LA LEZIONE FILOSOFICA DELLA RIFORMA FISCALE[1]

Pubblico-privato - Se lo stato diventa lo snello custode della proprietà

Michele Prospero

Sulla riduzione delle tasse si gioca una partita importante. Certe stramberie sull'accorpamento delle aliquote, andrebbero prese per quello che in realtà sono: l'ineffabile volto di classe della destra che ha trovato nel vecchio John Locke il suo nuovo idolo teorico e ricicla il dogma veteroliberale della precedenza storica e valoriale della libertà economica (proprietà) rispetto alla libertà politica (cittadinanza). E' sorprendente, al riguardo, quanto si può leggere nel documento del governo italiano che accompagna la riforma fiscale. Il governo abbraccia gli strumenti della metafisica e scrive sulla gazzetta ufficiale n. 91 del 18 aprile 2003 un suo manifesto ideologico dalla venatura ultraclassista che strapazza la costituzione e ritorna allo statuto albertino senza colpo ferire. La relazione governativa denuncia la «degenerazione dogmatica e metafisica, poi politica e burocratica, dello stato». Secondo la destra la vocazione demoniaca dello stato si esprime quando la proprietà non viene considerata come antecedente rispetto all'ordinamento pubblico e quindi non viene posta al riparo da ogni indebita ingerenza della legge. Proprio come in Locke proprietà e persona marciano insieme e lo stato con i suoi dispositivi (fiscali, anzitutto) non può pretendere di invadere la sacra autonomia del privato. La lezione filosofica che il governo tratteggia nel documento è senza inutili infingimenti. Lo stato è solo uno snello custode della proprietà. Ogni altra destinazione del pubblico è estranea alla sua funzione che è anzitutto quella di garantire un ordine pacifico entro cui le transazioni mercantili si svolgano indisturbate. Oltre il calcolo degli operatori economici, nient'altro deve intervenire ad alterare il gioco del libero mercato concorrenziale. Il governo neogiusnaturalista di Berlusconi sostiene che «la persona, nella sua dignità universale e nella sua naturale capacità di rapporto sociale, sta sopra lo stato, che non è un fine, ma un mezzo».

Lo stato viene solo dopo la persona che gode di una naturale autonomia nella possibilità di stipulare contratti e accumulare denaro. La conseguenza prosaica che il governo trae da questo suo approccio non tarda ad affiorare e consiste in un angusto individualismo proprietario. «Se politicamente prima dello stato vengono le persone, economicamente prima dello stato vengono il lavoro e la proprietà», si legge nella relazione. La persona che accumula beni economici è vista come un atomo che non ha relazione alcuna con gli altri. L'atomo di Berlusconi pretende di godere la proprietà come titolo originario, perché si è fatto da solo e non è mai andato a scuola, non ha mai messo piede in istituzioni di cura, non si è mai avvalso della facoltà di transitare in strade, luoghi, infrastrutture create dal pubblico, non ha mai confidato in servizi dell'amministrazione, in prestiti agevolati. Tutto quello che ha creato con il suo fare gli appartiene come un'ombra che non può mai abbandonare la persona. Lo stato non può pretendere di esigere tributi che deprivano la persona dei frutti del lavoro. Il prelievo è un furto ai danni della proprietà. Il privato è tutto il pubblico è nulla. Nel capitalismo postmoderno peraltro anche il demanio, i beni culturali non sono più patrimonio indisponibile dello stato e vengono venduti per risanare i conti.

Il documento del governo è molto esplicito nella sua vocazione alla commercializzazione del pubblico. Per la destra esiste un diritto prima del diritto: «il diritto ai frutti del lavoro e della proprietà è un diritto originale e primario». La proprietà torna così ad essere un dato originale, quindi prepolitico, un valore etico più importante dello stato e dei diritti di cittadinanza. L'eversione teorica del ventaglio dei diritti procede senza tentennamenti e la proprietà sostituisce il lavoro come base della costituzione: «nella nostra visione, il limite naturale, fondamentale e costituzionale dell'imposizione fiscale è rappresentato dal lavoro e dalla proprietà privata, basi fondamentali della libertà della persona e della ricchezza della nazione». Il lavoro cui si riferisce il documento della destra non è certo quello della costituzione repubblicana, ma coincide con il fare della proprietà privata che rivendica dominio. La conclusione della lezione di storia del pensiero condotta dal governo è semplice: basta con la cittadinanza, con i diritti che hanno un costo e bloccano i vitali spiriti bollenti del mercato.

Ricalcando quasi alla lettera un paragrafo di Locke, il governo afferma: «se il presupposto del prelievo non è quanto serve allo stato, ma quanto può dare il privato; se non si ha una visione autoritaria dello stato, che può imporre quanto vuole; se insomma si accetta il principio del limite dell'imposizione, costituito dal rispetto del lavoro, della proprietà, e dei frutti che ne derivano, è evidente che la misura della giusta imposta dipende unicamente dal consenso dei cittadini. Da quanto i cittadini sentono giusto di dover pagare allo stato a titolo di imposta sui frutti del loro lavoro e della loro proprietà». Il governo-filosofo non si avvede però che se il consenso diventa la misura, allora viene incautamente posta una spina nel fianco della proprietà che non vale più come diritto assoluto. Sulla base del consenso, cade l'intangibile assolutezza della proprietà e pertanto non si può più definire autoritario uno stato che grazie al fisco adotta politiche inclusive, garantisce beni primari. Ma la coerenza logica non è il punto forte del documento governativo. Quello che conta di più è il tentativo di attaccare il fisco e definire così una cittadinanza povera. Per il governo e per tutta la cultura neoliberale, la cittadinanza è un impaccio e l'innovazione esige una marcata concorrenza tra sistemi fiscali. Abbandonare i diritti e le tutele è la condizione preliminare grazie alla quale i territori in competizione tra loro sono in grado di attirare gli investimenti. L'amico Putin in questo è stato ancora più radicale del cavaliere e nella sua riforma fiscale ha portato al 13 per cento l'aliquota massima per i redditi superiori ai 50 mila rubli.

Il nodo del fisco e il senso della proprietà sono cruciali per la rilevanza crescente che assume il capitale finanziario (borsa, banche) rispetto al capitale industriale. Il fisco è un tema caldo quando si diffondono modalità di arricchimento e di accumulazione situate ai confini dell'illegalità. Si incrociano ogni giorno le pratiche di denaro che produce denaro in modo poco limpido già descritte da Thomas Mann: «nel mondo degli affari esistono oggi cosiddette consuetudini. Una consuetudine, capisci, è un'operazione non del tutto pulita secondo la legge scritta, e per i profani addirittura disonesta, che però nel mondo degli affari è ammessa per tacito accordo». Quando la ricchezza prodotta nella new economy sconfina nella facilità dei guadagni della gangster economy, nelle bolle speculative, nella elusione fiscale, cadono tutte le pretese di fondare eticamente la proprietà. Sempre più infondato e sempre più immerso nel labile confine tra lecito e illecito, il terribile diritto di proprietà crea immense concentrazioni di ricchezza e di potere e rende liberi di nuocere tutti gli animal spirits. La proprietà oggi non ha alcun timore di esprimere il suo punto di vista di classe che seppellisce ogni bene pubblico. A quando una analoga coscienza da parte del lavoro per rimotivare un'idea di cittadinanza?

NOTE


[1] Estratto da: “Il manifesto” del 3 febbraio 2005