LA METROPOLI DELLE ILLUSIONI

Le «città morte» di Mike Davis,
tra fantascienza, filosofia e ecologia sociale
[1]

Privatizzazione degli spazi pubblici, quartieri recintati, conflitti sanguinosi tra bande giovanili, diario di bordo di una «seconda guerra civile» condotta dall'establishment contro i poveri. Una raccolta di saggi dello studioso americano che ripercorre la storia dello sviluppo urbano negli Stati uniti tracciando i nuovi contorni di metropoli segnate a morte da disastri ambientali e sociali. Una visione apocalittica che distoglie lo sguardo da un'altra importante mutazione: i grandi agglomerati urbani sono diventati un unico, enorme atelier produttivo dove la distinzione tra lavoro e non-lavoro diventa una convenzione socialmente necessaria al mantenimento dello status quo

Benedetto Vecchi

Estate del 1965, alcuni giovani si sono dati appuntamento su una spiaggia californiana per sentire musica, ballare, bere qualche birra, flirtare lontani dagli sguardi dei «grandi». Ci sono anche alcuni gruppi musicali che si alternano su un palchetto improvvisato. Alcuni abitanti chiamano la polizia, che solerte arriva e con tono paternalistico chiede di smettere di fare chiasso. Non è la prima volta che un fatto del genere accade, ma questa volta la reazione è diversa. I poliziotti sono accolti con insulti e un fitto lancio di bottiglie. Si ritirano sgomenti, senza però dimenticarsi di fare una chiamata in centrale per chiedere l'intervento delle squadre antisommossa. Il resto è prevedibile: gli scontri tra i giovani e la polizia durano fino al mattino e quella notte segna un punto di svolta nella vita locale. L'autore che racconta l'episodio e molti altri che accadono in quella stessa estate, all'epoca dei fatti era un coetaneo di quei giovani e si concede anche il lusso di segnalare che la sua vita cominciò a cambiare proprio in seguito a quell'episodio. Da allora di strada ne ha fatta e molta, e non solo in senso figurato. Ha infatti guidato camion per molti anni, ha svolto tanti lavori, ha fatto il sindacalista, ha militato nel partito comunista statunitense fino al suo allontanamento perché contrario all'invasione della Cecoslovacchia; è arrivato, infine, alle aule dell'università come docente. Si chiama Mike Davis ed è il noto autore di fortunati libri come La città di quarzo (manifestolibri), Geografie della paura (Feltrinelli), I Latinos alla conquista degli Usa (Feltrinelli), Olocausti tardovittoriani (Feltrinelli). Ora sempre la casa editrice milanese ha mandato nelle librerie Città morte (Feltrinelli, pp. 298, € 30), un libro di difficile catalogazione disciplinare. Si potrebbe definire come un susseguirsi di saggi di storia sociale statunitense, oppure di urbanistica, ma anche di analisi delle politiche fiscali portate avanti dalle diverse amministrazioni alla Casa Bianca dagli anni Settanta ad oggi.

Il deserto violato

Mike Davis, infatti, scrive dello sviluppo urbano della sua amata e al tempo stesso odiata Los Angeles, dell'ascesa di Las Vegas a «parco a tema» simbolo di come gli Stati uniti riscrivono la storia umana; ma anche della scomparsa di alcune «città artificiali» costruite nel deserto dal Pentagono negli anni Quaranta al fine di riprodurre quartieri di Berlino e di Tokyo dove sperimentare, lontani da occhi indiscreti, alcune tecniche di bombardamento e ordigni da usare in seguito contro la Germania nazista e il Giappone Imperiale. (Con amarezza, lo studioso di origine irlandese annota che gli scienziati e i militari studiarono con scientifica meticolosità come colpire con nuove bombe incendiarie i quartieri operai di Berlino o di Tokyo con le loro case per lo più di legno: cosa che puntualmente avvenne, lasciando quasi del tutto intatti i quartieri dove abitavano i gerarchi nazisti o la burocrazia imperiale giapponese).

Nello stesso libro sono inoltre raccolti alcuni saggi che documentano come le politiche dell'immigrazione siano state usate dagli stati dell'unione e dalla Casa Bianca per far coincidere la divisione spaziale delle metropoli con le differenze di classi e etniche della società. Mike Davis si dilunga inoltre sulla storia delle gang giovanili, sulla nascita e lo sviluppo del movimento per i diritti civili e su quella che l'autore definisce come la «sotterranea seconda guerra civile americana», caratterizzata questa volta non dallo scontro per così dire statale tra entità politiche definite - gli Stati dell'Unione contro la confederazione degli stati del Sud -, ma dell'attacco condotto dal grande capitale contro la costituzione materiale nata con il New Deal e giunta al suo acme nei gloriosi trenta anni delle politiche keynesiane.

Mike Davis ha una scrittura molto accattivante che non ha nulla del paludato stile accademico che caratterizza, invece, molti studiosi anche radical statunitensi. E Città morte si fa leggere quasi fosse un romanzo, alternando, come è suo costume, analisi sulla cultura popolare statunitense - i gialli, la fantascienza e i fumetti la fanno da padrone in molte pagine del libro -, rigorosa analisi delle statistiche ufficiali a disposizione e un commento interlineare ad alcuni testi di Marc Bloch e Adorno.

