UNA RINASCITA IN CERCA DI AUTORE[1]

Ambiziosi progetti editoriali che puntano a nuove edizioni della sua opera, ma anche percorsi di ricerca che puntano a innovare radicalmente la sua cassetta degli attrezzi. E c'è chi lo considera un cultore del trionfo della borghesia. La prima tappa di un viaggio tra gli studiosi di Karl Marx La difficoltà di misurarsi con una storia che ha cercato di intrecciare riflessione teorica e strategie politiche dopo il crollo del socialismo reale. Puntando a fare i conti con il capitalismo globale e le strategie di resistenza che incontra per rispondere alle domande ancora inevase sulla "crisi del marxismo".

Roberto Ciccarelli

Svanita la sbornia del «nuovo ordine mondiale» e della «fine della storia», sancita da Francis Fukuyama in un saggio inizialmente pubblicato su Foreign Affairs, Karl Marx sembra tornato a nuova vita. Si ristampano le sue opere, fioriscono seminari, soprattutto universitari, a lui dedicati tanto in Italia che in molti altri paesi. E non sono pochi gli opinion makers che hanno commentato con sorpresa che proprio Marx sia il primo classificato in una classifica estiva inglese dei pensatori più influenti della storia (il secondo è Hume), mentre ha destato altrettanta meraviglia la notizia che Il manifesto del partito comunista sia uno di libri più venduti nel mondo, superando di molto la sempreverde Bibbia. C'è chi lo considera addirittura il cantore della «gloria della borghesia», come fa Jacques Attali, l'ex sherpa di François Mitterand, autore del best-seller in Francia Marx ou l'esprit du monde (Fayard), mentre Giorgio Ruffolo, nell'introduzione a un libro dello storico italiani dell'economia Guido Carandini Un altro Marx (Laterza), lo qualifica come uno scienziato del capitalismo finalmente spogliato, con l'implosione del socialismo reale, delle sue vesti di profeta e utopista della rivoluzione. Dopo l'annuncio da parte della fondazione Marx-Engels (Imes) della ripubblicazione su nuove basi filologiche dei 114 volumi (oggi siamo a quota 50) della «Marx-Engels Gesamtausgabe» (MEGA), non mancano inoltre le tentazioni di ridurlo a un puro oggetto di studio incontaminato dalla storia, quasi fosse Platone nel pantheon della filosofia.

Amara riscoperta

E tuttavia questa «riscoperta» ha il sapore amaro di una riscoperta fuori tempo massimo. Vista con la lente del pensiero critico, infatti, l'opera di Marx ha dato vita, già da alcuni decenni, ad una declinazione plurale dei percorsi di ricerca: gli studi postcoloniali, quelli post-strutturalistici, la critica letteraria, la psicoanalisi, l'antropologia ad esempio. Al punto che oggi un semplice ritorno a Marx sarebbe riduttivo rispetto alle molteplici configurazioni delle scienze umane. Se ne può fare una storia - che continua a mancare - ma rimarremmo pur sempre sul terreno già acquisito. E' vero - sostiene Roberto Fineschi, uno dei filosofi italiani che si sono avvicinati a Marx dopo il crollo del socialismo reale e che sta lavorando alla riedizione del primo libro del Capitale, la cui uscita è prevista per il prossimo anno nell'edizioni de La città del Sole - la nuova edizione critica dell'opera restituirà Marx alla sua voce, separandolo, con una certa cautela dal suo gemello siamese Friedrich Engels, ma per sottolineare altresì i limiti della ricezione del suo pensiero». Ragione storica vuole, aggiunge Domenico Losurdo - docente di Storia della Filosofia ad Urbino, e autore di numerose opere su Marx e su Hegel - che anche «le future generazioni criticheranno le ingenuità dei presupposti dell'odierna rilettura di Marx ed Engels». Per Losurdo Marx ispira ancora «le due grandi lotte per il riconoscimento, la lotta dei servi della metropoli e la lotta dei popoli coloniali e di origine coloniale, che subiscono un'oppressione ancora più dura nella globalizzazione».

E' evidente che le ragioni di chi lavora sulla ricostruzione storica e filologica dell'opera di Marx e di Engels non collimano con il tentativo mainstream di ripescare autori consegnati in precedenza al retrobottega dei manuali. Per chi non lo ha mai abbandonato, è ovvio che Marx è attuale e rappresenta un modello esplicativo universale, correndo forse il rischio di vedere la realtà interamente giustificata dalla teoria. Chi invece lo riscopre oggi corre il rischio di oscurarne i fondamenti del suo pensiero (dalla lotta di classe alla teoria del valore, come fanno ad esempio Attali o Carandini). Da un lato si corre dunque il rischio di concedere ad un autore le chiavi del mondo, quando invece sarebbe più interessante evidenziarne le contraddizioni. Dall'altro lato, chi sostiene che sia in corso una nouvelle vague marxiana, spesso ritiene che Marx sia poco più di un sociologo o al più un profeta dei limiti della globalizzazione.

