MESSAGGIO DI ALBERT EINSTEIN
ALLA SOCIETÀ ITALIANA PER IL PROGRESSO DELLE SCIENZE
IN OCCASIONE DELLA XLIII RIUNIONE
LUCCA 1- 4 OTTOBRE 1950

Trascrizione integrale
dal manoscritto originale tedesco e traduzione italiana
di Giuseppe Sgherri
[1]

            Permettetemi anzitutto il mio cordiale ringraziamento per l’invito a me rivolto per il Congresso della “Society for the new of sc.”. Io darei seguito con gioia a questo invito, se la mia indebolita salute lo permettesse. Così, però, mi devo accontentare di indirizzarVi da qui due parole. Questo lo faccio non nell’illusione di poterVi dire qualcosa che in qualche modo arricchisca effettivamente la Vostra conoscenza. Noi viviamo tuttavia in un tempo di tale insicurezza esteriore e interiore, in un tempo di tale mancanza di stabili scopi, che anche il confessare convincimenti può esser di valore, anche qualora questi convincimenti non siano di un genere tale che possano essere fondati logicamente.

            Qui sorge subito la questione: Dobbiamo eleggere la conoscenza della verità, o – espresso più modestamente – la comprensione del mondo sperimentabile, attraverso un pensiero logico-costruttivo, come uno scopo autonomo della nostra aspirazione? Oppure questa aspirazione ad una conoscenza razionale deve essere subordinata a un qualche genere di scopi di altra natura, per es. “pratici”. Il semplice pensiero non ha mezzi per decidere questa questione. La decisione però ha un rilevante influsso sul nostro pensare e valutare, premesso che abbia il carattere di un convincimento incrollabile. Lasciatemi perciò confessare. Per me l’aspirazione alla conoscenza è uno di quegli scopi autonomi senza i quali, per l’uomo pensante, una cosciente affermazione dell’esistenza non appare possibile.

            Appartiene all’essenza dell’aspirazione alla conoscenza, che essa tenda sia alla più ampia padronanza della varietà dell’esperienza, che alla semplicità ed economicità delle ipotesi fondamentali. La definitiva compatibilità di questi scopi è, allo stato attuale  della nostra rudimentale ricerca, una cosa di fede. Senza una tale fede il convincimento del valore autonomo della conoscenza non sarebbe per me forte e incrollabile.

            Questa posizione per così dire di fede dell’uomo di scienza in ordine alla verità non è senza influsso sull’intera personalità. Al di fuori infatti di ciò che è dato attraverso le esperienze e delle leggi del pensiero non c’è in linea di principio, per il ricercatore, un’autorità le cui decisioni o comunicazioni possano in se stesse accampare pretesa di “verità”. Sorge così il paradosso che un uomo, che dedica le sue forze migliori a cose oggettive, considerato dal punto di vista sociale diventa un estremo individualista che – almeno in linea di principio – non si fida che del suo proprio giudizio. Si può addirittura ben sostenere l’opinione che individualismo intellettuale e aspirazione scientifica, nella storia, sono inizialmente comparsi insieme e rimasti inseparabili. Ora, si può dire che l’uomo di scienza così abbozzato non è altro che una semplice astrazione che non si trova in questo mondo in carne e sangue, qualcosa di analogo all’homo economicus dell’economia classica. Mi sembra però che la scienza, quale noi oggi abbiamo davanti, non sarebbe potuta sorgere e restare vitale se l’uomo di scienza, almeno in rilevante approssimazione, non fosse per molti secoli effettivamente esistito in molti individui.

            Naturalmente io non vedo un uomo di scienza in ognuno che abbia imparato ad adoperare strumenti e metodi che, direttamente o indirettamente, appaiono “scientifici”. Sono intesi solo coloro nei quali la mentalità scientifica è realmente viva.

