo. Ma l’uomo dopo aver riflesso il fuoco lo ha anche riprodotto. Dopo averne compreso le caratteristiche generali, lo ha ricreato artificialmente. E quello che fatto con il fuoco l’uomo lo ha fatto con tutti i fenomeni naturali. Per costruire, per produrre le condizioni materiali della propria esistenza, l’uomo doveva astrarre concettualmente i fenomeni del mondo naturale che aveva di fronte. La riproduzione fisica e gnoseologica fanno parte di uno stesso processo. L’astrazione concettuale può sorgere solo dalla costruzione, dalla produzione. L’uomo riusciva a ricreare il fuoco, questo fenomeno naturale, per mezzo del proprio lavoro e della propria intelligenza, riproducendo con la mano quando aveva afferrato con la mente. La coscienza serve dunque a questo, a riprodurre e sviluppare le condizioni materiali dell’esistenza umana tramite il lavoro associato e la conoscenza.

Conclusione. Coscienza e pianificazione

Lei esprime per la prima volta in forma scientifica, chiara e irresistibile, cioè che d’ora innanzi sarà la tendenza cosciente dello sviluppo storico, quello cioè di subordinare alla coscienza umana la forza naturale, finora cieca, del processo sociale di produzione (Dietzgen a Marx)

1. Il posto dell’uomo nella natura

Il paternalismo tipico di molta parte della cultura occidentale verso la natura ha una connotazione chiaramente giustificativa nei confronti dei disastri che le diverse società umane hanno compiuto e stanno compiendo contro le altre forme di vita. Molte religioni razionalizzano una confusa percezione della diversità umana sostenendo l’origine differente dell’uomo, il suo contatto speciale con la divinità, da cui il suo ovvio dominio sul mondo e su tutte le altre forme di vita. Ogni sorta di antropocentrismo deve essere rigettata. Non ha ovviamente nessuna base scientifica. L’uomo condivide la storia di tutti gli altri animali e non c’è nessuna ragione per cui si debba considerare padrone di alcunché. D’altronde è ovvio che in una società divisa in classi, in cui vi sono comandanti e comandati, schiavi e imperatori, servi e nobili, operai e capitalisti, il rapporto dell’uomo con la natura non può che riflettere questa ideologia di dominio. Se nella società umana ci sono gli schiavi, a maggior ragione saranno schiavi tutti gli altri animali. Non per nulla le teorie razziste sostengono che quei particolari uomini (poveri, neri, donne, ebrei, arabi, ecc.) sono delle bestie, sono come bestie. Tutto questo è senz’altro ciarpame, ma non bisogna per questo disconoscere il particolare ruolo che l’uomo si trova ad avere nel mondo. La coscienza ha cambiato radicalmente il rapporto con gli altri animali. In nessun modo questo dà all’uomo uno speciale posto biologico nell’universo, o gli dà la possibilità di superare le leggi naturali solo perché le capisce. Gli dà però una responsabilità oggettiva: quella di preservare la bellezza e la varietà della natura.

2. Il posto della coscienza nella storia dell’uomo e del processo produttivo

La coscienza è stata una conseguenza della possibilità dell’uomo di riprodurre le proprie condizioni di vita. Una volta sorta dal primo sviluppo delle forze produttive, ha permesso a questo sviluppo di accelerare enormemente. La storia dell’umanità può vedersi come una lunga marcia verso la presa di coscienza di sé, delle proprie possibilità, del proprio mondo. Da quando l’uomo ha cominciato a riprodurre materialmente il reale, è cominciato il cammino verso il dominio delle leggi che controllano il processo produttivo, leggi prima esclusivamente naturali, come le stagioni, poi sociali, basate cioè sui rapporti di produzione specifici di ogni epoca. I progressi che la società ha fatto sono stati ragguardevoli, ma nonostante tutta la sua scienza, l’uomo non controlla ancora la propria vita. Il processo produttivo, il motore della società, da cui essa viene in ultima analisi modellata, è governato da leggi che sfuggono al controllo umano. Nel corso dello sviluppo sociale, la coscienza è stata il tramite tra la crescita delle forze produttive e la rappresentazione teorica di tale sviluppo. Il lavoro ha creato l’uomo come lo conosciamo e ha fornito le risorse per il suo sviluppo, la coscienza ha permesso di comprendere questi avanzamenti, rendendoli infinitamente più rapidi. Il lungo cammino verso la consapevolezza delle leggi che regolano la nostra vita, siano esse le leggi della fisica, della biologia e dell’economia non è però ancora concluso, anzi non si è ancora conclusa la sua preistoria. Fino a che l’uomo non si libererà dalla necessità del lavoro per procurarsi ciò che gli necessita per vivere, tutta la sua esistenza sarà condizionata e subordinata a questo. Per prendere il controllo sulla propria vita l’uomo deve regolare la produzione ai propri bisogni e non regolarsi alle esigenze della produzione. In una parola la società deve sostituire all’anarchia delle leggi economiche che la dominano, il dominio di queste leggi tramite una pianificazione cosciente delle risorse sociali. Sebbene questa pianificazione avrebbe giovato l’umanità in tutte le fasi del suo sviluppo, l’arretratezza delle forze produttive la rendeva un’utopia antistorica prima che la rivoluzione industriale e lo sviluppo del capitalismo creassero una unica economia mondiale integrata.