Ma per una teoria generale della società capitalistica basterebbero Adam Smith o Ricardo. Marx, invece, studia il capitalismo perché vuol sviluppare una critica all'economia politica propedeutica a una teoria del superamento del capitalismo. Rovescia di segno la legge del valore già presente nell'economia classica, mettendo cioè in evidenza la tematica del plusvalore in quanto profitto capitalistico, svelando così il rapporto conflittuale tra la proprietà dei mezzi di produzione e il lavoro salariato (l'accrescimento del plusvalore che permette alla forza lavoro di aumentare il suo tenore di vita ma la esclude dal controllo dei mezzi di produzione). Arriva infine alla definizione di un «socialismo scientifico», cioè alla convinzione che la dinamica del capitalismo avrebbe portato la società verso il «regno della libertà».

Una missione impossibile

Per Riccardo Bellofiore, che su Marx molto ha scritto in Italia e all'estero, occupandosi di economia monetaria, teoria del valore e della distribuzione, quest'ultima idea tuttavia «è semplicistica: la dinamica spontanea del capitalismo non potenzia il proletariato sino al punto di farne il proprio becchino. Con questo - continua l'economista italiano - non voglio dire che in futuro non sarà possibile l'antagonismo. Credo tuttavia che sia importante ripartire dall'idea che il soggetto del conflitto non è un dato di natura e lo si deve ricostruire. Quello che dobbiamo fare oggi è concentrarci sull'analisi dei rapporti sociali di produzione, ma non pensare che basti il lascito marxiano così com'è».

Anche nelle parole di Bellofiore si ha l'impressione che ad essere saltata è quella facile analogia per cui un tempo bastava avere, lassù a mille metri d'altezza, una teoria dei rapporti di produzione e della lotta di classe per arrivare, a valle, ad una strategia politica che porta alla conquista del potere. Oggi l'incontro tra una lettura di Marx e la sinistra sociale e politica non è dunque un matrimonio predestinato. «Né la sinistra comunista né quella socialdemocratica, né la sinistra riformista che io definisco social-liberista, né la sinistra radicale - continua Bellofiore - sono capaci di mettere i bastoni tra le ruote alle riforme nel mercato del lavoro, alla flessibilità né di condurre un'analisi dei rapporti sociali di produzione all'altezza del nostro tempo».

Parlare di un semplice ritorno a Marx è dunque una «missione impossibile», ma se si misura la distanza tra il suo metodo e la politica attuale, allora la distanza tra la teoria e la prassi diventa un elemento critico sul quale riflettere. Per Maria Turchetto, filosofa «pentita» (così si definisce), docente di Storia del pensiero economico a Venezia, coordinatrice dell'associazione «Louis Althusser» che cura la nuova edizione italiana di Leggere il Capitale - un libro che a suo tempo fece epoca e che sarà riproposto da Mimesis il prossimo ottobre -, queste considerazioni non invitano a rinunciare ad una politica della trasformazione. Per La Turchetto, furono infatti le generazioni più brillanti del marxismo del Novecento, e Althusser in particolare, «ad avere spogliato Marx del teleologismo che considerava la storia come il prodotto della volontà di un soggetto come la classe operaia. Credo invece che il marxismo, come ogni teoria, deve assumere l'aleatorietà storica per relativizzare la pretesa della teoria di fornire spiegazioni totalizzanti della società e della storia - aggiunge ancora la filosofa italiana -. Il materialismo aleatorio di Althusser è un buon antidoto a teorie come lo scontro delle civiltà che mirano all'essenzializzazione di categorie come Occidente o Islam per spiegare la conflittualità interna o a quelle che condannano la modernità perché sarebbe un'epoca dominata dalla tecnica che sottomette la vita al proprio progetto».