La marmellata urbana

L'obiettivo dichiarato di questo e dei precedenti libri è presto riassunto: dimostrare l'uso capitalistico della riqualificazione urbana dove la città è sicuramente lo spazio sociale e economico per produrre profitti, ma anche il luogo dove l'organizzazione degli spazi è finalizzata alla riproduzione delle disuguaglianze sociali (cioè di classe) esistenti. Così è stato a Los Angeles, così a Las Vegas.

Negli anni passati tra gli urbanisti e i sociologi urbani infuriava una discussione sul futuro della metropoli e sulla crisi del modello dominante di sviluppo urbano. Alcuni architetti e filosofi ritenevano infatti che stava venendo meno quella geografia sociale che vedeva la città svilupparsi attorno a un centro e secondo modalità «progettuali» che riflettevano quel delicato equilibrio tra necessità funzionali e pressioni degli «interessi organizzati». La metropoli stava diventando il luogo dei mille centri con grave smacco di alcune generazioni di urbanisti che consideravano indispensabile una lavoro di progettazione delle linee di sviluppo della città. Ogni centro, veniva affermato, possiede una sua logica e una sua capacità di plasmare l'ambiente circostante. Mike Davis non nasconde che molte frecce erano nell'arco di chi si scagliava contro qualsiasi ipotesi di programmazione dello sviluppo. In fondo, lo sprawl urbano e la cosiddetta gentrification erano appunto il risultato di una crisi profonda di questa concezione della metropoli. Ma allo stesso tempo, però, lo sviluppo policentrico delle città rispondeva a criteri economici e politici molto chiari. Non è certo una novità la fuga della middle class e della borghesia dai vecchi quartieri per sfuggire al traffico e alla presenza delle nuove «classi pericolose» (gli afroamericani, ma anche i nuovi arrivati dall'Asia e dall'America latina). Così come è stato costante lo spostamento degli insediamenti produttivi verso nuove aree. Elementi che hanno alimentato appunto lo sprawl urbano e l'esodo della classe media e della borghesia dal centro della città. Gli strumenti «politici» di questa grande trasformazione urbana sono stati, tiene a precisare più volte l'autore, le commissioni cittadine preposte all'elaborazione di progetti urbanistici.

La realtà che Mike Davis studia sono le metropoli statunitensi ed è quindi ovvio che il capitale privato svolga un ruolo dominante rispetto all'amministrazione pubblica. Ma le storie raccontate in questo libro non sono storie di conflitti di interessi, ma di un modus operandi del grande capitale immobiliare e finanziario in cui la sfera politica è relegata al semplice ruolo di amministrazione delle compatibilità e delle priorità definite quasi sempre in sedi extraistuzionali. E tuttavia negli anni Ottanta avviene un cambiamento profondo, che non riguarda tanto questo modus operandi, quanto quella che si potrebbe definire la composizione del capitale: l'eclissi dei vecchi magnati del mercato immobiliare. Un declino determinato da due fattori: da una parte i nuovi insediamenti abitatitivi e produttivi richiedono tecnologia di sorveglianza e di comunicazione che fanno aumentare la presenza di imprese high-tech; dall'altra, si ingrossa fino a diventare un fiume la quantità di capitale finanziario nazionale e internazionale che si riversa sulla «riqualificazione urbana». In altri termini, chi guadagna in borsa investe nel «mattone». E questo non riguarda solo i «capitalisti di ventura» della new economy, ma anche le imprese multinazionali del Sol levante.

A Los Angeles questi due fattori alimentano la corsa all'oro del recupero di Down town. Lo stesso processo, anche se con le ovvie differenze, si è ripetuto anche a Las Vegas, dove la trasformazione della «città del deserto» in uno sfavillante insieme di parchi a tema ha dapprima determinato lo sviluppo proteiforme della città, ma negli ultimi dieci anni ha subito un'inversione di tendenza. Con la ristrutturazione del vecchio centro cittadino è avvenuta una vera e propria «rivoluzione urbana» che ha avuto come vittime sacrificali i vecchi padroni della città e ha visto l'arrivo di migliaia di latinos e di molti capitalisti di ventura e non solo alla ricerca di investimenti redditizi. Lo studioso statunitense annota che il tanto decantato policentrismo delle metropoli può essere interpretato come una fase di transizione, ancora in corso, verso una metropoli diffusa e stratificata secondo linee di frattura di classe, etniche e funzionali.

Temi già affrontati da Davis nei precedenti studi. E il lettore già introdotto alla sua produzione ritroverà nelle pagine del suo nuovo saggio i quartieri fortificati dei professionals, la cancellazione degli spazi pubblici (tramite la loro privatizzazione), i conflitti tra afroamericani e latinos, il ghetto come bacino di intermittenti dequalificati e come fabbrica just in time dell'economia criminale.