La pianificazione non è altro che la presa di coscienza del funzionamento del processo produttivo. Finora, l’uomo ha subìto le leggi di funzionamento dell’economia come gli altri animali subiscono l’evoluzione. In ultima analisi questo rifletteva il basso livello di sviluppo delle forze produttive. La pianificazione sta all’anarchia del capitalismo come la coscienza dell’uomo sta alla cieca sopravvivenza animale. Benché sia ovvia la considerazione che la conoscenza sia meglio dell’ignoranza, finora la società non ha potuto scegliere tra l’una e l’altra, essendo queste il risultato dello sviluppo economico e complessivo della vita umana. Allo stesso modo, la spinta verso il dominio sul processo produttivo è immanente allo sviluppo economico e seppure con ogni sorta di accidente storico, ha un esito ineludibile. Un esempio valga a chiarire questo punto. Il periodo che va dal 1946 al 1973 è stata l’epoca di crescita più intensa della storia umana. Un boom intenso, durato oltre venticinque anni. Queste erano le condizioni migliori per lo sviluppo del “libero mercato”. Eppure anche in questa ascesa il ruolo della pianificazione cosciente è stato sempre maggiore, con la creazione dello stato sociale, l’intervento dello Stato nell’economia. Tutto questo, seppur in forma distorta, mostra l’esigenza di utilizzare socialmente e razionalmente le risorse create dall’immenso sviluppo produttivo degli ultimi due secoli. Si obietterà che a quel periodo ha fatto seguito un ritorno a un capitalismo più “normale” in cui lo stato sociale è stato distrutto e lo stato imprenditore emarginato. Questo è servito per rianimare i profitti accaparrandosi ex aziende statali a basso costo e peggiorando le condizioni di vita dei lavoratori, ma non ha eliminato il punto centrale: le forze produttive non si sviluppano più come in passato. L’intervento cosciente nelle leggi economiche dovrebbe garantire un maggiore sviluppo. Ma il paradosso è che, nel capitalismo, la forma che prende la socializzazione delle risorse non avvantaggia lo sviluppo economico, può addirittura frenarlo. Questo non è un lavoro di analisi economica e dunque non approfondiremo questi aspetti. Il punto decisivo è, comunque, che come lo sviluppo della nostra specie, tramite la coscienza, è legato allo sviluppo del processo produttivo, così esso determina anche il rapporto tra la società e le leggi economiche, ovvero determina se questo rapporto debba essere di mera subordinazione o di interazione e di conoscenza.

La maggior parte delle scuole economiche nega queste tesi. Esse lo fanno in due modi. Il primo (proprio della teoria dell’equilibrio economico generale) è quello di dimostrare la sostanziale identità di pianificazione e mercato[60]. Il secondo (proprio della scuola austriaca) è quello di sostenere che il mercato crea delle informazioni che con la pianificazione andrebbero perse. I prezzi, fissati dall’autorità, anziché dal libero operare di forze irrazionali, perderebbero la loro funzione regolativa. Il lato sensato di questa opinione è che esistono delle leggi oggettive di funzionamento dell’economia, il che è indiscutibile. Il lato mistico è che si nega la natura storica di queste leggi. Si nega che lo sviluppo della produzione sociale crei in ogni fase della storia umana leggi diverse. Soprattutto si nega che la conoscenza di queste leggi possa fornire un vantaggio: l’uomo dovrebbe conoscere e restare in contemplazione delle leggi, perché sussumerle sotto il suo controllo significherebbe rompere l’equilibrio magico di qualcosa che funziona da solo. Ma la funzione della coscienza nella storia dell’uomo è proprio questo: essa non serve per contemplare i fenomeni della natura e della società, la coscienza è nata dall’intervento attivo dell’uomo sulla natura.