E tuttavia questo ridimensionamento del marxismo - tanto nella sua formula «ortodossa» conosciuta con la famigerata sigla del Diamat, il materialismo dialettico diffuso dall'accademica delle scienze sovietiche, come anche nella sua versione «aleatoria» coniata da Althusser - sconta un limite forse invalicabile. Esiste infatti un'«a-sincronia» tra teoria e politica che non aiuta a chiudere quel cerchio che Marx non aveva potuto (o saputo) chiudere e che Althusser aveva intravisto quando, alla metà degli anni Settanta, iniziò a parlare di «crisi del marxismo». Su questo terreno si può argomentare in maniera credibile che gli esiti politici del socialismo reale non sono contenuti nella teoria marxiana - come invece si tende a fare nella Marx renaissance quando si prova a salvare il teorico ma a condannare il politico - ma è indubbio che questa sia anche la prova che nella sua teoria manchi un discorso sullo stato, proprio come aveva avvertito in un famoso saggio Luois Althusser.

Dentro e contro Marx

Marx non è quindi un profeta del mondo attuale. Piuttosto che rimanere sul campo delle previsioni - Marx non faceva previsioni, cercava le «leggi» della tendenza dello sviluppo del capitale e delle modalità di sussunzione della forza lavoro al capitale - è più produttivo giocare sui limiti del suo pensiero. E sulla crisi - seria e irreversibile - dei filoni marxiani di ricerca emersa da tempo. Essere «dentro e contro Marx», allora, parafrasando una bella espressione di Mario Tronti.

Per la giovane ricercatrice Cristina Corradi, autrice di Storia dei marxismi (Manifestolibri, giunto alla seconda edizione), questo tanto parlare di Marx colma un vuoto creatosi negli ultimi anni quando si è capito che la svolta annunciata «alla fine degli anni Ottanta non ha aperto un nuovo orizzonte culturale e politico per la sinistra, né ha rifondato una robusta socialdemocrazia». Ma Marx, pur rimanendo il testimone dell'insoddisfazione per le apologie del neo-liberismo e per la «miseria della crisi sociale» che contraddistingue il capitalismo contemporaneo, non garantisce il ritorno sui sentieri dei passi perduti della sinistra.

Coscienti di questi limiti, la scommessa da fare parte della rilettura del Marx maturo, quello dei Grundrisse e del Capitale, e dei marxismi più avanzati del Novecento, in una direzione diversa da quella sinora percorsa, in cui il movimento reale che doveva abolire lo stato di cose presenti è stato interpretato come una teoria dell'uguaglianza e quasi mai come una teoria dell'individuo. E' questa è il provocatorio percorso che Cristina Corradi intravede per rendere attuale il filosofo di Treviri. «Credo che Marx sia utile oggi per la ricerca - afferma infatti la giovane ricercatrice - di un nuovo rapporto tra individuo e comunità. Marx non pensa mai la comunità sul modello organicistico precapitalistico e non pensa nemmeno l'individuo nel senso atomistico di cui parlano i teorici del mercato e della democrazia formale». Si può dunque rendere giustizia alla riflessione marxiana nel suo svolgersi solo pensando ad una possibile eredità marxiana non solo alla luce dei suoi esiti politici novecenteschi, ma anche come la tensione teorica - sia pure contraddittoria, ma senz'altro vera - ad esaltare ciò che rende singolare la vita di un individuo e a smascherare quindi i tranelli che il liberalismo ci tende, e nei quali il multiculturalismo ci rinchiude. A ciascuno secondo i suoi bisogni, recitava un famoso motto marxiano. A ciascuno secondo il proprio presente, si potrebbe affermare oggi qualificare alcuni percorsi di ricerca sull'opera marxiana.

IRRIPETIBILI SINGOLARITÀ[2]