            Ora, come sta l’uomo di scienza di oggi nel corpo sociale dell’umanità? Egli è in qualche modo orgoglioso del fatto che il lavoro dei suoi simili, anche se per lo più in modo indiretto, attraverso la pressoché totale eliminazione del lavoro muscolare, ha totalmente trasformato la vita economica degli uomini. Egli è anche indubbiamente turbato dal fatto che i risultati della sua ricerca hanno comportato un’acuta minaccia dell’umanità, dopo che i frutti di questa ricerca sono caduti nelle mani di detentori della forza politica ciechi d’animo. Egli è cosciente del fatto che i metodi tecnici che si basano sulle sue ricerche hanno condotto ad una concentrazione del potere economico, e con ciò anche di quello politico, nelle mani di piccole minoranze, dalle cui manipolazioni è divenuto dipendente il destino della massa, che appare sempre più amorfa, degli individui. Di più, ancora. Quella concentrazione del potere economico e politico in poche mani ha non solo comportato una dipendenza materiale esteriore anche dell’uomo di scienza, essa minaccia anche la sua esistenza dall’interno, in quanto, attraverso la creazione di mezzi raffinati di influenza spirituale e psichica, impedisce la crescita di personalità indipendenti.

            Così vediamo compiersi per l’uomo di scienza un destino veramente tragico. Sorretto dall’aspirazione alla chiarezza e all’indipendenza interiore, attraverso i suoi sforzi pressoché sovrumani, ha creato i mezzi per il suo asservimento esteriore e il suo annientamento dall’interno. Dai detentori del potere politico egli deve farsi mettere una museruola. Come soldato è costretto a sacrificare la propria vita e a distruggere la vita altrui, anche se è convinto della mancanza di senso di un tale sacrificio. Egli vede sì con tutta chiarezza, che la circostanza storicamente condizionata per cui gli Stati nazionali sono i detentori del potere economico, politico, e con ciò anche di quello militare, deve condurre all’annientamento di tutti. Egli sa che soltanto l’abbandono dei metodi della nuda forza attraverso un ordine sovranazionale del diritto può ancora salvare gli uomini. Ma egli è già arrivato a tal punto, da accettare come destino inevitabile la schiavitù posta su di lui dagli Stati nazionali. Egli si umilia addirittura a tal punto da  aiutare a perfezionare ulteriormente, su comando, i mezzi per l’annientamento generale dell’uomo.

«Deve realmente l’uomo di scienza sottostare a tutte queste umiliazioni? Gandhi ha indicato, nel suo ambito, quella via che resta aperta anche per l’uomo di scienza: non cooperation e – se questo deve essere – civil disobedience. Questa via di liberazione è aperta a chiunque è deciso a prender su di sé il rischio della messa al bando sociale e del martirio. Nella presente situazione io non vedo effettivamente altra via accanto a questa. Così risulta alla fine evidente con terrificante chiarezza che sviluppo dell’intelligenza, da solo, non può redimere gli uomini.»[2]

È passato il tempo in cui la sua libertà interiore e l’autonomia del suo pensare e ricercare ha potuto illuminare e arricchire la vita degli uomini? Non ha egli, in una aspirazione orientata soltanto a ciò che è intellettuale, dimenticato la sua responsabilità e dignità? Un uomo interiormente libero e coscienzioso si può sì annientare, ma non rendere schiavo o cieco strumento.

            Se l’uomo di scienza dei nostri giorni trovasse il tempo e il coraggio di considerare con calma e criticamente la sua situazione e il suo compito, e di operare in modo adeguato, le prospettive di una ragionevole e soddisfacente soluzione della presente pericolosa situazione internazionale verrebbero essenzialmente migliorate.

A. Einstein

NOTE


[1] Per gentile concessione della Rivista Kamenn. 27, Giugno 2005 - Rivista di poesia e filosofia. Ed. Vicolo del Pavone. V.le Veneto 23 - 26845 Codogno (LO) - Tel. 0377 – 30709.

La lettera è conservata all'Università di  Gerusalemme (The Hebrew University Jerusalem) negli Einstein Archives, numero di catalogo 28- 882.00. Courtesy of the Einstein Archives Online.

[2] Nel manoscritto originale uno sconosciuto ha tirato una riga sopra il virgolettato.