Lo sviluppo del processo produttivo ha avuto come conseguenza lo sviluppo delle teorie scientifiche, di nuovi modi di vedere e di agire sul mondo, e in ultima analisi la possibilità di intervenire razionalmente sul proprio futuro. I primi risultati di questi progressi, la coscienza, il linguaggio, hanno contribuito ai successivi. Molti di questi progressi sono stati ottenuti inconsapevolmente, come effetto del processo. Il controllo sul processo produttivo non potrà essere ottenuto nella stessa maniera. Non verrà mai un giorno in cui l’economia verrà regolata coscientemente come semplice conseguenza dello sviluppo economico. Questa regolazione sarà invece l’esito finale di un processo sociale cosciente che è già cominciato e che durerà nei decenni a venire. Il primo passo di questo processo deve essere la presa di coscienza da parte della maggioranza della società che il processo produttivo gestito anarchicamente sta producendo disastri. Questa presa di coscienza si rifletterà nelle organizzazioni che dovrebbero rappresentare questa maggioranza, che verranno scosse da cima a fondo e trasformate radicalmente. Alla fine emergerà un partito rivoluzionario sintesi del punto più alto di cristallizzazione della coscienza delle esigenze della classe lavoratrice e in ultima analisi dello sviluppo storico. Una cristallizzazione non perfetta, una riproduzione imprecisa, proprio come le teorie scientifiche.

La conoscenza scientifica è la presa di coscienza del funzionamento oggettivo del mondo reale. La selezione naturale è l’inevitabile meccanismo inconscio che domina lo sviluppo della natura, ma anche della società, nel senso che finora l’economia ha funzionato incontrollata. Come la nascita della coscienza segnala un passaggio a una vita pienamente razionale, così la pianificazione segnerà il passaggio a una coscienza immediatamente sociale del mondo che ci circonda e del suo funzionamento.

L’uomo è una nuova forma di organizzazione della materia, è materia cosciente. Nel corso del suo sviluppo creerà una nuova forma di organizzazione della produzione: un’organizzazione cosciente.

L’analisi dei problemi epistemologici che ha attraversato questa ricerca ha mostrato come la materia si sviluppi secondo le stesse leggi e come le diverse forme di materia coevolvano in uno sviluppo complessivo. È toccato in sorte all’uomo sviluppare la coscienza che ci ha fornito la possibilità di riprodurre nelle nostre menti i processi oggettivi, prima fisici e biologici, e poi anche sociali, in cui si svolge la nostra esistenza. Se con la nascita dell’uomo è nata la possibilità di prendere coscienza di questi processi, con la fine dell’attuale modo di produzione nascerà la possibilità di controllare, tramite la coscienza collettiva, la nostra vita.

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NOTE


[2] Come nota Lenin: “le scienze naturali son basate, e sempre lo sono state (spesso inconsciamente), su questa teoria - vogliamo dire la teoria materialistica - della conoscenza” (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo , p. 17).

[3] “The new age economic thinkers come in two flavours. A brave few look forward to a new golden age of prosperity; most, however, predict some form of economic Armaggedon” (The Economist, 18-9-1996).

[4] Lorenz ha scritto: “Ogni persona sana di mente è convinta che i mobili di camera sua rimangano al loro posto anche dopo che essa è uscita dalla porta.”  (K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio, p. 39). Dunque, occorrerebbe constatare, molti filosofi non rientrano nella categoria dei sani di mente.

[5] La dialettica ha subito per decenni un destino tragico, perché è stata legata ai regimi stalinisti che si servivano del cosiddetto “diamat” come ideologia per giustificare la propria posizione bonapartista sulla società. Sebbene molti scienziati sovietici abbiano dato importanti contributi alla scienza moderna, il metodo marxista non è stato sviluppato in nessun modo in questi regimi “socialisti”, è stato invece ossificato, svuotato della sua natura rivoluzionaria e in questo modo è risultato indigeribile a molti scienziati.