Ciò che resta di Marx. Seconda tappa di un viaggio nel pensiero critico

Nella sua prima enciclica da papa Benedetto XVI si occupa del ruolo svolto da marxismo nella storia del Novecento. Ma è difficile cercare in quel testo una frettolosa liquidazione di Marx, che infatti non è mai considerato quel «cadavere di morto», come direbbe il Belli, di cui molti hanno celebrato le esequie negli ultimi vent'anni. Semmai, Marx è considerato un filosofo umanista prigioniero del suo materialismo. In un passo della Deus caritas est (Dio è amore), il papa lo accusa di «disumanità» poiché considera la carità cristiana «corresponsabile» del mantenimento dell'oppressione sociale. Il marxismo sarebbe quindi espressione di una filosofia della storia che obbliga «l'uomo a vivere nel presente sacrificandolo al moloch del futuro», senza però giungere mai alla conclusione che l'opera di Marx sarebbe da consegnare definitivamente al passato. L'idea papale di Marx come filosofo della storia che schiaccia l'individuo in un progetto disumano riesuma l'immagine revisionata dallo storico francese François Furet negli anni Ottanta e Novanta: quella del comunismo sarebbe da considerare una teoria che voleva imporre una legge alla storia in modo tale che potesse traghettare l'umanità da un modo di produzione capitalistico al regno dell'umanità rinnovata. Che il papa-teologo brandisca questa immagine di comodo di un Marx progenitore di uno dei due «totalitarismi» del Novecento, inflessibile teorico di un futuro ispirato ai principi del socialismo reale, è comprensibile. Ma è anche evidente la difficoltà di «fare i conti» fino in fondo con Marx. Un confronto a distanza Cosa dicono coloro che non hanno mai pensato che Marx avesse qualcosa da spartire con il dogmatismo del materialismo dialettico e che hanno sempre pensato che senza Marx non è possibile capire le trasformazioni produttive della nostra epoca e che non si può nemmeno immaginare la possibilità di un'alternativa politica radicale? Sono i punti da cui prendono l'avvio gli incontri con Paolo Virno, che ai Grundrisse, il testo «preliminare» del Capitale, ha dedicato pagine dense e perspicaci nei volumi Mondanità (manifestolibri), Esercizi d'esodo (Ombre Corte) e Grammatica della moltitudine (DeriveApprodi), e Roberto Finelli, impegnato da anni in un corpo a corpo con il pensatore di Treviri, critico inflessibile dei limiti filosofici del giovane Marx - quello per intenderci dei Manoscritti filosofici del 1844, come attesta il suo ultimo lavoro Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx (Bollati Boringhieri) - ma anche attento analista del «Capitale». Per Paolo Virno, la passione per Marx non è dovuta ad un'affezione biografica. A suo parere, Marx «permette di comprendere i problemi critici di un'epoca che senza di lui sarebbero letteralmente incomprensibili. E questo vale anche per le obiezioni ai suoi limiti. Sempre più spesso - continua - Marx continua ad essere, anche solo per contrasto, uno strumento decisivo per il pensiero. Io lo considero nello stesso modo in cui Cartesio faceva con la morale provvisoria: verrà il momento in cui nuove conoscenze daranno vita a nuovi paradigmi di pensiero, ma finché questo non avverrà Marx rappresenta la cosa meno superstiziosa rispetto a molte delle ultime trovate che spesso sono semplicemente pre-marxiste». Per Finelli, il ritorno a Marx è dettato invece dalla constatazione che ormai «tutti vedono la negatività del presente. Tutti si scontrano con la natura anaffettiva del proprio vivere, condannati alla neutralizzazione delle passioni e all'infelicità di una vita presa per il collo dalla precarietà, dall'incertezza per il futuro. Mi sembra che oggi sia di moda il Marx dell'astrazione e non più quello della contraddizione - dice ancora Finelli - Quel Marx cioè che non pensa più il lavoro ma il concetto di forza-lavoro, cioè quel soggetto composto dall'interazione tra la macchina, il computer, e l'erogazione del lavoro vivo e non più dalla carne e dal sangue dell'operaio che, ormai, è destinato a produrre una parte sempre più residuale della ricchezza generale». Anche per Virno il lavoro mentale, il sapere e il linguaggio sono diventati i fattori egemonici nella produzione capitalistica. Analizzando il famoso «frammento sulle macchine», ha sostenuto che Marx può essere considerato come l'anticipatore della grande trasformazione produttiva in corso dalla fine degli anni Settanta. Al punto che si possono considerare alcune delle sue pagine come la realizzazione empirica del postfordismo. «La trasformazione del sapere e della scienza, cioè un intelletto generale, nella principale forza della produzione capitalistica è un dato empirico sotto i nostri occhi - spiega Virno - In questo senso quel frammento marxiano si è totalmente realizzato, anche se non vi è stato il superamento del modo capitalistico di produzione né della società del lavoro salariato». «Trovo stupido regredire da una nozione di lavoro astratto a una di lavoro determinato dalle sua qualità concrete - continua Virno - Contrariamente a quanto afferma buona parte della sinistra, oggi il lavoro astratto è centrale nel modo capitalistico di produzione. Accettando questa categoria dovremmo però soffermarci sulla nozione di forza lavoro. Come tutti sanno, Marx critica l'economia politica