DALLA REAGANOMICS ALLA BERLUSCONOMICS[1]

“Riducendo le tasse le entrate fiscali non diminuiscono, anzi aumentano".
Breve storia di una bugia con sette vite”

Il Four Seasons: lì fu inventata la «curva di Laffer».
Thatcher e Reagan trasformarono la panzana in politica,
Bush e il nostro proseguono l'opera

Fabrizio Tonelli

Inutile chiedere a Silvio Berlusconi chi siano Arthur Laffer e Robert Bartley: il primo non gioca nell'Arsenal e il secondo non ha nulla a che fare con il Manchester United. Eppure qualcuno dovrebbe spiegarglielo, perché sono loro gli inventori di quella fantasia chiamata «curva di Laffer» e di quella ancor più spettacolare panzana che il presidente del Consiglio ha ripetuto due giorni fa: riducendo le tasse, le entrate fiscali aumentano invece di diminuire. Le due cose sono legate, ma non precisamente identiche e la storia di come il regista (Bartley) e il centravanti (Laffer) misero a segno il loro gol vendendo alla signora Thatcher e a Ronald Reagan questa colossale idiozia è tutta da raccontare. Bartley era un giornalista, responsabile delle pagine editoriali dello Wall Street Journal, mentre Laffer era un economista tutto «politico», legato a George Shultz, un big dell'amministrazione Nixon (poi sarebbe diventato segretario di stato con Reagan). Nel novembre 1974, alla disperata ricerca di un'idea per rivitalizzare le fortune elettorali dei repubblicani, distrutti nelle elezioni per il Congresso tenute dopo il Watergate e le dimissioni di Nixon, Bartley e Laffer si incontrarono all'hotel Four Seasons di Washington e «inventarono» la curva di Laffer.

Il giovane economista, un semplice professore associato, disegnò su un tovagliolino del bar una curva a campana, mettendo in relazione le aliquote fiscali medie con il totale delle entrate fiscali. La teoria era che aumentando le aliquote medie, per un po' le entrate aumentavano, ma ben presto raggiungevano il punto della curva dove i contribuenti venivano scoraggiati dal lavorare e guadagnare di più a beneficio del fisco e le entrate iniziavano quindi a declinare.

 

 

Fin qui, rimaniamo nel campo delle affermazioni plausibili, anche se non necessariamente vere: come scrive il noto settimanale bolscevico The Economist nel suo dizionario «Economics A-Z», nessuno può essere realmente sicuro che gli Stati uniti di allora (o l'Italia di oggi) fossero sulla curva di Laffer «a causa della mancanza di prove empiriche». Del resto, la biografia autorizzata dell'economista, afferma che uno dei suoi principali meriti è stato quello di aver «inventato la curva di Laffer». Singolare lapsus: se una cosa del genere esistesse, gli economisti ne parlerebbero come della «scoperta» di una nuova legge economica; parlando di «invenzione», gli zelanti biografi di Laffer implicitamente ammettono che manca di fondamento scientifico.

La prima truffa del duo Bartley-Laffer fu quindi quella di spacciare (grazie alle pagine dello Wall Street Journal) un'ipotesi non verificabile, per una scoperta della scienza economica, ma ben presto i repubblicani fecero di meglio: iniziarono a sostenere che, poiché la curva di Laffer «provava» l'esistenza di un «livello ottimale» delle aliquote, riducendo l'imposizione fiscale si stimolava l'attività economica ottenendo un aumento degli introiti dello Stato. In realtà non esisteva alcuna relazione di questo tipo fra le due variabili, per molti buoni motivi, tra i quali quello indicato a suo tempo da Adam Smith: i ricchi mangiano più dei poveri, ma non in proporzione al reddito.

Se un calciatore medio del Milan porta a casa nell'arco di un campionato l'equivalente di ciò che guadagna un lavoratore medio in 266 anni (avete letto bene: due secoli, più 66 anni) difficilmente potrà però mangiare 266 volte di più. Per quanto si compri la Jaguar, la casa al mare e l'aereo personale, il maggior reddito disponibile grazie ai risparmi fiscali non potrà mai tradursi in consumi equivalenti, stimolatori dell'economia. E' assai più probabile che induca fenomeni negativi, come bolle speculative in borsa, o sul mercato immobiliare. Quindi le riduzioni fiscali che potrebbero stimolare l'economia italiana sono quelle che consentirebbero ai poveri di mangiare di più, non quelle che consentono ai ricchi di soggiornare all'hotel Taj Mahal o comprarsi diamanti di Cartier.

Ma, naturalmente, la coerenza delle proposte era l'ultima delle preoccupazioni di Bartley e Laffer, che si preoccupavano soltanto di come vincere le elezioni presidenziali di due anni dopo. Non ci riuscirono: Gerald Ford fu battuto da Jimmy Carter, che seguì una politica fiscale più tradizionale. Nel 1980, però, Ronald Reagan vinse le elezioni ed entrò alla Casa Bianca con un debito pubblico di 789,4 miliardi di dollari. Otto anni dopo, applicando le «teorie» dei Ronaldo della finanza pubblica, il debito era triplicato: 2.190,7 miliardi di dollari. In soli quattro anni, Bush padre riuscì ad aumentarlo di un altro 50%, portando il debito a 3.248,4 miliardi.

Dopo otto anni di ritorno al buon senso fiscale sotto Clinton (che azzerò il deficit e riuscì a non aumentare il debito cumulato), Bush figlio è riuscito a far esplodere il deficit del bilancio federale: da 86,6 miliardi di dollari di avanzo nel 2000 a 536,1 miliardi di deficit nel 2003. I tagli fiscali per i milionari non hanno avuto effetti granché positivi sull'economia americana (che ha perso tre milioni di posti di lavoro) ma hanno devastato un bilancio federale già messo in crisi dal vertiginoso incremento delle spese militari. Ci vorrà, nel migliore dei casi, una generazione per uscirne.

Come diceva Mark Twain, la differenza tra un gatto e una bugia è che il gatto ha solo sette vite. La bugia delle riduzioni fiscali «benefiche», invece, si aggira nei paesi industrializzati da quasi trent'anni e Berlusconi la rilancia ancora. Non sarebbe ora di darle una collocazione di palinsesto più adeguata, per esempio riservandola a Claudio Bisio su Zelig?

NOTE


[1] Tratto da: “il manifesto” del  2 aprile 2004.