[6] Per una approfondita analisi in materia, vedi S. J. Gould, La vita meravigliosa. Ci sono scienziati che lavorano in campi particolari nei quali negare la distinzione tra scoperta e sua interpretazione sarebbe al limite del ridicolo. Per esempio tutti coloro che si occupano di fossili afferrano intuitivamente questa distinzione e per lo più la considerano un’ovvietà. Il famoso scopritore di fossili umani R. Leakey disse una volta: “Io mi limito a trovare i fossili. Lascio agli esperti il compito di dar loro un nome” (cit. in D. Johanson, M. Edey, Lucy. Le origini dell’umanità, p. 133). Lo stesso dovrebbe valere in tutte le scienze. Sfortunatamente invece, la distinzione non appare così ovvia.

[7] Grazie a questa “difesa” del materialismo è facile trovarne delle confutazioni. Ad esempio, Popper ha sostenuto che la gravità è “immateriale e invisibile” e dunque “segna la fine del materialismo” (cit. in AA VV,  L’automa spirituale). Con lo stesso ragionamento, fenomeni quali la recessione, la coscienza di classe o l’ideologia avrebbero distrutto il materialismo già da secoli e la paura (o ogni altra sensazione), anch’essa immateriale e invisibile, lo avrebbe falsificato ancora prima della nascita dell’uomo.

[8] Cit. in Lenin, Quaderni filosofici p. 443.

[9] Sulla contingenza della coscienza vi sono opinioni discordi. Riteniamo la posizione di “puro caso” di Gould (espressa, ad esempio, in La vita meravigliosa) eccessiva, per il semplice fatto che le cose altamente improbabili non succedono mai o quasi mai (e questa è la ragione per cui chi vince la lotteria fa un sacco di soldi). Perché mai l’uomo avrebbe dovuto essere il vincitore del lotto cosmico sulla coscienza? Come notò Engels: “Il fatto che la materia abbia sviluppato dal suo interno il cervello pensante dell’uomo è, per esso, un puro caso, seppure, quando accada, necessariamente condizionato passo per passo. In realtà però è nella natura della materia progredire verso lo sviluppo di esseri pensanti e ciò accade perciò anche sempre necessariamente, quando ne sussistano le condizioni.” (F. Engels, Dialettica della natura, p. 221).

[10] Vi è da notare che il marxismo ha contribuito non poco a rendere coscienti gli evoluzionisti della debolezza del gradualismo. Gould lo riconosce onestamente nelle sue opere. Non è molto noto che Marx ed Engels, che pure stimavano moltissimo Darwin, tanto che Marx voleva dedicargli Il capitale, capirono subito il limite continuista della sua teoria. Lo dimostra tra l’altro, la discussione epistolare che i due ebbero su di un testo quasi sconosciuto, Origine et transformations de l’homme et des autres etres, di P. Tremaux. Questo libro, peraltro debole in molti altri aspetti, proponeva una critica alla teoria delle “lacune dei fossili” (cui secondo Darwin si doveva la spiegazione dei “salti” nella loro anatomia), anticipando buona parte della teoria degli equilibri punteggiati di oltre un secolo. Solo la coscienza nella fallacia del gradualismo poteva spingere Marx ed Engels a occuparsi di un autore così marginale, che però ha anticipato la scienza “ufficiale” di decenni.

[11] Ha scritto Lorenz: “Per il naturalista l’uomo è un essere le cui caratteristiche e le cui prestazioni, compresa l’alta capacità del conoscere, sono un prodotto dell’evoluzione, di quel processo svoltosi per epoche intere nel corso del quale tutti gli organismi viventi si sono trovati a confronto con gli elementi del reale e durante il quale hanno dovuto adattarsi ad essi. Questo evento filogenetico è un processo della conoscenza”. (K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio, p. 25).

[12] Tuttavia, come spiega Piaget, persino il comportamento più innato si svolge solo in presenza di certe condizioni esterne e certe esperienze. C’è dunque sempre un’interazione, anche se di grado ben diverso.