proprio perché non ha riconosciuto la differenza tra forza lavoro e lavoro. Sul mercato del lavoro io non vendo un lavoro specifico, ma vendo una pura potenza di produrre qualcosa. Per questo dico che la vera astrazione reale è proprio quella forza lavoro che con la vita della mente collettiva possiede questa potenza di produrre, ha le capacità di mettersi in relazione, di comunicare». Lo spartiacque del Sessantotto Eppure il marxismo, e con esso buona parte della sinistra politica e sindacale del Novecento, hanno preferito concentrarsi sul lavoro concreto e sulla sua rappresentanza politica e sociale. «E' un dato storico e politico e non si può dire che non sia servito al benessere di molti - risponde Finelli - Ma credo che questa cultura non è stata all'altezza dei problemi che il movimento operaio e i movimenti sociali hanno aperto». Per quale ragione? «La cultura comunista - risponde Finelli - che aspirava ai valori dell'eguaglianza non è riuscita a trovare una sintesi con la cultura dell'individuazione portata avanti dal Sessantotto. E questo perché l'umanesimo comunista era saldamente fondato su un'antropologia dei bisogni fisici e materiali che non poteva capire forme di vita più articolare nate dopo la diffusione dei consumi di massa in Italia». Il mancato incontro tra culture politiche diverse descritto da Finelli ritorna anche nel racconto di Virno. «Tra la metà e la fine degli anni Settanta - ricorda - è emersa con tutta la sua forza la fine del fordismo e del taylorismo. Era l'inizio della controrivoluzione neoliberista. Vi era un dialogo tra sordi tra il movimento e la sinistra democraticostatalista che non riusciva a cogliere questo processo. Con i neoliberisti vi era una totale divergenza, ma entrambi coglievamo lo stesso spettro dei fenomeni: loro dicevano, riferendosi alla classe operaia, "basta con le macchine da lavoro", e già pensavano alla precarizzazione generalizzata. Noi invece dicevamo che oggi il lavoro sotto padrone è parassitario e pensavamo alla liberazione dal lavoro salariato. Questo rapporto ravvicinato e antagonistico faceva fuori il socialismo statalistico e poneva il confronto su un piano che oggi è assolutamente d'attualità. I neoliberisti hanno dispiegato la potenza della controrivoluzione e noi, dai movimenti di Seattle nel 1999 ad oggi, abbiamo colto i momenti critici di questo processo». Per i nostri interlocutori a questo punto diventa importante, se non necessario, iniziare ad usare «Marx contro il marxismo». O meglio emanciparlo dalle interferenze di natura umanistica e storicistica che dominano ancora nella sinistra cosiddetta radicale e che ancora oggi ispira le gerarchie ecclesiastiche. Entrambe si propongono la salvaguardia della dignità della persona, giungendo ad esiti opposti. L'una, la sinistra radicale, evoca un «socialismo della persona», l'altra, la chiesa, condanna il marxismo. Le due prospettive non colgono però il bersaglio. Se il marxismo è utile oggi, lo è perché permette di pensare la singolarità all'interno di una società organizzata organizzata sull'astrazione più raffinata che la mente umana abbia saputo ideare: il denaro, la quantità senza qualità che diventa una cosa che portiamo in tasca. La posizione di Virno potrebbe essere riassunta provocatoriamente con uno slogan: non leggete Stuart-Mill, leggete Marx. «Penso che di Marx vada recuperato il suo aspetto di filosofo teoretico - conclude Virno - E in particolare penso che questo filosofo possa essere utile per pensare una teoria dell'individuo. Per me Marx è il più grande teorico in circolazione di ciò che c'è di unico e singolare nell'esistenza umana. In un tempo come il nostro in cui giustamente si ha a cuore l'individuo, la singolarità, la finitezza, la contingenza, Marx è proprio quello che ci serve». L'antropologia della penuria La posizione di Finelli sembra convergere su questo punto: «Per me oggi il comunismo può essere pensato nei termini di una situazione e non in quelli tradizionali di una classe - spiega - Questo "comunismo in situazione" è il momento in cui la socializzazione si coniuga con l'uguaglianza, le pari opportunità per tutti con l'autonomia dei singoli. Il momento in cui si afferma il diritto a vivere l'irripetibile unicità della propria vita. La teoria della moltitudine, che anche Virno sostiene, non è a mio parere una risposta pienamente soddisfacente, ma anch'io penso che oggi sia importante liberare Marx dall'antropologia della penuria imposta da una parte del marxismo nel Novecento». «Per me - è Virno a rispondere - la sinistra oggi si deve porre in una prospettiva postsocialista sapendo che è ormai impossibile un ritorno alle politiche classiche della piena occupazione. Per fare questo ci serve anche Marx, ma non solo lui, per descrivere la realtà emergente del lavoro vivo, che io a differenza di Finelli chiamo moltitudine». Le schermaglie, e le concordanze su un Marx teorico della singolarità attento a quel fecondo ossimoro che è l'«individuo sociale», cioè che nella vita c'è di assolutamente singolare proprio perché inserita in una cooperazione sociale, terminano qui. Ma se questi sono i nodi teorici e politici di Marx teorico della singolarità, altri percorsi di ricerca hanno intrapreso la strada per superare i limiti non solo di Marx, ma dei marxismi novecenteschi.

