UNA SOVRANITÀ MANAGERIALE[1]

La crisi del diritto del lavoro nel volume «Postfordismo e ideologie giuridiche».

Sottomessi per legge. La parabola della legislazione del lavoro, dallo Statuto dei lavoratori alle recenti leggi che istituzionalizzano la precarietà.

I conflitti attorno ad una condizione lavorativa sempre più precaria non riescono più a essere regolati per via giuridica e rivelano la loro irriducibile politicità.

MAURIZIO RICCIARDI

La crisi del diritto del lavoro è all'ordine del giorno. Non solo per tutti quegli studiosi e giuristi che criticamente stanno facendo i conti con le trasformazioni e lo stravolgimento sia degli assetti concettuali della disciplina che di nozioni apparentemente consolidate, ma anche per tutti quegli uomini e quelle donne che non trovano più nel diritto del lavoro uno strumento utilizzabile per difendere la propria condizione lavorativa. Indagare le ragioni di questa crisi è lo scopo di un recente volume di Angelo Salento (Postfordismo e ideologie giuridiche. Nuove forme d'impresa e crisi del diritto del lavoro, Franco Angeli, pp. 256, € 20,50). Attraverso una convincente ricostruzione il libro ci mostra innanzitutto come una grande impresa industriale quale la Fiat si sia trasformata da grande industria taylorista a fabbrica integrata prima e, infine, a organizzazione reticolare del lavoro industriale. L'esito di questo processo è un'organizzazione da intendersi come un «insieme di modalità di coordinamento e di controllo», più che come complesso di strutture e di individui legati da rapporti contrattuali. Risalta così il carattere normativo - coattivamente normativo - della coalizione manageriale che decide gli indirizzi e i rapporti sociali dell'impresa. Più che mirare a determinare la sfera d'azione di ogni uomo o donna che entra in relazione con l'impresa, lo scopo dell'agire organizzativo è quello di definire e assicurare un quadro normativo che affermi in ogni punto del processo lavorativo l'autorità indiscussa di un potere che è centrale solo per la sua capacità decisionale ultima. Si potrebbe dire, in altri termini, che, se nella grande impresa tayloristica doveva essere chiaro in ogni momento chi fosse il sovrano, ora la sovranità di fabbrica si è diffusa a tutto il ciclo lavorativo. Ed è proprio questa nuova situazione che ha messo prima in difficoltà e poi ha determinato la crisi di un diritto del lavoro pensato soprattutto in termini di garanzie contrattuali individuali e collettive. Non si tratta però di una crisi di adeguamento che si manifesta nell'incapacità temporanea di dare veste giuridica alle richieste di riconoscimento di tutti quei lavoratori e lavoratrici che si trovano in condizioni nuove e diverse rispetto all'operaio di fabbrica. Questa visione illuministica della storia del diritto dimentica che, mentre il diritto del lavoro non riesce a produrre riconoscimento e protezioni per i cosiddetti nuovi lavori, applicandosi anzi a produrne sempre di nuovi e di più precari, anche gli altri lavoratori, quelli che anche un'ottusa vulgata continua a definire come «garantiti», vedono in continuazione erose o cancellate le conquiste di una lunga stagione di lotte. E che neanche queste conquiste avevano peraltro trovato una piena registrazione giuridica e venivano spesso garantite solamente dal conflitto continuo, e talvolta aspro, nei luoghi di lavoro e negli spazi sociali che le lotte degli anni Sessanta e Settanta avevano aperto. Da questo punto di vista nemmeno lo Statuto dei lavoratori ha rappresentato la sanzione giuridica ultima della forza politica del cosiddetto operaio fordista. Ma ciò che è rilevante è constatare che il momento di apertura della crisi del diritto del lavoro coincide di due fenomeni intrecciati: da un lato le trasformazioni dell'impresa capitalistica, dall'altra lo iato tra la ragione del diritto e le mille ragioni dei soggetti sociali che si sono manifestate nel conflitto sociale e di fabbrica. Si è soliti parlare, con ragione, di un progetto di costituzionalizzazione del lavoro che ha caratterizzato la prima metà del XX secolo per descrivere il processo grazie al quale il lavoro veniva politicamente riconosciuto come parte integrante e necessaria della produzione sociale.