[13] Peraltro si possono trovare concezioni simili in studiosi precedenti. Ad esempio nei suoi appunti di filosofia Lenin cita il fisico Rey che espone una concezione molto simile a quella kuhniana di storia della scienza: “Nella storia della fisica, come in tutta la storia, si possono distinguere grandi periodi che si differenziano per la forma e per l’aspetto generale delle teorie… Ma arriva una di quelle scoperte che risuona in tutte le parti della fisica, perché scioglie un fatto capitale fino allora male o parzialmente noto, e l’aspetto della fisica si modifica: comincia un nuovo periodo” (Lenin, Quaderni filosofici, p. 241).

[14] In questo senso non si potrebbe dire meglio di Cini: “La lettura del celebre libro di Kuhn mi affascinò, e mi fornì al tempo stesso una serie di argomenti, di carattere storico ed epistemologico per articolare meglio le mie idee. Con una riserva però: che a me interessava soprattutto ciò che in Kuhn mancava, cioè l’analisi del nesso fra il contesto sociale e culturale nel quale le rivoluzioni scientifiche si verificano e i mutamenti, apparentemente improvvisi, delle regole del gioco che le caratterizzano.” (M. Cini, Un paradiso perduto, p. 207). Per inciso, è del tutto condivisibile anche la critica che Cini muove a Feyerabend. Non si discute qui estesamente dell’anarchismo metodologico solo perché la riteniamo una filosofia troppo vacua per perderci tempo.

Per altro lo stesso Kuhn ammette la propria mancanza nella prefazione al suo libro: “non ho detto nulla, fatta eccezione per brevi cenni casuali, sul ruolo del progresso tecnologico e delle condizioni economiche, sociali e intellettuali per lo sviluppo delle scienze. Eppure, non è necessario andare al di là di Copernico e del calendario per scoprire che le condizioni esterne possono contribuire a trasformare una semplice anomalia in una fonte di crisi acuta.” (T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, p. 12).

[15] Si dice che un filosofo americano, H. Field, una volta chiese a Kuhn: “Sei un realista?”, “naturalmente” fu la risposta. “ma credi che quando la teoria cambia, cambi anche tutto il mondo?”, “naturalmente” rispose divertito. Questo passo denota tutta la sua confusione filosofica.

[16] Sebbene Kuhn sia stato il primo epistemologo a fornire una descrizione dello sviluppo evolutivo della scienza in generale, in economia era stato preceduto da J. Schumpeter, il quale ha anche il merito di aver approfondito, l’idea di Marx sulla tendenza del capitalismo alla concentrazione del capitale applicandola all’evoluzione dei settori industriali. Ogni settore nasce composto da moltissime piccole imprese. Il tempo seleziona una serie di imprese che con fusioni, accordi, e guerre commerciali arrivano a controllare il mercato. Alla fine un pugno di giganti domina il settore. Questo modello di evoluzione dovrebbe essere familiare. Infatti è analogo al modello evolutivo delle specie animali di Gould e all’evoluzione della scienza secondo Kuhn tanto che gli stessi economisti se ne sono accorti. Fioriscono infatti i modelli di economia industriale che prendono a esempio la biologia e la teoria della selezione naturale. Un’altra conferma che l’evoluzione è un processo che si svolge con le medesime leggi, che si parli di animali, di teorie, di aziende o di modi di produzione.

[17] Cfr. per esempio L. Geymonat, Riflessioni critiche su Kuhn e Popper.

[18] Gould parla spesso dell’albero dell’evoluzione contrapponendolo all’idea di uno sviluppo in linea retta da una specie a quella “superiore”.

[19] Come notò Riedl: “il processo di apprendimento non ha nulla a che fare con argomentazioni logiche” (R. Riedle, Biologia della conoscenza, p. 61). Tuttavia funziona. I limiti dell’astrazione si individuano nella pratica. L’evoluzione ha condotto la zecca ad astrarre da tutte le caratteristiche dei mammiferi e a concentrarsi sulla temperatura dei corpi (37°) e sulla presenza di acido butirrico. Si tratta di un’astrazione corretta? Per la zecca sì, altrimenti si sarebbe estinta. È la sopravvivenza a decidere la bontà dell’astrazione.

[20] Questo vale anche per la mente “l’uomo non ha semplicemente sviluppato un cervello più grande, una memoria espansa, un lessico o un particolare apparato fonatorio, ma ha anche evoluto nuovi sistemi di rappresentazione della realtà.” (M. Donald, L’evoluzione della mente, p. 11). E anche: “lo stesso apparato, mediante il quale conosciamo il mondo esterno, è il prodotto di un tipo di esperienza. Tale apparato viene modellato dalle condizioni predominanti nell’ambiente in cui viviamo, e rappresenta una sorta di riproduzione generica delle relazioni fra gli elementi di questo ambiente, che abbiamo esperito in passato” (F. Hayek, L’ordine sensoriale, p. 237).