LO SPETTRO DELL'ERA GLOBALE[3]

Ciò che resta di Marx. Ultima tappa di un viaggio nel marxismo italiano

La sconfitta della classe operaia nel Novecento si sta trasformando nella sua scomparsa politica, nonostante in Cina, India e Corea aumentino il numero di operai. Ma per Mario Tronti la riflessione marxista continua ad essere indispensabile per restare in piedi in un'epoca tragica, sospesa tra la necessità di una rivoluzione e l'impossibilità di vederne una all'orizzonte.

Il dialogo a distanza tra l'opera del filosofo di Treviri e gli studi postcoloniali. Uno strumento per orientare la bussola nello sviluppo di un capitalismo mondiale e nella riflessione sui movimenti globali, espressioni di singolarità che accettano di cooperare ma non di essere ridotte a sintesi unilaterali. Mentre alcuni filosofi vedono nell'incontro tra Marx e Foucault l'origine di una «nuova politica»

Subito dopo la firma per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, in un'intervista concessa al quotidiano La Repubblica, il filosofo italiano Mario Tronti ha sostenuto che, se nel Novecento la classe operaia è stata sconfitta, ora è in via di esaurimento. Ed è da questa tesi sulla scomparsa del soggetto che doveva rovesciare il mondo che inizia la sua riflessione su ciò che resta di Marx. «Dal punto di vista quantitativo, in Cina, in India o in Corea, non si può dire che questo declino esista. Ma secondo me questa constatazione non basta - afferma l'autore di Operai e Capitale e de La politica al tramonto, entrambi pubblicati da Einaudi il primo nel '66 e nel '98 il secondo -. Nel senso che la crescita della classe operaia non si può misurare quantitativamente. Non basta la sua concentrazione in alcuni luoghi per farne un elemento soggettivo di antagonismo. Per me la nozione di classe diventa un fatto politico quando passa ad un livello di coscienza di classe e poi quando questa coscienza si esprime in una forma organizzata. Se non esistono questi passaggi la quantità delle figure operaie non fa il salto verso la qualità. In Occidente il passaggio dalla centralità alla marginalità operaia è evidente anche dal punto di vista empirico. In Oriente questo elemento quantitativo, almeno ad oggi, non mostra di passare alla qualità». Un passaggio che, a parere di Tronti, è maturato nella storia politica del Novecento, il secolo grande e terribile che ci ha lasciato una piccola storia, quella del riformismo. «C'è un limite nella figura operaia che non ha permesso al movimento operaio di emergere come soggetto alternativo, antagonista, capace di sostituire il capitale nella gestione della società - argomenta -. Mentre la figura del capitalista era radicata su una tradizione lunga di classe egemone dotata degli strumenti culturali per capire il mondo e capace di gestire la società e di dotarsi di una cultura, che nasce dal XVI secolo, e produce scienza, arte, tecnica. La figura operaia non ha avuto dietro di sé questa genesi, è un prodotto che nasce nella rivoluzione industriale del Settecento e ha mantenuto una lunga storia di classe subalterna». La mitologia dell'uomo nuovo Né Marx, né il marxismo, hanno quindi sviluppato un'antropologia politica «operaia» come invece hanno fatto le grandi filosofie del XIX e XX secolo per quella «borghese». «L'"uomo nuovo" che si voleva costruire nel socialismo - continua Tronti - non era credibile perché non veniva da una precedente analisi scientifica della figura operaia. Tanto è vero che il lavoro è stato equivocato all'interno di una mitologia positiva. Purtroppo non è stata elaborata una mitologia negativa. Quando nella stagione operaista abbiamo iniziato a parlare del rifiuto del lavoro, della lotta dell'operaio contro il lavoro oltre che contro il capitale - aggiunge Tronti - noi avevamo capito che il suo vero nemico era proprio il lavoro». L'odio del lavoro salariato poteva essere quindi la carta vincente della forma organizzata della classe operaia, ma il movimento operaio non l'ha capito. «Questa incomprensione prosegue anche oggi in cui la figura operaia sparisce di fronte al processo automatizzato della produzione capitalistica ». La durezza del bilancio trontiano non impartisce tuttavia a Marx una condanna definitiva. Al contrario, quello di Marx «è l'unico pensiero che ci permette di rimanere dritti nella corrente di un'epoca che si preannuncia tragica - sostiene Tronti -. Sospesa tra la necessità di tornare a pensare la rivoluzione e l'impossibilità di vederne una all'orizzonte ». Marx è quella grande forza soggettiva che «affronta la forza oggettiva della