I ghetti degli intermittenti

Questo Città morte è tuttavia un libro fortemente cupo e apocalittico, quasi che il destino delle metropoli sia segnato. O meglio che le città così come le abbiamo conosciute nella storia moderna siano destinate a soccombere a causa dei disastri ambientali e delle apocalissi sociali che continuamente producono. Mirabile, in questa direzione, è il saggio conclusivo in cui Davis, anche in questo caso tra richiami alla fantascienza e alla letteratura scientifica, afferma che le metropoli non sono eterne perché sono delle formazioni sociali che possono essere sostituite, al pari di altre formazioni sociali, da altri modi dell'«abitare insieme». In altri termini, le città sono agonizzanti e non si capisce bene se è il caso di praticare l'eutanasia o continuare con l'accanimento terapeutico.

Il tono apocalittico di Mike Davis è distante anni luce dall'immagine in movimento che altri studiosi della metropoli hanno definito in questi anni, Sicuramente ha ben poco da spartire con le «città globali» di Saskia Sassen, dove la ricercatrice di origine olandese elegge alcune metropoli al ruolo di coordinamento dell'intera economia globale. Ed è distante anche dalle riflessioni di Manuel Castells, dove le città sono veri e propri nodi di una fitta rete che abbraccia potenzialmente l'intero mondo nell'era dell'informazione. Allo stesso tempo, le metropoli studiate da Davis è agli antipodi di chi, come lo storico dell'architettura Michael Benedikt ha individuato il futuro della forma-metropoli nelle possibilità offerte dalla realtà virtuale (Cyberspace, Muzzio editore). Al di là delle suggestioni delle tesi di Benedikt, è comunque evidente che è qui presente un ribaltamento della prospettiva: la città non è più lo spazio in cui si articola il vivere in società, quanto un portale di accesso a un'infosfera dove la pluralità di forme di vita presenti al di fuori dello schermo convivono armoniosamente tra loro. E se tra la «città globale» e la «città di quarzo» non c'è punto di contatto alcuno, la «città al silicio» diviene dunque il dispostitivo «totalitario» rappresentato nella trilogia cinematografica di Matrix, dove uomini e donne sono eterodiretti da una tecnostruttura che si fa garante di una «visione» dei rapporti sociali definiti in separata sede.

Differenze analitiche amplificate anche dal fatto che Mike Davis non ha mai fatto mistero di considerare Los Angeles il paradigma dominante della metropoli. E tuttavia la tendenza al declino della «città» tracciato in questo volume può essere visto anche da un altro punto di vista, dove la metropoli losangelina può assurgere semmai a prototipo del luogo in cui si manifesta una forma di vita segnata dalla cancellazione forzata tra lavoro e non lavoro.

Vintage di strada

Il regime concentrazionario a cui sono sottoposti interi quartieri nella metropoli californiana, e non solo, diventano dunque fattori fondanti di un governo della città che progetta lo sviluppo urbano al fine di regolamentare il movimento e i comportamenti di una forza-lavoro, spesso precaria, non necessariamente dequalificata - basti pensare all'indotto high-tech dell'industria navale e di Hollywood -, in cui la «cultura di strada» diventa una merce pregiata per l'industria dell'intrattenimento. Ed è sempre nel ghetto che può al fine manifestarsi quel pastiche postmoderno in cui la citazione e la proposizione vintage del passato punta espressamente alla elaborazione di stili di vita e consumi culturali volti a innovare il ciclo produttivo. La «riqualificazione urbana» è nient'altro che il laboratorio dove mettere a punto modelli di organizzazione reticolare dello spazio urbano che sia «funzionale» alla produzione diffusa di merci. Così a Los Angeles, a Las Vegas e nella stessa città globale per antonomasia, cioè New York: la metropoli è dunque un enorme e unico atelier produttivo.

Nella metropoli diffusa descritta da Davis lavoro e non lavoro sono solo delle convenzioni socialmente necessarie al mantenimento dello status quo. E dunque sono il luogo per eccellenza della politica. Quando si scrive politica i fraintendimenti sono quasi scontati. Quel che è certo è che la politica statale o quella locale delle istituzioni è relegata al ruolo di amministrazione. Di quella liberal Davis mette ripetutamente in evidenza la miseria per quella sua propensione a candidarsi sempre come rappresentante di «interessi di classe» per poi lavorare attivamente a ricondurli in un quadro di compatibilità che rispecchi i rapporti di forza nella società. E tuttavia la metropoli può ragionevolmente essere pensata come uno spazio conflittuale in cui tanto le politiche della sorveglianza, di organizzazione del tessuto urbano, di mobilità e di accesso al sapere sono manifestazioni molteplici di una messa al lavoro della forza-lavoro tutta. Pensare la metropoli dunque come luogo di una politica radicale. Ben venga, allora, l'apocalisse immaginata e descritta da Davis, ma solo come possibilità, qui ed ora, di un sovvertimento dei rapporti sociali dominanti nelle metropoli.

NOTE


[1] Tratto da: “il manifesto” del 5 ottobre 2004.