Questo processo, almeno in apparenza, raggiunge il proprio culmine in Italia con lo Statuto dei lavoratori. In apparenza, perché esiste una forza normativa che eccede lo Statuto stesso, come dimostra per esempio il contratto nazionale della Fiom del 1973 che, anche contro le possibilità aperte dallo stesso Statuto, vietava esplicitamente l'appalto di segmenti del ciclo produttivo. La stessa cosa sembra peraltro accadere oggi, quando alcuni precontratti stipulati dalla stessa Fiom prevedono la rinuncia da parte dell'impresa a far ricorso alla legge Trenta, che disciplina, di fatto liberalizzandole, le forme di lavoro atipico. Se nel primo caso lo scontro avveniva sui primi segnali di decentramento e di delocalizzazione della produzione, nel secondo il tentativo è quello di porre un freno al processo di precarizzazione. In entrambi i casi, tuttavia, quella che viene fatta valere è un'eccedenza normativa che impone il peso politico del movimento operaio. Questa eccedenza non viene recepita dal diritto e non può esserlo, perché impone norme che vanno oltre l'ambito strettamente giuridico per mettere direttamente in questione il rapporto politico che instaura il rapporto di lavoro.

Hugo Sinzheimer e Otto Kahn-Freund, i padri fondatori del diritto del lavoro, avevano preso le mosse proprio dalla consapevolezza che quel rapporto politico era fondato su un'asimmetria costitutiva, stabilita dal diverso potere di cui dispongono le parti. Peraltro, già un secolo fa Max Weber poteva affermare che il contratto di lavoro altro non è che un «contratto unilaterale di sottomissione» che trova la sua legittimità solo nella forma in cui viene stipulato. Proprio a partire da questo dato di fatto, il diritto del lavoro è stato pensato come «tecnica per la regolazione del potere sociale», nel tentativo di costruire un reticolo di norme capace di imbrigliare il potere imprenditoriale. In realtà, forse proprio nella sua natura di tecnica, vi è già la possibilità che la trasformazione del rapporto sociale lo renda disponibile a un uso diverso, potenzialmente persino opposto. In questo senso la domanda che percorre tutto il testo di Salento può esser così riassunta: come è stato possibile che un diritto inventato, pensato e costruito come diritto «del lavoro» si sia trasformato in un «diritto per l'impresa»?

Proprio questa situazione motiva l'indagine sulle trasformazioni della grande impresa industriale che occupa la prima parte del volume. Ognuna delle trasformazioni che abbiamo sopra brevemente indicato, ha infatti comportato una sempre maggiore frantumazione del processo lavorativo, una sua specializzazione e articolazione che insegue e mette a valore la potenzialità individuale di ogni singolo lavoratore. Questa potenzialità messa al lavoro non delinea però una posizione contrattuale in grado di farsi valere in termini salariali e di prestazioni sociali, ma va piuttosto a occupare un ruolo istituzionale, nel quale possono in continuazione essere sostituiti i singoli lavoratori autonomi o subordinati, per far valere la sua reddittività all'interno dell'impresa nel suo complesso. Così, lungi dal rappresentare la possibilità reale di una piena esplicazione delle potenzialità individuali dell'operaio collettivo, questo processo organizzativo si risolve in una precarizzazione sempre maggiore di tutti gli ambiti dell'esistenza. Non si tratta qui solo delle condizioni di lavoro ma, coerentemente con il fatto che tutte le potenzialità individuali vengono messe al lavoro, di una precarietà che investe l'esistenza nel suo complesso. Risulta così evidente che ormai non è più possibile trovare nel lavoro stesso i modi con cui risarcire le condizioni attuali della sua erogazione. Non è perciò più pensabile che il lavoro sia il luogo di legittimazione di diritti, limitandosi a spostare su un terreno giuridico quello che è uno scontro politico. E siamo così tornati alla crisi del diritto del lavoro.

Per decenni il diritto del lavoro è riuscito a fare della subordinazione implicata dal rapporto del lavoro un problema giuridico. In questo modo è peraltro riuscito a dare forma a un conflitto che altrimenti rischiava di degenerare in scontro aperto e incontrollabile. Ora, di fronte al mutamento di paradigma che pone al centro dell'interesse dei giuristi e del legislatore le ragioni dell'impresa e della concorrenza globale, regnano la nostalgia per la passata capacità di regolazione e lo sgomento per le condizioni sempre meno normate del rapporto di lavoro. Tuttavia, se è vero, come anche Salento sottolinea, che il «potere di direzione e la subordinazione non sono categorie sociologiche», sembra essere altrettanto e forse più vero, che non sono nemmeno categorie giuridiche. Quella che sembra oggi mostrarsi in tutta la sua violenza è la politicità immediata che costituisce il rapporto di lavoro. Una politicità che non trova più rappresentazione né nel diritto né nelle forme classiche di rappresentanza del movimento operaio. Ciò non significa ovviamente che, all'interno di costellazioni storiche particolari, il diritto in generale, e il diritto del lavoro in particolare, non possano più di svolgere una funzione di moderazione dello scontro. Significa però che la grande stagione della giuridicizzazione dei rapporti sociali sembra essere entrata in una crisi strutturale. E il diritto del lavoro è parte di questa crisi.

NOTE


[1] "il manifesto" 30 dicembre 2003.