produzione, della circolazione, dello scambio e del consumo del capitale». Oggi che i confini tra oriente e occidente sono sempre più sfumati e il mondo capitalistico ha ormai assunto una dimensione globale, in che modo si ricostituisce quella forza soggettiva? E su quali basi antropologiche? E Marx può essere utile per orientare la bussola per comprendere lo sviluppo della società capitalista? Lo abbiamo domandato a Sandro Mezzadra, docente di Storia del pensiero politico contemporaneo e Studi coloniali e postcoloniali all'Università di Bologna e direttore della rivista «Studi culturali» pubblicata da Il Mulino. «Il riferimento marxiano al mercato mondiale come orizzonte strutturale del modo di produzione capitalistico è essenziale per la definizione del campo degli studi postcoloniali, indipendentemente dalle critiche che sono state rivolte al modo in cui Marx intende la dimensione globale del capitale. Questo non significa che c'è un'adesione acritica al marxismo. Ad esempio, molti autori postcoloniali hanno criticato lo storicismo di Marx presente nei suoi scritti giovanili sul colonialismo inglese in India. Quello che mi sembra significativo, e meno occasionale, è però il tentativo di riprendere la visione globale marxiana mettendo in evidenza che la dimensione globale del capitalismo sin dalle origini è fortemente segnata da caratteri di eterogeneità. Uno dei temi fondamentali che ritorna in questo dialogo a distanza tra studi postcoloniali e opera marxiana è il tema della transizione. Nei subaltern studies indiani, come ad esempio quelli di Gayatri Spivak e Dipesh Chakrabarti, la transizione è studiata come elemento strutturale del modo di produzione capitalistico. In questa analisi emerge l'idea che la transizione è un "fenomeno" destinato a ripetersi ogni giorno». Insorgenze eterogenee Sulla transizione si sono incrociate le penne di almeno due generazioni di studiosi di Marx, dando vita a discussioni e a conflitti che ancora oggi trovano eco su molta pubblicistica marxista. Conflitti che non tornano invece nel ragionamento di Mezzadra. «Per me - afferma lo studioso - il problema centrale nella transizione è il confronto e scontro tra omogeneità del tempo e dello spazio del capitale e l'eterogeneità delle relazioni sociali che il capitale sussume». Un confronto/scontro che si ripropone continuamente nel funzionamento quotidiano del capitalismo: un'acquisizione critica della riflessione marxiana che gli studi postcoloniali ci invitano a proiettare sull'analisi del capitalismo globale contemporaneo. Si potrebbe dire che i postcolonial studies, i subaltern studies e i cultural studies sono i luoghi dove Marx è una bussola per orientarsi nel mondo. Anzi, paradossalmente sono i luoghi che hanno innovato e continuano ad innovare la riflessione marxiana sul presente. «Per quanto riguarda il presente - continua Mezzadra - va detto con chiarezza che i movimenti globali presentano una composizione segnata da elementi di eterogeneità ». Per Mezzadra, le lotte contadine, operaie, delle popolazioni «tribali», dei senza casta, lotte estremamente radicali portate avanti da donne e femministe in India, come in tutto il Sud est asiatico, dove si è registrato negli ultimi decenni un impetuoso sviluppo capitalistico, sono la rappresentazione di questa eterogeneità: «Tracciare una mappa delle lotte sociali più significative della realtà indiana ci pone di fronte a una pluralità di insorgenze parziali che mette in discussione ogni possibilità di ricomposizione attorno ad una centralità sociale e politica: è un bel rompicapo per il pensiero critico, ma anche una sfida che occorre raccogliere. In questo senso il concetto di moltitudine, inteso come insieme di singolarità che rifiutano di annullarsi nel processo di costituzione del collettivo, può tornare utile per comprendere e articolare politicamente l'eterogeneità di queste lotte. Il rapporto tra queste singolarità, che acquistano la propria connotazione politica nella contingenza della loro collocazione sociale parziale e tuttavia comune, può essere riassunto col concetto marxiano che io trovo straordinariamente attuale: l'"individuo empiricamente universale"». A dispetto dell'estensione quantitativa della classe operaia, in quei paesi dove il Pil svetta e la ricchezza prodotta segue il ritmo ascendente dei bilanci delle multinazionali, oggi non è in formazione una classe operaia fordista egemone. Se Tronti vede in questo frangente la possibilità di un ritorno del conflitto tra le potenze a livello globale, proprio come accadeva in Europa tra il XIX e