[21] Per esempio, Popper esponendo la teoria dei tre mondi, sostiene di essere più che un dualista, un ‘pluralista’ e che potrebbero esistere anche più di tre mondi, solo che, per ora, ne ha pensati solo tre. Questo è doppiamente scorretto. Il fatto che esistano tre mondi non implica nessuna forma di dualismo o pluralismo. L’esistenza oggettiva della materia vivente e poi di quella cosciente, crea nuovi mondi che derivano dal primo, ne rispecchiano le leggi e si sviluppano allo stesso modo. Dunque da un lato, non possono che esistere tre mondi, perché tre sono le modalità di esistenza della materia a tutt’oggi, dall’altro questi tre mondi non rimandano a piani diversi del reale ma solo a una sua evoluzione.

[22] Come ha osservato Lenin: “L’universo è un movimento della materia, retto da leggi, e la nostra conoscenza, non essendo che un prodotto superiore della natura, non può che riflettere queste leggi.” (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, p. 129).

[23] Come ha scritto Lorenz: “tutta la conoscenza umana si fonda su di un processo interattivo mediante il quale l’uomo, in quanto sistema vivente assolutamente reale ed attivo e in quanto soggetto conoscente, si confronta con i dati di un altrettanto reale mondo circostante, che sono l’oggetto del suo conoscere.” (K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio, p. 18).

[24] Marx, nel Poscritto alle seconda edizione del Capitale, si esprime così: “per me il fattore ideale è solamente il fattore materiale trasferito e tradotto nella mente degli uomini” (K. Marx, Il capitale, p. 43). Ritengo, che la scelta di Marx di adoperare due verbi, trasferire e tradurre, (übersetzen e umsetzen), non sia casuale. Questa distinzione è la stessa che viene adottata in questo lavoro. Il ‘trasferimento’ è la riflessione e la ‘traduzione’ è la riproduzione. Un altro autore che divide il riflesso in due passaggi è Garaudy: “La matiére est la réalité première dont nos sensations et notre penseé ne sont que le produit et le reflet” (R. Garaudy, La théorie mathérialiste de la connaissance, p. 21).

[25] F. Albergamo, La teoria dello sviluppo in Marx ed Engels, p. 7.

[26] Lenin esprime questo concetto come segue: “La conoscenza è il rispecchiamento della natura da parte dell’uomo. Ma questo non è un rispecchiamento semplice, immediato, totale, è invece il processo di una serie di astrazioni, il processo della formulazione dei concetti delle leggi, ecc., i quali concetti leggi, ecc. (pensiero scienza = “idea logica”) abbracciano anche in modo condizionato e approssimativo le leggi universali della natura che è in eterno movimento e sviluppo. Qui si danno realmente, oggettivamente tre termini: 1) la natura; 2) la conoscenza umana = cervello dell’uomo (come prodotto più alto della stessa natura); 3) la forma di rispecchiamento della natura nella conoscenza dell’uomo, questa forma sono anche i concetti, le leggi, le categorie, ecc. L’uomo non può afferrare = rispecchiare = riflettere la natura intera, completamente, nella sua “totalità immediata”, ma può solo avvicinarsi eternamente a questo, creando astrazioni, concetti, leggi, un’immagine scientifica del mondo, ecc.” (Lenin, Quaderni filosofici, pp. 168-169). Con il termine rispecchiamento s’intende riflessione. Lenin non pensa a un altro termine per parlare di riproduzione. Parla invece di rispecchiamento non immediato, non semplice ecc. Abbiamo spiegato perché sembra preferibile utilizzare termini distinti, ma ovviamente si tratta di distinzioni terminologiche, non concettuali. D’altronde, in un altro passo Lenin parla proprio di riproduzione: “[i seguaci di Mach] Non riconoscono la realtà oggettiva, indipendente dall’uomo, come fonte delle nostre sensazioni. Non vedono in queste la riproduzione esatta di questa realtà oggettiva” (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, p. 96). La stessa posizione è stata riaffermata più e più volte: “base della gnoseologia del materialismo dialettico è la teoria del rispecchiamento, le cui tesi fondamentali sono i) che l’oggetto del conoscere ha una esistenza obiettiva, ossia indipendente dalla coscienza e al di fuori di essa e ii) che questo oggetto reale, fonte della percezione sensibile, viene rispecchiato (riprodotto) nella coscienza teoretica.” (A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo, p. 25). “La teoria del rispecchiamento è la concezione della conoscenza come processo infinito di approssimazione al rispecchiamento pieno e completo della realtà: la quale è sempre più ricca, concreta e complessa della nostra conoscenza” (Ibidem, p. 30).

[27] In questo processo si può vedere un parallelo con il funzionamento della legge del valore nel capitalismo. In questo modo di produzione, la quantità di lavoro obiettivamente contenuto in una singola merce non determina il suo costo sociale. È il mercato, che componendo la divisione del lavoro, determina ex post la quantità di lavoro sociale effettivamente contenuta nella massa delle merci e poi nella singola merce. Questo significa che parte del lavoro che oggettivamente è stato erogato potrebbe scomparire una volta che alla singola merce viene assegnato il suo valore sociale, mentre in un altro caso il valore sociale potrebbe includere lavoro non erogato per quello specifico prodotto.  L’esistenza socialmente obiettiva non corrisponde all’esistenza obiettiva in senso materiale.

[28] Lenin spiega questo punto riferendosi sia a quella che noi chiamiamo riflessione (“per il materialista le nostre sensazioni sono le immagini della sola realtà oggettiva, esterna, non perché sia conosciuta a fondo, ma in quanto non può esserci e non c’è alcun’altra realtà al di fuori di essa.”, Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, p. 95) sia a quella che abbiamo definito riproduzione (“il problema veramente importante, della teoria della conoscenza, che divide le correnti filosofiche, non consiste nello stabilire qual è il grado di precisione delle nostre descrizioni dei rapporti di causalità (…), ma nel sapere se la fonte della nostra conoscenza di questi rapporti è nelle leggi oggettive della natura o nelle proprietà del nostro spirito, nella sua facoltà di conoscere certe verità a priori ecc.” (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, p. 121).

[29] Il che comunque non è poco, perché studiando queste “incorporazioni” si può dimostrare l’oggettività delle leggi naturali. Se non esistessero leggi oggettive della natura, perché i pesci sarebbero simili ai siluri? (ovvero, perché l’uomo imiterebbe i pesci per fare i siluri?) Se la fluidodinamica fosse una libera invenzione umana vedremmo pesci o uccelli di ogni forma, il che, ovviamente, non è. Ma per quanto gli animali dimostrino, con la propria evoluzione, che queste leggi esistono, resta il fatto che è del tutto fuori dalla loro portata afferrarle. Gli animali le riflettono quando percepiscono i fenomeni, esperiscono la realtà, ma il passo che conduce dal concreto all’astratto è tuttora esclusivo dell’uomo, anche se una forma estremamente limitata di astrazione la ritroviamo nei mammiferi più intelligenti, soprattutto gli altri primati.

[30] Feyerabend dedica le oltre 300 pagine di Contro il metodo a provare questa idea.

[31] Marx scrisse: “Sopprimo una introduzione generale che avevo abbozzato perché, dopo aver ben riflettuto, mi pare che ogni anticipazione di risultati ancora da dimostrare disturbi” (K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Prefazione, p. 3). Ad ogni modo nella Prefazione vi è un accenno al metodo. Infatti parlando del famoso brano in cui sintetizza la concezione materialistica della storia, Marx lo descrive come “il risultato generale al quale arrivai e che, una volta, acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi” (ivi).

[32] A nostro modo di vedere il tentativo di sintesi che Kant compie nella Critica della ragion pura è incentrato su questo problema. Da dove vengono le asserzioni universali (e dunque i noumeni e le cose in sé), se i sensi possono percepire solo aspetti singolari (fenomeni) del mondo? Se d’altra parte l’astrazione viene ad essere una attività soggettiva, scompare ogni forma necessaria della conoscenza. Questa “preoccupazione” di Kant è fondamentale e ci sembra che trovi una sua soluzione nella nostra analisi dell’astrazione. Come nota Lorenz proprio nel difendere Kant: “ciò che viene così astratto corrisponde sempre a caratteristiche che ineriscono in modo invariante all’oggetto.” (K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio, p. 201).