il XX secolo, Mezzadra si concentra invece sull'eterogeneità sociale in movimento nei paesi del capitalismo globale. Entrambi però sostengono che - dagli anni Sessanta - c'è stato un cambiamento che può essere interpretato come il passaggio dall'omogeneità della forza lavoro, fondata sull'identità comunitaria di classe e sull'organizzazione fordista della produzione, all'eterogeneità di una soggettività non più ancorata ai percorsi tradizionali dell'identificazione sociale (la famiglia «naturale», l'identità sessuale ad esempio); della singola appartenenza culturale o religiosa (il cristianesimo, l'occidente) o della centralità di un unico soggetto sociale (la classe operaia). «È in questi anni - afferma Roberto Nigro, docente di filosofia al Philosophy and European Cultural Studies Department dell'Università americana di Parigi e autore di ricerche su Foucault, Marx e Nietzsche - soprattutto negli Stati Uniti che le lotte sociali vanno in direzione della soggettività di genere, ma anche della vita degli individui. Uno sviluppo prevedibile in una società in cui è forte lo spirito individualista. Questo nuovo approccio alla soggettività ha acquistato una dignità accademica negli anni Ottanta con lo sviluppo dei gender studies che coniugavano lo studio del pensiero di Michel Foucault con le rivendicazioni della comunità gay negli Stati Uniti. Oggi possiamo dire che le lotte per la soggettività hanno soppiantato il vecchio soggetto umanista ed operaio della tradizione marxista, allargando la politica alle pretese di una maggiore cultura dell'individuazione ». L'incontro con Foucault È proprio dall'incontro-scontro tra Foucault e Marx che negli Stati Uniti e, di rimando in Europa, si è diffusa l'idea che la «nuova politica » è quella della «soggettività». Ci sono interpreti estremamente rilevanti, e radicali, come ad esempio la femminista americana Judith Butler, che hanno colto alla perfezione l'importanza di questo incontro. «Foucault - continua Nigro - compie un'operazione estremamente chiara. Rifiuta le forme del marxismo umanista; critica quel sapere che definisce "freudo-marxista"; condanna un certo gauchisme. È sufficiente per dire che Foucault sia antimarxista? Probabilmente sì. Ma la risposta è del tutto insufficiente e non coglie il problema». Foucault non cessa, in realtà, di lavorare intorno a questioni che costituiscono il cuore del marxismo. «Foucault critica l'inefficacia delle pratiche di lotta, scopre e verifica nuove forme dell'insorgenza rivoluzionaria. La sua critica antimarxista si riconnette, quindi, ad alcuni degli aspetti più rivoluzionari della teoria marxiana: la teoria funziona solo laddove essa scopre il terreno di una nuova insorgenza soggettiva. Ed è su questo punto che occorre innovare e creare una scienza nuova». La lotta contro lo sfruttamento del lavoro non può essere scissa da quella contro il potere che istituisce una gerarchia sociale, epistemica o economica. «È nella forma del rapporto di potere, di ricatto, di gerarchia - conclude Nigro - che lo sfruttamento si concretizza. A queste nuove forme di potere bisogna rispondere con nuove forme di insorgenza rivoluzionaria o con nuove pratiche di libertà». Solo limitandoci alla linea «occidentale» dello sviluppo di questa politica, dall'Italia alla Spagna, sino a San Francisco, la lotta per questi diritti - definiti di «quarta generazione » dopo quelli civili, politici e sociali - assistiamo al consolidamento del primato di una cultura dell'individuazione che si confronta con una cultura improntata all'egualitarismo alla quale si sono rifatti molti percorsi democratici, riformisti o rivoluzionari del Novecento. Se poi si solleva lo sguardo verso l'orizzonte- mondo, le lotte eterogenee per la soggettività esprimono la parte più interessante di una politica che si rivolge alla condotta singolare della vita degli uomini e delle donne, alla molteplicità delle appartenenze culturali e religiose, alla diversità delle lotte nello sviluppo capitalistico che ha da tempo investito latitudini prima relegate all'economia della sussistenza. Alla conclusione di questo breve e parziale viaggio nel marxismo italiano, emerge con forza che stare dentro e oltre i limiti di Marx significa vivere in un mondo in ebollizione e che l'opera marxiana serve ancora a conoscere il mondo. E a trasformarlo.

I testi integrali delle interviste sono sul sito www.centroriformastato.it

NOTE


[1] Estratto da: “il manifesto” del 24 marzo 2006.

[2] Estratto da: “il manifesto” del 28 marzo 2006.

[3] Estratto da: “il manifesto” del 30 marzo 2006.