[33] Poscritto alla seconda edizione del I libro del capitale, pp. 39-40.

[34] “[coscienza] è il nome di una non-entità e non ha alcun diritto a un posto tra i principi primi. Coloro che ancora le si aggrappano, si attaccano in realtà a una pura eco” , disse William James, la cui posizione filosofica lo conduceva verso le stesse posizioni del comportamentismo.

[35] Si veda lo scritto di Engels Il ruolo avuto dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia, in cui si espone l’evoluzione dell’uomo secondo le modalità oggi universalmente accettate. Riportiamo una conferma delle idee di Engels da una fonte insospettabile di simpatie per il marxismo: “Soprattutto la mano fornì agli ominidi la supremazia nel corso dell’evoluzione e conseguentemente fu sempre più perfezionata, parallelamente ai circuiti nervosi” (J. Eccles, Evoluzione del cervello e creazione dell’io, p. 15).

[36] Come notarono Marx ed Engels: “Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che vuole: ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza” (K. Marx, F. Engels, L’Ideologia tedesca, p. 8).

[37] A tal proposito ricordiamo la famosa osservazione di Marx sull’ape e l’architetto. Scrive Marx: “Noi supponiamo il lavoro in una forma nella quale esso appartenga esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente” (K. Marx, Il capitale, I, p. 212). Una osservazione analoga la fa Eccles: “Per costruire un’ascia primitiva è necessario avere l’idea del prodotto prima di costruirlo” (J. Eccles, Evoluzione del cervello e creazione dell’io , p. 98).

A tal proposito c’è da notare che anche i paleoantropologi riconoscono implicitamente il rapporto tra coscienza e sviluppo delle forze produttive. Essi infatti chiamano homo tutti i progenitori diretti dell’uomo che hanno costruito strumenti, mentre tutti gli altri, ancora non coscienti, sono definiti australopitecine, ovvero scimmie.

[38] “Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini, e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio come la coscienza sorge dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini” (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, p. 21). Nota Vygotsky: “la parola si riferisce sempre non ad un solo oggetto singolare, ma a tutto un gruppo e a tutta una classe di oggetti. In virtù di ciò, ogni parola rappresenta una generalizzazione nascosta, ogni parola già generalizza, e dal punto di vista psicologico il significato della parola è prima di tutto una generalizzazione” (L. Vygotsky, Pensiero e linguaggio, p. 14).

[39] “La coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini” (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, p. 21).

[40] Se si studia la presa di coscienza di un bambino si scopre per altro che, anche in questo campo, l’ontogenesi ricapitola la filogenesi. Come dimostrano gli studi di Piaget e di Vygotsky, lo sviluppo psichico dei bambini ha molti tratti di somiglianza con lo sviluppo storico della coscienza avuto dall’umanità.

[41] S. Rose, Il cervello e la coscienza, p. 165.

[42] K. R. Popper citato in G. Gava, Scienza e filosofia della coscienza.

[43] R. Penrose, La mente nuova dell’imperatore, p. 526.

[44] M. Donald, L’evoluzione della mente, p. 172.

[45] G. Edelman Il presente ricordato p. 294.

[46] J. Ledoux, Il Sé sinaptico p. 456.

[47] J. Jaynes, L’origine della coscienza e il crollo della mente bicamerale, p. 159.

[48] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, p. 13.

[49] Ibidem, p. 20.

[50] Cit. in G. Plechanov, Le questioni fondamentali del marxismo, p.  67.

[51] P. M. Churchland, Il motore della ragione la sede dell’anima p. 287.

[52] Pribram citato in G. Gava Scienza e filosofia della coscienza.

[53] J. Eccles Evoluzione del cervello e creazione dell’io, p. 225.

[54] Changeux citato in G. Gava Scienza e filosofia della coscienza.

[55] G. Edelman, Il presente ricordato, rispettivamente, p. 23 e p. 120.

[56] Trevarthen citato in AA VV, L’automa spirituale.

[57] F. Hayek, L’ordine sensoriale, p. 206.

[58] E. Boncinelli, Il cervello, la mente e l’anima, p. 205.

[59] Ibidem, p. 268.

[60] Il famoso articolo di E. Barone “Il ministro della produzione nello stato collettivista”, del 1908, è forse il primo scritto in cui con un po’ di equazioni si può trarre questa conclusione.